PREFAZIONE
I caratteri del Parmense in età bassomedievale sono fortemente connotati dalla
presenza capillare di robusti nuclei di potere signorile e dalla costante capacità da parte di
questi ultimi di istituire rapporti organici con il centro urbano. Da questo punto di vista, la
storia di Parma e del vasto territorio che su di essa gravitava e gravita costituisce uno dei casi
di studio più significativi per intendere la complessità del rapporto fra città e campagne
nell’Italia di tradizione comunale, irriducibile all’unità astratta (o ideale, per riprendere una
famosa espressione di Carlo Cattaneo) del principio della centralità urbana.
La pianura, la collina e la montagna parmensi serbano a tutt’oggi tracce
rilevantissime di un passato signorile e feudale la cui comprensione è imprescindibile chiave di
accesso alla conoscenza della storia cittadina. Il libro di Paolo Cont sulla famiglia Terzi
rappresenta, in questa prospettiva, un’opera benvenuta e necessaria. Attraverso un lavoro di
notevole impegno, l’Autore è infatti riuscito nella non facile impresa di mettere ordine nelle
vicende di un casato signorile tra i più illustri fra quelli radicati tra il Po e l’Appennino, e
tuttavia meno studiato rispetto ad altri protagonisti coevi e contermini delle vicende politiche
emiliane e lombarde dalla nascita del Comune alle Guerre d’Italia quali Pallavicino,
Sanvitale e Rossi.
La storia dei Terzi e dei Cornazzano loro antenati è ripercorsa da Cont a partire
dall’XI secolo, attraverso le età dello sviluppo, della maturità e della crisi delle istituzioni
comunali fino all’epoca dei regimi signorili e degli stati rinascimentali. Si tratta di un arco
temporale amplissimo, nel corso del quale i Cornazzano ed in seguito i Terzi impiegarono con
efficace flessibilità il capitale economico, sociale e simbolico via via accumulato per adattarsi a
un contesto in continuo mutamento. La storia di questo lignaggio e della capacità dei suoi
esponenti di acquisire e di mantenere posizioni di eminenza sociale e politica nella lunga
durata assume un significato che travalica l’interesse locale: il lavoro di Paolo Cont, condotto
nel solco di quell’illustre tradizione erudita che a tutt’oggi è la spina dorsale della nostra
storiografia, si inserisce infatti in un campo di studi fra i più vivaci degli ultimi decenni,
contribuendo a gettare luce ulteriore sul lungo cammino percorso dalle aristocrazie dell’Italia
centro-settentrionale dalla signoria rurale al patriziato.
MARCO GENTILE
Università degli Studi di Parma
5
6
Introduzione
Le pagine che seguono non sono opera di storico, o biografo, ma il
rendiconto di un lettore severo di antiche carte. La ricognizione è il frutto di
fatica spesa nel tentare di conferire ordine alle notizie sparse che, nel corso di
dieci secoli, sono state depositate nella memoria degli archivi o sono
rintracciabili presso più o meno vetusti storiografi - non di rado con lacune,
imprecisioni e, nei primi tempi almeno, partigianerie estensi - sull’importante
casata dei Terzi di Parma.
Una vicenda, quella dei Terzi, la cui narrazione sistematica si trova spesso
invocata dagli storici più eminenti, primo tra questi Eugenio Manni, ma della
quale in realtà, col trascorrere dei lustri, nessuno si è mai occupato, salvo
produrre l’ennesimo racconto monografico, che vede protagonista il famigerato
Ottobono dei Terzi.
L’indagine sulla casata di Parma, di Sissa e di Fermo, ora consegnata alla
stampa, riordinata e spurgata da troppe leggende, accompagnata dalla
ricostruzione radicale delle genealogie, ha permesso di focalizzare aspetti che
meriterebbero, forse, da parte degli storici specialisti, ricorrendo ai loro
sperimentati e raffinati strumenti, qualche approfondimento. Esemplificando, si
potrebbe citare il ruolo complesso svolto da Niccolò Terzi “il Guerriero” negli
ambiti della corte viscontea e i rapporti stretti, indubbiamente significativi, che
questi mantenne, fino all’avvento di Francesco Sforza, con il consorte della sua
sorellastra Caterina, figlia legittima di Ottobono: il diplomatico e consigliere
ducale Franchino Castiglioni. Ma non è certamente l’unico suggerimento che
potrebbe raccogliere chi avesse la pazienza di affrontare questa lettura.
L’autore deve esprimere la propria sentita riconoscenza principalmente a
Marco Gentile per l’attenzione e i puntuali, preziosi, consigli prodigatigli. Un
grazie particolare, inoltre, per la generosa collaborazione nelle ricerche, va a
Federica Dallasta di Parma; e quindi a Paola Meschini con Luciana Bonilauri
dell’Archivio di Stato di Reggio Emilia, a Lia Corna della “Fondazione Bergamo
nella Storia” e alla marchesa Maria Gemma Guerrieri Gonzaga, la cui squisita
cortesia ha permesso la consultazione dell’archivio di famiglia.
7
Anonimo, Pianta di Parma e suo territorio con parte del Borghigiano e Reggiano e Reggiano, 1460-1465. Archivio di
Anonimo,
Pianta
di Parma
e suo
territorio
erritorio
parte
del Borghigiano e Reggiano,
Reggiano 1460-1465. Archivio di
Stato
di Parma,
Raccolta
Mappe
e Disegni,
vol.con2 n.
85 (particolare).
Stato di Parma, Raccolta
olta Mappe e Disegni,
Disegni vol. 2 n. 85 (particolare).
8
8
1.
Dai Cornazzano ai Terzi
Le radici
La vicenda dei Terzi, una famiglia parmigiana che trovò il fondamento
della sua distinzione e ascese ai ranghi alti della gerarchia sociale durante il
basso Medioevo, nei secoli XII e XIII, esercitando il governo podestarile nei
comuni della valle Padana ma soprattutto l’arte della guerra, ponendo in campo
i suoi milites e condottieri, offre sovente una lettura malsicura e lacunosa per
quanto concerne le origini e la genealogia della stirpe. I riferimenti che la
concernono emergono dalle antiche carte molto intervallati nel tempo, sparsi e
malcerti rispetto a narrazioni incentrate su altri lignaggi, peraltro più cospicui.
Per arrivare ai Terzi è indispensabile percorrere la storia di un’altra
casata, quella ben più antica dei Cornazzano, donde quelli uscirono nella prima
metà del 1200, per affermarsi ben presto come un autonomo gruppo familiare
dotato di un proprio cognomen, ramificando due linee genealogiche distinte. È dai
Cornazzano che deve prendere l’avvio il tentativo, senz’altro temerario, di
disegnare almeno un abbozzo scheletrico, minimamente convincente, per
quanto possibile ordinato della turbolenta saga di quella combattiva e
intraprendente famiglia padana dei Terzi: una ricerca che porta ai primi lustri
dell’XI secolo, all’alba del millennio, ove si trovano le radici documentate della
loro casata progenitrice.
Anche sui primordi dei Cornazzano, avi dei Terzi, i documenti ci offrono
notizie rare e solo episodicamente di sicura importanza che s’infoltiscono
tuttavia col trascorrere dei decenni fornendo un significato più preciso
all’evolversi successivo della storia della stirpe.
I Cornazzano appartenevano alla piccola nobiltà rurale emiliana,
discendente da proprietari terrieri stanziati agli inizi del secolo XI
sull’Appennino parmense e piacentino.1 Possedevano estesi patrimoni allodiali e
feudali nel Nord Ovest del contado parmense, lungo tutta la valle del Taro fino
alla sua foce, uno dei tratti economicamente più rigogliosi e strategicamente
importanti della via Francigena.
Furono vassalli fedeli ai Canossa e contemporaneamente episcopali
subordinati, per quanto sovente in conflitto, alla Diocesi di Parma. Alcuni
studiosi suppongono che l’insediamento dei Cornazzano nell’area settentrionale
di Parma sia avvenuto ai tempi del vescovo Sigefredo II (981-1115), parente dei
Canossa, spiegando con ciò la contemporanea subordinazione vassallatica a
1
«La famiglia de’ Cornazzani di Parma è antichissima. Reputata di origine francese»: F. CHERBI,
Le grandi epoche sacre, diplomatiche, cronologiche, critiche della chiesa vescovile di Parma, Parma 1837, p.
304. L’origine della famiglia trova sempre gli storici in disaccordo: qualcuno scrive di origini
toscane, trovandole nell’aretino o in Val di Pesa; altri l’hanno associata alla casata comitale
degli Obertingi o a quella marchionale degli Obertenghi. La stessa località da cui prende il
nome la casata è variamente individuata tra l’Emilia e la Toscana.
9
questi e alla Chiesa di Parma.2 Un’ipotesi che potrebbe essere suffragata dalla
presenza, in due atti coevi che Ireneo Affò data attorno al 1015, con cui il
vescovo Enrico di Parma riconfermava in tutte le sue proprietà il convento di
San Paolo.3 In entrambi questi documenti compare la sequenza dei nomi
d’appartenenza salica Gerardus filius Oddonis (Oddone I e Gerardo I) secondo
una struttura parentale riproducente nelle filiazioni i nomi propri ereditati dagli
avi, in questo caso tipica dei Cornazzano.4 La concatenazione dei nomi di
Gerardo e Oddone, assieme a quello di Gandolfo, peculiare in quella famiglia, si
ritrova, tradotta in gergo notarile, negli altri atti ufficiali rogati nel secolo XI che
raccolgono le loro testimonianze.
Il legame con i Canossa, vivo e ben testimoniato al tempo di Bonifacio
III, si mantenne anche dopo l’assassinio di questo, nel 1052, e fino alla morte
della contessa Matilde, nel 1115.5 Secondo Ireneo Affò, una delle ragioni che
spinsero il parmigiano Oddone (II) e il nipote Gherardo da Cornazzano a
legarsi al duca e marchese di Toscana «cui forse anche prima aderivano» fu
l’esigenza di trovare riparo e difesa dalla persecuzione insolente dei Pallavicino,
o Pelavicino. «Questa gran turba cominciò dunque a scorrer qua e là,
danneggiando il paese. Una delle prime cose, cred’io, che fosse quella di
scacciare dal nostro Contado la famiglia da Cornazzano […] onde poi detto
Oddone, e il suo nipote Gherardo si rifugiarono presso la Contessa».6
Cfr. R. SCHUMANN, Istituzioni e società a Parma dall’età carolingia alla nascita del comune, Parma 2004,
pp. 105 e segg.
3 Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi dei sec. X-XI, II, Dall’anno 1001 all’anno 1100, Parma
1928, www.yumpu.com/la/document/view/13992403/d-drei-vol-ii-itinerari-medievali, nn.
XVIII, XIX, pp. 30-35.
4 «Quarta pars de hereditate Asprandi de Medasiano quam dedit Ingeza iam dicti filia, in Bibiano
mansus I, quem dedit Gerardus filius Oddonis». Cfr. ivi, n. XIX, p. 34.
5 Un’indagine approfondita sulla formazione della ricchezza e del potere dei Canossa attorno al
Mille è stata svolta da Tiziana Lazzeri che conclusivamente osserva come gli incrementi
patrimoniali cessarono con la morte di Bonifacio. «Né Beatrice, né la figlia Matilde
procedettero più ad ampliare i domini della famiglia, sia dal punto di vista patrimoniale, sia da
quello giurisdizionale. La data della morte di Bonifacio, nel maggio del 1052, segna, insieme
con la fine della sua esistenza, anche la fine della stagione dell’accumulo patrimoniale e della
crescita giurisdizionale della dinastia»: T. LAZZARI, Aziende fortificate, castelli e pievi: le basi
patrimoniali dei poteri dei Canossa e le loro giurisdizioni, in A. CALZONA (a cura di), Matilde e il tesoro
dei Canossa tra castelli, monasteri e città, Milano 2008, p. 111.
6 «Altri o per parentela, o per genio, o per interesse ingrossaron l’esercito formato delle insegne di
più Città, e di più Signori, la cui generale condotta fu presa, giusta Donizone, da un Marchese
chiamato Oberto [...] che denominossi Pelavicino. Questa gran turba cominciò dunque a
scorrer qua e là, danneggiando il paese. Una delle prime cose, cred’io, che fosse quella di
scacciare dal nostro Contado la famiglia da Cornazzano […] onde poi detto Oddone, e il suo
nipote Gherardo si rifugiarono presso la Contessa»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II,
Parma 1793, pp. 100-101. E così Nasalli Rocca: «Matilde aveva anche a Parma i suoi fedeli
con qualifiche forse di vassalli, tra i quali sono tipici i Cornazzano, che perseguitati dai
Pallavicino si rifugiarono presso la loro signora e fecero parte della sua Corte»: E. NASALLI
ROCCA, Parma e la contessa Matilde, «Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le
antiche Provincie modenesi», s. IX, III, 1963, p. 6.
2
10
Importante fu il placito tenuto il 21 novembre 1046 nel palazzo vescovile
di Parma da Teutmario,7 o Dietmar, giudice imperiale, vescovo di Coira, messo
dell’imperatore Enrico III, dal quale si apprende che l’anno precedente, nel
1045, Oddone (II) da Cornazzano aveva ricevuto in feudo da Cadalo, appena
eletto vescovo di Parma,8 la corte e il castello di Pizzo e la foresta di Gazzo,
beni annessi al castello di Palasone a San Secondo,9 appartenenti al Capitolo
della Cattedrale di Santa Maria di Parma.10 Una decisione inaccettabile per i
canonici e che suonava tanto più ingiusta e oltraggiosa poiché, dopo essere stati
espropriati di quelle medesime possessioni in precedenza da Bonifacio III di
Canossa, a beneficio proprio e dei suoi vassi (con i da Cornazzano tra questi),
gli ecclesiastici avevano dovuto accettare, il 18 febbraio 1039, un’umiliante
transazione imposta dal margravio che prevedeva solo una parziale restituzione
delle proprietà in precedenza usurpate.11 Subita la nuova imposizione, il
Capitolo si trovò oltretutto costretto a erigere nuove difese per le terre che
ancora conservava in quel sito, a costruire fortilizi e un altro castello a Pizzo nel
tentativo di contenere le incessanti violenze e le invasioni dei vassalli canossiani
e particolarmente quelle perpetrate dai Cornazzano, i medesimi che, in virtù e
solo in forza del beneficio loro concesso del vescovo Cadalo, ne avevano
acquisito proprietà e possesso. Posti di fronte a quella improvvida decisione
episcopale, i canonici recalcitrarono, reagirono infine contro quella che
consideravano un’usurpazione: si appellarono all’imperatore e riuscirono a
ripristinare mediante la favorevole sentenza di Teutmario i loro antichi diritti.
Oddone (II) del placito di Teutmario, al secolo Oddo qui dicitur de
Cornazano, è il primo a essere individualmente citato nelle carte della storia
accompagnato dal cognomen della famiglia. In altro documento dell’anno
precedente, datato Fornovo 24 ottobre 1045, si ricordano Gandolfo (Gandulfus
filius quondam Obdoni) assieme ai nipoti Gerardo (II) e Oddone (II), fratelli e
orfani di un defunto Gerardo (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis
quondam Girardi), vassalli di Bonifacio di Canossa.12 Con quell’atto Gandolfo
rinunciò a favore di Imilia, più tardi badessa del monastero di San Paolo in
Parma, a ogni diritto e pretesa sulle sue proprietà, le terre e le pertinenze del
castello di Giarola e similmente sulla cappella dedicata a San Nicomede. La
In G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, II, cit., n. LXXXII, pp. 135-137.
Con il nome di Onorio II, fu antipapa dal 1061 al 1064.
9 Oggi San Secondo Parmense. Questi luoghi sono situati 10 miglia circa a Nord Ovest di Parma.
10 Cfr. C. MANARESI (a cura di), I placiti del ”Regnum Italiae”, III, I, Roma 1960, n. 370, p. 141.
11 «Palacione cum castro uno quae dicitur Sancto Secundo cum capellis in quorum cumque
honore sanctorum consecratas cum omnibus casis et rebus territoriis tam donicatis quamque
et masariciis sive reliquis rebus territoriis tam laboratoriis quamque et silvis seu buscariis quae
nominatur Gazo seu et in loco quae dicitur Pizo, ubi castrum constructum fuit, cum omnibus
rebus territoriis sive paludibus et piscationibus et usibus aquarum aquarumque decursibus et
fontaneis molendinis coltis et incultis divisis et indivisis». In G. DREI, Le carte degli archivi
parmensi, II, cit., n. LXXXII, p. 135.
12 Germanis bar[ba], sta per zio, paterno o materno. Usato dal latino vivo medievale, barbane, o
barbanus per avunculus è utilizzato anche nell’editto di Rotari, Origo gentis Langobardorum, Leggi
di Liutprando (c. 164).
7
8
11
datazione a Fornovo13 di quell’atto di rinuncia ha fatto supporre agli studiosi
che anche quel sito accogliesse in quel tempo una residenza dei da
Cornazzano.14
Nel frattempo, sprezzanti nei confronti delle decisioni del placito di
Teutmario del 1046 che aveva sentenziato a favore e tutela dei beni rimasti
intestati alla Cattedrale di Santa Maria di Parma, si perpetuavano le
prevaricazioni e le violenze consumate a danno delle proprietà capitolari:
soldataglie dei Cornazzano, in combutta con quelle dei Pizzo, erano tornate a
invadere e rioccupare, tra costrizioni e violenze, le terre oggetto di quella
sentenza, impadronendosi anche del castello di Palasone. S’impose quindi un
nuovo pronunciamento giudiziario.
Nel febbraio del 1055, Gunterio e Olderico, messi dell’imperatore
Enrico III il Nero, affiancati dai conti di Parma e di Piacenza, dal vescovo
Cadalo, con i suoi vassalli, e dal vescovo di Reggio, finalmente sentenziarono
con un nuovo placito contro Oddone (II), Oddo qui dicitur de Cornazano e Pizzo
da Pizzo, a favore dei diritti del Capitolo della cattedrale di Santa Maria.15 Il
placito imperiale, considerando gli accadimenti che lo avevano preceduto e lo
avevano provocato, fa costatare, tra l’altro, come anche la schiatta dei
Cornazzano s’inscriva tra le protagoniste di violenze, saccheggi e misfatti
consimili ai danni delle proprietà ecclesiastiche e non solo. Delitti e
comportamenti che distinguevano i feudatari d’ogni risma in quei tempi e che
stanno all’origine della fortuna di casate delle quali gli archivi conservano e
restituiscono memoria quasi solo quando si arriva a sentenze solenni come
quelle appena citate.16
Per il resto, le carte antiche si rivelano solitamente meno avare nel
fornire dati e informazioni quando registrano eventi edificanti ove importanti
membri delle varie schiatte vassallatiche compaiono in veste di testimoni.
Questo è altresì il caso dei Cornazzano: alle ricerche sulla storia di questa
famiglia porta episodico soccorso una serie di documenti ove suoi esponenti
Fornovo di Taro, sulla strada della Cisa, si trova 10 miglia a Sud Ovest di Parma, distante solo
altre quattro da Medesano residenza principale della casata dei Cornazzano.
14 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. LXXVI, pp. 125-126; R. SCHUMANN ,
Istituzioni e società a Parma, cit., p. 69.
15 Cfr. C. MANARESI (a cura di), I placiti, cit., n. 392, p. 210; G. DREI, Le carte degli archivi parmensi,
II, cit., n. XCVII, pp. 158-160.
16 La storia inquieta di quelle terre e dei da Cornazzano prosegue in un nuovo documento ove si
narra del re Enrico IV che a Parma, il 14 dicembre 1081, riceve dal marchese Alberto la corte
e il castello di Pizzo per renderli ancora una volta ai canonici della cattedrale. Il documento
ingiunge, nella conclusione, rammentando i precedenti: «Sub ea videlicet condicione ut ipsi
neque eorum sucessores non eam dent Oddoni de Cornazano neque Opizoni de Pizo qui iam
in anteriore tempore similiter per virtutem et iniuste ipsam cortem detinebant, sei ipsi et
fratres eorum faciant quicquid eis fuerit oportunum et qui eos de eadem cortem molestaverit
et ad predictam canonicam exinde virtutem vel violenciam fecerit aut ipsam cortem de
predicta canonica iniuste tolere voluerit bannum ipsius domni regis idem centum libras
argenti obtimi ad partem ipsius canonice restituita». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi,
II, cit., n. CXXXVIII, pp. 219-220.
13
12
sono presenti a donazioni fatte dalla contessa Matilde di Canossa a istituzioni
religiose. Documenti che, tra l’altro, confermano la conclusione cui perviene
Georges Duby: «les familles dont l’histoire est la moins obscure sont celles qui
ont le plus donné, au point de s’appauvrir ou de s’éteindre, en tout cas de
disparaître du champ d’observation».17 Se è vero che Matilde offre ben più
eclatanti argomenti che la consegnano ai campi d’osservazione della storia, di
pregnante interesse, nell’impegno con cui la contessa ha via via devoluto,
depauperandolo integralmente, il proprio patrimonio ereditario a favore di
istituzioni monastiche, resta altresì la visibilità che, negli atti rogati dai notai,
indirettamente assicura a famiglie condannate altrimenti all’oblio. La
documentazione dell’età matildica conservata negli archivi è assai significativa al
riguardo,18 importante anche per i riferimenti che offre nel coadiuvare la
ricostruzione della vicenda medievale, oscura come tante ma complicata come
poche, dei Cornazzano, certo mai ammantati dalle vesti di benefattori, quanto
in quella di vassalli fedeli ai Canossa, testimoni prima per Bonifacio III e poi
della benefattrice Matilde.
Così il 18 giugno 1051 Odo, ovvero Oddone (II),19 si trovava a
Spilamberto, menzionato con Ubaldo, Vuido, Ato, Borello, Alberto e
Vulgarello, tra i vassalli al seguito di Bonifacio di Canossa, duca e marchese di
Toscana, che qui presiede un placito a favore di Cadalo vescovo di Parma
riguardante i diritti sulla corte, il castello e la cappella di Sala nel Modenese.20
Ancora Odo de Cornazzano rese testimonianza, a Marengo il 18 agosto 1073, per
la marchesa Beatrice e la figlia Matilde ad una donazione di terre e della chiesa
alla quale queste appartenevano, in Castellonchio sul Mantovano, a favore del
monastero di San Paolo di Parma.21
Tre anni più tardi, il 15 maggio del 1076, Gandolfo da Cornazzano, o
Gandulfus de Cornazano,22 fu testimone dell’atto di donazione di due masserizie, a
Prato Arneri presso Corviaco,23 e a Casale Revani di Poviglio, nel Reggiano, da
parte di Giulia, vedova di Arcoino, a favore del Capitolo di Santa. Maria a
Parma dove era arcidiacono suo figlio Giovanni.24 Nella medesima cattedrale,
«Et comme en revanche les groupes de parenté les plus vigoureux, les plus solidement ancrés
sur leur fortune foncière, moins prodigues d’aumônes, apparaissent plus rarement dans les
chartriers, on comprendra que la reconstitution des ascendants à laquelle je me suis livré
demeure incomplète et incertaine»: G. DUBY, Lignage, noblesse et chevalerie au XIIe siècle dans la
région maconnaise: une révision, «Annales: Economies, sociétés, civilisation», XXVII, 1972, p. 806.
18 Cfr. E. e W. GOEZ (a cura di), Die Urkunden und Briefe der Markgräfin Mathilde von Tuszien,
Hannover 1998.
19 Così identificato in G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, in Dizionario Biografico degli Italiani,
XXIX, Roma 1983, www.treccani.it/enciclopedia/bernardo-da-cornazzano_(DizionarioBiografico)/.
20 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. XC, p. 147.
21 Cfr. ivi, n. CXXVII, pp. 203-205.
22 Cfr. ivi, n. CXXXXI, p. 211.
23 Oggi Cavriago, in provincia di Reggio Emilia.
24 Anche Gandolfo ebbe un figlio, Lanfranco, che faceva parte del Capitolo della cattedrale di
Parma allorché, il 2 gennaio 1090. quale canonico, stipulava un contratto di affitto ‘a livello’ di
17
13
tre lustri più tardi, il 2 gennaio 1090, si legge in un atto vergato da Adegerius
notarius sacri palacii, si trovava nelle vesti di canonico Lanfrancus, filius Gandulfi de
Cornazano.25
I nomi dei Cornazzano, vassalli matildici, emergono da altri documenti e
atti di donazioni anche dopo il 1077, l’anno che segnò la memorabile andata a
Canossa dell’imperatore Enrico IV. Il 9 dicembre 1081, Oddone (II) da
Cornazzano e il suo pronipote Gerardo (III) testimoniarono per la contessa a
Reggio circa una donazione fatta al monastero di San Prospero.26 Gerardo fu
nuovamente testimone per Matilde nel 1096 a Piadena,27 e nel 1099 a Lucca.28
Dodici anni dopo, il 29 marzo 1101, accanto a Belencio, Lanfrancus e
Rozo Gastaldio, egli ricompare quale testimone nell’atto rogato a Guastalla, con
cui Matilde, rispondendo all’appello dell’arciprete Giovanni, confermava la sua
protezione al locale monastero di San Pietro.29 Nel 1113 Gerardo era nel
seguito dei vassalli di rango che accompagnarono nel Mantovano, a Pegognaga,
in curte Pigognage, la contessa che qui solennemente remunerò con un manso,
bosco e pascolo posti sull’isola di Revere, l’abbazia di San Benedetto a
Polirone.30
Defunta Matilde, nel 1115, i da Cornazzano passarono immediatamente
fra i fautori della pars domini imperatoris. L’8 aprile 1116, Gerardo (III), Girardus de
Cornazano, era tra i principali cives parmenses presenti al placito tenuto
dall’imperatore Enrico V a Reggio Emilia con il quale i figli di Gerardo de
Herberia furono obbligati a restituire alla Chiesa di Parma la corte di Marzaglia,
nel Modenese.31 Il medesimo Gerardo è al seguito di Enrico nel maggio 1116, al
castello di Governolo,32 per la cerimonia d’acquisizione, da parte
dell’imperatore, dell’eredità della contessa Matilde di Canossa.33
Il 3 agosto 1136, Oddone (III), ovvero Oddo figlio del quondam Gerardi de
Cornazzano, con proprio iudicatum, stabilì, secondo la legge salica, che, se alla sua
morte fosse mancata la discendenza maschile, metà dei suoi possedimenti nella
una casa massaricia o podere posta in San Secondo, appartenente alla prebenda del preposito
Adone, a favore di un Uberto, figlio di Anselmo Burgano. Cfr. ivi, n. CXLVII, pp. 233-234.
25 In quel documento il preposito del Capitolo Adone presta «consensum et volumtatem»
unitamente a «Lanfranci clerici et canonici predicte sanctae Parmensis aecclesiae et filius
Gandulfi de Cornazano». Ivi.
26 Cfr. E. e W. GOEZ (a cura di), Die Urkunden, cit., n. 33, p. 117.
27 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa [1895], traduzione italiana, Roma 1980, n. 50,
p. 143.
28 Cfr. ivi, n. 54, p. 145.
29 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, Parma 1950, n. 3, pp. 5-6.
30 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa, cit., n.131, p. 167. L’odierna San Benedetto
Po, in provincia di Mantova.
31 «Quam pater eorum iniuste et violenter invaserat». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III,
cit, n. 41, p. 38. Si veda anche I. AFFÒ, Storia della città di Parma, III, Parma 1793, pp. 345-346.
32 Frazione dell’odierno comune di Roncoferraro, in provincia di Mantova.
33 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa, cit., p. 42.
14
Contea di Parma sarebbe passata a beneficio dei propri vassalli.34 Una decisione
che rivela come Oddone fosse allora al vertice gerarchico di una teoria di secundi
milites, o milites minores.35 I beni di cui disponeva erano situati nelle terre già
occupate nel secolo XI, alla foce del Taro, nei territori di Sissa, prossimi alla
corte di Palasone e ai castelli di San Secondo e di Pizzo.
Nel 1140, il 14 marzo, Gerardo (III) da Cornazzano,36 nei documenti
Gerardus de Cornazzano, fu incoraggiato dai Piacentini a stabilirsi nella loro città
dove i consoli gli donarono una casa e gli conferirono considerevoli benefici. Il
figlio di questo, Gerardo IV ossia Gerardus filius predicti Gerardi, aveva l’obbligo
di abitare a Piacenza un mese all’anno in tempo di pace e per tre nel caso che i
consoli avessero dichiarato lo stato di guerra. Ireneo Affò osserva a questo
proposito: «In tal guisa la famiglia da Cornazzano originaria di Parma restò
divisa in due principali rami propagati nelle due Città con molto splendore. E
certamente Gerardo non tardò a essere in Piacenza riputato altamente;
conciossiaché in un atto al seguente anno spettante vedesi posto al rango stesso
che i Marchesi Malaspina, il Marchese Cavalcabò, e il Marchese Pelavicino».37
La militanza sotto l’imperatore Federico I
Il rango e il ruolo di Gerardo (IV) e della sua famiglia acquistò ancor più
rilevanza dopo l’incoronazione di Federico I di Svevia e le sue successive
«A Rogito di Guinizone Notajo in tal guisa: Oddo fil. q. Gerardi de Cornazzano qui me lege Salicha
vivere profiteor […] si post meum decessum sine filiis legitimis obiero medietatem totius alodii mei quem habeo
in Comitatu Parmenfi deveniat Ecclefie sancte Marie & medietatem Ecclefie sančti Johanmis, preter illud &
c »: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota.
35 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 102, p. 88. I milites minores, vassalli dell’alta
aristocrazia, primi milites o milites majores, non avevano il diritto di trasferire in eredità le loro
terre. In questo caso restavano esclusi dal lascito i beni che Oddone destinava alla cattedrale
di Santa Maria e alla chiesa di S. Giovanni e di Santa Maria in Parma Queste proprietà erano
situate in terra di Sissa, alla foce del Taro, confinanti con Palasone e le rocche di San Secondo
Parmense e Pizzo. Quando, poi, i canonici di Parma, nella seconda metà del secolo XII,
instaurarono sui medesimi luoghi una loro signoria territoriale, i rapporti con i da Cornazzano
divennero conflittuali. La famiglia uscì soccombente contro il Capitolo di Parma e fu
costretta a vendere quei possedimenti. In seguito, tuttavia, i rapporti vassallatici con la chiesa
maggiore di Parma furono ripristinati, probabilmente ricorrendo all’influenza di un membro
della famiglia, Aicardo, omonimo del vescovo, preposito della cattedrale di Parma.
36 «Forse questo Gherardo era fratello di Oddone, che ai 3 di Agosto del 1136 avea disposto de’
beni suoi»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota.
37 Lo storico aggiunge: «Nel Registro Mezzano della Comunità di Piacenza leggesi l’accordo fatto
da Gherardo co’ Piacentini il giorno 14 di Marzo del 1140 alla presenza de’ Consoli, e del
Vescovo Arduino, ed è tale: Concordia fuit inter Placentinos nec non & Gerardum de Cornazzano talis
quod Placentini debent ei dare braydam Episcopi de ultra fossam auguftam & casam unam in Placentia, &
Molendina Communis prope turrem Episcopi aptata ad dispendium Plac. & medietatem Moseri, & debent
ei reddere curtem Greci ita quod Rocca Petre gemelle debeat dirui nec ulterius debet rehedificari sine parabula
Consulum palam data, & debent ei dare medietatem Turris Scopari cum medietate Castri. Et Gerardus
filius predicti Gerardi debet esse habitator Placentie per tre menses per guerram quos Consules voluerint, per
pacem per unum mensem & c.» In I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota.
34
15
discese in Italia, quando il legame dei Cornazzano con i sovrani del Sacro
Romano Impero tornò a rinsaldarsi.
Nel novembre del 1158 Federico I, valicate le Alpi con una potente
armata, aveva convocato la seconda dieta di Roncaglia38 dove, ispirandosi ai
principi del diritto romano, aveva promulgato la Constitutio de regalibus,
orgoglioso strumento concepito a salvaguardia dei diritti e privilegi sovrani.
Questa decretazione imperiale fu accettata e riconosciuta dai comuni lombardi,
ma rifiutata da Milano. Si scoprì in quelle circostanze politiche e belliche che
molti comuni lombardi erano più anti-milanesi che anti-tedeschi, mal
sopportando i loro rettori la sperimentata prepotenza dei primi e non avendo
ancora misurato la più pervasiva e gravosa arroganza dei secondi. L’aggressività
verso il Barbarossa sarebbe lievitata fino a deflagrare nel decennio successivo,
solo dopo avere sopportato gli effetti del suo governo, e avrebbe portato ai
giuramenti di Pontida fino all’eclatante vittoria sul campo di Legnano nel 1176.
Prima di questi eventi e delle rivincite, nel 1161 iniziò e si consumò una
guerra ferocissima contro Milano con le milizie comunali lombarde di Pavia,
Vercelli, Novara, Cremona, Lodi, Bergamo, Reggio e, non ultima, Parma,
schierate col Barbarossa. Alla fine dell’anno le forze in armi parmensi, a piedi e
a cavallo, guidate dal capitano Gerardo da Cornazzano, si congiunsero alle
imperiali al campo di Lodi per stringere d’assedio Milano fino alla capitolazione
di questa città.39
A conclusione di combattimenti asperrimi e di una difesa sempre più
disperata, nel 1162 Milano si dovette arrendere alla discrezione del nemico,
spietatamente demolita e spianata, fatti salvi solo i luoghi di culto,
completamente evacuata dagli abitanti che si salvarono solo con atto di totale
subordinazione. A ciascun comune lombardo che aveva partecipato a quella
guerra scatenata dal Barbarossa fu affidata la distruzione di una zona della città.
Nel marzo Gerardo, condottiero dei milites parmigiani aggregati alle forze
imperiali, fu tra i delegati a ricevere la resa dei Milanesi.
Scrive Bernardino Corio che Gerardo raccolse il giuramento di
sottomissione degli “habitatori” di porta Romana, eseguendo gli ordini spietati
del Barbarossa:
Quinci comandò che a ciascuna porta di Milano fosse spianata la fossa, &
ruinato il muro in modo che l’essercito suo potesse facilmente entrare. Poi
elesse sei Lombardi, & sei Tedeschi, i quali havessero a venire a Milano, &
pigliare in nome suo dall’universo popolo il giuramento di fede; […] & che
sino al sabato durò il giuramento, & […] che a lui con Federico d’Asia
Camerieri dell’Imperatore, toccò a ſar giurar gli habitatori della porta Nuova,
al Conte Corrado di Bellanoce, & Gerardo da Cornazzano, la porta
Romana.40
La località è attualmente una frazione del comune di Piacenza.
Cfr. Acerbi Morenae historia, a cura di F. Güterbock, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores
rerum Germanicarum, n.s., VII, Berolini 1930, pp. 130-176.
40 Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, Venezia 1565, p. 119.
38
39
16
Tre mesi
mesi più
più tardi,
tardi, ilil 24
24 giugno
giugno 1162,
1162, Gerardo
Gerardo era
era convocato
convocato tra
tra ii
Tre
testimoni del
del placito
placito tenuto
tenuto da
da Guibertus
Guibertus Bornado
Bornado vicario
vicario imperiale
imperiale inter
inter Castrum
Castrum
testimoni
41 per
Macreti et
et castrum
castrum Fascoli
Fascoli 41
per decidere
decidere sui
sui conflitti
conflitti sorti
sorti aa San
San Secondo
Secondo ee in
in altre
altre
Macreti
possessioni che
che contrapponevano
contrapponevano ii consoli
consoli di
di Parma
Parma al
al Capitolo
Capitolo della
della cattedrale
cattedrale
possessioni
42
di Santa
Santa Maria.
Maria.42
di
A Parma
Parma Federico
Federico II aveva
aveva nel
nel frattempo
frattempo ripreso
ripreso pacificamente
pacificamente possesso
possesso
A
della Corte
Corte Regia
Regia nella
nella quale,
quale, profittando
profittando dell’inerzia
dell’inerzia dei
dei suoi
suoi predecessori,
predecessori, si
si
della
43 Lo
Lo sfratto
sfratto non
non creò
creò tuttavia
tuttavia problemi
problemi con
con ilil potere
potere
era insediato
insediato ilil vescovo.
vescovo.43
era
episcopale locale,
locale, propenso
propenso aa parteggiare
parteggiare per
per l’antipapa
l’antipapa Vittore
Vittore IV,
IV, favorito
favorito
episcopale
dall’imperatore, contro
contro ilil papa
papa Alessandro
Alessandro III.
III.
dall’imperatore,
Questo atteggiamento
atteggiamento divenne
divenne ben
ben più
più fermo
fermo quando,
quando, nel
nel 1163,
1163, assurse
assurse
Questo
44
44
Aicardo
da
alla
cattedra
vescovile
uno
stretto
parente
di
Gerardo
(IV),
alla cattedra vescovile uno stretto parente di Gerardo (IV), Aicardo da
Cornazzano. Fu
Fu un
un evento
evento che
che diede
diede la
la misura
misura del
del prestigio
prestigio ee della
della vigorosa
vigorosa
Cornazzano.
influenza conquistata
conquistata dai
dai Cornazzano
Cornazzano durante
durante l’età
l’età federiciana
federiciana in
in ambito
ambito
influenza
parmense, ulteriormente
ulteriormente confermata
confermata l’anno
l’anno seguente,
seguente, nel
nel 1164,
1164, allorché
allorché Aicardo
Aicardo
parmense,
cumulò nella
nella sua
sua persona
persona anche
anche ilil titolo
titolo ee le
le funzioni
funzioni di
di podestà
podestà imperiale.
imperiale.
cumulò
Questa confluenza
confluenza ee confusione
confusione di
di istituzioni
istituzioni ee poteri
poteri fu
fu tuttavia
tuttavia
Questa
abbastanza effimera
effimera ee sarebbe
sarebbe cessata
cessata poco
poco più
più di
di un
un lustro
lustro più
più avanti,
avanti, verso
verso ilil
abbastanza
1170, quando
quando Aicardo
Aicardo da
da Cornazzano
Cornazzano fu
fu deposto
deposto quale
quale vescovo
vescovo scismatico.
scismatico.
1170,
Con la
la cacciata
cacciata del
del vescovo
vescovo di
di famiglia
famiglia ripresero
ripresero virulenti
virulenti ii mai
mai sopiti
sopiti contrasti
contrasti ee
Con
vertenze tra
tra ii Cornazzano
Cornazzano ee ilil Capitolo
Capitolo della
della cattedrale,
cattedrale, ben
ben intenzionato
intenzionato aa
vertenze
recuperare ilil terreno
terreno perduto.
perduto. Il
Il 16
16 ottobre
ottobre 1176
1176 si
si arrivò
arrivò alla
alla sentenza
sentenza di
di
recuperare
Anonimo, Bassorilievo
Bassorilievo di
di Porta
Porta Romana
Romana aa Milano,
Milano, ora
ora al
al Castello
Castello Sforzesco
Sforzesco (1171
(1171 circa).
circa). Commemora
Commemora
Anonimo,
l’epica impresa
impresa che
che portò
portò alla
alla rivincita
rivincita ee al
al ritorno
ritorno dei
dei Milanesi
Milanesi nella
nella loro
loro città
città dopo
dopo l’esilio
l’esilio ee le
le
l’epica
devastazioni subite
subite dall’imperatore
dall’imperatore Federico
Federico I.
I.
devastazioni
Due castra
castra non
non esattamente
esattamente localizzati.
localizzati. Il
Il primo
primo corrisponde
corrisponde probabilmente
probabilmente presso
presso Macreto,
Macreto, nel
nel
Due
modenese. L’imperatore
L’imperatore Federico
Federico II si
si trattenne
trattenne in
in terra
terra emiliana
emiliana dal
dal giugno
giugno al
al settembre
settembre 1162.
1162.
modenese.
42 Cfr.
42
DREI
REI,, Le
Le carte
carte degli
degli archivi
archivi parmensi,
parmensi, III,
III, cit.,
cit., n.
n. 280,
280, p.
p. 229.
229.
Cfr. G.
G. D
43 Cfr.
43
cura di),
Origini,
sviluppi
e crisi delincomune,
DEM (aIII.I:
cura Parma
di), Storia
di Parma,
III,e
Cfr. R.
R. G
GRECI
RECI,(aOrigini,
sviluppi
e crisi
del Comune,
Storia in
di IParma,
medievale.
Poteri
I, Parma 2010,
115-168.
istituzioni,
a curapp.
di Id.,
Parma 2010, pp. 115-168.
44 Lo
44
Lo storico
storico Affò
Affò reputa
reputa «fors’anche
«fors’anche fratelli»
fratelli» l’uomo
l’uomo d’armi
d’armi Gerardo
Gerardo ee ilil vescovo
vescovo Aicardo
Aicardo da
da
Cornazzano: «Gherardo
«Gherardo da
da Cornazzano,
Cornazzano, ilil quale
quale aveva
aveva colle
colle truppe
truppe di
di Parma
Parma combattuto
combattuto per
per
Cornazzano:
l’Imperadore, ee fu
fu uno
uno de’
de' Capitani
Capitani delegati
delegati aa ricevere
ricevere ilil giuramento
giuramento di
di sommissione
sommissione da
da quel
quel
l’Imperadore,
popolo infelice,
infelice, divenuto
divenuto essendo
essendo caro
caro al
al Monarca,
Monarca, giovò
giovò sicuramente
sicuramente in
in que’
que' tempi
tempi
popolo
moltissimo all’onor
all'onor di
ed al
al vantaggio
vantaggio del
del Preposto
Preposto Aicardo
Aicardo suo
suo parente,
parente, ee
moltissimo
di sua
sua Patria,
Patria, ed
fors'anche fratello,
morto già
già essendo
essendo ilil Vescovo
Vescovo Lanfranco,
Lanfranco, fosse
fosse promosso
promosso aa questa
questa
fors’anche
fratello, acciò,
acciò, morto
Chiesa»: I.
I. A
AFFÒ
FFÒ,, Storia
Storia della
della città
città di
di Parma,
Parma, II,
II, cit.,
cit., p.
p. 216.
216. Aicardo,
Aicardo, nominato
nominato cardinale
cardinale prete
prete
Chiesa»:
dall’antipapa Vittore
Vittore IV,
IV, fu
fu poi
poi deposto
deposto nel
nel 1170
1170 come
come scismatico.
scismatico.
dall’antipapa
41
41
17
17
Albertus Rubeus, assessore del podestà di Parma, il milanese Nigro Grasso, che
condannò Gerardo da Cornazzano a restituire ai canonici i beni che erano stati
loro donati dagli eredi di Uldefredo da Pizzo dei quali egli si era impossessato.45
Quel verdetto riguardante le terre «de feudo ipsius Gerardi de Cornazano in
Pizo» fu contestato, ma nel dicembre 1177 gli assessori podestarili rigettarono il
ricorso confermando le ragioni dei canonici di Santa Maria.46 Due anni dopo,
poiché evidentemente le invasioni e le devastazioni perpetrate dai feudatari
confinanti continuavano, con sentenza del 16 novembre 1179, alla quale era
presente Giacomo da Cornazzano, o Iacobus de Cornazano, si concesse ai
canonici di erigere un nuovo castello a difesa delle loro proprietà nel territorio
di Pizzo.47
Il capitano d’armi Gerardo coltivava nel frattempo con lealtà il suo
servizio e l’amicizia con il Barbarossa. Nel diploma, sigillato al castello di Casale
Monferrato lunedì 15 maggio 1178, con cui Federico I confermava una
transazione stipulata tra il monastero di San Benedetto a Polirone e i vassalli
matildici di Pegognaga, nel Mantovano, si indica Gerardus de Cornazano tra i fideles
nostri de domo Comitissae Matildis.48
L’anno seguente, il 23 luglio 1179, Gerardo è testimone al placito, 49
emesso da Muxo e Guido, giudici e assessori parmensi, a favore della badessa
Fornaria del monastero di San Giovanni di Borgo «ubi corpus S. Donnini
humatum quiescit» con assegnazione delle proprietà «de bosco et pratis et terra
laboratoria» posti nelle pertinenze del feudo di Castel Aicardo e Pàrola, vicino a
San Genesio.
Oltre a Gerardo IV, altri esponenti della famiglia da Cornazzano
giocarono in quel tempo un ruolo protagonista a Parma. Nel 1179 Giacomo da
Cornazzano è indicato dai documenti tra i rectores della Società dei Militi di
Parma, deputata a tutelare gli interessi politici delle famiglie vassallatiche.
«Condemno enim ipso Gerardum de Cornazano ut quicquid tenet de predicto cambio in Pizo
iamdicto Rainerio et canonicis prefate eccl. restituat et eis per hanc sententiam possessionem
adiudico». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 465, p. 370.
46 Cfr. ivi, n. 487, p. 386.
47 Cfr. ivi, n. 23, p. 696.
48 «Fridericus Romanorum Imperator semper Augustus. Nostre Imperialis celsitudinis decet
majestatem, amicorum atque Fidelium nostrorum preces admittere, atque in his, que cum
honore nostro possumus, clementer exaudire. Quapropter notum facimus universis nostri
Imperii fidelibus tarn futuris quam presentibus apud nos, causa Dei & intercessione beati
Benedicti, ad ejus honorem Monasterium nostrum Sanfti Benedicti de Padolirone dedicatum
est, nec non etiam precibus atque consilio dilettissimi Principis nostri P. Mantuani Episcopi,
atque Gerardi de Carpeneta, & Gerardi Rangoni, Guilelmi de Baese , Gerardi de Camino, &
Gerardi de Cornazano [...] Fidelium nostrorum de Domo Comitissæ Matildis, transactione
facta inter Monachos Santa Benedicli et Homines de Pigognaga a prefato Episcopo».
Concordia inter Monachos Monasterii Mantuani Padolironensis Sancti Benedicti, & quosdam
Vassallos Domus Comitissæ Mathildis, confirmata a Friderico 1. Augusto, Anno 1178.
Datum est hoc in castro Casalis Sancti Vasii, Anno MCLXXVIII, indictione XI, die lune, XV
intrante madio». In L. A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, I, Mediolani 1738, col.
604.
49 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 500, p. 394.
45
18
Nell’esercizio di queste funzioni, il 15 luglio, con altri rectores, egli raccoglieva il
giuramento di Uberto, Ruggero e Opicino del Pizzo,50 impegnati a cessare le
loro pervicaci molestie ai canonici, e contemporaneamente infliggeva ai due una
pena pecuniaria, condannandoli al risarcimento dei danni arrecati in pregresso.
I rapporti dei Cornazzano con la Chiesa di Parma rimasero sempre
problematici ogniqualvolta si trattò di regolare i reciproci rapporti patrimoniali,
ma con il trascorrere degli anni si manifestò una crescente inclinazione agli
accordi, tanto che il 27 aprile 1186 Giacomo e Bernardo da Cornazzano furono
investiti dal canonico e arcidiacono Tutino, a titolo di feudo onorifico, di tre
quarti del castello e della corte di Tabiano, consentendo che la quarta parte
restasse nella disponibilità del Capitolo.51 Contribuì sicuramente a smorzare le
conflittualità l’ammissione nel Capitolo di Santa Maria di esponenti della casata:
Alberto da Cornazzano (Albertus de Cornazano) figurava tra i canonici nel 1185.52
Lo stesso Alberto, il 6 marzo 1192, presenziò come testimone alla professione
dei conversi e nel giugno successivo fu accanto al vescovo Bernardo allorché si
deliberò ritualmente la conferma nel numero di sedici dei canonici, sulla base di
quanto stabilito dal predecessore Lanfranco.53
Il persistere dell’appartenenza vassallatica dei Cornazzano al Capitolo di
Parma, nonostante il perpetuarsi dei contrasti, trova conferma in un documento
rogato fra il 1188 e il 1193 che così inizia: «Breve recordationis pro futuris
temporibus ad memoriam retinendam qui fuerunt vassalli Parmensis matricis
ecclesie qui iuravere fidelitatem d. Guidotto nuper ipsius ecclesie electo et
costituto preposito. Hii sunt vassalli: Gerardus de Cornazano, Albertus Rubeus
causidicus».54
Gerardo IV ebbe tre figli. Tra questi, grande prestigio meritò Manfredo,
nato dopo l’anno 1180,55 ricordato da fra’ Salimbene de Adam come esperto
combattente, dotato di profonda e multiforme cultura, religiosa e giuridica
Cfr. ivi, nn. 20 e 21, pp. 694-695.
Cfr. ivi, n. 61, p. 725. È doveroso aggiungere che, come sovente accade, non tutti i membri
della famiglia godevano delle migliori condizioni economiche e il ricorso all’indebitamento si
imponeva, anche in quei tempi, quale pratica per sopravvivere. Se poi gli impegni di
restituzione non erano onorati, la sanzione calava implacabile. I documenti ci narrano allora,
per la cronaca e la storia, oltre che di parrocchie e conventi beneficati, di impietose rivalse sui
beni del debitore fedifrago. È quel che avvenne anche con i fratelli Armanno e Uberto da
Cornazzano, figli di Gandolfo, quando, il 25 d’aprile 1181, diedero a garanzia di un prestito
di quaranta lire imperiali la loro terra in località Prato a Carraria, e per altre ventidue lire tutto
il bosco di Corvo. Risultato insolvente alla scadenza, il 29 gennaio 1182, Armanno da
Cornazzano, figlio ed erede di Gandolfo nel frattempo deceduto, fu obbligato a trasferire in
proprietà alla canonica per 120 lire imperiali tutti i suoi beni siti a Cornazzano, posseduti sive
per feudum sive aliquo alio modo. Cfr. ivi, nn. 36 e 43, pp. 706 e 711.
52 Cfr. ivi, nn. 56 e 57, pp. 721 e 722.
53 Cfr. ivi, n. 104, pp 754-755.
54 Tra i vassalli che compaiono in quell’atto del 1192 si trovano Gerardo IV, ovvero Gerardus de
Cornazano, e Oddone IV o Oddo de Cornazano, che giurano rispettivamente il 13 luglio 1188 e il
13 dicembre 1192. Cfr. ivi, n. 77a, p. 734.
55 Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Manfredo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma
1983, www.treccani.it/enciclopedia/manfredo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/.
50
51
19
innanzitutto, che seppe far valere in successivi incarichi di podestà e nelle
missioni diplomatiche che gli furono affidate da Federico II.
Compare la prima volta, accanto ai fratelli Oddone IV e Gerardo V, in
due documenti rogati nel marzo 1198 ove si registrò la vendita ai loro vassalli di
beni fondiari che questi «habebant et tenebant» a Pizzo e a San Secondo.56
Nel 1224 Manfredo da Cornazano era rettore imperiale di Parma; nel
1237 lo fu a Reggio e in anni successivi in altri comuni lombardi e toscani, a
Lucca ed Arezzo. Oltre alle funzioni podestarili, quando nacque l’esigenza,
seppe mettere in campo al servizio di Federico II anche il suo valore di capitano
d’armi, come avvenne nel caso della guerra di Reggio.
Nel 1244 egli esercitò la podesteria a Cremona, al termine della quale
tornò a Parma, sempre più coinvolta e attanagliata dal conflitto che
contrapponeva il Papato all’Impero. Qui Manfredo fu tra i membri della sua
famiglia rimasti favorevoli a Federico II, tra gli esponenti della fazione che
allora governava la città, guidata da Bartolo Tavernieri, suo cognato.57
L’altra frazione dei Cornazzano, guidata da Bernardo o Bernardino,
parteggiava per il nuovo papa Innocenzo IV, assieme ai Lupi, ai da Correggio,
ai Sanvitale e ai Rossi costretti a rifugiarsi a Piacenza.
Fu alla battaglia di Borghetto del Taro, vicino a Noceto, il 16 giugno
1247, nel corso del vittorioso tentativo dei fuorusciti di riprendersi Parma,58
allora stretta d’assedio dalle truppe imperiali, che Manfredo da Cornazzano
trovò la morte.59
Il notaio precisò che «Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et refutationem». Cfr.
G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605.
57 Manfredo ne aveva sposato la sorella, Auda Tavernieri. Bartolo, l’autorevole e risoluto capo del
partito imperiale parmense, era marito a sua volta di Elena, una nipote di papa Innocenzo IV,
dal quale venne beneficato, come ci informa lo storico contemporaneo: «Lo stesso Fra’
Salimbene parlando di Papa Innocenzo, dice avere egli voluto, quod Dominus Bertholinus
Tavernerius iret ad eum, eo quod Dominam Helenam neptem suam haberet uxorem, & quia volebat eum
Neapolitane Civitatis facere Potestatem»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., p. 89 nota.
58 Scrive nella sua Chronica fra’ Salimbene de Adam che Federico II, lontano sulla strada di Lione
per partecipare al Concilio, quando fu informato di quella sconfitta e della perdita di Parma
subito ritornò sui suoi passi: «Nel 1247 l’imperatore infiammato d’ira e fuor di sé venne a
Parma e nel paese di Grola - nel quale ci sono moltissime vigne ed il vino viene buono - fece
sorgere una città con vasti fossati attorno, che per di più, a presagio dei futuri eventi, chiamò
Vittoria, e le monete coniatevi si chiamarono vittorini e la chiesa maggiore S. Vittorio». Cfr.
R. GRECI, Origini, sviluppi e crisi del Comune, cit., p. 151.
59Affò narra così di quello scontro mortale per Manfredo da Cornazzano: «L’idea de’ nostri
Guelfi, usciti da Parma sprovveduti d’ogni cosa, e rifugiatisi in Piacenza era di tentare un
colpo, affine di ripatriare. Mentre volgevano tal pensier nella mente, avvenne che il Re Enzo,
lasciato dal genitore a custodia del nostro paese, dovette partirsene, onde rinforzare l’assedio
al Castel di Quinzano nel Territorio di Brescia. Videro in ciò la circostanza opportuna.
Provvedutisi di armi e di soldati si raccolsero i Rossi, i Lupi, i Correggeschi, i Sanvitali,
Giberto da Gente, e tutti i banditi in Piacenza, e vennero a Noceto, dove fatta in un gran
prato la rivista innanzi ad Ugo Sanvitali, uomo coraggiosissimo, e dotto nel mestier della
guerra, eletto lor Capitano, ed animati ad essere forti e coraggiosi nel riacquistare la patria
dalle parole di Giberto da Gente, personaggio naturalmente facondo, e bel dicitore, si posero
in marcia ordinata correndo il giorno 15 del mese di Giugno. Volata per le sollecite spie la
56
20
I Cornazzano podestà
Col trascorrere dei decenni, dalla seconda metà del XII secolo e nel
successivo, si affievolì in parte l’interesse di parte dei Cornazziani per le
proprietà immobiliari che tenevano nel contado parmense, terre la cui
estensione si era peraltro ridotta nel tempo anche per effetto delle liti giudiziarie
che vide soccombenti rami di quella estesa famiglia rispetto al Capitolo della
cattedrale di Santa Maria. Tuttavia, anche se fiaccata, l’attenzione prestata ai
patrimoni terrieri dai Cornazzano, che si erano inurbati, non cessò mai: rimase
una risorsa, tutt’altro che esigua, risolutamente difesa e incrementata
all’occasione opportuna.60
La casata, o almeno gli appartenenti armati di talento, migliori studi e
iniziativa, fecero convergere i loro interessi economici e politici su Parma, si
innestarono nella vita delle sue istituzioni comunali, ambiziosamente
contendendo, dapprima come Cornazzano e più tardi come Terzi, il potere ai
Pallavicino, Correggio, Sanvitale e Rossi. Tutte famiglie signorili cittadine che,
come i da Cornazzano, conserveranno un fortissimo radicamento feudale nel
contado parmense.
Appare indicativo dello stato del Comune, della sua vigoria economica,
ma anche della sua attrattiva, come proprio sul finire del XII secolo, nel 1196,
iniziasse la costruzione di quello che rimarrà per sempre il suo simbolo
monumentale più prestigioso: il battistero. Il cantiere progredì così
gagliardamente nelle strutture e nella sua decorazione che pochi lustri dopo, nel
1226, chiusa la cupola, già vi si celebravano i primi battesimi. Ha scritto in
proposito Jacques Le Goff: «Il Battistero di Parma è testimonianza dei grandi
movimenti storici che hanno animato e agitato questa città padana di un’Emilia
quasi lombarda. Il Battistero venne edificato e terminato all’epoca della grande
prosperità urbana nell’Italia settentrionale. E in effetti esso è un monumento
profondamente urbano, un monumento di cittadini».61
L’inclinazione a confluire verso la città dalle terre del contado si era
manifestata come fenomeno, in diversa misura significativo, caratteristico
dell’Italia settentrionale e centrale dall’inizio del secolo XI e aveva dato corpo
60
61
nuova di cotal mossa al Podestà di Parma, fece con molta furia suonar all’armi. Si raccolsero
sotto il suo stendardo le schiere, che guidate da lui, da Manfredo da Cornazzano, da Ugo
Mangiarotto, da Bartolo Tavernieri, e da altri uscirono tosto di Città. Ma questi Signori
impigriti già si sentivano da un lauto pranzo, e riscaldati dal vino cioncato alla mensa del
Tavernieri, che aveva in quel giorno sposata Maria sua figliuola ad un Cavaliere di Brescia, ed
in mal punto vestito avevano il giacco e la maglia. Incontratosi l’uno e l’altro campo al
Borghetto del Taro attaccossi la mischia. Furono tosto prostrati e morti il Podestà, il
Cornazzano, e il Mangiarotto». Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, III, cit., pp. 196-197.
La casata dei Cornazzano mantenne comunque estese proprietà fondiarie, oltre che nel
Parmense, anche nel Piacentino e nel Cremonese, proprietà che in seguito pervennero ai
Terzi di Sissa.
Il contributo dello storico è stato pubblicato, a cura della Cassa di Risparmio di Parma &
Piacenza, da Franco Maria Ricci. Cfr. J. LE GOFF, Lo spazio della fede, in Battistero di Parma: la
decorazione pittorica, II, Milano 1993, p. 12.
21
entro la cerchia delle mura cittadine, come a Parma, all’istituzione comunale. I
comuni, ciascuno dei quali ebbe strutture dotate di peculiare autonomia,
coinvolsero nel governo della città tutte le famiglie signorili o magnatizie di
origine cittadina e quelle di più recente insediamento, titolari di feudalità rurali.
In generale la piccola nobiltà terriera, alla quale i da Cornazzano appartenevano,
mentre da un lato doveva constatare l’inadeguatezza dei redditi forniti dalla
proprietà fondiaria vassallatica per soddisfare tanto il naturale proliferare delle
famiglie e degli aderenti, quanto il conseguente moltiplicarsi di esigenze e
ambizioni, subì la crescente attrazione delle opportunità, reali o immaginate,
offerte dagli ambiti cittadini. Si manifestò allora una singolare sincronia, così
generalmente semplificabile: da una parte, nella tendenza della borghesia
cittadina, quella che aveva saputo accumulare proventi con i commerci e
l’artigianato, a investire il capitale improduttivo nell’acquisizione di pascoli e
terre da coltivare; dall’altra, in direzione affatto opposta, l’aristocrazia rurale
dirottava i propri capitali dalle periferie rurali, s’imborghesiva, vendeva in varia
misura le proprietà fuori le mura per far convergere le proprie energie e talenti
verso gli ambiti cittadini dove trovava le opportunità per dedicarsi alla politica,
al governo del Comune.
Le città che stavano consolidando le loro istituzioni dalla Lombardia alla
Toscana trovarono allora le loro autonomie fondate sull’associazione, non
sempre pacifica, sovente fieramente conflittuale, nel governo di ricchi mercanti,
artigiani, professionisti che innervavano la borghesia. Così i piccoli nobili, di
varia e mutevole importanza, si insediarono e si radicarono entro la cerchia
delle mura comunali alzate a difesa di ogni prevaricazione esterna: «gente nova»
sempre a caccia di «subiti guadagni», come lamentava Dante Alighieri nel caso
di Firenze.
Il Comune come istituzione pubblica, vide dapprima ai suoi vertici
gerarchici la figura del console, selezionato tra i membri dell’aristocrazia più
antica e influente, la cui opera di reggitore venne spesso e ovunque ostacolata
dalle lotte tra le varie fazioni. Il console come figura istituzionale nell’ambito del
Comune fu presto sostituito (imposto dall’esperienza e per proteggerne le
funzioni dalla collusione o collisione con le varie faide intestine) da un
magistrato monocratico straniero imparziale, dotato di idonea cultura ed
esperienza giuridica ed amministrativa, capace di governare il Comune nel
rispetto degli statuti: il podestà.
Proprio nell’assunzione, in età federiciana, degli uffici di capitani del
popolo o podestà seppero distinguersi i da Cornazzano, acquisendo in quel
ruolo i primi grandi meriti e fama politico-amministrativa, valorizzando le
personali esperienze, tanto amministrative quanto militari, maturate quali
vassalli dei Canossa e della Diocesi di Parma e nei servizi prestati all’Impero.
Evidentemente, le capacità personali e l’intraprendenza sposate all’esperienza
dei Cornazzano che ambivano a inserirsi nel prestigioso circuito podestarile
esigevano il possesso di un’adeguata cultura fondata sull’indispensabile studio e
pratica del diritto civile e canonico.
22
Era essenziale saper dominare e calare nelle quotidiane guerriglie della
prassi le discipline dell’utroque jure che Dante, nel Convivio, quasi con fastidio
vedrà più tardi utilizzato strumentalmente da «colui che è amico di sapienza per
utilitade, sì come sono li legisti […] che non per sapere studiano ma per
acquistare moneta e dignitade».62 Ora, per l’appunto, moneta e dignitade era quello
che i più intraprendenti dei Cornazzano cercavano e accanitamente si
impegnarono a conquistare, milites valorosi nell’arte delle armi, ovvero cives
inseriti nelle istituzioni municipali fino a conseguire l’esercizio del rango
podestarile.
Figure emblematiche di quella famiglia che si trovarono per primi a
reggere con prestigio l’istituzione podestarile furono il già menzionato
Manfredo, figlio di Gerardo IV, e con lui, quale maestro precursore, il suo
stretto parente Bernardo da Cornazzano, nato un ventennio prima, tra il 1160 e
il 1170.63
I documenti indicano Bernardo come de Medesano, dal borgo fortificato64
posto al centro delle possessioni di quel ramo della famiglia, situato sulla via
Francigena presso la foce del Taro. Fu podestà di Parma per il 1192, una carica
che gli sarebbe stata inibita se cittadino di quel Comune. Durante quello stesso
anno il palazzo vescovile andò a fuoco e venne completamente devastato. Il
podestà Bernardo fu colpito da scomunica, ma non a causa dell’incendio della
dimora del presule, bensì per aver osato, laicamente, porre sotto la giurisdizione
dei tribunali del Comune tutti gli abitanti della città e del contado che
l’imperatore aveva assegnato alla Chiesa. Alla condanna ecclesiastica si aggiunse
un appello vescovile al sovrano con la richiesta di vietare al podestà qualsiasi
intromissione nella gestione della città, finché non fosse stata revocata quella
scomunica. Ne seguirono un’inchiesta e un processo istituito nel 1218 di fronte
a un delegato papale, dove un testimone di parte episcopale accusò il Comune
(era trascorso un quarto di secolo dal deplorato evento) d’essere responsabile
dell’incendio: “estruxit pallacium episcopi”.65
Nel lustro precedente, l’anno 1213, Bernardo da Cornazzano comparve
come testimone, assieme ai podestà di Parma e di Modena e al vescovo di
Reggio, alla pace sottoscritta fra il Salinguerra, capo della fazione imperiale nella
città di Ferrara, e Aldrovandino, marchese d’Este. Quell’anno è documentata
un’altra testimonianza resa a Imola per il giuramento di fedeltà all’imperatore
Ottone IV di Brunswick del vescovo Obizzo. Tre anni dopo, nel 1216,
Bernardo era podestà a Reggio. Nell’agosto di quell’anno i Reggiani, alleati dei
«E chi desse loro quello che acquistare, non sovrasterebbero a lo studio»: DANTE ALIGHIERI,
Convivio, III, XI, § 10.
63 G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, cit.
64 In provincia di Parma, a cinque miglia dal capoluogo; il sito ha conservato il nome antico.
65 Il Libellus è l’istruttoria documentale di quel processo, inviata dal vescovo Obizzo Fieschi al
papa contro il Comune di Parma, il 20 dicembre 1218. Il testo è steso su di un rotolo formato
da 27 fogli di pergamena, cuciti insieme di seguito, che si conserva presso l’Archivio Segreto
Vaticano, Arm. I-XVIII, 3913.
62
23
Felsinei, parteciparono all’assedio di Rimini, finito a settembre con la firma
della pace tra Rimini e Bologna e la liberazione di oltre mille prigionieri. Sotto la
podesteria di Bernardo venne edificata a Reggio la torre del palazzo comunale.
Nel 1218 egli assunse la carica podestarile a Cremona, dove si segnalò, oltre che
per le capacità militari, anche per risolutive virtù diplomatiche, che mise al
servizio dell’imperatore Federico II.
L’impegno politico-amministrativo di Bernardo da Cornazzano proseguì
poi con cadenza annuale: nel 1224 egli era podestà di Pavia; il 10 marzo 1225
era a Brescia iudex o testimone nell’atto di rinuncia di Matteo da Correggio alla
podestaria in quel Comune; nel 1226 tornò a Reggio come podestà.
La medesima carica ricoprì l’anno successivo a Modena, dove alzò nuove
fortificazioni e diede inizio alla guerra contro Bologna per il dominio delle terre
del Frignano, assumendo contestualmente il comando delle milizie. Quella
guerra lascia l’ultima documentazione dell’attività di Bernardo da Cornazzano: il
28 settembre 1229 egli sottoscrisse, in rappresentanza della città di Parma, l’atto
con cui il vescovo di Reggio Niccolò fissava le condizioni per una tregua fra
Modena e Bologna.
Bernardo da Cornazzano e la stirpe dei Terzi
Il podestà Bernardo da Cornazzano è stato identificato da antichi storici
con altri nomi: Gherardo, o Gherardo Trino, Gherardo Terzo, o ancora Gerardo
Terzo Cornazano figlio di Terzo terzogenito di Pietro da Cornazzano.
Questo si legge, non senza avvertire doverose perplessità, nelle
ricostruzioni fatte dal Contile, l’Angeli, il Campo, tutti cronisti che hanno
mutuato queste notizie genealogiche, infarcite talora da intrepide fantasie,
presso Edoari Da Erba.66
L’Affò, di fronte a questa ridondanza anagrafica per uno stesso soggetto,
non aveva mancato, nella Storia della città di Parma, di esprimere il suo disagio:
«Era desiderabile che stati fossero costanti gli Storici loro nel tramandarcene il
nome; giacché il Cronista antico lo dice Gherardo Trino, chiamalo il Campo
Gherardo Terzo da Cornazzano (Storia di Cremona, 1, II, p. 46), e il Cavitello
66
«Fu nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da
costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii de Cornazzani
figliuolo di un nomato Guidone»: L. CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le
particolari de gli academici affidati et con le interpretationi et croniche, Pavia 1574, p. 109. Di lui
scrivono: «Fu chiamato Terzo, e fu condottiero de le genti d’arme di Papa Innocentio 4.°, et
da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre Famiglia di Terzi di Parma». I. AFFÒ,
A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e continuate da
Angelo Pezzana, VI, II, Parma 1827, p. 330. E Angeli: «Fu egli padre di Gerardo Terzo
Cornazano, che secondo il Campo, fu podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese Guido,
che fu Capitano dello ‘mperatore, e da lui Nicolò che condottiere di gente servì Bernabò nella
guerra ch’egli ebbe contra Genovesi. Fu fatto conte di Tizzano, militò sotto Giovan Galeazzo
Duca di Milano»: B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma
1591, p. 462.
24
imbrogliandoci
Terzo
imbrogliandoci ancor
ancor più,
più, lo
lo appella
appella Gherardo
Gherardo Terzo,
Terzo, ovvero
ovvero Bernardo
Bernardo da
da
67
67
Cornazzano
Cornazzano (Annal.
(Annal. Crem.,
Crem.,., cart.
cart. 80)».
80)».
Tuttavia,
disordine trovato
trovato tra
tra le
le
Tuttavia, espressso
espressso ilil dovuto
dovuto rammarico
rammarico per
per ilil disordine
carte,
con lui
lui Pezzana,
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alla fine,
fine, anche
anche Affò,
Affò, ee con
Pezzana, si
si rassegna
rassegna ee conclude:
conclude: «Se
«Se tal
tal fu
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ilil suo
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suo cognome,
cognome, quale
quale ce
ce lo
lo annunzia
annunzia ilil Campo,
Campo, ecco
ecco acquistar
acquistar molta
molta forza
l’opinione
di Angeli, che
pparlare, sia
l’opinione dell’Angeli,
chelalafamiglia
famigliaTerzi
Terzididi cui
cui altrove
altrove accaderà
accaderà di
di parlare,
sia
68
un
un ramo
ramo de’
de’ Cornazzani».
Cornazzani».68
Una
Una conclusione
conclusione alla
alla quale
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bisogna arrendersi
arrendersi perché,
perché, nel
nel ricostruire
ricostruire la
la
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transizione dalla
dalla più
più vetusta
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dei Cornazzano
Cornazzano ai
ai Terzi,
Terzi, sono
sono notevoli
notevoli le
le
lacune
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Ci sono
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lacune ee le
le imperterrite
imperterrite opinioni
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dei cronisti
cronisti che
che fanno
fanno da
da inciampo.
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Con
troppi
meglio, ignorati
ignorati dai
troppi padri
padri ignoti
ignoti o,
o, per
per dir
dir forse
forse meglio,
dai documenti.
documenti. Congetturare
Congetturare
di
di più
più su
su queste
queste genealogie
genealogie dal
dal percorso
percorso «carsico»
“carsico” non
non sisi può.
può.
Agostino
Agostino di
di Duccio,
Duccio, Militi,
Militi,, bassorilievo
bassorilievo (1442).
(1442). Duomo
Duomo di
di Modena,
Modena, fianco
fianco meridionale.
meridionale.
67
67
68
68
I.
117
I. A
AFFÒ
FFÒ,, Storia
Storia della
della città
città di
di Parma,
Parma,, II,
II, cit.,
cit., pp.
pp. 117-118.
117-118.
I.
I. A
AFFÒ
FFÒ,, Storia
Storia della
della città
città di
di Parma,
Parma, III,
III, cit.,
cit., p.
p. 117.
117.
25
25
2.
2.
Terzi di
Parma
podestà ee condottieri
condottieri
II Terzi
di Parma,
Parma, podestà
Il castello
castello di
di Vigoleno,
Vigoleno, eretto
eretto nel
nel sec.
sec. X,
X più
X,
più volte
volte distrutto
ricostruito passando
passando in
in
Il
distrutto ee ricostruito
proprietà dai
dai Cornazzani
Cornazzani agli
agli Scotti,
Scotti, ai
ai Pallavicino
Pallavicino ee ai
ai Farnese.
Farnese. Nel
Nel 1248
1248 apparteneva
apparteneva aa
proprietà
Lanfranco da
da Cornazzano.
Cornazzano.
Lanfranco
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Cornazzani èè cosa
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Terzi un
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ramo de’
de’ Cornazzani
nostri Storici
Storici
«Esseree ii Terzi
fuori
dubbio».
Pezzana, avvalendosi
soprattutto
fuori di
di ogni
ogni dubbio».
Pezzana
avvalendosi soprattutto
». Così
Così concludono
concludono Affò
Affò ee Pezzana,
delle
delle ricerche
ricerche genealogiche
genealogiche curate
curate per
per incarico
incarico dei
dei discendenti,
discendenti, attorno
attorno al
al 1572,
1572,
da Edoari
Edoari Da
Daa Erba.
Erba. Questi,
Questi, prendendo
prendendo le
le mosse
dal conflitto
che, tra
da
mosse dal
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tra ilil 1247
1247 ee ilil
1248
ai suoi
suoi
1248 contrappose
contrappose ii filopapali
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di Parma
Parma all’imperatore
all’imperatore Federico
Federico II
II ee ai
partigiani, «così
«così dà
dà conto
conto del
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come rampollasse
rampollasse ilil Ramo
Ramo de’
de’ Terzi
partigiani,
Terzi dal
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de’ Comazzani»:
Comazzani»:
grand’Albero
assediando
assediando Federico
Federico Imperatore
Imperatore Parma,
Parma, et
et prendendo
prendendo ciascuna
ciascuna fortezza
fortezza del
del
suo
suo territorio,
territorio, solo
solo Lanfranco
Lanfranco di
di Cornazani
Cornazani tra
tra molti
molti citadini
citadini aa favore
favore della
della
patria si
si tenne
tenne co’
co’ Vigoleno
suo Castello,
Castello, et
et Pietro
Pietro di
di Cornazzani
Cornazzani similmente
patria
Vigoleno suo
similmente
valorosissimo
milit de
valorosissimo Cavagliero,
Cavagliero, essendo
essendo in
in questi
questi tempi
tempi capitanio
capitanio della
della militia
militia
de la
la
Città,
Città, et
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con Bernardo
Bernardo et
et Rolando
Rolando di
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menando vettovaglie
vettovaglie da
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Fornovo
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gli estrinseci
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gli fosse
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tornò in
in Parma;
Parma; et
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questo generosissimo
generosissimo
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Capitanio Pietro
Pietro n’uscì
n’uscì con
con felicissimo
felicissimo successo
successo un
un primo
primo figliuolo
figliuolo qual
qual fu
fu
Capitanio
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Primo ee fu
fu Capitanio
Capitanio strenuo
strenuo dopo
dopo ilil padre
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delle genti
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d’arme di
di
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2° Imperatore;
Imperatore; et
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un secondo
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Popolo Capitanio
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honoratissima, et
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69
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f. 34
34
nell’Antichità
26
26
Questa narrazione appare convincente quando scrive di Lanfranco da
Cornazzano, signore del castello di Vigoleno, e di Bernardo con Rolando Rossi,
nomi che nei documenti trovano precisi riscontri. Lascia dubbiosi, invece,
quando descrive con tanta approssimazione l’origine della famiglia dei Tertii de
Cornazzano.
Bonaventura Angeli, per parte sua, ma sempre attingendo a Da Erba,
scrive di: «Pietro che fiorì intorno l’anno 1140. Egli hebbe tre figliuoli, che dal
numero loro volle, che nominati fussero Primo, Secondo, e Terzo questi
ordinò, che la famiglia del suo ramo sì chiamasse dal nome suo e mutando il
nome della gentilità, diversificò l’arma anchora, levando dall’antico i corni».70
Luca Contile, sui tre figli di Pietro, fornisce altri particolari: «Conciosia che
Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figliuolo e chiamollo
Primo che fu capitano invitto di Federigo Imperadore, hebbe anco un’altro
figliuolo e lo fece nominare Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia
nella sua città. El fratello di questo fu nominato Terzo il qual ſu condottiero
delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de
Tertii de Cornazzani». 71
Dalla convergenza di queste notizie emerge un unico indizio utile per
tentare almeno di verificarne l’attendibilità, riguardante il terzogenito di Pietro
Cornazzano, Terzo per l’appunto, che sarebbe stato condottiero di Innocenzo
IV Fieschi, un papa molto legato a Parma,72 salito al soglio pontificio nel giugno
e nell’Articolo di esso Da-Erba, così dà conto del come rampollasse il Ramo de’ Terzi dal
grand’Albero de’ Cornazzani»).
70 B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 463.
71 Prima di Affò e Pezzana, Luca Contile, nel 1574, così si era cimentato nel ricostruire la genesi
della stirpe dei Terzi da quella: «della antica e nobil famiglia de Cornazzani i quali hanno
sempre havuti honorati gradi e stimati fra i primi della lor patria, et a’ servigi degli lmperadori
et altri Prencipi hanno militato con honorevoli condotte e da piedi e da cavallo, con Governi
de’ luoghi, e titoli di Signorie, e per non ragionare de gli antichi, de quali ci sarebbe troppo
che dire, verremo però a questo cognome de Tertii, e da un terzo de Cornazzani, conciosia
che Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figluolo e chiamollo Primo che
fu capitano invitto di Federigo lmperadore, hebbe anco un’altro figliuolo e lo fece nominare
Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia nella sua città. el fratello di questo fu
nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da
costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii de Cornazzani
figliuolo di un nomato Guidone, il quale per la fedele servitù fatta all’Imperio, ſu molto grato
all’Imperador Vinceslao Re de Romani e di Boemia, onde gli fece donatione con uno
amplissimo privilegio d’alcuni castelli, e luoghi nel territorio Piacentino, con titolo di conte,
cioè di Castel nuovo e di Casal Albino e d’altri luoghi. la qual degnità e signoria ſu conceduta
al detto Nicolo nel 1377. co ‘l dominio libero & assoluto, e Sua Ces. Ma. ordinò e comandò
che Giovan Galeazzo Visconte Duca di Milano e suo Vicario Imperiale di Piacenza,
approvasse la detta donatione, e la mantenesse, e conservasse nel possesso di quella non
solamente Nicolo e suoi ſigliuoli, mà ancora il cavalier Giberto Fratello di detto Nicolo». L.
CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese, cit., p. 109.
72 Era stato canonico della cattedrale, e a Parma aveva maritato tre sorelle e una nipote
imparentandosi con i Rossi, i Sanvitale, i Tavernieri. Scrive Affò «perché innalzato poscia lo
stesso Sinibaldo al Sommo Pontificato col nome d’Innocenzo IV pregi sommi e vantaggi ne
27
1243 per trovarsi subito allo scontro e in guerra asperrima con Federico II. Un
conflitto che esasperò l’ostilità dell’imperatore e del figlio Enzo verso Parma e
che portò al lungo assedio del 1247-1248 inflitto alla città. Tutti eventi che si
verificarono oltre un secolo dopo quel 1140 in cui «fiorì» Pietro.
Ora, anche superando l’intralcio dell’anno 1140, probabilmente un lapsus
calami (si dovrebbe leggere 1240, così da rendere verosimile l’età conseguente
dei singoli protagonisti), rimane a intrigare la collocazione dei personaggi sugli
opposti fronti di quella guerra locale fra fazioni parmigiane, ma altresì teatro
dell’estremo tentativo di Federico II d’imporre la sua egemonia unificante
sull’Italia settentrionale. Se, stando ad Angeli e agli altri storici che cavano quelle
notizie dall’imprescindibile ma talora inaccurato Da Erba, mentre il
primogenito di Piero, Primo, combatteva dalla parte dell’imperatore («Primo
che fu capitano invitto di Federigo Imperadore»), contemporaneamente il
terzogenito, ovvero Terzo, lo affrontava guerreggiando per il papa («Terzo il
qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto»). Una guerra
di fratelli contro fratelli che porta alla constatazione di quanto anche i da
Cornazzano, al pari di altre casate padane, fossero stati trascinati, in quelle
congiunture storiche, nei conflitti intrafamiliari: bipartite fra i filopapali,
fuoriusciti verso Piacenza al seguito di Bernardo o Bernardino, e i fedeli alla pars
domini imperatoris, rimasti a Parma guidati dal fredericiano Manfredo. Questi era
la mano armata del cognato Bartolo Tavernieri che, pur imparentato col
regnante pontefice, capeggiava il partito filoimperiale al governo della città.
Preso atto che gli interrogativi suggeriti dal racconto di Da Erba, se letto
in relazione a quella temperie, rimangono senza risposta, è necessario
riprendere il filo della ricerca per approdare al punto in cui le carte cessano di
essere mute. Per quanto concerne la genesi e la genealogia dei Terzi è da dire
che l’unico elemento non ambiguo e asseverato si trova nel fatto che in un
preciso momento della storia essi compaiono, dotati di personalità fisica e
giuridica, in un documento, portando quel cognomen. Evento che si registra il 7
dicembre 1329 allorquando da Norimberga, con suo diploma munito del sigillo
imperiale, Ludovico IV il Bavaro concede benefici ed esenzioni a Guido I e ai
suoi figli Filippo e Guido II, della famiglia Terzi, cittadini di Parma: 73
Nobilibus viris Guidoni, & Filippono fratribus de Tertiis
Civibus Civitatis Parme & Imperii fidelibus dilecti 74
avvennero a’ suoi nipoti, che vedremo essere stati da lui favoriti moltissimo, e a dignità grandi
innalzati». Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., p. 89.
73 Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, Parma 1795, pp. 370.
74 Il documento è stato trascritto ivi, pp. 370-371. La patente imperiale concessa alla famiglia dei
Tertiis poneva in essere un tipico istituto feudale del XIV finalizzato al ripristino della signoria
di banno. Questa si concretava in un rapporto giuridico ove il vassallo accettava, con gli onori
e i privilegi della piena giurisdizione, ogni onere conseguente e gravante sul governo e la
gestione delle terre sottoposte al suo dominio. La diffusione della signoria di banno favorì il
proliferare di nuovi centri di potere analoghi a quello sorti nel Parmigiano, nell’Italia
settentrionale e centrale.
28
Terzi acquisirono
II Terzi
acquisirono con
con ciò
ciò piena
piena dignità
dignità ee poteri
poteri signorili,
signorili, entrando
entrando nella
nella
storia quali
de Tertiis,
storia
quali de
Tertiis, come
come esplicitamente
esplicitamente lili chiama
chiama ilil diploma.
diploma. In
In virtù
virtù di
di
questo decreto
decreto imperiale,
imperiale, ii Terzi
Terzi poterono
poterono confermare
confermare ee istituzionalizzare
istituzionalizzare ilil loro
loro
questo
75
Torricella,
insediamento nel
nel contado
contado parmense
parmense alla
insediamento
alla foce
foce del
del Taro,
Taro, fra
fra Sissa
Sissa75 ee Torricella,
che
doveva
presumibilmente
passando
dal
rapporto
di
possesso
patrimoniale,
passando dal rapporto di possesso patrimoniale, che doveva presumibilmente
rapporto di
di
già essere
essere stato
stato in
di fatto
fatto dalla
dalla famiglia,
famiglia, aa un
un rapporto
già
in precedenza
precedenza goduto
goduto di
76
dipendenza
vassallatica.
76
dipendenza vassallatica.
Maturata la
la propria
Maturata
propria autonomia
autonomia giuridica
giuridica ee patrimoniale
patrimoniale rispetto
rispetto al
al ramo
ramo
originario
e
alle
proprietà
dei
da
Cornazzano,
grazie
anche
al
riconoscimento
originario e alle proprietà dei da Cornazzano, grazie anche al riconoscimento
imperiale giunto
giunto con
con ilil diploma
diploma di
di Ludovico
Ludovico ilil Bavaro,
Bavaro, la
la famiglia
famiglia dei
dei Terzi
Terzi si
si
imperiale
dedicherà aa nuovi
nuovi acquisti,
dedicherà
acquisti, in
in una
una successione
successione di
di vicende
vicende segnate
segnate da
da alternanza
alternanza
di successi
successi ee brucianti,
brucianti, sanguinose
sanguinose sconfitte,
di
sconfitte, militari
militari ee politiche.
politiche. II Terzi
Terzi
dispiegarono
ogni
strategia
per
consolidare
e
ampliare
il
dominio
della
dispiegarono ogni strategia per consolidare e ampliare il dominio signorile
signorile della
famiglia,
dilatando
i
loro
domini
famiglia, dilatando i loro domini
terrieri dal
dal Parmense
Parmense al
al Reggiano
Reggiano fino
terrieri
fino
al
Piacentino.
Essi
legarono
al Piacentino. Essi legarono ii loro
loro
destiniaaquello
quellodei
deisignori
signorididiMilano,
Milano,i
destini
iVisconti,
Visconti,
ai
quali
seppero
offrire,
ai quali seppero offrire,
con
con
qualche
effimera
eclisse,
al
qualche effimera eclisse, sino sino
al loro
loro tramonto,
validi servizi
nellee
tramonto,
validi servizi
nelle armi
armi magistrature.
e nelle magistrature.
nelle
Di questi
questi rapporti
rapporti sisi trova
trova una
una
Di
prima
traccia
già
l’8
luglio
1362,
prima traccia già l’8 luglio 1362,
quando un
un Ghirardino
Ghirardino (o
(o Gherardo)
Gherardo)
quando
)
,
presentò
istanza
a
Terzi
Bernabò
Terzi), presentò istanza a Bernabò
Visconti per
per poter
poter riedificare
riedificare la
la rocca
rocca
Visconti
di
Torricella,
posta
a
guardia
del
di Torricella, posta a guardia del porto
porto
Po, feudo
legato
quello di
sul
Po,sul feudo
legato
a aquello
di
Due anni
anni dopo,
dopo, nel
nel 1364,
1364, ii
Sissa.7777 Due
Sissa.
fratelli Niccolò
Niccolò ilil Vecchio
Vecchio ee Giberto,
Giberto,
fratelli
figli
di
Guido
I,
prestarono
figli di Guido I, prestarono
giuramento di
di fedeltà
fedeltà ancora
ancora aa
giuramento
Bernabò
per
i
castelli
di
Belvedere
Bernabò per i castelli di Belvedere ee
Barnabò
Barnabò Visconti
Visconti (1323-1385).
(1323-1385). Incisione
Incisione in
in P.
P.
78
Tizzano.78
Giovio,
Le
vite
de
i
dodeci
visconti,
Milano
1645.
Giovio, Le vite de i dodeci visconti, Milano 1645.
Tizzano.
Il sito
di Sissa
Il
sito corrisponde
corrisponde all’attuale
all’attuale comune
comune di
Sissa Trecasali,
Trecasali, in
in provincia
provincia di
di Parma,
Parma, otto
otto miglia
miglia aa
Nord del
porto fluviale
Nord
del capoluogo.
capoluogo. L’antico
L’antico porto
fluviale di
di Torricella
Torricella sul
sul Po
Po èè una
una sua
sua frazione.
frazione.
76 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato: Ottobuono Terzi, conte di Reggio e signore
76 Cfr.
A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato: Ottobuono Terzi, conte di Reggio e signore
di Parma
Parma ee Piacenza,
in G.
G. B
BADINI
ADINI,, A.
A. G
GAMBERINI
AMBERINI (a
(a cura
cura di),
di), Medioevo
Medioevo reggiano:
reggiano: studi
studi in
in memoria
memoria di
di
di
Piacenza, in
Odoardo Rombaldi,
Milano 2007,
Odoardo
Rombaldi, Milano
2007, p.
p. 286.
286.
77 «Gherardo abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli
77 «Gherardo
abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli
concedesse una
concedesse
una torre
torre in
in gran
gran parte
parte caduta
caduta in
in rovina,
rovina, ee disabitata
disabitata che
che ivi
ivi sorgeva
sorgeva in
in riva
riva al
al Po»:
Po»:
A.
P
EZZANA
,
Storia
della
città
di
Parma,
I,
Parma
1837,
p.
105,
n.
126.
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105, n. 126.
78 Cfr. G. CHITTOLINI, Infeudazioni e politica feudale nel ducato visconteo-sforzesco (1972), nella raccolta di
78 Cfr.
G. CHITTOLINI, Infeudazioni e politica feudale nel ducato visconteo-sforzesco (1972), nella raccolta di
studi dello
La formazione
formazione dello
studi
dello stesso
stesso autore
autore La
dello Stato
Stato regionale
regionale ee lele istituzioni
istituzioni del
del contado:
contado: secoli
secoli XIV
XIV ee
XV (1979),
(1979), Milano
Milano 2005,
XV
2005, p.
p. 63.
63.
75
75
29
29
I Terzi erano al suo stipendio allorché questi, attizzando la guerra con gli
Estensi, signori di Ferrara e Modena, ne occupò le terre recando un grave
vulnus ai diritti e alle proprietà della Chiesa suscitando perciò le ire di papa
Gregorio XI.
La Lega Pontificia che si formò allora portò, nel 1373, sotto l’impeto
delle armi di Galeotto I Malatesta, capitano generale della Chiesa, negli scontri
consumati a Montichiari, presso Brescia, alla sconfitta dei milanesi. Tra i
prigionieri che contarono le truppe viscontee si trovò anche un Guido Terzi,
parmigiano.79 Bernabò, e in seguito Gian Galeazzo, premiarono la fedeltà della
sua famiglia con l’assegnazione di capitanati nelle città padane, e tra queste
Bergamo, Brescia, Reggio, Verona. Le ambizioni dei Terzi saranno affidate
tuttavia soprattutto alle virtù militari dei loro maggiori esponenti, capitani e
condottieri scesi in armi agli stipendi della Contea e poi del Ducato di Milano,
finché questo fu dominio dei Visconti.
Il biennio 1386-1387 segnò sul piano politico una tappa oltremodo
significativa per i Terzi, che i documenti consegnano alla storia tra i lignaggi
protagonisti della feudalità padana.
Il 15 agosto 1386, con una solenne cerimonia celebrata nella cattedrale di
Pavia, Niccolò Terzi il Vecchio fu investito dell’ordine equestre per mano di
Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù. Oltre agli onori furono confermati ai
Terzi in quel tempo i loro diritti sulle terre di Castelnuovo80 e Casale Albino nel
Piacentino, loro donate verso il 1377 da Gherardo Visconti ma rivendicate da
Niccolò Visconti. Gian Galeazzo investi di quei castelli non solo Niccolò, ma i
suoi eredi diretti, ovvero, in mancanza di questi, i figli di quondam Giberto suo
fratello».
Le investiture feudali vennero sancite l’anno seguente dall’imperatore
Venceslao mediante il diploma, intestato a Nicholao filio quondam nobilis Guidonis
capitanei de Terciis de Cornazzano, sigillato il 19 agosto 1387 a Norimberga,
verosimilmente su proposta di Gian Galeazzo, vicario imperiale.
Le giurisdizioni dei Terzi nel Parmense, a Stornello, Alzano, Casola,
Carobbio, Reno, Beduzzo, Bellone, Montebello, Nirone, con Tizzano e Sissa,
furono erette in Contea; nel Piacentino si concesse l’investitura dei feudi di
Castelnuovo, di Casale Albino, della pieve di S. Pietro del Campo Cervaro, dello
Stirone con le ghiaie e condotti di questo; nel Reggiano furono attribuiti i centri
minori di Gombio, Gottano e Cola. L’investitura imperiale comprendeva il
diritto di trasmettere il titolo comitale a ciascuno dei figli e ai loro eredi.
Nell’incipit del diploma si fa l’encomio della lealtà degli avi dei Terzi e del
loro servizio prestato al Sacro Romano Impero:
Capitanei et Gubernatores partis Imperii et potentes in Civitate Parmensi
ipsiusque Dioecesi et partibus illis, pro defensione jurium Sacri Rom. Imperii
«Tra i prigionieri fatti in sul Bresciano nel mese di maggio non solo fu Bertrando Rossi, ma
anche Guido Terzi»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 104.
80 Oggi Castelnuovo Fogliani, in provincia di Piacenza.
79
30
maxime tempore D. Praedecessoris nostri q. Federici Imperatoris,
Hierusalem ac Siciliae Regis, non metuerunt sese periculis mortis exponere,
et in bonis et rebus eorum maxima damna et in quam pluribus castris ruinas
81
inexorabiles sustulerunt, nec tamen unquam a recto tramite deviavere.81
Il documento del 1387 esplicita, come il precedente di Ludovico il
Bavaro del 1329, il forte legame con l’Impero
l'Impero della nuova famiglia dei Terzi
radicata nella storia dei Cornazzano, il cui cognomen
cognomen più antico tornerà ancora per
accompagnare quello della nuova schiatta: Terciis,
Terciis, o Tertiis
Tertiis de
de Cornazzano.
Cornazzano.
L’inscriptio del diploma di Venceslao è esattamente intestata al nobile Nicholao
Nicholao
filio
filio quondam
quondam nobilis
nobilis Guidonis
Guidonis capitanei
capitanei de
de Terciis
Terciis de
de Cornazzano.
Cornazzano. Più oltre, nel testo, i
tre figli di Nicholao
de Terciis
Terciis de
Nicholao sono individuati quali eredi del nobile de
de Cornazzano.
Cornazzano.
Quindici anni più tardi, sempre marcando questa continuità di stirpe, a
prescindere dal cambio di cognome, Gian Galeazzo Visconti investirà con
patente del 29 luglio 1402 i fratelli Terzi, quali Comites
Comites Tizzani,
Tizzani, &
& Castrinovi
Castrinovi
Tertiorum,
Tertiorum, dei feudi già posseduti da Giberto da Correggio, e questi saranno
ricordati esattamente come figli ed eredi dello «spectabilis Miles Dominus
82
Nicolaus de Tertiis de Cornazzano de Parma».82
I Terzi si erano affermati nella
seconda metà del secolo XIII
esercitando le funzioni di podestà
nell’ambito delle istituzioni comunali
e impegnandosi sul campo come
capitani nelle condotte militari. Essi
riverberarono il prestigio individuale
acquisito sulla propria famiglia che,
munita di autonoma personalità
feudale, titolare di una nobiltà
ereditaria consacrata da diplomi
imperiali, dotata di beni immobiliari e
di estese proprietà fondiarie, sparse a
macchia di leopardo da Parma fino a
Reggio, Piacenza e Cremona, divenne
influente al punto da potersi
confrontare, agli inizi del secolo
successivo, con le altre casate
magnatizie e signorili sino ad allora
predominanti.
È da notare che proprio in
Gian
Galeazzo
Visconti
(1351-1402).
Incisione
in
Gian Galeazzo Visconti (1351-1402). Incisione in
P. Giovio,
Giovio, Le
Le vite
vite de
de ii dodeci
dodeci visconti,
visconti, Milano
Milano 1645.
1645.
P.
quanto proprietari di considerevoli
«Questo diploma è in data di Norimberga, 1387, e sta in copia semplice nell’Archivio dello
Stato»: A. PEZZANA
EZZANA, Storia
Storia della
della città
città di
di Parma,
Parma, I, cit., p. 171.
82
82 Il diploma è integralmente trascritto da I. AFFÒ
FFÒ, Istoria della città, e ducato di Guastalla, I, Guastalla
1785, pp. 379-387.
81
81
31
beni terrieri e urbani che dalle rive del Parma si addentravano entro i confini di
altri comuni padani, i Terzi, oltre che della cittadinanza parmigiana, erano
titolari di quella cremonese.
Inoltre, nell’ultimo decennio del secolo XIV, grazie alla deroga agli
statuti comunali loro concessa da Gian Galeazzo, goderono anche della
cittadinanza reggiana.83
La forza del casato si espresse sempre più ora nell’impegno sul campo
dei suoi esponenti quali milites, capitani d’armi e condottieri, al servizio dei
signori di Milano, i Visconti, mai trascurando tuttavia le proprie convenienze e
interessi. Fra questi condottieri si distinsero, oltre a Niccolo il Vecchio, i di lui
figli Ottobono, Giacomo e Giovanni, fino al nipote Niccolò il Guerriero.
83
Cfr. A. GAMBERINI, La forza della comunità. Leggi e decreti a Reggio in età viscontea, in R. DONDARINI,
G.M. VARANINI, M. VENTICELLI (a cura di), Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo: VII
Convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative, Ferrara, 5-7 ottobre 2000,
Bologna 2003, ora in IDEM, Lo Stato visconteo: linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano
2005, pp. 137-152, in particolare p. 150.
32
3.
3.
Niccolò
il Vecchio
Vecchio
Niccolò Terzi,
Terzi, il
L’anno
L’anno 1386,
1386, aa Pavia,
Pavia, nell’antica
nell’antica basilica
basilica di
di San
San Michele
Michele Maggiore
Maggiore ove
ove
erano
d’Italia,
erano stati
stati incoronati
incoronati ii primi
primi re
re d’Italia
d’Italia, da
da Berengario
Berengario II al
al Barbarossa,
Barbarossa, Gian
Gian
Galeazzo
Galeazzo Visconti,
Visconti,, vicario
vicario imperiale,
imperiale, creò
creò cavaliere
cavaliere ilil nobile
nobile parmigiano
parmigiano
Niccolò
Giberto
Niccolò dei
dei Terzi,
Terzi, figlio
figlio di
di Guido
Guido oo Guidone,
Guidone, fratello
fratello di
di Giberto.
Giberto.
d’agosto, ed
la festività
festività dell’Ascensione,
dell’Ascensione, fu
fatto ee creato
creato
Il
15 d’agosto,
Il mercoldì
mercoldì 15
ed era
era la
fu fatto
Cavaliere
nella Chiesa
Chiesa maggiore
maggiore di
di Pavia,
Pavia, in
in fronte
fronte all’altare,
all’altare, l’eccellente
Cavaliere nella
l’eccellente
dominus
Tertiis de
de Parma,
Parma, dall’illustre
d. d.
d.
dominus Nicolao
Nicolao de
de Tertiis
dall’illustre Principe
Principe ee magnifico
magnifico d.
la spada
spada al
al fianco.
fianco. Gli
Gli fece
fece
Conte
nostro che
che cingendogli
c
cingendogli
Conte di
di Virtù
Virtù signor
signor nostro
la
quindi
lo speron
speron destro
destro dall’illustre
dall’illustre Antonio
Porro
quindi calzare
calzare lo
Antonio Porro,
Porro, ee ilil sinistro
sinistro da
da
Ottolino
mezza pezza
pezza di
di stoffa
stoffa
Ottolino da
da Mandello.
Mandello.. Furono
Furono donati
donati al
al cavaliere
cavaliere mezza
scarlatta,
di drappo
drappo dorato,
dorato, una
una pezza
pezza di
di velluto
velluto di
di grana,
grana, alquante
alquante
scarlatta, una
una di
pellicce
una spada
spada con
con fodero
fodero di
di velluto
velluto rosso
rosso guarnito
guarnito d’argento
d’argento
pellicce di
di vajo,
vajo, una
dorato,
di candida
candida cera,
cera, quattro
quattro scrigni
confetti, un
un bacile,
bacile, una
una
dorato, sei
sei torchi
torchi di
scrigni di
di confetti,
84
brocca
coppe tutte
tutte d’argento
d’argento
rgento dorato.
brocca ee due
due coppe
dorato.84
84
84
«13.
xv augusti,
augusti, et
et erat
erat festum
festum Ascenssionis
Ascenssionis Virginis
Virginis Marie,
Marie, factus
factus et
et creatus
creatus fuit
fuit
«13. Die
Die mercurii
mercurii xv
milles
vir dominus
dominus [...]
[...] in
in civitate
civitate Papie
Papie in
in ecclesia
ecclesia maiori
maiori domicilii
domicilii dicte
dicte civitatis
civitatis
milles egregius
egregius vir
Papie
principem ac
ac magnificum
magnificum d.
d. d.
d. Comitem
Comitem Virtutum
Virtutum dominum
dominum nostrum
nostrum
Papiee per
per illustrem
illustrem principem
ante
ecclesie, et
et cinxit
cinxit sibi
sibi spatam
spatam et
et fecit
fecit sibi
sibi calciari
calciari calcaria,
calcaria, videlicet:
ante altare
altare maioris
maioris diete
diete ecclesie,
videlicet:
de
dextrum
egregium militem
militem d.
d. Antonium
Antonium Porrum,
Porrum, et
et sinistrum
sinistrum per
per d.
d. Ottolinum
Ottoli
Ottolinum de
dextrum per
per egregium
Mandello
Et item
item fecit
fecit sibi
sibi largiri
largiri ipsi
ipsi [...]
[...] infrascripta,
infrascripta, videlicet:
videlicet: petiam
petiam mediam
mediam
Mandello militem.
militem. 14.
14. Et
panni
unam drappi
drappi dorati,
dorati, petiam
petiam unam
unam veluti
veluti de
panni scarlate,
scarlate, petiam
petiam unam
de grana,
grana, pancias
pancias md
md pelarum
pelarum
33
33
L’investitura a cavaliere, momento di gloria per il cinquantenne Niccolò,
premiava la lealtà e il valore di una lunga e strenua militanza. La sua biografia,
per quel che dicono e fanno intuire le carte, è marcata dal vincolo stretto che
legò nel tempo, fin dalla gioventù, il capitano d’armi, il podestà rettore di
comuni padani e il feudatario, alle vicende della casata dei Visconti. In quel
giorno dell’Ascensione, sotto le volte della cattedrale di Pavia, la riconoscenza
icasticamente si manifestò per mano di Gian Galeazzo mediante l’addobbamento:
il rituale maestoso con il conte di Virtù che cinse la spada, arma simbolo della
cavalleria, al fianco del suo condottiero Niccolò Terzi, per la storia Nicolao de
Tertiis de Parma.
La gratitudine viscontea non si esaurì tuttavia nei fasti formali di quella
liturgia cavalleresca. Annota Pezzana nella sua Storia della città di Parma: «Non si
limitarono i favori di Giangaleazzo verso Niccolò a tale onorificenza, ed a sì
ricchi donativi. Intorno a questi tempi, riconosciute giuste le ragioni del Terzi
sopra le castella ed i luoghi di Castelnovo e Casale Albino, de’ quali aveagli fatto
donazione verso il 1377 il Piacentino Gherardo Visconti,85 e cui con lungo
litigio aveagli contrastati indarno Niccolò Visconti, il Signor nostro investi di
quelle terre lui non solo, ma i suoi figli, e in difetto di questi i figli di quondam
Giberto suo fratello».86 Un anno dopo, il 19 agosto 1387, l’imperatore
Venceslao di Boemia, con diploma steso a Norimberga, confermò ai Terzi,
accordando loro ogni immunità e franchigia, le investiture nel Parmense
concesse dal Visconti, aggiungendone altre nella Diocesi di Piacenza, ordinando
che queste fossero separate dalla città: «Oltre l’investitura de’ predetti luoghi
Venceslao concesse in feudo a Niccolò nello stesso Diploma tutta la pieve di S.
Pietro del Campo Cervaro nella Diocesi Piacentina, lo Stirone colle ghiaje e coi
condotti di questo e le terre di Tizzano87, di Stornello, di Alzano, di Casola, di
vayri, spatam unam cum fodro veluti rubei et fulcita de argento dorato, torticia vi, scatollas
IIII confectionis, unum bacille, unum broncinum seu bocalle et coppas duas, que omnia
erant argenti dorata. 15. Idem fecit domino Nicolao de Tertiis de Parma suprascripto die»:
Chronicon bergomense guelpho-ghibellinum ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCCVII, a cura di
C. Capasso, in Rerum italicarum scriptores: raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento,
ordinata da L. A. Muratori, XVI, II, Bologna 1928, p. 28, nn. 13-15.
85 Verso il 1377, Niccolò aveva acquistato dal piacentino Gherardo Visconti le terre di Casale
Albino e Belmonte, dove, due anni dopo, egli ricostruì la grande torre che tutt’oggi si erge
ben salda, mutandone il nome in Castelnuovo e conosciuto in seguito come Castelnuovo de’
Terzi (è l’odierno Castelnuovo Fogliani). Concorda anche Poggiali: «Un altro Niccolò Terzo
da Parma (nato di Guido de Tertiis de Cornazano, padre del soprammentovato Ottobono, ed
Avo di questo Niccolò Guerriero, e, secondo il citato Angeli, ammesso alla Piacentina
Cittadinanza nel dì 3 di Dicembre dell’Anno 1374) acquistato avea il sopraddetto Luogo di
Castelnuovo, la Terra di Casale Albino, ed altre Ville e Castella del distretto di Piacenza da
Gherardo Visconte Piacentino verso l’Anno 1377»: C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza,
VII, Piacenza 1759, p. 309.
86 «Tale investitura gli fu confermata poi dall’Imperatore Venceslao [...] accordandogli ogni
immunità e franchigia, e approvando che fossero que’ luoghi separati dalla Città di Piacenza.
Volle cosi Venceslao rimeritare i servigi prestati dal Terzi e da’ suoi avi al S. Romano
Impero»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 171.
87 Tizzano Val Parma, a Sud Est del capoluogo.
34
Carobbio, di Reno, di Berluzzo, di Ballone, di Montebello e di Nirone, delle
quali il dichiarò Conte».
Niccolò fu investito di quelle terre per sé ed eredi, «pro e, & liberis suis,
& ipsis deficientibus, pro filiis quondam Giberti Militis, fratris sui», «con mero e
misto imperio, podestà di coltello,88 separazion di distretto, e più altri
specialissimi onori, e privilegi».89
Sulla scena della cattedrale di Pavia, il rito cavalleresco fu celebrato da
Gian Galeazzo Visconti quale nuovo signore di Milano, succeduto allo zio
Bernabò, spodestato l’anno precedente. Il condottiero Niccolò Terzi era
rimasto agli stipendi di Bernabò per oltre quattro lustri, passando a quelli del
conte di Virtù solo pochi mesi prima che costui, tolto di mezzo lo zio, si
impadronisse di Milano.
«Dice il Da Erba che Niccolò Terzi, Conte di Tizzano, era stato capitano
de’ cavalli leggieri di Bernabò, che di lui faceva gran capitale, contro i Genovesi,
e poi fu condottiere d’uomini d’arme e d’altre soldatesche contro i Fiorentini
per Giangaleazzo».90 Nel 1364 Niccolò aveva prestato assieme al fratello
Giberto giuramento di fedeltà a Bernabò, vedendosi quindi confermate le
investiture e il titolo comitale per i castelli di Belvedere e Tizzano.
Cinque anni più tardi, nel 1369, comandato da Bernabò, egli era capitano
del popolo a Bergamo,91 nel 1372 a Brescia e, dal 1375, a Reggio.92
Nell’aprile 1380, allorché i Visconti formarono una lega con Venezia
contro i Genovesi, intromettendosi nel perpetuo conflitto che opponeva le due
repubbliche marinare, Bernabò inviò Niccolò Terzi suo capitano verso la
Liguria alla testa di mille lance.93 Altre 400 ne aggiunse Gian Galeazzo il giorno
La podestà di coltello, con il mero e misto imperio, conferiva il diritto d’infliggere, mediante giudice di
legge, anche le massime pene della mutilazione corporale e della morte.
89 C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 309.
90 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 201.
91 Cfr. P. MAINONI, A. SALA (a cura di), I registri litterarum di Bergamo (1363-1410): il carteggio dei
signori di Bergamo, Milano 2003, indice.
92 Così Pezzana: «Nel seguente mese un Messer Orlando da Parma sedea Podestà in Siena,
mentre il nostro Niccolò Terzi, padrone di Castelnovo de’ Visconti, ora Castelnovo Fogliani
nel Piacentino, era Capitano del Popolo in Reggio»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I,
cit., p. 112.
93 «E del mese d’Aprile con mezo dì Bernabò, Giovan Galeazzo entrò nella lega con lui, &
Veneziani contra Genovesi, e sopra del suo ambedue i Visconti mandarono le sue genti.
Capitano di Bernabò fu fatto Nicolao Terzo, e per il Conte di Virtù Ottolino Mandello,
huomo di grand’animo, e di somma prudenza nell’arte della guerra, quantunque il profitto di
tal impresa non succedesse secondo il pensar di molti; ma la cagione in gran parte si attribui à
Bernabò, il quale prolungando egli quella guerra pareva guadagnare: perciò che di continuo a’
sudditi richiedeva genti, o denari». Così B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 604. Pietro
Cornaro, ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la corte viscontea, in una lettera
inviata il 3 aprile 1380 al doge Andrea Contarini aveva riferito circa le forze messe in campo
dai Visconti contro Genova: «Dicitur quod dicte gentes erant lanze .IIIJ.c vel circa, ungari .C.
et pedites quantitas quorum adhuc ignorant, sed bene scio quod non erant in quantitate
debita; ut aliqui dicunt erunt forte .VJ. vel circa». E subito di seguito Cornaro informa il doge
con ammirazione circa il coraggio, esperienza, sapienza e virtù e militari (non scordando
88
35
26, inviandole da Pavia sotto il comando di Ottolino da Mandello con l’ordine
di calare su Genova.
Ai primi di maggio Niccolò aveva dato inizio all’invasione del territorio
genovese, ma a metà del mese dovette sospenderla. Mandello indugiava passivo
a Tortona, lamentando l’inadeguatezza delle sue forze. Terzi fu d’accordo con
lui nel chiedere rinforzi.94 Solo nelle settimane fra il luglio e settembre i due
capitani viscontei ripresero l’iniziativa, premiata ai primi di ottobre con la
conquista di Novi. La soddisfazione dei Visconti per gli obiettivi conseguiti dai
loro capitani si manifestò pochi mesi più tardi solo nei confronti di Ottolino da
Mandello, il fedelissimo di Gian Galeazzo. Questi, il 19 agosto 1382, diede
ordine di cassare due ingenti debiti del suo condottiero e l’anno seguente lo
investì del feudo di Caorso.
Alquanto diverso fu il trattamento riservato a Niccolò Terzi, che
«capitanava le genti di Bernabò». Reduce vittorioso dalla guerra di Liguria, nel
novembre 1382 si scoprì incolpato,95 peraltro in buona compagnia, di avere
fornito ricetto ad assassini, grassatori, banditi da Piacenza, e pertanto sotto
minaccia delle sanzioni comminate dai decreti emessi da Gian Galeazzo:
Approvò Gian Galeazzo Visconte nel Novembre di quest’Anno alquanti
provvedimenti, e decreti […] con minacciar pene gravissime a’ Marchesi di
Pellegrino, a Niccolò de’ Terzi, al Conte Ubertino Landi, a Bernabò di lui
figliuolo, e a qualunque altra persona favorisse, o ricettasse di lì innanzi que’
nemici, e perturbatori della pubblica quiete.96
Superato o scordato che fosse questo infortunio giudiziario, meno di tre
anni dopo, agli inizi del 1385, Niccolò passò al servizio di Gian Galeazzo,
raggiungendo l’altro valoroso condottiero parmigiano, Jacopo Dal Verme, che
quelle opportunamente politiche!) che davano lustro al nobile parmense Niccolò il Vecchio:
«Capitaneus dictarum gentium est quidam nobilis vir nomine Nicolaus Tercius de Parma,
quem fama valde commendat et predicat eum animosum, expertum et doctum in armis, ac
etiam singularem amatorem dominationis vestre cui notanter optat servire et insigniter
conplacere». Un giudizio superlativo, che propiziò senz’altro rapporti sempre più fecondi di
Niccolò (e quindi dei figli Giacomo, Giovanni e Ottobono, nonché del nipote Niccolò il
Guerriero) con la Serenissima, culminati con la loro aggregazione al patriziato veneto,
(iscrizione nel Libro d’Oro e ingresso nel Maggior Consiglio). Cfr. Dispacci di Pietro Cornaro
ambasciatore a Milano durante la guerra di Chioggia, a cura di V. Lazzarini, Venezia 1939, p. 32.
94 Le truppe d’invasione furono in qualche modo rafforzate aggregando carcerati liberati a Parma
alla tassativa condizione di «prestar servizio» nel Genovese. Ce ne informa Cherbi: «Nicolò
Terzi Parmense, Capitano di Lancia, di ordine di Bernabò faceva cavalcata sul territorio
Genovese. Tutti li banditi, previo servigio di due mesi, tornavano in grazia del Principe. Il
servizio però dovea essere prestato sul territorio Genovese»: F. CHERBI, Le grandi epoche sacre
diplomatiche, II, Parma 1837, p. 191.
95 «Dal 1. di gennajo del 1382 [...] fu Podestà il Milite Luterio Rusca, [...] per cui vien tolto a’
ribaldi l’appoggio e l’asilo ch’aveano presso i Marchesi di Pellegrino, Niccolò Terzi, i Conti
Ubertino e Bernabò Landi, padre e figlio, ed altri che li ricettavano.»: G. V. BOSELLI, Delle
storie Piacentine, II, Piacenza 1804, p. 61.
96 «Stampate leggonsi cotali saggie, ed opportune ordinazioni nel Volume degli antichi Statuti
della nostra Città»: C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 8.
36
dal 1379 stava a Pavia, consigliere comitale che non si peritava di nascondere la
sua ostilità verso Bernabò. Questo trasferimento del Terzi agli ordini di Gian
Galeazzo si rivelò assai tempestivo e fortunato alla luce degli eventi drammatici
che si consumarono poche settimane dopo: esso portò Niccolò Terzi sotto la
protezione del conte di Virtù prima del giorno fatale in cui questi, con algida,
accorta perfidia, seppe togliere a Bernabò la signoria di Milano.
Gian Galeazzo, governando a Pavia e dissimulando i propri reali talenti e
intenti, era sempre riuscito a fuorviare il giudizio sulla sua personalità,
persuadendo Bernabò di possedere un carattere fiacco e pusillanime, mediocre
intelligenza e scarsa ambizione politica. Il 6 maggio 1385, fingendo di viaggiare
come devoto pellegrino verso il Sacro Monte sopra Varese, fece tappa alle porte
di Milano, fuori Sant’Ambrogio, dove chiese di potere rendere omaggio e
abbracciare lo zio e suocero. Si scusò Gian Galeazzo se non entrava fin dentro
la città, e lo attese con il suo corteggio alla postierla. Bernabò, solitamente
guardingo, interpretò indulgentemente questo desiderio, trovandolo ispirato da
schietti sentimenti familiari, e il luogo periferico, scelto per l’incontro suggerito
dalla preoccupazione di evitare i fastidi o le insidie che lo potevano attendere
oltre le mura. Anche il numero spropositato di armigeri che facevano da scorta
al nipote, ben cinquecento lance, lo commisurò alla nota pavidità di questi,
all’esigenza di sentirsi protetto dalla sua guardia «senza la quale in nessun luogo
andava», come osservò il Corio. E dunque Bernabò andò incontro al nipote,
nonostante gli avvisi contrari dei suoi consiglieri, accompagnato soltanto dai
figli ed eredi: finì catturato assieme a loro, subito spodestato quale signore di
Milano, imprigionato, e infine spento. Gian Galeazzo in quella spietata
circostanza strappò ogni velo sotto cui aveva saputo mascherare la sua autentica
personalità.97 La caduta dell’odiato Bernabò fu accolta con lieto favore, se non
con entusiasmo, in tutte le terre viscontee che, in brevissimo volger di giorni,
una dopo l’altra, si sottomisero al dominio del conte di Virtù.
Così fu anche per Parma, soggetta a Carlo Visconti, uno dei tanti figli di
Bernabò. Narra la Cronica di Giovanni del Giudice che «a’ dì 14 maggio,
essendo partito da Parma Carlo Visconte, il popolo semplicemente corse
all’armi in piazza, e finalmente d’accordo insieme si governarono per tre giorni
in libertà».98 Il 16 maggio, solo dieci giorni dopo la deposizione di Bernabò,
Parma fu occupata dalle milizie viscontee agli ordini di Jacopo Dal Verme e di
Niccolò Terzi, qui verosimilmente inviati da Gian Galeazzo per i loro stretti
legami con la città. La Cronica scrive: «Entrarono in Parma i due Capitani il dì 16
con grandissima quantità di genti da cavallo, e pochi giorni dopo ebbe Jacopo
anche il Castello di Brescello,99 che allora apparteneva ai Parmigiani».100
La cattura di Bernabò fu attuata, oltre che da Jacopo Dal Verme, da Ottolino da Mandello, lo
stesso che, durante la cerimonia di Pavia, ebbe l’onore di calzare lo sperone sinistro al neo
cavaliere Niccolò Terzi.
98 Citata da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 150.
99 Borgo e piazzaforte strategica, lungo ill Po, sul confine della Bassa reggiana e parmense, circa
10 miglia a Nord Est di Parma.
97
37
Sorpreso dalla tragica nuova della cattura del padre mentre si trovava a
Crema, Carlo Visconti tornò a spron battuto verso Parma per asserragliarsi
nella Rocca di Porta Nuova, disperato tentativo di conservare i suoi possessi.
Ricacciato dai cittadini, già pronti ad aggredirlo memori del suo greve dominio,
fu forzato a fuggire in esilio, verso la rovina e la miseria, abbandonato da tutti.
Il castello di Parma, ove si era ridotta la soldatesca di Bernabò, stretto
dall’assedio del Terzi, capitolò presto con l’onore delle armi.
Il 15 febbraio 1386, Niccolò ottenne da Gian Galeazzo la cittadinanza
originaria di Milano, come attesta il rogito della stessa data steso dal notaio
Ubertino de’ Bozzoli.101
Nel 1387 si estingueva a Verona la dinastia dei Della Scala. La città era da
tempo entrata sotto l’influenza dei Visconti che, non appagati, estesero le loro
mire verso Padova, contro i Carraresi. Nell’autunno 1388 Gian Galeazzo lanciò
un’offensiva in quella direzione inviando le sue milizie comandate da Jacopo
Dal Verme e dal maresciallo Ugolotto Biancardo. Verso la fine di novembre le
forze viscontee, conquistato il baluardo di Piove di Sacco, ebbero libero accesso
a Padova che occuparono per puntare poi su Treviso.102
Quando nel 1390 si riaccese il conflitto contro i Carraresi di Francesco
Novello, Niccolò Terzi si trovò ingaggiato in quella guerra con le truppe di
Gian Galeazzo portate all’attacco delle bolognesi e delle fiorentine.
Nel giugno di quell’anno, Niccolò, con Uguccio Pallavicino, comandava
le forze, comprendenti molti Parmigiani, che si erano dovute riparare nelle due
fortezze cittadine. Queste erano state poste sotto assedio da Francesco Novello,
supportato militarmente da Stefano III duca di Baviera.
Il Carrarese stava tentando la riconquista di Padova dopo che la città, il
21 giugno 1390, era insorta contro i viscontei. In agosto gli assediati, ridotti
ormai alla fame, furono costretti a capitolare. Niccolò Terzi venne imprigionato
e tenuto in ostaggio assieme a Princivalle della Mirandola e Zanardo dei
Visdomini. Liberato, passò prima a Venezia per tornare tre mesi dopo, a
settembre, in Lombardia.103
100
101
102
103
38
«Corio, narratore di buona parte delle cose predette, aggiunge che in esso mese di maggio la
folgore colpi il culmine della Torre del Comune, e gittò a terra un capitello che sosteneva la
vipera Viscontea»: ivi, p. 152.
Cfr. G. e B. GATARI, Cronaca Carrarese, confrontata con la redazione di A. Gatari [aa. 13181407], a cura di A. Medin, G. Tolomei, I, in Rerum italicarum scriptores: raccolta degli storici italiani
dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, XVII, I, Città di Castello 1909, p.
417 nota.
E Pezzana, citando il Muratori che dal canto suo fissa la data dell’episodio a venerdì 13
novembre, ci informa che «nella fazione di Pieve di Sacco trovossi il Parmigiano Guido Terzi,
e convien dire ch’ei pugnasse con somma prodezza, poichè ivi fu creato Cavaliere». Si trattava
probabilmente del Guido, del ramo di Sissa, figlio di Giberto, nipote di Niccolò il Vecchio,
padre di Costanza»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 186.
Corio ne aveva riferito così: «Onde del mese d’Agosto, procurante Florentini, & anche fu
havuto per fermo, che i Venetiani gli tenessero mano. Stefano Duca di Baviera si condusse a
Padoa al soccorso del Carraresc cón [...] ove dimorando tre mesi, con atrocissima battaglia
mantenne l’assedio al castello, con la Cittadella, che in nome di Gioan Galeazzo, con le genti,
Allorché la notizia della sollevazione di Padova e del ritorno vittorioso
dei Carraresi giunse a Gian Galeazzo, questi ordinò al suo maresciallo Ugolotto
Biancardo, ingaggiato contro Bolognesi e Fiorentini in Romagna, di spostare
immediatamente le sue milizie nel Veneto. Qui, nel frattempo, contro il
Visconti si era sollevata anche Verona, costringendo Biancardo e le sue 800
lance, che avevano passato il Po a Ostiglia, nel Mantovano, anch’essa ribelle e
subito sottomessa, a tornare sui propri passi per occuparsi prioritariamente di
questa città. Comparve improvvisamente in riva all’Adige sotto le mura
veronesi accolto dai suoi che, costretti dalla ribellione a riparare nella cittadella,
gli aprirono subito le porte.
Il giorno seguente Biancardo lanciava le sue truppe contro Verona,
conquistandola con «grande prodezza» secondo il cronista Matteo Griffoni.
Dove la grande prodezza starebbe anche nell’inganno messo in campo da
Ugolotto per penetrare le mura: «innalzando il vessillo de’ Padovani e facendo
le finte di venire in ajuto de’ Veronesi». Vinti i rivoltosi, Ugolotto Biancardo si
macchiò poi del sangue di tutta Verona: permise che le sue soldatesche ne
massacrassero con inaudita ferocia gli abitanti, ribelli o innocenti che fossero, di
ogni età e sesso:
Più di 300 Veronesi furono uccisi in quella miserevole fazione senza
numerare i molti della plebe. Tutta la Città fu posta a ruba. Gran parte di
quel popolo ritirossi al di là dell’Adige e favorita dalle tenebre fuggi
dall’insolente vincitore che la incalzava da ogni lato. La Cronaca Estense
narra che i Viscontei cacciarono da Verona tutti gli uomini rimastivi, e solo
ritennervi le donne. Gir. dalla Corte non dice questo: dice bensì che
sarebbero continuate le nefandità commesse da coloro, se Caterina moglie di
Giangaleazzo non avesse mandato ordini di cessare il saccheggio e le
uccisioni. Orrendo spettacolo era divenuta fra que’ dì la nobilissima Verona.
Appesi o trucidati cittadini da una banda, venerande matrone, candide
vergini vituperate dall’altra, fanciulli abbandonati e piangenti, bambini,
strappati dalle poppe materne, bestialmente trucidati.104
Niccolò Terzi il Vecchio nel 1391 s’insediò quale capitano del popolo in
quella tragica Verona, ancora intrisa del sangue dei suoi cittadini e attonita per i
massacri perpetrati dalle milizie viscontee. Nell’ottobre, da Pavia gli furono
inviati alcuni «navaroli» indispensabili per armare due galeoni destinati alla
navigazione fluviale.105
ch’erano dentro si difendeano, oltra di questo ancora il Bavaro sopra del Vicentino inferivano
grandissimo danno. E finalmente agli assediati nelle fortezze in Padoa mancando le vittuaglie,
e disperati d’alcun soccorso non potendosi più mantenere, si resero a Francesco da Carrara,
col salvo delle robbe, e persone. poi partendosi andarono a Venetia e d’indi vennero in
Lombardia. tra questi gl’interveniva molti Parmegiani dei quali era Capitano Niccolo Terzo,
& Uguccio Pallavicino. Doppo le genti del Bavaro, e Francesco da Carrara, cavalcarono nel
Ferrarese, e passando l’Adice, entrarono nel Polesine». B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p.
627.
104 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 199-200 nota.
105 Cfr. G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V, parte II, Pavia 1834, p. 35.
39
L’anno 1392, ancora a Verona, era consigliere, capitano del podestà
Balzarino Pusterla, genero di Matteo Visconti e membro di una potente e ricca
famiglia milanese. Nell’aprile Niccolò divenne reggente del Consiglio visconteo
di Verona per le Partes de ultra Mincium,106 un’istituzione che inglobò le
competenze e le funzioni del Consiglio cittadino.107 In quel tempo Niccolò, a
compenso dei servigi resi, ricevette in feudo dal Visconti, attraverso il vescovo
veronese, le terre di Villa Bartolomea, a venti leghe da Verona, poste a guardia
di un guado sull’Adige nei pressi di Legnago.108
Anche la Serenissima gli manifestò gratitudine. Per «devozione a
Venezia» con bolla del 10 agosto 1393 al «nobilis vir egregius miles dominus
Nicolaus de Terciis», venne concesso il privilegio della cittadinanza e il diritto di
trasmetterlo agli eredi. E a Venezia, quel giorno, Niccolò prestò il giuramento
di fedeltà alla Repubblica.109
Il 5 settembre 1395, sul sagrato di Sant’Ambrogio, Gian Galeazzo
Visconti veniva maestosamente consacrato duca di Milano: aveva finalmente
ottenuto l’ambita promozione e investitura imperiale da Venceslao di Boemia.
Era un titolo che dava piena legittimità al suo potere, gli consentiva di
sovrastare nella gerarchia tutti gli altri feudatari della sua signoria. Presente il
commissario imperiale, l’arcivescovo di Milano impose a Gian Galeazzo il
berretto ducale. Il conte Ugolotto Biancardo insieme con il principe romano
Paolo Savelli stavano a destra del trono, con un imponente schieramento di
cinquecento lance, tenendo le veci del gran connestabile Alberico da Barbiano,
che era infermo.
Così rievoca l’evento il Pezzana, mentre sulla scena dei fastosi
festeggiamenti di quella consacrazione ducale irrompeva a cavallo Niccolò
Terzi: «Dugento mila fiorini vuolsi che costasse l’ingemmato cingolo ducale
[…]. Piacevole è il racconto che fa il Corio delle pubbliche imbandigioni fatte
fare dal novello Duca in quella solennità». E continua:
«Nelle partes ultra Mincium, come la terminologia viscontea chiama i tre distretti della Marca
Trevigiana soggetti al dominio milanese, sono attestati specifici interventi per la definizione di
mansioni e competenze dei rappresentanti dei comuni cittadini». G. M. VARANINI,
L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana dei secoli XIII-XIV, in G. CHITTOLINI, D.
WILLOWEIT (a cura di), L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII - XIV,
Bologna 1994, p. 225.
107 Cfr. G. SEREGNI, Il Consiglio Visconteo di Verona per le «Partes de ultra Mincium», in Atti e memorie
del Secondo congresso storico lombardo: Bergamo, 18-19-20 Maggio 1937-XV, Milano 1938, pp. 277281.
108 Quella proprietà fu poi confermata nel maggio 1405 dalla Repubblica di Venezia per
donazione al figlio Ottobono con diritto di trasmetterla ai suoi eredi e successori. Cfr.
Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra
vassalli) emessa dal Tribunale di Venezia il 26 luglio 1873, in Giurisprudenza Italiana, raccolta generale
progressiva, Decisioni delle varie corti del Regno, Sentenze del 1873, XXV, Parte II, Torino
1873, pp. 559-569.
109 Si veda la scheda Nicolaus de Terciis, Cives Veneciarum, http://www.civesveneciarum.net/
dettaglio.php?id=2656,versione 48/2016-05-24.
106
40
Ne’ successivi giorni si fece nobilissima giostra. Era premio un fermaglio del
valore di mille fiorini d’oro. Si segnalò tra’ principali giostratori il vecchio,
ma ancor rubizzo, Niccolò Terzi. Comparve, dicono gli storici, il Parmigiano
campione sul campo colla faccia coperta di un cappello di campagna, con
una piccola cornetta al di sopra, mostrando benché vecchio la forza di un
giovane.110
Angeli scrive che Niccolò aveva allora sessantotto anni, e questo ci
consente di risalire per la sua nascita al 1327:
«Nella creatione che poi fu fatta di Giovan Galeazzo Visconti in Duca di
Milano fu fatta una nobilissima giostra da otto cavallieri eletti, tra quali dice il
Corio vi fu Nicolò, che si trovava all’hora di sessant’otto anni».111
Curiosa appare l’esibizione della piccola cornetta che, come racconta il
cronista, innalzava sopra il cappello l’anziano e vigoroso capitano Niccolò
Terzi, combattente in quella giostra poi vinta dal marchese Teodoro II del
Monferrato contro Baldassarre Pusterla. Pare l’insegna che rievoca lo stemma
parlante dell’originario antico casato dei Terzi, i da Cornazzano, che sullo scudo
recava una triplice cornetta, come ancor oggi si può vedere in un affresco
parietale del castello di San Secondo. Niccolò il Vecchio restava dunque ancor
sempre, fino al tramonto, un de Tertiis scaturito dalla stirpe dei de Cornazzano.
Ritroviamo Niccolò martedì 7 dicembre dello stesso 1395 a Prezzate, nel
Bergamasco, in località Albarita, quando fu firmata la pace tra i seguaci delle
casate ghibelline dei Suardi, degli Arrigoni di Taleggio e dei Brembilla, da una
parte, e i partigiani guelfi dei Rivola, dei Bongi (o Bonghi), i Vale di San Martino
di Valdimania, dei Rota e dei Locatelli di Valle Imagna, dall’altra. Accanto al
condottiero Terzi, testimoni di quel patto, c’erano Dino dalla Rocca, podestà di
Bergamo, Antonio Tornielli, allora capitano generale visconteo a Bergamo e
Pagano Aliprandi, consigliere del duca.112
Nell’estate del 1397 il settantenne Niccolò era tra i capitani delle milizie
viscontee contro l’esercito della Lega. Alla battaglia del 28 agosto a Governolo
si trovava con il figlio Ottobono al comando della quinta schiera viscontea,
forte di mille cavalli. Finì catturato assieme ai parmigiani Pietro Rossi e
Ludovico Cantelli.113
La sua vicenda di capitano d’armi si concluse qui. Morì a Bergamo,
cinque mesi dopo, nel gennaio 1398.114
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p 239.
B. ANGELI, La historia della città di Parma, cit., p. 463.
112 «Et hoc presente spectabilli militi domino Nicolao de Tertiis; Antonio de Torniellis, capitaneo
generali in Pergamo; et dominis Pagano de Aliprandis, consciliario illustrissimi ducis et
Comitis Virtutum domini nostri; et Dino de la Rocha, potestate Pergami, Et predicta pax
facta fuit super territorio de Prezate, ubi dicitur in Albarita»: Chronicon bergomense guelphoghibellinum, cit., p. 61, n. 40.
113 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 257 nota.
114 «Quanto a Niccolò Terzi, leggesi nel Chron. Bergomense (in Mur., 16, 895) ch’egli morì pochi
mesi dopo improvvisamente, cioè in gennajo del 1398, a Bergamo»: ivi.
110
111
41
Sulla
Sulla sua
sua sepoltura
sepoltura ci
ci informa
informa accuratamente
accuratamente ilil Chronicon
Chronicon bergomense
bergomense
guelpho-ghibellinum:
guelpho-ghibellinum:
Morì
in questo
questo gennaio
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Morì improvvisamente
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l’illustre
dominus Nicolaus
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l’illustre condottiero
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de
venne sepolto
sepolto nella
nella chiesa
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di
de Tertiis,
Tertiis, ee venne
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San Francesco,
Francesco, presso
cappella
dei Bonghi
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verso ilil
cappella maggiore
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monastero, presso
presso la
115
obili Bonghi.
Pietro
dei Nobili
Nobili
Bonghi.115
Pietro Apostolo
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Lasciava
Margarita
Lasciava vedova
vedova Margarita,
Margarita, che
che gli
gli
aveva
figli: Ottobono
Ottobono o
o Ottobuono,
Ottobuono,
aveva dato
dato tre
tre figli:
anch’egli
anch’egli condottiero
condottiero tanto
tanto celebre
celebre quanto
quanto
famigerato,
famigerato, ilil dottore
dottore in
in utroque
utroque iure
iure Giacomo,
Giacomo,
116
o
o Jacopo,
Jacopo, ee ilil meno
meno noto
noto Giovanni.
Giovanni.116
conventochiostro
di San Francesco,
delle
Arche.
Bergamo, conventoBergamo,
di San Francesco,
delle Arche.chiostro
In fondo
si apre
l’ingresso alla cappella
In fondo si apreBonghi
l’ingresso
dove1398,
fu sepolto,
nelTerzi
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1398, Niccolò Terzi il
dovealla
fucappella
sepolto, Bonghi
nel gennaio
Niccolò
il Vecchio.
Vecchio.
«Nota
mense januarii
januarii predicti
predicti decessit
decessit spectabillis
spectabillis milles
milles dominus
dominus Nicolaus
Nicolaus de
de Tertiis
Tertiis
«Nota quod
quod de
de mense
subito,
ecclesia sancti
sancti Francisci
Francisci Bergomi
Bergomi juxta
juxta pilastrum
pilastrum de
de Bongis
Bongis capelle
capelle
subito, et
et sepultus
sepultus fuit
fuit in
in ecclesia
Bongorum
no
magne
monasterium apud
apud capellam
capellam Sancti
Sancti Petri
Petri apostoli
apostoli nobilium
nobilium
magne versus
versus monasterium
Bongorum
(Cappella
Bongis ad
ad Sanctum
Sanctum Franciscum)»:
Franciscum)»: Chronicon
(Cappella dominorum
dominorum de
de Bongis
Chronicon bergomense
bergomense guelphoguelphoghibellinum,
67, n.
n. 9.
9.
ghibellinum, cit.,
cit., p.
p. 67,
116
116 Margarita
la sepoltura,
sepoltura, compiuta
compiuta anche
anche per
per lei
lei in
in una
una chiesa
chiesa dedicata
dedicata al
al santo
santo
Margarita morì
morì nel
nel 1405,
1405, ee la
assisiate,
Parma, come
come scrive
scrive
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esattamente Cherbi:
Cherbi: «Morte
«Morte alli
alli 10
10 agosto
agosto di
di Madonna
Madonna
assisiate aa Parma,
Margarita,
madre di
di Otto.
Otto. Sepolta
Sepolta alle
alle tre
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di notte
notte in
in casa
casa de’
de’ Frati
Frati Minori».
Minori».F.
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Margarita, madre
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grandi
grandi epoche
epoche sacre
sacre diplomatiche,
diplomatiche, II,
II, cit.,
cit., p.
p. 219.
219.
115
115
42
42
4.
4.
Ottobono
Ottobono Terzi
Terzi
Ottobono
Ottobono Terzi.
Terzi.. Incisione
Incisione in
in G.
G. Roscio,
Roscio, Ritratti
Ritratti et
et elogii
elogii di
di capitani
capitani
illustri,
illustri, Roma
Roma 1646.
1646.
All’alba
Terzi
All’alba del
del 27
27 maggio
maggio 1409,
1409, lunedì
lunedì di
di Pasqua,
Pasqua, Ottobono
Ottobono Terzi,
Terzi, «di
«di
Reggio
», figlio
Reggio ee di
di Parma
Parma aspro
aspro tiranno»,
tiranno»,
figlio di
di Niccolò
Niccolò ilil Vecchio,
Vecchio, raggiungeva
raggiungeva con
con la
la
sua
sua scorta
scorta ilil ponte
ponte della
della Vallisella
Vallisella sulla
sulla strada
strada che
che attraversa
attraversa la
la Via
Via Emilia,
Emilia, tra
tra
Modena
Modena ee Reggio,
Reggio, nelle
nelle campagne
campagne di
di Valverde
Valverde sopra
sopra Rubiera.
Rubiera. In
In quel
quel luogo
luogo era
era
stato
stato stabilito
stabilito un
un suo
suo incontro
incontro con
con Niccolò
Niccolò d’Este
d’Este per
per tentare
tentare una
una tregua
tregua nella
nella
guerra
guerra che
che lili opponeva.
opponeva. Accerchiato
Accerchiato da
da alleanze
alleanze ostili
ostili mirate
mirate al
al suo
suo disfacimento
disfacimento
politico
milizie,
politico ee fisico,
fisico, isolato
isolato ee disperando
disperando di
di prevalere
prevalere con
con le
le proprie
proprie milizie,
acco
Ottobono
un accordo.
accordo.
Contro di
di lui,
lui, infatti,
infatti,
Ottobono si
si era
era infine
infine rassegnato
rassegnato aa inseguire
inseguire un
Contro
alleato
agli inizi
inizi di
di quell’anno
quell’anno un
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del marchese
marchese di
di Ferrara,
Ferrara, si
si era
era armato
armato agli
un
formidabile
formidabile schieramento
schieramento bellico
bellico che
che comprendeva
comprendeva le
le forze
forze del
del duca
duca di
di Milano,
Milano,
Giovanni
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Giovanni Maria
Maria Visconti,
Visconti,, dei
dei signori
signori di
Mantova, Gianfrancesco
Gianfrancesco Gonzaga,
Gonzaga, di
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Bergamo
Malatesta
Bergamo ee Brescia,
Brescia, Pandolfo
Pandolfo Malatesta,
Malatesta, di
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Cremona, Gabrino
Gabrino Fondulo,
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Pallavicino con
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la loro
loro vasta
vasta
sequela
sequela di
di collegati
collegati ee aderenti.
aderenti.
43
43
Un cappuccio calato in testa al posto del cimiero, montando un’umile
cavalcatura addobbata con un lungo strascico di coda, Ottobono giunse al
convegno di Rubiera accompagnato dal figlio fanciullo Niccolò Carlo, recato in
sella dallo zio Giacomo, e dal suocero Carlo da Fogliano. Lo seguivano pochi
amici, tra i quali il più devoto, Guido Torelli, signore di Guastalla e di
Montechiarugolo, Francesco da Sassuolo con Antoniuccio dall’Aquila, difesi da
un centinaio di cavalieri sotto i cui mantelli le prime luci di quella tragica
giornata scoprivano in brevi bagliori le armature pettorali. Pari scorta cavalcava
con Niccolò III d’Este che era seguito da Uguccione dei Contrari, signore di
Vignola, e dai cugini Micheletto Attendolo e Muzio Attendolo, detto lo Sforza,
capitani di ventura.
Mentre i due signori di Parma e di Ferrara, senza armi oltre la spada al
fianco, rispettosi degli accordi preliminari, accompagnati ciascuno da un solo
uomo a cavallo, avvicinatisi e scambiati i convenevoli di rito, iniziavano a
trattare la pace, lo Sforza, che stava occultato in agguato con i suoi militi a
cavallo in una vicina boscaglia, scattò caracollando all’improvviso come
forsennato verso le spalle indifese di Ottobono, lo colpì a tradimento alla
schiena, trapassandolo con uno stocco.
Il Panciroli descrive così quel che avvenne: «Già proferivansi le
condizioni della pace, quando lo Sforza […] stretta la spada e spronato il
cavallo, s’avventò con tanto impeto contra Ottobono che trapassollo e
trabalzollo co ‘l cavallo per terra. Allora Michele dielli un grosso colpo, e gli
spaccò la testa».117
Il cadavere, narrano concordi le cronache,118 fu trasportato su «un vil
carro» a Modena. La testa, infilzata a trofeo su una picca, fu issata davanti al
duomo e più tardi portata al castello di Felino, allodio dei Rossi. Quel che
rimase delle spoglie di Ottobono venne letteralmente fatto a brani dalla furia
belluina della plebaglia, mangiato in parte in lugubri festini, inchiodati i pezzi
dilaniati come macelleria nelle contrade della città.
Un altro storico così descrisse l’accaduto:
Più avanti aggiunge: «I villani modenesi accesi d’implacabil odio per li danni ricevuti in quella
guerra trassero le viscere dell’occiso Ottobono, e con famelica rabbia ne mangiarono il cuore
fritto in una padella. Squartato e tagliuzzato il cadavere, altri, secondo è fama, ne divorarono
disumanamente le carni. Il capo fitto in una lancia lo portarono i Rossi a maniera di trionfo a
Felina castello di loro giurisdizione»: G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, Reggio 1848,
pp. 34-36.
118 Amos Manni ha incentrato il suo accuratissimo studio, basilare per ogni ricerca relativa al
lignaggio dei Terzi, soprattutto sulla tormentata biografia di Ottobono. Alla sua morte dedica
un intero capitolo che così introduce: «Dopo aver esposto gli avvenimenti che condussero
all’uccisione di Ottobuono Terzi, ed avere tratteggiati i caratteri dei due principali personaggi
di questo mio lavoro, cercherò di determinare, vagliando le varie testimonianze che esistono,
con logica conclusione il modo in cui venne ucciso il Venturiero e le responsabilità gravanti
sul Signore di Ferrara». Nel dettaglio descrive: «La Morte del Terzi nelle narrazioni dei
cronisti e degli Storici - Lo scempio del cadavere - Le vere responsabilità di Niccolò III
d’Este». Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (1402-1421), «Atti e Memorie della Deputazione
Ferrarese di Storia Patria», XXV, II, 1924, pp. 87-98.
117
44
«Parve, che con questo fatto venisse violato il diritto delle genti, ma era tanto
l’odio universale contra Ottobono, per le sue crudeltà ed infamiazioni, che
ognuno benedisse la mano di chi avea tolto di vita quel mostro, senza far
caso della maniera, colla quale s’ebbe ottenuto questo gran bene; e
trasportato a Modena il cadavere dell’estinto Terzi, dal popolo in furia fu
messo a brani. Dopo la morte di lui, gli Alleati ad un tratto occuparono le
Terre e Luoghi per esso tenuti; e la sua potente, ma odiata famiglia fu in
poco tempo ridotta quasi ad intero sterminio co’ suoi aderenti, fra i quali
Corrado de’ nobili da Fogliano di lui suocero».119
Al tramonto di quel lunedì pasquale del 1409 erano trascorsi solo poco
più di due lustri dalla morte di Niccolò il Vecchio, patriarca della casata dei Terzi,
ed ora questa, con l’assassinio del primogenito Ottobono, si trovava decapitata
del suo più ardimentoso esponente, annientata, ridotta alla fuga, i possedimenti
invasi da nemici antichi e nuovi. Un subitaneo declino che tuttavia era stato
preceduto dal dilatare di una eclatante fortuna, conquistata sul campo delle armi
dal protagonista di spietato pregio militare, ma di esiguo talento politico,
incarnato in Ottobono: un tipico condottiero del Quattrocento, dalla rude
psicologia imperscrutabile, la cui storia personale, nella sua terribilità singolare
ma non inconsueta, si svolge, quanto mai densa di accadimenti, in un quadro
storico composito, tanto frazionato quanto percorso da dinamiche tumultuose.
Il condottiero parmense è stato tratteggiato nel suo aspetto fisico da
Giulio Roscio nei Ritratti et Elogii di Capitani illustri ove scrive che: «Fu Otho di
volto pieno, e di quadrata statura», un’affermazione che corredava con
l’incisione, ricavata da fonte ignota, raffigurante il volto marziale ed enigmatico
di capitano in armi, marcato dall’espressione che nei tratti sprigiona intensa ma
sorvegliata energia, fierezza, esperta astuzia e quant’altro ciascuno a suo modo
preferisca leggervi.120 Ma, prima di Roscio, si scopre che l’informatissimo
Giorgio Vasari, nelle sue Vite, narra di Paolo Uccello, celeberrimo pittore di
straordinarie battaglie e «di storie piene di guerre», nella prima metà del
Quattocento aveva a suo modo rappresentato e dipinto, in Firenze, il
parmigiano Ottobono Terzi, con tre altri strenui condottieri, «uomini armati
con portature di que’ tempi bellissime»:
In molte case di Firenze sono assai quadri in prospettiva […] ed in
Gualfonda particolarmente,121 nell’orto che era de’ Bartolini e in un terrazzo,
di sua mano quattro storie in legname piene di guerre, cioè cavalli e uomini
armati con portature di que’ tempi bellissime: e fra gli uomini è ritratto Paolo
A. D. ROSSI, Ristretto di storia patria ad uso de’ piacentini, II, Piacenza 1830, p. 238.
Cfr. G. ROSCIO, Ritratti ed elogii di capitani illustri, Roma 1646, pp 75-77.
121 Gualfonda, oggi Valfonda, contrada retrostante l’abside di Santa Maria Novella, nella villa ove
la famiglia Bartolini Salimbeni, al tempo del Vasari, aveva portato quelle tavole che
originariamente ornavano il loro palazzo di Porta Rossa, presso Santa Trinità. Paolo Uccello
aveva eseguito per la stessa famiglia altre opere, tra le quali, com’è stato di recente appurato, il
trittico della Battaglia di San Romano. Questo, nel 1479, fu ceduto dai Bartolini Salimbeni a
Lorenzo de’ Medici per arricchire la collezione medicea nel palazzo di via Larga.
119
120
45
Orsino, Ottobuono da Parma, Luca da Canale, e Carlo Malatesti signor di
Rimini, tutti Capitani generali di quei tempi. E i detti quadri furono a’ nostri
tempi, perchè erano guasti ed avevano patito, fatti racconciare da Giuliano
Bagiardini, che piuttosto ha loro nociuto che giovato.122
È da dire, tuttavia, che Paolo Uccello aveva solo dodici anni quando, nel
1409, lo Sforza uccise Ottobono. Nel porre mano ai pennelli per le tavole di
Gualfonda si deve supporre che quello straordinario artista abbia fatto ricorso
per dipingervi quei “capitani generali” a qualche memoria, forse ispirando
anche le incisioni pubblicate da Roscio.123
Se un ritratto fisico del Terzi rimane celato sotto i veli del tempo, la
dimensione morale (andando oltre le constatazioni concernenti l’indiscussa
eccellenza del suo profilo militare e di gestore strategico e tattico di imprese
belliche) è stata descritta e notomizzata da una cospicua schiera di storici e
letterati diversamente partigiani. Ottobono meritò l’ammirata stima
dell’umanista Enea Silvio Piccolomini, che scrisse della magnificentia, della potentia
e della prudentia del condottiero in due passi della sua opera De viris illustribus.124
Ma quella di Piccolomini rimane espressione singolare di lode e di
misericordioso giudizio. Quando il condottiero fu rievocato da Ludovico
Ariosto nel canto III del suo Orlando Furioso, questi, da poeta organico alla corte
di Ferrara quale era, pose «il terzo Oto» a confronto, ovviamente perdente, con
Niccolò d’Este: 125
Ve’ Nicolò, che tenero fanciullo
il popul crea signor de la sua terra,
[...]
Farà de’ suoi ribelli uscire a voto
ogni disegno, e lor tornare in danno;
ed ogni stratagema avrà sì noto,
che sarà duro il potergli fare inganno,
Tardi di questo s’avedrà il terzo Oto,
e di Reggio e di Parma aspro tiranno
che da costui spogliato a un tempo fia
e del dominio e de la vita ria.126
G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori, e architettori, I - II, Fiorenza 1568, pp. 272-273.
Angeli, dopo avere scritto del Terzi, versando nel suo inchiostro molta indulgenza, sostiene
che «egli fu buono, e perciò chiamato Otto buono, e buon Otto». Sul suo aspetto aggiunge
un particolare di colore: «Fu di pelo rossigno, e rufo per questo fu detto. Et fu de’ più
aventurosi capitani, e di maggior nome, che havesse l’età sua. Fu Signore di Parma insieme
con Pietro Rosso, un mese, et vent’otto dì, solo poi cinque anni, et cinque dì»: B. ANGELI,
Historia della città di Parma, cit., pp. 466-467.
124 Cfr. ENEE SILVII PICCOLOMINEI POSTEA PII PP. II, De viris illustribus, Città del Vaticano 1991,
pp. 12 e 21.
125 Non sembra credibile che Niccolò III ignorasse le intenzioni dei due Attendolo, presenti
armati contravvenendo alle modalità concordate per l’incontro. Goffo fu anche il tentativo
dell’Estense di scusare lo Sforza quando Ottobono si avvide dei bagliori della sua corazza e
della presenza di soldatesche celate in agguato nella vicina boscaglia.
126 L. ARIOSTO, Orlando furioso, canto III, 43.
122
123
46
L’apprendistato nelle armi con Giovanni Acuto
Le prime esperienze militari Ottobono Terzi, che l’Ariosto evoca come
«terzo Oto», e altri quale Otho, oppure Otto Buonterzo, le maturò
verosimilmente alla scuola del padre, Niccolò il Vecchio, e più oltre sotto le
insegne del condottiero inglese John Hawkwood, o Giovanni Acuto, come
preferirà chiamarlo Machiavelli. Lo conferma Giulio Roscio: «s’introdusse nella
militia e sotto la disciplina di Giovanni Aucuto: e con sì buon maestro divenne
in breve egli ancora celebre Capitano».127
Il servizio in armi del giovane Ottobono con Hawkwood si svolse
necessariamente prima del 1377, nel tempo breve in cui il capitano inglese fu
agli stipendi dei Visconti, i signori di Milano ai quali i Terzi si mantennero
abitualmente fedeli. Quell’anno, infatti, l’Acuto, sempre pronto a cogliere nuove
opportunità e a cambiare padrone al mutare delle convenienze, com’era
precipua vocazione dei mercenari, preferì ricondursi agli stipendi di Firenze.
Solo pochi mesi prima aveva sposato Donnina, una delle tante figlie illegittime
di Bernabò, ma era presto entrato in rotta con il suocero e quindi, voltategli le
spalle, tornò con le sue lance e arcieri in riva all’Arno, contro i Visconti. Il
giovanissimo Ottobono, che non era dei suoi, rimase assieme al padre Niccolò
al soldo del duca di Milano.
Alla scuola di Alberico da Barbiano nella «Compagnia di San
Giorgio»
Ottobono trovò presto un’altra scuola per arricchire, oltre alla tasca, la
sua esperienza nell’arte bellica. Nel 1377, il trentenne condottiero Alberico da
Barbiano, dopo aver combattuto, al comando di duecento lance, al seguito di
John Hawkwood e avere infierito con le sue soldatesche bretoni nel sacco delle
terre di Romagna e nella cruenta repressione di Cesena, ripudiò l’inglese. Deciso
a contrastare, oltre all’Acuto e alla sua temibile Compagnia Bianca, gli altri
mercenari stranieri che da quarant’anni imperversavano sul suolo italiano,
Alberico nel 1378 formò una sua compagnia ove si «rivendicavano l’onore della
milizia italiana e ravvivano lo spirito guerriero di questa nazione».128 Era quella
che divenne celebre come Compagnia di San Giorgio, un fecondo vivaio di
capitani, un’accademia d’armi ove maturarono la loro esperienza i migliori
condottieri d’Italia: Carmagnola, Gattamelata, Braccio da Montone, Bartolomeo
Colleoni, Facino Cane, Jacopo Dal Verme, Ceccolino de’ Michelotti di Perugia,
lo Sforza, Cecchino Broglia di Chieri in Piemonte, Luca da Canale e, non
ultimo, «Ottobon Terzo di Parma», che Alberico da Barbiano annoverò tra i
suoi principali luogotenenti.129
G. ROSCIO, Ritratti ed elogii di capitani illustri, cit., p. 75.
Cfr. S. SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo, II, Prato 1863, p. 243.
129 Molti altri capitani illustri, oltre a quelli citati, si formarono militarmente nella Compagnia di
San Giorgio. Si possono ricordare tra questi Ugolotto Biancardo, Niccolò Piccinino, il
Malatesta, l’Orsini, il Colonna. Cfr. ibidem.
127
128
47
Si formò allora sotto la guida e ispirazione di Barbiano un’autentica
aristocrazia delle armi, tutta ‘nazionale’, consapevole del proprio valore, ove i
cavalieri combattenti erano legati da alta stima e rispetto per il comandante, in
simbiosi con un gagliardo spirito di corpo irrobustito tra vittorie e sconfitte,
difficoltà e rischi, affrontati insieme spalla a spalla e superati sul campo.
Sotto il profilo della tecnica bellica furono considerevoli le innovazioni
introdotte da Barbiano. Organizzò nuove tattiche più efficaci per le cariche
della cavalleria. Incrementò la protezione dei cavalieri ai cui elmi fece applicare
la ventaglia, o visiera, e il collare. Quanto alla cavalcatura, ne fece modificare le
barde, o pezze di difesa, ampliando il mantello metallico fino alle ginocchia, e le
rese offensive munendone il muso di un cuneo lanceolato. Nell’estate del 1378,
appena fondata la sua compagnia, fu assoldato da Bernabò Visconti. A Milano,
tra i primi militi a disposizione, trovò anche Ottobono Terzi che tuttavia
figurerà sotto il suo comando solo tre lustri più tardi perché quella condotta di
Alberico presso Bernabò durò pochi mesi, fino alla primavera dell’anno
successivo. Nel marzo 1379, mentre stava combattendo per il Visconti sul Po
contro gli Scaligeri, Alberico fu costretto ad abbandonare precipitosamente quel
fronte per rispondere alle invocazioni di soccorso, reiterate in una lettera di
Caterina da Siena che intercedeva a favore del nuovo pontefice Urbano VI,
minacciato di deposizione dai mercenari bretoni dell’antipapa Clemente VII.130
Alberico da Barbiano tornò agli stipendi dei Visconti tredici anni dopo.
Sconfitto il 24 aprile 1392 dagli Angioini a conclusione di una lotta accanita con
cui gli vennero tolte le signorie di Giovinazzo e Trani nelle Puglie, costituite per
sé e i suoi veterani, il condottiero era stato catturato e condannato a una dura
prigionia. Non appena ne fu informato, intervenne Gian Galeazzo Visconti e lo
fece liberare. Il signore di Milano pagò un riscatto di 30 mila scudi e si assicurò
il servizio del grande condottiero per dieci anni, sino al 31 gennaio 1403. Il
Visconti stava in quel tempo cercando di arruolare sotto i propri stendardi i più
provetti capitani d’armi italiani. In quella squadra agguerrita Alberico ritrovò il
peritissimo Jacopo Dal Verme e i valenti amici di questi: Niccolò Terzi il Vecchio
con il suo primogenito.
Nel 1394 Ottobono era a Offida, nelle Marche, agli stipendi di Antonio
Acquaviva. Il 26 marzo Antonio Aceti lo chiamò a Fermo, con Malcorpo da
Cremona e Mazzarino di Santa Vittoria, per combattere i fuoriusciti al seguito
di Luca da Canale. Il Terzi raggiunse Montegranaro per affrontarli, ma questi
sfuggirono allo scontro.131 A maggio unì le proprie forze a quelle di Cecchino
Broglia portandosi in Romagna alla difesa di Bertinoro contro gli Ordelaffi.
130
131
48
Questi furono poi sconfitti da Alberico da Barbiano il 29 aprile nella battaglia di Marino.
«Eodem anno, fuit ordinatum inter dominos Priores et illos bonos viros destatu qui tunc
erant, inter alios dominus Antonius Aceti, quod gentes domini Otti Bontertii Mazzarini de
Sancta Victoria et Malcorpi, qui erant in Offida ad stipendium Antonii de Acquaviva,
venirent in auxilium nostrum […] et de mandato, et voluntate domini Antonii venerunt et
intraverunt civitatem die xxvi martii, hora tertiarum: et hoc fuit pro offendendo dominum
Lucam de Canali: predictique fecerunt cavalcatam super territorium Montis Granarii,
credentes quod homines armigeri et Lucas de Canali et alii terrigeni Montis Granarii exirent
Due anni dopo, nel 1396, il Terzi, «già divenuto famoso alla scuola del
Conte Alberigo», guerreggiava come «condottiero di lance» in Toscana con
Paolo Orsini e Giovanni da Barbiano, sostenendo Giacomo Appiani, signore di
Pisa e alleato dei Visconti, contro Lucca e Firenze. La Repubblica non
disponeva più ormai da tre anni dell’Acuto, sostituito dall’inadeguato capitano
guascone Bernardo della Serra. Ottobono si spinse con altri capitani fino a
Siena, dove i combattimenti si alternarono alle depredazioni per due mesi. I
Fiorentini risposero alle devastazioni subite assoldando il condottiero Ludovico
Cantelli che per rappresaglia, in squadra con altri capitani, andò a saccheggiare il
Parmense.
Agli inizi del 1397 Ottobono combatteva ancora in Toscana con Guido
d’Asciano, Paolo Orsini, il perugino Ceccolino Michelotti, fratello minore di
Biordo, e Giovanni da Barbiano sotto il comando di Alberico, che simulava
d’agire di propria iniziativa conducendo seimila cavalieri.132 Comandato dalla
Repubblica di Firenze, Bernardo della Serra alla testa della Compagnia della
Rosa si era attestato sotto Pescia, in Lucchesia. Il Barbiano si diresse verso il
Valdarno inferiore, nella speranza che San Miniato si ribellasse ai Fiorentini.
Visto fallire il tentativo dei fuorusciti, si spostò nel Senese per tornare presto
contro i borghi del Valdarno, ripetendo incursioni e vasti saccheggi in terra di
Lucca. Bloccato a San Quirico di Moriano sul Serchio, costretto alla ritirata
assieme a Cecchino Broglia, egli si rifece razziando e devastando fin sotto le
mura di Firenze. La situazione cambiò quando, poco dopo, i Fiorentini
riuscirono a portare al proprio soldo Paolo Orsini e Ceccolino Michelotti,
mentre Giovanni da Barbiano, al comando di mille cavalli, defezionava
passando ai Bolognesi. A queste pessime notizie se ne aggiunse un’altra che
costrinse Alberico a rientrare senza indugi in Lombardia: durante un’assenza di
Jacopo Dal Verme, le forze viscontee erano state sconfitte a Governolo,
subendo gravi perdite.
La battaglia di Governolo
Nel corso dell’estate del 1397, Ottobono aveva già lasciato la Toscana,
dove combatteva con il Barbiano, andando a supporto delle truppe viscontee
nel Mantovano. Unite le sue milizie a quelle del padre Niccolò, il 28 agosto
partecipò alla battaglia di Governolo. Egli ebbe il comando della quinta schiera,
forte di mille cavalieri. Nel corso dei combattimenti, il conte da Carrara riuscì a
disarcionarlo con un colpo di lancia. Ottobono continuò il combattimento a
piedi, menando furiosi colpi d’ascia finché Francesco Visconti e Filippo da Pisa
132
foras et caperent ipsos; qui sciverunt, et noluerunt exire». Cfr. G. DE MINICIS (a cura di),
Cronache della Città di Fermo, in Documenti di Storia italiana, Firenze 1870, p. 19.
«Il conte Alberico da Barbiano toccava le paghe da Giovanni Galeazzo, ed era venuto a Lucca
per suo ordine; con tutto ciò egli volea dar a credere di essere entrato in Toscana come
condottiere, non come capitano del duca di Milano»: S. SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane
del Medio Evo, cit., p. 252.
49
non lo aiutarono a rimettersi in sella. Niccolò il Vecchio finì catturato.133
Risollevate le sorti con il rientro del Barbiano e dei suoi capitani, le truppe
viscontee riuscirono a spingersi fin sulle rive dei laghi del Mincio, di faccia alle
fortificazioni di Mantova, dove essi posero i loro quartieri d’inverno.
Ai primi di gennaio 1398 morì improvvisamente a Bergamo il padre di
Ottobono, Niccolò, all’età di settantuno anni. Il 26 maggio fu stipulata una
tregua decennale fra il Gonzaga e il Visconti. Ottobono, che a Governolo aveva
fornito una notevole prova del suo valore militare, si vide rinnovata la sua
condotta dal duca di Milano.
Gian Galeazzo Visconti, signore di Perugia
Tornato con le sue milizie in Italia centrale, nel febbraio 1399 Ottobono
combatteva per Gherardo d’Appiano, signore di Piombino. A maggio egli era
nelle Marche, con Frizzolino di Golem, Mostarda da Forlì e Astorgio Manfredi,
in appoggio ai Malatesta e ai pontifici. Comandava 800 cavalieri e 1200 fanti,
armati dai Bolognesi, con cui assalì le milizie del Carraresi e del Broglia a
Cingoli. La battaglia durò nove ore e si concluse con la sconfitta del Terzi.
Allorché i Priori di Perugia proposero di deliberare la dedizione della
città ai Visconti, chiedendone la protezione contro i Fiorentini e il pontefice, il
Consiglio Generale della città, allora dominato dai Raspanti,134 ossia dalle
corporazioni e dal «popolo grasso», subito approvò. Fu inviata a Milano
un’ambasceria di dieci per presentare l’atto formale di dedizione volontaria e di
vassallaggio.135 Gian Galeazzo accettò la signoria e inviò immediatamente in
Umbria il suo commissario Pietro Scrovegni, scortato dal condottiero ducale
Ottobono Terzi, al comando di ottocento cavalieri.
Ottobono arrivò sotto Perugia all’inizio del gennaio 1400 e pose il
proprio quartiere lungo la riva destra del Tevere, a Ponte San Giovanni, in
attesa del momento propizio per salire e varcare le porte della città. Il 21
gennaio 1400, nel tempo esattamente stabilito dagli astrologi, un’ora prima del
tramonto del sole, Gian Galeazzo Visconti fu proclamato signore di Perugia e
la bandiera con il biscione, stemma del duca di Milano, fu innalzata sul palazzo
pretorio, nella piazza, e quindi portata in processione attorno alle mura. Ad
aprile, dopo aver conquistato e occupato, per conto del Visconti, Gualdo,
Nocera Umbra e Spoleto, pose sotto assedio Assisi, della quale era signore
Venne liberato poco dopo per tornare al servizio dei Visconti, a Bergamo. Cinque mesi più
tardi arriverà ad Ottobono la notizia della sua morte improvvisa.
134 I Raspanti erano antagonisti a Perugia dei Beccherini (il popolo minuto parteggiante per il ceto
nobiliare). La denominazione Raspanti richiamava gli artigli dei felini all’attacco; i Beccherini
si identificavano, parte per il tutto, nel becco del falcone da caccia utilizzato dal ceto
aristocratico.
135 Questa decisione era maturata in seguito all’uccisione, nel 1398, di Biordo Michelotti, capo dei
Raspanti, e su incitamento del fratello di questi, il condottiero Ceccolino. Quando il Visconti
spirò, il 3 ottobre 1402, vantava ancora tra i suoi titoli quello di «Signore di Perugia».
133
50
Cecchino Broglia.136 Non appena il Terzi s’impadronì del formidabile castello di
Bastia,137 che ergeva allora 17 torrioni nella piana a tre leghe sotto Assisi, anche
questa città si arrese. Broglia rimaneva asserragliato più in alto, verso il Subasio,
nella Rocca Maggiore, ma ancora per poco poiché, a maggio, non disponendo
di forze sufficienti per decidere una sortita e affrontare in campo aperto gli
assedianti, e nemmeno potendo attingere a risorse sufficienti per sopportare
l’assedio, scese a patti: si vendette all’ex commilitone Ottobono per 4000 fiorini,
e sgomberò l’acropoli assisiate. Morì di peste quattro mesi dopo a Empoli.
La guerra di Faenza
Il 27 settembre 1399 Giovanni da Barbiano, immischiato nelle faide
cittadine di Bologna, incriminato per razzia e stragi, era stato giustiziato assieme
ai figli e altri parenti su istigazione di Giovanni Manfredi, signore di Faenza.
Alberico seppe dell’impiccagione del fratello mentre combatteva nel Regno di
Napoli, e, reclamando vendetta, ottenne da Gian Galeazzo Visconti il consenso
di ingaggiare altri condottieri per assalire il Manfredi. Fra quelli che stavano con
Alberico quando questi, nella primavera del 1400, marciò contro Faenza,
contando tra gli alleati l’infido Giovanni Bentivoglio, c’erano Ottobono Terzi e
Jacopo Dal Verme.
Quella guerra, un susseguirsi di lunghe e difficili battaglie senza esiti
risolutivi, doveva durare fino alla primavera del 1401, quando il Bentivoglio,
impadronitosi di Bologna, iniziò trattative segrete con Astorgio Manfredi fino a
ottenere la pace nel luglio 1401. Il Barbiano, prima ignaro e poi sorpreso da
quella conclusione, si vide costretto a togliere l’assedio a Faenza. Sentendosi
ingannato dal Bentivoglio, per ritorsione gli rivolse contro le armi e iniziò a
depredarne le terre. Ottobono, che con Carlo Malatesta si era già portato
all’attacco, fu costretto ad adeguarsi e desistere, allorché i padovani Jacopo e
Francesco da Carrara e Bernardo della Serra, per i Fiorentini, intervennero in
difesa del Bentivoglio, nuovo signore di Bologna. Seguì a questi interventi
un’interminabile, confusa guerriglia. Il Terzi infine decise di abbandonare quel
campo e spostò le sue truppe a Lucca in appoggio a Paolo Guinigi, che tentava
di stabilire la sua signoria sulla città.
La vittoria a Brescia contro l’esercito di Roberto III del Palatinato
Ottobono tornò poi in Lombardia per unire le sue truppe con il nerbo
delle viscontee scese in campo sotto il comando di Jacopo Dal Verme e
affrontare l’armata di Roberto III del Palatinato, re dei Romani, calato con
136
137
Cecchino, detto Broglia da Trino, piemontese di Chieri, era stato compagno d’armi di
Ottobono nel 1393 e nel 1396. Nell’ottobre 1398 si era fatto acclamare dal popolo signore di
Assisi con il titolo di dominus generalis e gonfaloniere, cariche che manteneva ancora al tempo
dell’assedio.
Bastia Umbra. La rocca si ergeva nella piana, tre miglia sotto Assisi, in riva al Chiascio.
51
un’armata di quindicimila cavalli dalla Baviera e da Trento su Brescia agli inizi
d’autunno del 1401.
Il tedesco poteva contare allora sull’appoggio delle truppe
dell’arcivescovo di Colonia e del duca Leopoldo IV d’Asburgo, figlio di Viridis
Visconti, alle quali si aggiunsero quelle dei Carraresi con i loro collegati.
Il 21 ottobre Roberto III aveva posto in vicinanza delle mura bresciane il
quartiere delle sue truppe. Mentre queste attendevano gli ordini operativi,
convocò in consiglio di guerra i suoi capitani per decidere sul miglior
proseguimento delle operazioni belliche che, oltre a essere dirette
nell’immediato alla conquista di Brescia, avevano l’obiettivo più ambizioso di
spodestare Gian Galeazzo. A questi aveva già intimato, incalzato anche da
Carlo Visconti e Mastino Visconti, orfani di Bernabò e pretendenti l’eredità
usurpata dal cugino, di lasciare ogni dominio dell’Impero illegittimamente
occupato. Il duca di Milano gli aveva risposto di non riconoscere altro re che
Venceslao.
Ottobono e Facino Cane, attestati in Brescia, mandarono dapprima delle
pattuglie di esploratori a testare il nemico e dopo i primi scontri tattici con i
Tedeschi, tutti vinti, decisero un’iniziativa più aggressiva. Il 24 ottobre, alla testa
di 8oo cavalieri, essi andarono alla carica assalendo furiosamente gli imperiali
usciti dal campo in cerca di foraggi e vettovaglie.
I Tedeschi non ressero a quell’attacco fulmineo e micidiale. Dopo essersi
spesi in disperati tentativi di reazione, furono messi in una rotta indecorosa.
Inseguiti fin dentro il loro campo dalle milizie ducali, abbandonarono un
bottino di mille cavalli, due stendardi, oltre a gran quantità di prigionieri. Tra
questi si trovò anche il duca Leopoldo IV d’Asburgo, liberato dopo tre giorni
perché disponibile ad avviare trattative segrete.
La vittoria di Brescia, conquistata anche grazie alla celere e poderosa
efficienza bellica delle compagini militari di Ottobono e del Cane, ebbe
immediate conseguenze politiche perché il duca Leopoldo, l’arcivescovo di
Colonia e il Carrarese, percossi e delusi dal pessimo inizio della campagna
militare, abbandonarono il re dei romani ai suoi evanescenti progetti e
tornarono nelle loro sedi d’oltralpe o padovane.
Roberto III del Palatinato, rimasto privo di ogni supporto e di alleati,
covando i suoi rancori per pretesi tradimenti, dopo soli quattro giorni di
campagna, tornò a Trento. Licenziate quindi gran parte delle sue sconfitte
milizie tedesche, trascorse tra gli ozi l’inverno a Venezia, congiurando
stancamente contro il Visconti, finché, nell’aprile del 1402, decise di ritornare,
ingloriosamente, nelle terre che ancora conservava in Germania.
Dopo avere contribuito valorosamente alla vittoria di Brescia, e meritata
perciò nuova gratitudine dal duca Gian Galeazzo Visconti, Ottobono si trasferì
con le sue truppe a Verona, accolto e acquartierato a spese della città. Si spostò
poi presumibilmente nella sua rocca di Villa Bartolomea, feudo ereditato dal
padre Niccolò il Vecchio, toltogli dai Carraresi e poi restituitogli dalla Repubblica
52
di Venezia, che si affacciava, a mezza strada fra Legnago e Carpi, tre leghe
distante da entrambe le città, sull’Adige a guardia di un guado.138
Tre mesi dopo, nel gennaio 1402, Ottobono e Alberico da Barbiano, con
le loro soldatesche, si trovarono a depredare il Bolognese, pagando in tangenti
la complicità di Antonio da Camerino, infido capitano di Giovanni Bentivoglio,
signore di quelle terre. Scrive lo storico Gherardacci, attento indagatore di
archivi, che in quel tempo «nacque nuovo disturbo, e tradimento contra il
Bentivoglio, e fu che Antonio da Camarino Capitano delle genti d’Arme de’
Bolognesi si accordò col Conte Alberigo, e con Othobuonterzi Capitani del
Duca di Milano, lasciandogli scorrere, e saccheggiare il Territorio tutto di
Bologna, si come per lo avanti anche era stato consentiente, dandogli li due
Capitani una parte della preda, che facevano, e per quella cagione gl’inimici
senza alcun timore d’intoppo, scorrevano a lor voglia le contrade del
Bolognese».139
In marzo scoppiarono dissapori fra Ottobono e Ugolotto Biancardo, che
degenerarono fino a condurre le rispettive milizie al confronto armato e allo
spargimento di sangue. La battaglia lasciò sul terreno quasi 200 vittime per
ciascuna delle due compagnie, e alla fine anche il Terzi si trovò ferito.
Intervenne a quel punto nelle vesti di mediatore il saggio Jacopo Dal Verme,
che riuscì a placare gli animi.
La battaglia di Casalecchio
In quelle settimane del 1402 il nerbo dell’armata ducale viscontea si stava
concentrando sopra Bologna, schierando i migliori capitani in attesa di
scatenare l’offensiva finale contro Giovanni Bentivoglio. Era l’obiettivo
principale da assicurare, base di lancio per il successivo assalto alla conquista di
Firenze, previsto dai programmi decisi da Gian Galeazzo, inseguendo le
ambizioni di espansione territoriale del Ducato. Le forze del Visconti erano
supportate da quelle degli alleati, il signore di Mantova Francesco Gonzaga e
La meticolosa ricostruzione della vicenda ereditaria si legge in una sentenza ottocentesca del
Tribunale di Venezia: «Nel secolo XIV dappoichè Giovanni Galeazzo Visconti duca di
Milano ebbe tolta Verona agli Scaligeri, e con essa anche il possesso di Villabartolomea, di cui
pare fossero investiti come di feudo dal vescovo di Verona, la concesse a Nicolò de’ Terzi, il
quale n’ebbe dal vescovo la investitura: senonchè esso Nicolò od il figlio di lui Ottobono e
fratelli vennero privati di quel feudale possesso in forza della occupazione di Verona fatta dal
Carraresi e conseguente confisca. Ma poiché la Repubblica di Venezia, deliberando di togliere
la città e marca di Verona al Carrarese, nel romper in guerra, assoldava ai propri servigi
l’Ottobono de’ Terzi, riputato capitano, con mano di lancie e di fanti, fece al medesimo
promessa (oltre del pattuito corrispettivo in danaro) di restituirgli in caso di buon esito della
guerra il possesso di Villabartolomea. E quando la Repubblica poté insignorirsi di Verona e
del veronese, mantenendo il patto stipulato, volle e fece che Ottobono de’ Terzi si riavesse
Villabartolomea con tutte le immunità, libertà, esenzioni e giurisdizioni per sè e fratelli, e suoi
eredi e successori, siccome si legge nelle ducali 25 agosto 1404 e 4 novembre 1405»: Sentenza
(in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli),
cit., pp. 559-569.
139 C. GHIRARDACCI, Della historia di Bologna, II, Bologna 1657, p. 525.
138
53
quello di Rimini, Pandolfo Malatesta. L’esercito bolognese di Giovanni
Bentivoglio era agli ordini di Bernardo della Serra, inviato dai Fiorentini in
soccorso dei Felsinei con quattromila cavalli e «molta fantaria da piè». Lo Sforza
e Fuzzolino Tedesco lo affiancavano con le loro truppe alle quali si aggiunsero
il 12 maggio, altri rinforzi inviati da Padova dai Carraresi.
Gian Galeazzo Visconti fin dal 16 aprile aveva scelto quale capitano
generale del suo esercito Francesco I Gonzaga: un incarico onorifico, perché il
comando supremo effettivo restava affidato ai tecnici militari, il gran
connestabile Alberico da Barbiano e l’esperto Jacopo Dal Verme. L’armata
viscontea, forte di 12 mila cavalli e 5 mila fanti,140 si concentrò attorno a
Mirandola. Ottobono era al comando di 450 lance.141 Quando lo schieramento
fu completato, il Capitano generale, convocato il Consiglio dei signori e dei
capitani, propose che per l’ossequio dovuto alle antiche buone usanze si
portasse la rituale disfida al signore di Bologna. Per recare con bel garbo la
medesima, che incartava comunque una dichiarazione di guerra a Giovanni
Bentivoglio, furono designati i capitani Ottobono Terzi e Ludovico Cantelli.
Adempiuta quell’ambasciata in omaggio all’antica liturgia bellica, nei giorni
seguenti il gran connestabile Alberico e Ottobono Terzi cavalcarono con le loro
truppe verso Casalecchio per impadronirsi dello strategico ponte sul Reno che
controllava l’accesso a Bologna, distante tre miglia. Il varco era presidiato dalla
Compagnia della Rosa e col sopraggiungere delle truppe guidate dai due
Capitani viscontei si accese «crudelissima zuffa nella quale molti si giacquero
estinti da ambo i lati».
Non durò troppo quello spargimento di sangue, perché le truppe
fiorentine, contati presto i primi caduti, demoralizzate a quella vista,
abbandonarono quel caposaldo vitale al nemico per cercare rifugio, in rotta
sempre più disordinata, a Bologna lasciando così sul campo di battaglia altre
vittime e la reputazione militare.
Il gran connestabile Alberico da Barbiano, affidato il ponte conquistato
al presidio delle milizie di Ottobono, manovrò l’esercito visconteo contro
quello bolognese per chiudere ogni via di scampo e impedire la ritirata. Alle
prime luci dell’alba, il 26 giugno, tutta l’armata era raccolta sotto le bandiere
ducali e Jacopo Dal Verme pregò il gran connestabile di ordinare la formazione
Secondo la Cronaca Carrarese dei Gatari, quell’esercito era ancora più forte: 16 mila cavalli e 5
mila pedoni, ma li dimezza Gino Capponi: «Giovan Galeazzo facea radunare sotto Bologna il
maggior nerbo delle forze sue con otto mila cavalli dov’erano molti dei più reputati italiani
condottieri, e a capo di tutti Alberico da Barbiano»: G. CAPPONI, Storia delle Repubblica di
Firenze, I, Firenze, 1875, p. 406.
141 La struttura funzionale della «lance» era il risultato dell’evoluzione nell’impiego della cavalleria
pesante medievale diretta a massimizzare il risultato offensivo del cavaliere assaltatore,
tutelandone nel contempo la difesa. Utilizzava un nucleo operativo autonomo costituito da
un numero variabile di combattenti, generalmente tre, ma poteva schierarne fino a sei, o
nove, con armamento specializzato (spade, lance lunghe, picche, archi, balestre) per armigeri
a cavallo e pedoni.
140
54
delle distinte schiere. Alberico da Barbiano accettò l’invito, ma restituì subito la
cortesia, esortando Jacopo stesso a provvedere.
Si assegnò così la prima schiera a Facino Cane e a Ludovico Cantelli con
due mila cavalieri; Francesco Gonzaga ebbe il comando della seconda con il
conte Ludovico da Barbiano, o da Zagonara, presunto figlio di Alberico; la
terza fu data ad Antonio da Montefeltro, conte di Urbino e a Pandolfo
Malatesta; la quarta la ebbero Ottobono Terzi e Princivalle della Mirandola, al
comando di duemila cavalli. La quinta se la riservò il gran connestabile
Alberico. La sesta e ultima con quattromila cavalli la sostenne Jacopo Dal
Verme a guardia dei vessilli viscontei.
Stabilite che furono le schiere anche sul versante dei Bolognesi, le truppe
con i loro capitani in testa si precipitarono all’assalto e la pugna divampò feroce.
Lo Sforza, che stava creando molti danni tra i viscontei, fu assalito dal
Gonzaga, quindi disarcionato, ferito e fatto prigioniero.
Quando Ottobono partì alla carica, Lancellotto Beccaria di Robecco lo
intercettò d’impeto e nello scontro entrambi rovinarono a terra; furono subito
raccolti e riportati in sella dai loro serventi.
La battaglia non tardò a risolversi in favore dell’armata ducale la cui forza
era soverchiante rispetto a quella dei Bolognesi. Resisi conto di non poter
sostenere più oltre gli scontri, i Felsinei si lanciarono in un veloce ripiegamento,
presto degenerato nell’onta di una rotta che li disperse completamente. I caduti
e i prigionieri furono innumerevoli.
Fra i più illustri che finirono catturati si contarono i fratelli Carraresi,
Luca da Lione e persino il comandante in capo dell’armata bolognese, nonché
capitano della Compagnia della Rosa, Bernardo della Serra.
Tre giorni dopo i ducali avevano occupato tutta la città. Alberico vi era
entrato da trionfatore, offrendone il governo a Nanne Gozzadini. Questi
convocò immediatamente le magistrature, sospinto dal velleitario intento di
rianimare le antiche istituzioni comunali. Ma Gian Galeazzo Visconti, che aveva
atteso l’esito degli scontri nelle retrovie, al tramonto del 30 giugno irruppe entro
le mura e si proclamò signore di Bologna.
La strada per arrivare a impadronirsi di Firenze, ormai circondata, e
attestarsi risolutamente in Italia centrale gli era stata aperta.142 Ottobono,
142
La battaglia è stata accuratamente narrata da Cherubino Ghirardacci nella sua Historia di
Bologna. Quanto a Giovanni Bentivoglio, questi, dopo avere tentato una difesa della mura di
Bologna, si trovò bloccato dalla sommossa del popolo inferocito nei suoi confronti. Per
sfuggire a questa minaccia, ricorse al travestimento nascondendosi presso la sua vecchia
nutrice. Di qui lo tolse un conte Alberico da Barbiano assetato di vendetta, come scrive
Ghirardacci: «Non era per anco sodisfatto il Conte Alberigo della vendetta contra Giovanni,
per la morte del fratello ucciso da Giovanni, se bene il vedeva privo della Signoria di Bologna,
se anco non lo vedeva privo di vita. E però raccordandosi ch’egli era per anco distenuto in
Palazzo in una Camara appartata [...] il Conte d’indi lo trasse, e lo condusse in Piazza, dove à
guisa di mansueto Agnello, senza formar parola, fu crudelmente da’ Soldati, e da’ suoi nemici
ucciso, e tagliato a pezzi minutissìmí, e posto il Corpo lacerato dentro un Mastello, e portato
alla Chiesa di S. Giacomo de gli Eremitani senza pompa funerale ſu sepolto». Cfr. C.
GHIRARDACCI, Della historia di Bologna, cit., p. 535.
55
coadiuvato in armi dai fratelli Giovanni e Giacomo, tornò quindi a combattere
in Toscana agli ordini di Alberico da Barbiano, che, alla testa di un esercito di
18 mila fanti e 12 mila cavalieri, stava portando una guerra senza quartiere
contro Firenze.
Lo sguardo retrospettivo della storia ci consente di scoprire sul teatro
della battaglia di Casalecchio la singolare vicenda, frutto dell’ironico, e tragico,
intrecciarsi dei destini umani, vissuta da due inconsapevoli protagonisti: i
capitani in armi Ottobono Terzi e Ludovico di San Bonifacio, o Sambonifacio,
l’uno contro l’altro armati. Il conte Ludovico si trovò allora a combattere
nell’armata del Carrarese contro Ottobono del quale, quindici anni dopo quella
battaglia, che lo vide sconfitto e fatto prigioniero, avrebbe sposato la vedova,
Francesca da Fogliano.143
I Terzi investiti dei feudi di Giberto da Correggio
Gian Galeazzo Visconti, con proprio diploma, formato il 29 luglio
1402,144 investì, i fratelli Ottobono, Giacomo e Giovanni Terzi, eredi di
Niccolò, dei feudi e castelli di Guardasone, Traversetolo, Montecchio Emilia,
Scalochia, Bazzano, Rossena, Sassatello, Gombio, Brescello, Boretto, Gualtieri,
Cavriago e Colorno, già intestati a Giberto da Correggio, morto senza lasciare
eredi: «Castrum Guardaxoni, et Terram de Traversetulo, Castrum Montisluguli,
Castrum Scalochie, Castrum Bazani, Rocham de Colurnio, et Rocham de
Cruviacho Episcopatus Parme, et Castrum Rosene, Castrum Sassadelle, et
Castrum Gombie Episcopatus Regij». Contestualmente, su quelle terre, ai Terzi
venne conferito anche il mero et mixto imperio, omni modo jurisdictione, et plena gladij
potestate, ossia la capacità di esercitarvi la giustizia civile e criminale.
Nei diplomi, mentre si elargivano benefici ai figli di Niccolò (il miles
Ottone, il doctor legis Giacomo e poi Giovanni) spectabiles dilecti nostri domini, si
rammentava e onorava il loro defunto padre, già suddito leale di Gian
Galeazzo: «Grata et laudabilia considerans servitia, que fideliter et indefesse
eidem actenus exhibuerunt quondam spectabilis Miles et dilectus Consiliarius
suus dominus Niccolaus de Tercijs Comes Tizani ac Castrinovi Terciorum». Le
concessioni stabilite in questo diploma furono confermate a tutti gli effetti,
dopo la morte del duca, dai Reggenti con un secondo atto, rogato il 18
novembre 1402.145
«El conte Lodovigo de Sancto Bonifacio» era allora capitano agli ordini dei Carraresi,
intervenuti in aiuto del Bentivoglio. Cfr. G. e B. GATARI, Cronaca Carrarese, cit., p. 482.
144 Integralmente trascritto dall’Affò, ripreso e corretto dal Tiraboschi, il diploma precisa anche la
concessione ai Terzi degli «edifitiis, Curte, & hortis, & pertinentiis suis omnibus» che Giberto
possedeva a Parma, tra i quali la casa «in Vicinia Sancti Martini sopolanorum». Cfr. I. AFFÒ,
Istoria della città, e ducato di Guastalla, I, Guastalla 1785, pp. 379-387.
145 «Catarina Ducissa et Johannes Maria Anglus dux Mediolani &c. Papie Anglerieque Comitissa
et Comes Anglerie, ac Bononie, Pisarum, Senarum, et Perusij Domini. Habentes veram et
indubiam noticiam, quod felicis et semper recolende memorie quondam Illustrissimus
Princeps et excellentissimus Dominus Johannes Galeaz Dux Mediolani &c. Consors et
143
56
Morte di Gian Galeazzo Visconti
Il 3 settembre 1402 Gian Galeazzo morì di peste nel castello di
Melegnano, dove si era rifugiato per sfuggire al contagio. Avuta la notizia del
decesso, Ottobono tolse le sue truppe dall’assedio di Firenze per raggiungere a
marce forzate Milano e partecipare con gli altri condottieri ducali alle solenni
esequie. I solenni funerali, celebrati il 20 ottobre, sono stati descritti dalle
cronache in tutta la loro superba magnificenza. Stupì la gran parata di vescovi e
prelati, di ambasciatori, legati di tutti i principi e comuni dell’alta e media Italia,
con le rappresentanze di tutte le sue città seguite da «cinquemila tra cacciatori e
cortigiani, dodicimila di popolo d’ogni città, femmine milanesi abbrunate e
piangenti».146 Formidabile apparve lo schieramento dei suoi capitani e armigeri
più illustri, con Ottobono in prima fila. Altri della famiglia dei Terzi figuravano
al posto d’onore in quel memorabile evento: il cugino Antonio, figlio di Giberto
e valoroso capitano d’armi, recava assieme ad altri 36 patrizi e condottieri il
feretro, mentre a reggere le aste del baldacchino di panno d’oro che lo
sovrastava era stato chiamato il fratello minore d’Ottobono, Giacomo, il
giureconsulto, privilegio che questi condivise con i Rossi, i Pallavicino di
146
genitor noster honorandissimus, grata et laudabilia considerans servitia, que fideliter et
indefesse eidem actenus exhibuerunt quondam spectabilis Miles et dilectus Consiliarius suus
dominus Niccolaus de Tercijs Comes Tizani ac Castrinovi Terciorum &tc. Et subsequenter
spectabiles dilecti nostri domini Otto miles, et Jacobus Legum Doctor ac Johannes fratres
comes Tizani ac Castrinovi Terciorum &tc. et filij ejusdem quondam Domini Nicolai
ipsorumque fidelitatem expertam, concessit, ac per spectabilem Franciscum de Barbavarijs
primum Camerarium suum dilectum, quem suum ad hec procuratorio nomine suo,
liberorum, et successorum suorum in Ducatu Mediolani &tc. Procuratorem constituit,
concedi fecit in feudum honorificum, ita quod sapiat naturam feudi nobilis et antiqui dictis
dominis Ottoni, Jacobo et Johanni fratibus de Tercijs, Comitibus Tizani recipientibus pro se
et successoribus suis omna et singula castra, fortilicia, villas, possessiones et bona cum
ipsorum regalijs, ac jura, jurisdictiones, honorantias, vassallos, et honores quae fuerunt
quondam Giberti de Corrigia de Guardazono filij quondani Domini Azonis de Corigia, et seu
per ipsum Gibertum tenebantur et exercebantur immunia et exempta, prout dictus quondam
Gibertus habebat, ac cum illis immunitatibus et praeheminentiis acque regaliis que predicto
quondam Giberto, et seu prenominatis Dominis Ottoni, Jacobo, et Johanni competebant, et
seu competierunt, et nominatim et specialiter infrascripta omnia castra, terras, Rochas, et
loca, et ipsorum curias, villas, terrena, et territoria que dictus quondam Gibertus habebat
exempta cum hominibus habitatoribus et habitaturis in eis libere immunia et exempta, et
liberas immunes et exemptas ac etiam cum omnibus et singulis ipsorum et ipsarum regalijs
presentibus et futuris ac cum mero et mixto imperio, omni modo jurisdictione, et plena gladij
potestate, videlicet Castrum Guardaxoni, et Terram de Traversetulo, Castrum Montisluguli,
Castrum Scalochie, Castrum Bazani, Rocham de Colurnio, et Rocham de Cruviacho
Episcopatus Parme, et Castrum Rosene, Castrum Sassadelle, et Castrum Gombie
Episcopatus Regij prout constat publico Instrumento rogato per Johannem de Cavenzassio
publicum Apostolicum et imperialem Notarium Anno Domini MCCCCII. Indictione decima
die vigesimo nono mensis Julij proxime preteriti». In G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi
col codice diplomatico illustrato con note, V, Modena 1794, pp. 145-147. Nell’introduzione al
documento, Tiraboschi scrive distrattamente: «Il duca di Modena investe Otto e i suoi fratelli Terzi
di molti Castelli posseduti già da Giberto di Correggio. Originale nell’archivio della famiglia Terzi».
L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, Piacenza 1858 (stampa
1846), p. 221.
57
Scipione, i Sanvitale e i Correggio, rappresentanti le eminenti casate di Parma, e
con i signori delle maggiori città del ducato.
La scomparsa di Gian Galeazzo sconvolse gli equilibri stabiliti e scatenò
l’anarchia.147 Si visse allora entro i confini di quello che era stato il suo
vastissimo Ducato una situazione ribollente di dinamiche intrecciate e
complesse: «Fu grave crollo che ruppe gran corpo: sorsero i feudatari […] e
ciascuno procacciò d’insignorirsi di qualche parte; i più forti presero le città, i
meno forti le castella. Presto anche i tutori de’ Visconti furono in discordia; e i
nemici si rallegrarono, specialmente il Papa che subito armò».148
Considerando il marasma nelle istituzioni del Ducato, molti capitani
viscontei, e Alberico da Barbiano primo fra questi, non tardarono a cambiare
schieramento, passando al soldo di Firenze.149
Ottobono seppe offrire e ostentare una lealtà quantomeno formale nel
servire in armi i nuovi reggenti di Milano. Un atteggiamento che gli meritò la
nomina a capitano generale e che gli consentì, mettendo in campo il suo
personale talento militare e un certo fiuto politico, di ripristinare il governo nel
Bergamasco e nel Bresciano, senza trascurare il Perugino.150 Fermo nella difesa
delle proprie possessioni e feudi familiari in terra lombarda, sempre in agguato
per dilatarli e carpirne di nuovi, Ottobono fu spregiudicato e aggressivo nel
profittare a proprio vantaggio di quella situazione politicamente terremotata:
occupò Parma, dovendola però subito difendere soprattutto dagli attacchi dei
Rossi e dei Correggio.151 Sconfitte temporaneamente entrambe le casate, il Terzi
le mise al bando; si impadronì dei loro possedimenti e, di fatto, divenne il
Significativa la vicenda di cui fu vittima Ottobono che, tornato in Lombardia in seguito alla
morte di Gian Galeazzo, trovò che i da Correggio avevano subitamente approfittato del
momento per riprendersi le terre dei loro avi, assegnate dal Visconti in feudo ai Terzi poche
settimane prima, il 29 luglio. Cfr. E. PASTORELLO, Il Copialettere marciano della cancelleria carrarese
(gennaio 1402 - gennaio 1403), Venezia 1915, pp. 388-390.
148 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 222.
149 Per quanto riguarda Alberico da Barbiano, è da osservare che a fine gennaio 1403 era scaduto
il suo obbligo decennale di condotta esclusiva con il Visconti. Era quindi libero di cambiare
schieramento. Passò dalla parte della lega anti-viscontea; e da Cremona, partecipò a una
martellante guerra di devastazione.
150 In generale per la situazione creatasi in quel tempo nel Ducato visconteo Cfr. G. C. ZIMOLO, Il
ducato di Giovanni Maria Visconti, in Scritti storici e giuridici in memoria di Alessandro Visconti, Milano
1955, pp. 389-440.
151 I Terzi erano considerati alla stregua di parvenu dalle più antiche e antagoniste famiglie
aristocratiche di Parma. Fa osservare in merito Gentile: «Come è noto, a Parma le squadre
sono quattro, e fanno capo ai Pallavicini, ai Sanvitale, ai Correggio e per l’appunto ai Rossi,
cioè alle casate signorili che si erano definitivamente affermate come egemoni intorno alla
metà del Trecento, e che già negli anni Ottanta del secolo (ben prima, quindi, che Biondo
Flavio non trovasse di meglio come ornamento della città) erano considerate le “quattuor
domus parmenses” per antonomasia. All’interno di questo club esclusivo, già all’epoca di
Gian Galeazzo era evidente come i Rossi disponessero di una clientela nettamente più
numerosa rispetto alle casate rivali.» Cfr. M. GENTILE, La formazione del dominio dei Rossi, in L.
ARCANGELI, M. GENTILE (a cura di), Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, Firenze
2007, pp. 36-37.
147
58
signore della città, mantenendovi il suo potere, implacabilmente contrastato
dalla più influente e diffusa potenza dei Rossi, fino alla sua uccisione.
Per altri aspetti, Ottobono operava con le sue milizie come braccio
armato dei reggenti del Ducato visconteo. Nel novembre 1402 si diresse a
Perugia per toglierla agli occupanti pontifici. Prima di raggiungerla passò con le
sue truppe attraverso le terre bolognesi, razziando e arrecando incalcolabili
danni. Sceso in val Tiberina, si accampò a Ponte Pattoli, sul primo guado del
Tevere, a Nord di Perugia. Comandava 1300 cavalieri e 400 fanti152 portati
all’assalto degli armati di Giannello Tomacelli, il capitano generale pontificio
che stringeva d’assedio la città. Papa Bonifacio IX, fatta lega con i Fiorentini,
aveva chiamato il fratello, coadiuvato da Paolo Orsini, per avvantaggiarsi della
scomparsa di Gian Galeazzo Visconti. Il Tomacelli, messo sotto attacco dal
Terzi, volse le terga e fuggì, cercando asilo a Todi. Così lo ricorda Scipione
Ammirato: «Il marchese alla dappocaggine di non aver stretto Perugia quando
aveva il tempo, aggiunse il peccato della viltà, imperocchè senza aspettare di
vedere in viso Otto Buonterzo, senza sapere di che numero di genti con se
menasse […] si partì con tutte le sue genti da campo, e andossene a Todi,
abbandonando tutte le castella, che a lui particolarmente s’erano rendute».153
Ottobono riconquistò una seconda volta Assisi dopo avere sbaragliato le
milizie di Paolo Orsini, del Mostarda da Forlì, del Carrara e di Braccio da
Montone che lasciarono sul campo decine di caduti. Fatte confluire poi le sue
soldatesche con quelle di Pandolfo Malatesta e di Giovanni Colonna,
rispettivamente al comando di 600 e 300 lance, tutti si diedero a infestare e
saccheggiare il territorio perugino fino alla piana spoletina.
Riconquistate per il Ducato visconteo Perugia e Assisi, Ottobono risalì
quindi con le sue truppe i passi dell’Appennino e il 12 giugno 1403,
nottetempo, rientrò a Parma. Il mattino seguente, all’alba, ne era già uscito con
trecento cavalli da porta San Michele per sorprendere con un’improvvisa carica
l’accampamento dei Guelfi che insidiavano la città. Messi in fuga, questi furono
braccati fino a Sassuolo e Reggio, dove Ottobono devastò le loro terre, facendo
bottino di cavalli e altro bestiame.
Il 21 di quel mese il Terzi mentre accorreva per dar manforte ai
Pallavicino a Costamezzana di Noceto, uscì male da «aspra zuffa» con i Rossi
incrociati presso la rocca di Varano dei Melegari, sempre nel Parmense. Quel
medesimo giorno il fratello Giacomo era con gli Avogari, alleati dei Terzi, che
occuparono e incendiarono la fortezza di Scurano ai confini del Parmense. Con
gli stessi Avogari imperversava Ottobono quando egli inviò le sue soldatesche a
depredare i territori di Correggio e di Carpi, trasferendo poi il bottino a Reggio.
Poche settimane dopo saranno i Rossi e i Correggio, insieme in quest’occasione
ai da Fogliano, che per ritorsione invaderanno i possedimenti dei Terzi, incitati
dai Fiorentini.
152
153
Cfr. P. BONINSEGNI, Historie fiorentine, Fiorenza 1580, p. 774.
Cfr. S. AMMIRATO, Istorie Fiorentine, II, Firenze 1647, p. 896.
59
Ottobono e Giacomo Terzi commissari ducali per Parma e Reggio
La duchessa reggente Caterina Visconti, vedova di Gian Galeazzo, il 27
luglio 1403 nominò Ottobono e il fratello Giacomo commissari ducali per
Parma e Reggio, domini che i Terzi conserveranno sino alla primavera del 1409.
A queste signorie si aggiungeranno più avanti quelle di Piacenza, Fiorenzuola,
Borgo Val di Taro, Pontremoli e Castell’Arquato, Borgo San Donnino e altre
minori.154
La reazione a quell’investitura ducale da parte degli accaniti rivali dei
Terzi, i bellicosi Rossi con le loro squadre, non si fece attendere. Già il giorno
seguente Ottobono fu avvertito che la fazione a lui avversa si stava infiltrando
nascostamente a Parma con i suoi villici e aderenti, pronti ad accendervi
un’insurrezione. Così egli li prevenne, assalendo e sbaragliando prontamente la
guarnigione guelfa asserragliata nella cittadella. Condannò pertanto
all’immediato esilio decennale i Rossi, accordando loro un tempo esiguo per
lasciare Parma, tassativamente misurato dallo smorzarsi d’una candela di dodici
denari posta accesa sopra la campana civica. Una forca fu minacciosamente
eretta sulla pubblica piazza, pronta alla bisogna per togliere la vita, oltre ai beni,
a tutti i trasgressori. Nel frattempo le soldatesche dei Terzi correvano le strade
di Parma urlando Morte a’ traditori! Eseguito quanto decretato, nel corso di un
intero mese mille fanti e altrettanti cavalieri si dedicarono al saccheggio
metodico delle proprietà dei Rossi e dei loro partigiani. I cittadini di Parma,
d’ogni colore, furono obbligati a versare per le spese d’acquartieramento di
quelle truppe una contribuzione di 10 mila fiorini.
I Rossi, espulsi dalle patrie mura con la loro sequela di oltre duemila
partigiani, perpetuarono comunque il loro conflitto con i Terzi, partendo dalle
altre basi che in gran numero possedevano nei feudi parmigiani, arruolandosi
tra le fila degli eserciti pontificio o fiorentino, accasandosi di volta in volta
presso i loro più insidiosi antagonisti. Nel frattempo la reazione di Ottobono
contro quanti fossero anche solo sospettati di voler porre remore all’affermarsi
del suo potere sulla città e sul contado di Parma non si arrestava. Nell’agosto
espulse da Parma per la porta di Santa Croce altri 660 abitanti di malsicura
lealtà.
In soccorso di Brescia
Il primo settembre 1403 Ottobono lanciò da Parma un’offensiva contro
San Secondo e Viarolo: trecento cavalieri e duecento fanti devastarono e
incendiarono quei castelli, oltre mille contadini e pastori con seicento capi di
bestiame furono catturati e portati a Parma. Sospese le spedizioni punitive
contro le squadre dei Rossi solo quando fu chiamato a Milano, ove lo esigevano
154
60
Cfr. A. GAMBERINI, La territorialità nel Basso Medioevo: un problema chiuso? Osservazioni a margine
della vicenda di Reggio, in F. CENGARLE, G. CHITTOLINI, G. M. VARANINI (a cura di), Poteri
signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di leggitimità e
forme di esercizio: Atti del Convegno di studi, Milano, 11-12 aprile 2003, Firenze 2005, p. 69.
per urgenze politico-militari. Al comando di cinquecento lance e cinquecento
fanti, il Terzi fu inviato in appoggio di Brescia, che soffriva l’assedio imposto da
Niccolò III d’Este e da Francesco Novello da Carrara. A Casalmaggiore egli si
incontrò con dei fuorusciti ghibellini e fu avvisato che i difensori della cittadella
erano stremati e prossimi alla resa. Ottobono coordinò le proprie schiere con
quelle di Jacopo Dal Verme e di Galeazzo Cattaneo da Mantova, portandosi
sotto Brescia. Dopo avere tentato inutilmente l’attacco da porta di San
Giovanni, egli si volse con successo a porta Pile, che cadde, consentendo di
rifornire il presidio della fortezza. Dopo due giorni gli Estensi e i Carraresi
furono costretti ad abbandonare l’assedio e si dileguarono con le loro truppe
col favore delle tenebre.
A fine estate Ottobono rientrò a Parma. Lo storico Cherbi registra che il
12 settembre 1403 era in corso la vendemmia tutt’intorno alla città e che le uve
raccolte venivano portate al Terzi. Il medesimo giorno, annotano fugacemente i
cronisti, arrivò a Parma e scese in vescovato madonna Orsina, sua prima
moglie.155
Il giorno 27 fu avvisato che il condottiero parmigiano Gherardo degli
Aldighieri,156 un temibile alleato dei Rossi, stava salendo alla testa di 150 lance
da Castelfranco Emilia. Ottobono, corso all’assalto, lo sorprese e lo vinse nei
pressi di Montecchio. Catturato che l’ebbe, lo fece accompagnare e rinchiudere
nelle segrete della rocca di Guardasone da Simone da Canossa e Antonio
Vallisnieri e ne mandò tutti i cavalli a Parma. La casa del prigioniero e quella del
fratello Antonio furono saccheggiate dalla soldataglia.
L’armistizio con Pietro Rossi
Canossa e Vallisnieri, tornando dalla rocca di Guardasone, dopo avervi
imprigionato Aldighieri, ebbero la ventura di incrociare Pietro, il duce dei Rossi,
scortato da 17 cavalieri, reduce da un incontro e da negoziati intessuti con il
«Vendemmia attorno alla città per un miglio. 12 settembre. Tutte le uve condotte a messer
Otto. Madonna Orsina, moglie di messer Otto, in Parma. Smontava in Vescovato». Cfr. F.
CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 211. Il palazzo del vescovado, prospiciente
la facciata di Santa Maria Assunta, era allora dimora e sede di governo di Ottobono. Il
vescovo era accolto in un edificio più modesto, non lontano dalla cattedrale.
156 Formato dal Barbiano nella sua Compagnia di San Giorgio, poi con il guascone Bernardo della
Serra, fu anche questo un condottiero visconteo, capitano per Gian Galeazzo a Bassano nel
1392. Cinque anni dopo lo si trova infeudato in molte proprietà del Veronese. Di nuovo
capitano e podestà a Bassano nel 1401, agli inizi del 1402 si trovava a Pisa al servizio di
Gabriele Maria Visconti. Nel luglio del 1403 era nel Parmense con la sua compagnia di
ventura formata da 150 lance a fianco dei Rossi e contro i Terzi. Antonio da Cornazzano lo
elenca nel suo poema Arte della Guerra tra i cinque più valorosi capitani di Parma: «Tra’
Capitan Parma ha, l’un messer Otto,/ Antonio l’avolo mio, il Balestraccio,/ Rardo Aldighieri,
e Biancardo Ugolotto». Nella sua versione in prosa del poema, quell’autore mette ancora il
prode Aldighieri accanto all’altro prode parmigiano: Messer Octo de’ Terzi Cornazzani. Cfr. A.
PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 173.
155
61
cardinale Baldassarre Cossa, legato pontificio per Bologna e la Romagna.157 In
quella circostanza, dando prova di tempestività e astuta intraprendenza, i due
riuscirono a catturare anche Pietro Rossi, imprigionandolo nella rocca di
Montevetro, uno dei quattro castelli del Canossa.
Il 29 settembre 1403, Ottobono, non appena ricevuta quella straordinaria
buona nuova a Castiglione, accorse a Montevetro, scortato da 60 cavalieri,
prelevò il suo coriaceo avversario ridotto in prigionia, e lo condusse con sé a
Montecchio Emilia, passando però prima da Parma, dove lasciò intendere che
lo stava portando a Milano, dal duca. In realtà, Ottobono aveva già scelto di
tentare un accordo con il capo dell’irriducibile fazione rivale, risoluto a trovare
un modus vivendi che consentisse a entrambi di tutelare convenientemente i
reciproci interessi di casata nell’ambito della città di Parma e del suo contado.
Sembrava insomma al Terzi che, raggiunta una posizione di forza prevalente,
fossero maturate le condizioni per depotenziare la spirale perversa delle
reciproche faide: s’imponeva una riconciliazione tattica, se non strategica, che
fosse soddisfacente per le attese di entrambe le parti.
Ha scritto a questo proposito Pezzana: «Così importante cattura fece
parere ad Otto di essere ormai padrone non solo della campagna, ma delle
castella dei Rossi. E nel colmo della sua gioja rattemperò le asprezze contro la
parte rossa, concedendo grazia di rientrare in Città a coloro che nel
supplicavano. Molti ne furono ammessi di fatto il dì quarto del mese seguente.
E indubitato che questo ammansire del fiero Ottobuono procedesse da’
concerti già avuti col suo prigioniere Pietro Rossi di dividere tra loro l’ingorda
preda della Città di Parma, spartimento che non istette guari ad essere posto in
effetto. E così si credette sin d’allora. Ed anche Fulvio Azzari racconta che fu
per certissimo tenuto da ognuno che tra loro non più come nemici, ma come
amici maneggiassero d’usurparsi comunemente il dominio della patria, e quello
che sigillò questa opinione fu il vedere il 3 di novembre ad esser posto Pietro in
libertà. Uscito questi di prigionia ritornossi a S. Secondo».158
Manifestamente quell’accordo tra Terzi e Rossi fu imposto dal primo al
suo prigioniero. Chi lo subì, fu costretto a esercitare tutto il suo spirito
pragmatico per cogliere il meglio che quella scomoda posizione consentiva. La
dinamica degli avvenimenti successivi gli avrebbe poi offerto, doveva sperare,
altre occasioni di rivalsa.
Il mestiere delle armi e del condottiero
Il 17 ottobre 1403 i fratelli Terzi, figli ed eredi di Niccolò il Vecchio, si
accordarono per suddividere le loro terre, borghi e castelli.
L’intraprendente cardinale Cossa, discendente dai signori di Ischia e Procida, sarebbe stato
eletto sette anni dopo papa nel concilio, o conciliabolo (in quanto giudicato illegittimo) di Pisa
con il nome di Giovanni XXIII, l’antipapa.
158 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 43.
157
62
Ottobono preferì installarsi temporaneamente alla Colomba, in terra
piacentina, nei pressi dell’abbazia cistercense fondata nel 1135 da Bernardo di
Chiaravalle. Comandò ai suoi militi di raggiungerlo nella nuova dimora,
lasciando a Parma qualunque cosa potesse appartenere alla città. Oltre che delle
terre e del patrimonio doveva senza tregua preoccuparsi della gestione assai
gravosa delle condotte militari, intuibilmente complessa per la consistenza e la
diversa qualità del personale, nonché delle strutture di supporto sottoposte al
suo comando: le lance, i cavalieri e i fanti, e quindi il patrimonio preziosissimo
dei cavalli da guerra. Il tutto doveva essere coordinato con le strutture logistiche
e di servizio, armi e armamenti. Era un’impresa dalle dimensioni imponenti, da
governare investendovi un fiume di denaro ed ogni sapienza, anche
amministrativa, in modo da renderla quotidianamente idonea a competere tanto
sul piano offensivo quanto su quello difensivo. Come un moderno capitano
d’industria, il condottiero del Quattrocento doveva combattere e vincere
l’eterna battaglia delle problematiche gestionali, reprimere i costi e le spese
sempre incombenti per acquisire risorse umane e strumenti bellici, col fine di
conquistare mete e obiettivi, guerreschi ovvero politici, o anche solo di
prestigio, prescelti dal condottiero, o a lui contrattualmente richiesti e imposti.
Bisogna considerare l’onere altissimo da sostenere per armare tutta la
Compagnia, e quindi corazzare le difese di ciascun pedone, di tutti i cavalieri o
lance, con le rispettive cavalcature, da capo a piedi (e zampe). Ai costi
d’impianto si sommavano poi quelli, parimenti gravosi e assillanti, che esigeva il
normale funzionamento di quella struttura guerresca, per mantenerla e
foraggiarla, collettivamente e individualmente, mirando al massimo della sua
efficienza durante tutte le stagioni dell’anno, nessuna esclusa, curandone la
manutenzione in itinere e la reintegrazione dopo ogni conflitto.159 Sono
eloquenti al riguardo le notizie che descrivono il condottiero Ottobono Terzi
impegnato durante un crudo inverno, agli inizi del 1408, nell’addestramento
metodico delle sue truppe, preoccupato di mantenerne sempre elevata, anche
durante la pausa delle stagioni morte, la reattività offensiva: ripulite da ghiaccio,
neve e fango le strade di Parma, le aveva trasformate in palestra d’armi. Il
giorno 5 gennaio 1408 giostrava con i suoi cavalieri sulla piazza maggiore.
159
Per governare questa galattica massa di problemi gestionali, economici e finanziarie oltre che
organizzativi, il capitano d’armi, un signore della guerra come Ottobono Terzi, doveva
possedere indubbiamente anche i superiori talenti di un moderno capitano d’industria.
Un’impresa che, oltre alle complicazioni normali, straordinarie e critiche, presentava quella di
essere per sua natura mobile, sempre in movimento verso nuovi quartieri e battaglie,
parzialmente stanziale solo nel corso degli assedi; un’azienda che esplicava quindi la sua
efficacia militare muovendosi su territori vasti, inseguendo tattiche e strategie basate
soprattutto sul movimento, anche nel corso degli assedi. Infine, particolare tutt’altro che
ignorabile: la massa armata dei numerosi ‘dipendenti’ assoldati da questa tipologia d’azienda
era una raccolta di caratteri alquanto esigenti circa la misura e la scadenza di quanto loro
dovuto. Il peculiare aspetto aziendale della condotta è stato descritto anche da M. MALLETT,
Signori e mercenari: la guerra nell’Italia del Rinascimento, Bologna 1983.
63
Il perseguire e preservare un’alta efficienza bellica caratterizzava nel XV
secolo l’operatività delle nuove compagnie di ventura, guidate da capitani
d’armi, dei quali Ottobono costituiva una significativa incarnazione, usciti tutti
dalla scuola di Alberico da Barbiano, autentici professionisti e signori della
guerra.
Stabilmente organizzate e costantemente operative, è difficile paragonare
le nuove compagnie a quelle raccogliticce di ventura medievali, perpetuamente
sofferenti per carenze di rifornimenti, comunque utilizzate episodicamente,
pronte a sciogliersi con il calare degli incentivi.
Le esigenze peculiari dei nuovi condottieri quattrocenteschi, qui appena
accennate ed esemplificate, sono state del tutto trascurate nelle narrazioni degli
storici antichi, che per contro abbondano in valutazioni moralistiche sull’esosità
degli irascibili capitani d’armi. Accuse scagliate soprattutto contro il Terzi, al
quale s’imputò, spesso non a torto peraltro, la veemenza truculenta delle
recriminazioni per i ritardi nei pagamenti che egli doveva sopportare.
Spezzando una lancia a favore del sulfureo Ottobono, è parso giusto qui
rammentare come quel condottiero avesse delle urgenze meritevoli di
considerazione. Una sopra tutte: l’entità delle sue spettanze, stabilite nel
vincolante e dettagliato contratto di condotta che regolava i rapporti fra
capitano d’armi e signore, comprendeva anche la parte da ridistribuire, come
soldo, ai singoli combattenti, numerosi e tutti altrettanto impazienti di passare
alla cassa per riscuotere quanto loro dovuto, a fronte dei rischi mortali sfidati e
sangue versato, e tutti dotati di pessimo carattere, atto più ad aggredire che a
sopportare.
Si è calcolato che il credito vantato dal Terzi presso i Visconti nel 1403
avesse raggiunto l’imponenza di 50 mila ducati, ed era fatalmente destinato ad
aumentare. Il primo novembre, causa la persistente scarsezza di aureo contante
nelle proprie casse, il duca decise di assegnargli, a titolo di acconto e
compensazione per stipendi di condotta pregressi, il castello e la villa di
Montecchio, i borghi di Brescello, Boretto, Castelgualtiero, Borgo S. Donnino e
Fiorenzuola d’Arda, aggiungendo «l’acqua del Po», ovvero i diritti di riscossione
delle regalie per pedaggi al guado, installazione di mulini e utilizzi
nell’irrigazione.
Signore di Parma con Pietro Rossi
Avuta notizia che i Sanvitale stavano fortificando la torre di Gajone e che
altrettanto stavano facendo i Rossi con la torre della chiesa di Porporano,160
dubitando che questo preludesse all’accendersi di nuove ostilità da parte di
quelle famiglie alleate contro i Terzi, in dispregio dei patti concordati, Ottobono
persuase Pietro Rossi a intervenire, tutelando entrambi e la pacifica convivenza.
160
64
Località che oggi sono frazioni del comune di Parma.
Proseguivano in questo tempo i mercanteggiamenti di Ottobono con la
Repubblica di Firenze, che intendeva assoldarlo per sostituire Alberico da
Barbiano.161
Nel mentre Parma era attanagliata dai rigori di un inverno
straordinariamente ostile, livida e stretta in una morsa di ghiaccio, 162 sul fronte
politico, all’opposto, si infiammavano sempre più gli scontri tra le fazioni l’una
contro l’altra armate entro le mura cittadine e nelle terre circostanti, concordi
solo, talora, all’occasione propizia o conveniente, nel rivolgersi contro il Ducato
milanese.
Reggevano, almeno provvisoriamente, gli accordi conclusi fra i Rossi e i
Terzi, ma la loro stipula aveva suscitato la rabbiosa reazione dei Correggio,
esclusi ed emarginati dalle trattative. Peraltro, anche la concordia siglata fra i
primi non escludeva gli scoppi di nuove ostilità quando si passava a calare sul
campo pratico la virtuale spartizione di spoglie, beni e terre e influenze,
disegnata negli accordi stretti da Ottobono e Pietro Rossi.
Le cose presero ad andare male proprio all’inizio del nuovo anno, con il
primo di gennaio 1404, quando, per l’inquietante fermento guerresco che
sembrava percorrere la città, si dovette rimandare la convocazione del consiglio
dedicato alla rituale elezione degli Anziani. Il giorno seguente, i partigiani dei
Rossi devastarono le terre attorno a Fontanellato, catturando molti prigionieri
allo scopo di guadagnarne un riscatto.
I Correggio, per parte loro, guidati da Pietro, tre giorni dopo, intravvista
la possibilità d’impadronirsi di Montechiarugolo, a quel tempo inadeguatamente
difeso, ne andarono all’assalto e tolsero il castello e i relativi beni al duca.
Incitato alla rappresaglia, il giorno seguente Ottobono, forte di trecento lance,
ottocento fanti, sessanta guastatori, un buon numero di palle di ferro con
munizioni e bombarde per scagliarle, mise sotto vigoroso assedio i correggeschi
entro le mura che essi avevano appena conquistato.
Il castello fu rapidamente espugnato, senza danni per beni e persone, e i
da Correggio catturati.
La riconquista di Montechiarugolo da parte di Ottobono rese fieri i
Parmigiani. E piacque anche il suo ordine, stabilito il 12 febbraio, di aprire
porta San Barnaba, la più importante della città, dove passavano tutti i traffici
che utilizzavano la navigazione fluviale fino al Po e ben oltre.
Il 5 marzo un certo Martino da Faenza e un Gasparo de’ Pazzi, di
guarnigione a Borgo S. Donnino, si ammutinarono e, dopo aver fatto
prigionieri gli ufficiali di Ottobono, riuscirono a impadronirsi della rocca. Pochi
giorni dopo, quell’avventura si concludeva con i protagonisti, Gasparo, Martino
e altri nove loro complici, penzolanti da una forca, impiccati per i piedi come
Questo mercanteggiare concomitante alle trattative aperte presso i Visconti per il rinnovo della
condotta fu probabilmente strumentalizzato dal Terzi per far ingrossare i suoi compensi. Cfr.
R. NENCI (a cura di), Consulte e pratiche della repubblica di Firenze (1404), Roma 1994.
162 Il ghiaccio sulle strade era spesso oltre un palmo, così che a ciascun capo di famiglia fu
ordinato d’armarsi di pertiche per spezzarne una porzione assegnata.
161
65
traditori. I Rossi furono sospettati dai cronisti e così pure dallo storico Angeli di
avere istigato quella sollevazione; ma non c’erano prove a convalidare le
illazioni. Né era verosimile che, appena concluso l’accordo con Ottobono,
proprio alla vigilia della sua attuazione, l’avveduto Pietro Rossi lo trasgredisse
così maldestramente.
E i fatti nel loro svolgersi successivo non avvalorarono i sospetti. La
notte del 7 marzo, il Rossi, che, dopo la sua cattura e la liberazione pattuita con
Ottobono, non aveva più messo piede in Parma, vi rientrò. Una dozzina dei
suoi militi scalò col favore delle tenebre le mura della Città presso porta
Capelluta e raggiunse, passando per i camminamenti di ronda e lungo le
‘chioldare’, dove si usava stendere i panni ad asciugare, porta S. Barnaba, che
prese dopo avere catturato il gastaldo incaricato della sua custodia. Quel
manipolo di armati si rinforzò con l’arrivo di altri partigiani dei Rossi rimasti
fino ad allora in attesa.
La porta fu aperta e di qui fece ingresso Pietro Rossi scortato da 34
cavalieri e 200 fanti tra le urla di giubilo di «Viva la parte guelfa!» della folla
accorsa nel frattempo. Lo sprovveduto che si lasciò scappare un «Viva la
ghibellina!» fu subito linciato sul posto.
Nessuno provò più a intralciare Pietro, che cavalcò verso la piazza con i
suoi, accompagnato da una folla crescente di cittadini e popolani. Le donne
affacciate dalle case illuminarono con torce il suo passaggio. In concomitanza
con il crescere dei festeggiamenti si scatenarono nuove vendette contro le
famiglie antagoniste: si lamentarono nel corso della notte molti ammazzamenti
tra i seguaci dei Pallavicino e molte case furono spogliate di tutto e incendiate.
Il giorno seguente contro gli autori di questi misfatti si pubblicò,
significativamente concordato a nome sia del Rossi che del Terzi, un bando di
morte.
Il medesimo giorno, subito dopo il tramonto, dal suo feudo di
Castelnuovo nel piacentino, passando per Porta S. Barbara, giunse Ottobono
con seicento cavalieri inneggianti tutti alla parte guelfa. Venne accolto in gran
concordia da Pietro Rossi che l’aveva preceduto, quale collega partecipante al
comune dominio su Parma. Il popolo, tumultuando in festa, tolse e ruppe le
insegne dei ghibellini e bruciò i legni dipinti con il biscione, blasone dei
Visconti, sulla piazza, davanti al palazzo del Capitano. Quell’insegna del potere
su Parma fu poi sostituita, il 2 di aprile, con le armi affiancate in rilievo delle
famiglie Terzi e Rossi.
Il giorno seguente, si arresero i fortilizi d’ambo i lati dei ponti di Galleria
e Donna Zilia, ove rimasero uccisi solo due dei difensori. Irreparabilmente più
gravi per la memoria storica furono i guasti provocati quel 9 di marzo:
spalancate le prigioni, mandati a fuoco tutti gli usci del Palazzo del Podestà,
finirono completamente arrostiti gli archivi e le scritture che vi si conservavano.
Nel frattempo proseguivano le operazioni per la conquista, palmo a
palmo, della città e del suo territorio. Furono occupati il castello e le rocche di
Porta Nova e di Santa Croce, le cui guarnigioni, disperando nei soccorsi ducali,
66
si arresero. La città fu quindi sgomberata da tutti i villani non aderenti ai Terzi e
ai Rossi, mentre i restanti, tra i quali i Sanvitale e i Pallavicino, si acconciarono
giocoforza alla situazione, piegandosi.
La parte guelfa giurò fedeltà ai due nuovi signori di Parma, che
lanciarono le loro truppe all’occupazione dei feudi del contado, dove i beni
degli avversari estranei al loro patto finirono depredati senza tregua.163
Il 14 marzo fu convocato il Consiglio Generale della città per legittimare
in forma solenne il dominio su Parma da parte di Ottobono dei Terzi e di
Pietro Rossi. Ogni Porta mandò due sindaci come deputati per questa
investitura. Il dì successivo, nella cattedrale, si consegnarono ai signori, con
grande solennità, il bastone del comando, gli stendardi del Comune, le chiavi
della città e delle rocche, in una cornice di popolo, anche in quest’occasione,
esagitato e in gran tripudio.164 Ottobono e Pietro si giurarono l’un l’altro eterna
fratellanza e quindi, mischiando sacro e profano, si comunicarono all’altare
della cattedrale accanto al pulpito, allora ornato con la magnifica deposizione
scolpita da Benedetto Antelami, dividendosi la stessa particola. Quel medesimo
giorno fecero eleggere sedici Signori di Balìa, delegandoli al governo del
Comune.
Altri bandi emessi da Ottobono e Pietro riguardarono l’alloggio inibito
entro le mura ai forestieri non amici; la proibizione ai cittadini di accettare senza
loro espressa licenza qualsivoglia beneficio, chiericato, abbazia.
Ulteriori decisioni furono prese per assicurare alla città adeguate difese in
caso di assedio. Si munì di 200 fanti la cittadella. Ciascuna porta fu assegnata a
due capitani, ognuno dei quali disponeva di vari connestabili al comando di
squadre di 25 cittadini armati. Per rendere più efficace la loro difesa, i due
signori decisero di ripartire le porte assegnando S. Barnaba, S. Croce e S.
Francesco al Rossi; la Nuova, la Bologna e S. Michele, o Cristina, al Terzi.
In seguito a questa assegnazione, a Ottobono toccò la vecchia Città,
ovvero quasi due terzi delle porte con le tre fortezze maggiori: una posizione
che gli garantiva la netta supremazia strategica nel caso in cui egli fosse entrato
in conflitto con Pietro in ambito cittadino, ove quest’ultimo - lo doveva sapere
il Terzi - era ben voluto e apprezzato per il migliore carattere, più mite, amabile
e generoso.
163
164
Ottobono e Pietro ebbero allora anche l’appoggio di Bartolomeo Malaspina marchese da
Fivizzano, che inviò 200 armati tra balestrieri e pedoni, mentre i Fiorentini finanziavano
generosamente il Rossi. Il marchese Niccolò III d’Este mandò da Ferrara ambasciatori a
rendere omaggio a Ottobono Terzi e a Pietro Rossi, accompagnandoli con l’invio di cento
militi che essi assegnarono alla propria guardia personale.
Il 17 arrivò a Parma, per partecipare ai festeggiamenti con il fratello, montando una mula
bianca, ammantato di scarlatto foderato di ermellino bianco, con gran seguito, Giacomo
Rossi, in quel tempo ancora vescovo di Verona. Egli sarà costretto a dimettersi da quella
cattedra l’anno seguente dai Veneziani che avevano occupato la città scaligera e lo
considervano «inimicus nostri dominii». Era sgradito anche ai veronesi, reputato «episcopus
tamquam insufficiens et indignus». Cfr. P. BRUGNOLI, Il primo vescovo veneziano sulla cattedra di S.
Zeno (Angelo Barbarigo), estr. da «Atti e Memorie dell’Accademia di agricoltura, scienze e lettere
di Verona», s. VI, XX, 1968-69, pp. 1-3.
67
L’occupazione di Piacenza
A marzo Piacenza si era ribellata al duca di Milano. Simulando di voler
tutelare i diritti del duca Giovanni Maria, Ottobono, che rimaneva pur sempre
un capitano ai suoi stipendi, entrò nella città, occupandola.
Nelle Storie piacentine, Boselli scrive: «Molti Storici asseriscono, che nel
marzo di quest’anno Piacenza si ribellò al Duca. Sembra adunque che uno o più
caporioni di Piacenza, coll’ajuto d’Ottone e de’ suoi compagni, se ne facessero
Signori. Di questi, due principali sembra che fossero Manfredo Scoto e
Lodovico Scoti. Ma sia che i Piacentini fossero malcontenti del Dominio
usurpato dagli Scoti, o piuttosto che Ottone con promesse e minaccie si
proccurasse il loro favore: fatto è che Ottone poco prima del 2 aprile fu fatto
Signore di Piacenza, rimaste tutt’ora le Fortezze in mano del Duca».165
Il tempo e i modi con cui fu attuata l’occupazione di Piacenza trova
discordi gli storici. Poggiali è incerto se considerare il Terzi alleato degli Scotti o
non piuttosto pronto a profittare dell’elemento sorpresa e dall’inadeguatezza
delle difese piacentine; altri, come Boselli, ritengono che Ottobono sia stato
addirittura sollecitato e coadiuvato in quella fulminea impresa dai cittadini di
Piacenza, che poi lo portarono quasi trionfalmente a spalle sino al Palazzo
pubblico per proclamarlo loro signore.
Azzari, citato da Boselli, indica la data di quell’evento: «Nel giorno 15 di
marzo, il Signor Ottone Terzo di Parma, Capitano d’arme e molto potente,
entrò in Piacenza ed acremente la saccomannò».166 Pezzana per parte sua
posticipa quell’ingresso agli inizi di aprile: «Sotto specie di sostenere i diritti del
Duca Giammaria del quale era uno de’ Capitani, e seguendo l’esempio d’altri di
questi che fìngevano di avere occupate altre città e terre a nome de’ Visconti,
cavalcò in sul finire di marzo colle sue genti verso quella città e vi entrò il dì
primo, od il secondo di aprile».167
In ogni caso, poiché permaneva la vigorosa resistenza di forze ribelli
dentro le fortezze di città, con il podestà e il capitano asserragliati nel
vescovado, Ottobono si trovò costretto a stringerle d’assedio. Fece ripulire tutti
i fossati sotto le difese e costruire un vallo tutt’intorno alla Cittadella e al
Castello di S. Antonino, inoltre fortificò il convento di S. Sisto per impedire
ogni sortita agli assediati.
Il Terzi era tuttavia consapevole di non avere forze sufficienti per
mantenere contemporaneamente un duplice controllo su Parma e Piacenza,
dove l’assedio delle fortezze lo stava logorando. Incombeva inoltre
l’inquietudine che Pietro Rossi, con le mani libere a Parma, potesse divenirne
padrone esclusivo. Fatta conclusivamente di necessità virtù, il 18 di maggio
G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., p. 92.
Cfr. ivi, p. 91. Ma si deve qui osservare che quel medesimo giorno, secondo il Pezzana,
Ottobono celebrava nella cattedrale di Parma il suo insediamento come signore della città
accanto a Pietro Rossi. Come si può constatare, la narrazione e le cronologie seguite dagli
storici antichi sono, talvolta, alquanto confuse.
167 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 57.
165
166
68
riconsegnò la città occupata al suo duca, proprio quando si profilavano
sull’orizzonte le truppe di Facino Cane, reduce dalla guerra con Padova,
rinforzate da quelle di Pandolfo Malatesta e di Luca Cantelli, tutte dirette a
‘soccorrere’ a loro volta Piacenza.168
Ottobono unico signore di Parma
Il Terzi, abbandonata Piacenza, entrò in Parma da porta Nuova, il 22
maggio, dopo il tramonto, alla testa delle proprie milizie a cavallo e appiedate.
Al suo arrivo corrispose simmetricamente la fuga a cavallo per la porta opposta
di Pietro Rossi, che cercò rifugio nella sua rocca di Felino.
Le ragioni di questa precipitosa ritirata del Rossi sono state variamente
spiegate: o con l’intimo timore del fuggitivo di trovarsi privato con violenza dal
Terzi della gestione del potere che solo poche settimane prima gli era stato così
solennemente conferito nel rispetto di tutti i crismi civili e religiosi; o altrimenti
con la cattiva coscienza del medesimo Rossi, che lo sospinse alla fuga verso
Felino, avendo egli effettivamente congiurato per togliere al Terzi la sua parte di
signoria su Parma. Insomma, l’improvviso e improvvido ritorno di quest’ultimo
lo trovò tanto impreparato ad attuare i suoi disegni quanto ad impedire che i
medesimi fossero scoperti. Ne venne che per il Rossi in quella temperie la
miglior soluzione era la ritirata nei propri feudi: se fuggì aveva certo delle ottime
ragioni e lui le conosceva bene.
Qualcosa di quello che Pietro Rossi gli stava apparecchiando sapeva
certamente anche Ottobono e, infatti, nel prendere possesso della parte di
sovranità parmigiana abbandonata dal Rossi, mostrò a quanti volessero leggerle
e capire, certe lettere in cui si spiegava come Pietro lo volesse spogliare del suo
potere.
Lo storico Angeli crede che il Rossi si fosse dato alla fuga anche perché
aveva saputo di una nuova alleanza consolidata dal Terzi con la potente famiglia
dei Sanvitale a lui ostile, patti che cambiavano gli equilibri di potere sul campo.
La conferma anche qui si ebbe quando Ottobono, entrato a Parma, poco dopo
era già in piazza con Giberto Sanvitale, entrambi seguiti da una fitta schiera di
cavalieri e da una turba di 600 militi a piedi e di villani partigiani accorsi dal
contado. Le squadre vincenti, come sempre, si precipitarono a profittare delle
nuove circostanze, dandosi al saccheggio indiscriminato delle case, con
predilezione per quelle dei Rossi.
Il Consiglio Generale, considerata la realtà effettuale, decretò subito che
Ottobono restava il solo signore di Parma. Questi occupò immediatamente la
168
«Ma avendo Ottone compreso, soggiungono gli Annali Piacentini, di non potere conservare la
Signoria di Piacenza, volle far cosa grata al Duca, e gliela restituì, dopo avervi dimorato due
mesi, o per dirlo più precisamente, fino al 17 maggio, come scrive l’Agazzari nel qual giorno
Piacenza fu restituita al Duca di Milano. Coll’Agazzari concorda la Cronaca di Cremona che
asserisce: nel 18. Maggio essersi saputo che Ottone accordatosi colla Duchessa, le rese
Piacenza; la qual cosa riuscì tanto gradita a lei ed al Duca, che ne fecero far feste nel 20, 21 e
22 dello stesso mese a Milano ed altrove»: G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., p. 92.
69
cittadella, i fortilizi a capo dei ponti e di tutte le porte di città, meno quella di S.
Croce in cui si era rifugiata la moglie di Pietro Rossi, Giovanna Cavalcabò.
Il 23 maggio ordinò a ai cittadini partigiani dei Rossi di consegnare tutte
le armi da offesa e da difesa. Cavalcò poi attorno alla città, marcando il suo
possesso, facendo prigionieri e bottino.
Il giorno 26 armò le artiglierie, cinque bombarde di grosso calibro,
ponendo sotto assedio il fortilizio di porta Santa Croce ove resistevano, con
Giovanna Cavalcabò, Antonio Rossi e altri loro partigiani. Si consentì l’uscita di
otto di questi per facilitare un negoziato con Pietro, che però recisamente
rifiutò ogni approccio.
Ebbe maggior successo la trattativa propiziata dal duca di Milano, che
prevedeva una tregua di due mesi. Ma il vescovo Giacomo Rossi non la accettò,
fidando negli aiuti promessi dai Priori e dai Dieci di Balia della Repubblica di
Firenze al fratello Pietro per la riconquista di Parma. Questi in effetti tornò
dalla Toscana portando con sé 160 lance e la promessa di altre 300.
Il 29 maggio a Giovanna Rossi, moglie di Pietro, venne concesso di
uscire dal forte assediato, libera di tornare a Felino recandovi i propri beni.
Il giorno seguente si arrese anche il forte e un bando severo impose le
condizioni ai Rossi che ancora vivevano entro le mura di Parma: a tutti i
contadini veniva imposto di partirsene entro due ore e mantenersi a una
distanza di 4 miglia dalle mura. Poiché, tuttavia, restava ancora un numero
preoccupante di gente in grado di alimentare sommosse, il primo di giugno
Ottobono comandò che sgomberassero tutti i maschi della fazione rossa
maggiori di dieci anni, imponendo loro di uscire da Porta S. Michele dove
sarebbe stato tolto loro quanto, oro o argento, o danaro, recassero con sé.
Appena usciti tutti questi in osservanza al bando, la soldataglia di
Ottobono non conobbe più freno e si lanciò alla razzia nelle dimore degli
esiliati. Peggio ancora: insoddisfatte della preda, cominciarono il saccheggio
anche dei luoghi sacri di Parma, terrorizzando i religiosi che cessarono ogni
cerimonia, sbarrarono le porte dei templi, cercando ricoveri sicuri. Anche le
botteghe furono costrette a chiudere, rimanendo aperte solo quelle ormai prive
di ogni mercanzia, perché rubata o nascosta in casa dai mercanti.
In tanta desolazione Ottobono scoprì la propria solitudine, sommersa
dall’ostilità universale. Reagì emanando gride che avrebbero dovuto servire a
contenere gli eccessi delle sue soldataglie, minacciò pene orrende per i predoni,
impiccò qualche capoccia. In quel montare di disordine e violenza incontrollata,
tutte le parti diedero il peggio di sé. Le porte cittadine furono chiuse, salvo
quelle di San Francesco e San Michele.
Oltre le mura, Ottobono correva il contado saccheggiando le proprietà
dei Rossi, massacrando o catturando gli ostaggi di pregio.
I Rossi, incoraggiati anche dall’arrivo a Felino di altre lance fiorentine,
replicarono ruberie, guasti e uccisioni nei feudi degli avversari. Il 31 luglio essi
spianarono le bocche degli acquedotti comune e maggiore, tagliando l’acqua a
Parma
70
La casata dei Rossi
Il conflitto acceso tra Terzi e Rossi, a leggere le cronache parmigiane del
primo decennio di quel secolo, appare come un fenomeno inestinguibile.169
Espulsi da Parma, perseguitati e depredati nei loro feudi, ricompaiono
subitamente più virulenti, vendicativi e numerosi, se possibile, di prima.
Ottobono doveva essere conscio, reagendo con tanta spietata determinazione,
alternata a offerte di fragili ed effimeri accordi, d’aver a fronte una casata
prolifica profondamente radicata a Parma e in tutte le circostanti terre e
castellanie. Qui i Rossi avevano saputo coltivare nei trascorsi decenni,
precedendo il manifestarsi del potere militare dei Terzi, una rete estesa di
aderenti, consorterie, clientele o semplicemente solide amicizie che avevano già
dato molto filo da torcere, in forza della loro prevalenza numerica e supremazia
nelle istituzioni, alle altre tre grandi famiglie parmigiane: quelle dei Pallavicino,
dei Sanvitale e dei da Correggio.
Ottobono favorì indirettamente di suo i Rossi, tra il 1403 e sino alla sua
eliminazione nel 1409, con i propri comportamenti dissennati, gratuitamente
violenti e rozzamente autolesionistici.170 Egli dovette temere, alla fine,
pervenuto a una parziale consapevolezza dei pericoli incombenti, che persino il
Ducato di Milano, oltre alla Repubblica di Firenze, sarebbe potuto intervenire a
fianco dei Rossi. Decise allora, riuscendovi, di rendere più saldo il suo accordo
con la duchessa Caterina e il Consiglio di reggenza. Era un dato di fatto che
egli, dopo aver conquistata Piacenza, l’avesse lealmente restituitata al duca,
liberando il campo. Molto verosimilmente aveva lasciato credere che pure la
conquista di Parma era destinata a risolversi nella restituzione della città al
signore di Milano. Annota Pezzana nella sua Storia della Città di Parma: «Io penso
anzi che sin da quando Ottobuono, restituita Piacenza, ritornò a Parma per
cacciarne Pietro egli avesse fatto credere al Duca di restituirgli anche Parma. A
sodarmi in questo pensiere mi spigne il leggere nelle Cronache di Bergamo che
il dì ultimo di maggio si pubblicarono colà lettere del Duca e della Duchessa
Sulle vicende della eminente casata dei Rossi e in generale sui conflitti che si consumarono nel
XIV secolo, e oltre, tra le fazioni parmensi è indispensabile rimandare ogni approfondimento
agli studi fondamentali di Marco Gentile. In particolare sono da ricordare, oltre a Le signorie dei
Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, cit, anche Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo
all’inizio del Quattrocento, Milano 2001; Fazioni al governo. Politica e società a Parma nel Quattrocento,
Roma 2009.
170 Ben più accorta e lungimirante, all’opposto, la gestione politica dei rapporti assiduamente
curata dagli antagonisti dei Terzi. Annota in proposito ancora Gentile: «Ma ciò che definisce il
peso dei Rossi e di altri casati aristocratici radicati nella zona come Sanvitale, Correggio e
Pallavicini in rapporto ai poteri signorili concorrenti, sono in realtà le relazioni con la società
urbana: direi anzi che il principale fattore che determina la gerarchia dei poteri signorili nel
Parmense (e non solo nel Parmense) è proprio la capacità di lungo periodo di stabilire e di
mantenere legami forti con la città attraverso una clientela, la cui principale manifestazione sul
piano politico è una forma di aggregazione che genericamente si può ricomprendere nella vasta
categoria della fazione». Cfr. M. GENTILE, La formazione del dominio dei Rossi, cit., p. 36.
169
71
ordinanti le solite allegrezze per la ricuperazione delle città di Parma e di
Reggio».171
Il 4 giugno Pietro Rossi, con la regia del fratello Giacomo, già vescovo di
Verona, trasferito poi nella Lunigiana, promosse una lega avente come scopo la
«distruzione e totale consunzione di Ottobuono Terzi e de’ suoi aderenti e
difensori».172 Di questa fecero parte molti dei nemici che via via si era
guadagnato il Terzi, quali Vinciguerra e Lanzario Pallavicino di Varano, i
Pallavicino di Scipione, Giberto degli Aldighieri, Giovanni Marzano
comandante la Società degli Armigeri di Borgo S. Donnino, i Malnepoti di
Cortemaggiore, Francesco e Giovanni Scotti.
Nel frattempo, il condannato alla «distruzione e totale consunzione»
rimaneva vigile e combattivo. Quando Ottobono fu informato che dai passi
appenninici e da Rossena stava calando, al comando del valoroso capitano
Angelo Tartaglia, un gran numero di lance inviate dai Fiorentini in appoggio ai
Rossi e ai loro alleati, egli si lanciò immediatamente alla loro caccia, tese un
agguato alla stretta di Selvapiana, presso il castello di Canossa, annientandoli e
catturandone 360.
Il 14 arrivò a Parma Pietro da Corte, vicario del Visconti, inviato per
tentare un accordo fra Ottobono e Pietro Rossi. Ma l’odio reciproco, ormai
profondamente esacerbato dagli eventi, e la conseguente diffidenza che
albergava presso entrambe le parti rendeva improponibile la riconciliazione.
Una conferma delle difficoltà insormontabili, il vicario ducale la ebbe il
giorno 21, quando si trovava a Borgo San Donnino per convincere i Rossi a
restituire le terre qui tolte ai Terzi: le sue esortazioni ebbero in risposta
l’ennesimo rifiuto convincendolo dell’inanità dei suoi sforzi e del fallimento
della sua opera di persuasione.
Ottobomo, nel frattempo, si rafforzava militarmente e politicamente. Il
22 giugno si aprirono le porte di Parma per accogliere 400 cavalieri al seguito
del capitano Paolo Orsini, inviato da papa Innocenzo VII, sostenitore dei Terzi
contro i Rossi. L’entusiasmo destato dal’arrivo della cavalleria pontificia
coinvolse nei festeggiamenti tutta la città.173 Due giorni dopo un bando dei
Signori di Balìa ingiunse l’espulsione di tutte le donne e dei figli di partigiani e
amici dei Rossi.174
171 A. PEZZANA,
Storia della città di Parma, II, cit., p. 63.
G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., pp. 94-95.
173 Furono disturbati alla fine dall’incendio appiccato dai fuochi della festa al lanternone sulla
torre del Comune, dove arsero le travi facendo rovinare la campana.
174 La persecuzione contro i Rossi e le loro squadre si consumava giorno dopo giorno
moltiplicando gli episodi efferati. Il 21 luglio 1403 Ottobono «li fece proclamare ribelli sulla
pubblica via, con facoltà a chi si fosse di offendere negli averi e nella persona il Vescovo
Giacomo, suo fratello Pietro e tutti i loro partigiani». Il 23, durante una scorreria nei feudi dei
Rossi, fece far prigionieri persino i bimbi di 18 mesi. I bandi d’espulsione dai castelli e dalle
ville dei Rossi colpivano anche i loro alleati Correggesi. Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (14021421), cit., p. 16.
172
72
Ottobono signore di Reggio
Il 24 di giugno 1404, il duca concesse a Ottobono la proprietà della città
di Reggio e del suo castello. Il Visconti intendeva così remunerarlo dei grandi
servigi che questi gli rendeva. Da Erba scrive nel suo Estratto che quella
concessione in proprietà assoluta di città e castello era dovuta a compensazione
delle paghe arretrate che Ottobono vantava nei confronti del duca, ammontanti
a 50 mila fiorini.175 Pezzana precisa: « a’ 25 di quest’ esso mese il Duca gli
concesse in premio de’ suoi servigi la città ed il castello di Reggio [...]
perciocché Otto incominciò tosto ad assumere il titolo di Signore di Reggio.
Pose Ottobuono nella città le insegne Viscontee, e fece riscuotere alcuni dazj in
nome del Duca nel modo stesso che soleasi da’ suoi ministri, e per rimovere
ogni sospetto delle due squadre Sanvitale e Pallavicina a queste si collegò il dì 9
sotto colore di opporsi ai nemici del Duca».176
A Reggio il Terzi esercitò e sviluppò il suo dominio che fu militare,
innanzitutto, ma altrettanto intensamente politico e giurisdizionale e quindi
microstatuale come forma e sostanza caratteristica. Dilatò i propri poteri
personali in ambito legislativo, arrogandosi il diritto di modificare, ovvero
abrogare gli statuti comunali.
Le norme in civilibus furono integralmente rielaborate nel corso nel 1404,
salvo che Ottobono si riservò personalmente in seguito ampio potere di deroga.
In ambito giudiziario egli si attribuì il sovrano potere di grazia, massima ed
emblematica manifestazione di possanza del dominus. Le attività del potere
esecutivo si avvalsero delle strutture amministrative e funzionali del perdurante
apparato ducale visconteo, a partire dalle cariche di podestà e di capitano per
arrivare a quella, più prosaica ma essenziale, di maestro generale delle finanze,
cui competeva l’onere di inseguire la riscossione delle gabelle, entrate ordinarie
e straordinarie. Una struttura che si organizzò in forme di vigilanza e difesa,
estendendola nelle terre del contado ove si ramificava, dal monte al piano, la
rete delle castellanie e dei borghi con i loro vicari.
L’assassinio di Merlino e l’infuriare delle faide
Nell’aspra guerra che continuava a consumarsi fra le anonime genti dei
Terzi e dei Rossi, si è conservata memoria di un episodio e di una vittima che
disvelano sentimenti d’insospettabile, tenera umanità e gentilezza di costumi in
Ottobono, feriti i quali tuttavia, emerge e si scatena l’inumana, belluina reattività
delle sue vendette. È la vicenda del giovane Merlino, legato al condottiero da un
rapporto che, nella descrizione commossa che ne fa il Pezzana, sembra
rievocare l’affetto riservato dall’imperatore Adriano ad Antinoo:
Se conteggiato in fiorini d’oro, ciascuno coniato di norma con bontà di 24 carati e un peso di
3,54 grammi, quella somma corrisponde a ben 177 kg di metallo aureo fino.
176 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 63.
175
73
Un famiglio di Ottobuono, giovine di leggiadro aspetto, di laudabile e
gentil costume, e più d’ogn’altro istrutto ne’ cavallereschi diporti della
danza e del suono, fu preso il dì 14 luglio da’ villani Rossi nelle vicinanze
del castello degli Alberi. A quelle amabilità congiugneva una piacevolezza
nel parlare, la quale condiva di sì arguti e festivi motti, che il suo Signore
soventi volte a ricreamento dell’animo e del corpo affaticati solea con esso
lui intrattenersi. Merlino era il suo nome. Questo amabile giovinetto fu
ucciso il dì sedici da que’ barbari e mandatone il cadavere a Parma come
per beffa all’afflitto padrone. Da tanta rabbia, da tanto dolore fu concitato
1’animo di Otto che orrenda fu la vendetta da lui presane. Fece tagliare in
pezzi censettanta tra cittadini e villani della parte Rossa che erano prigioni
in Parma, e così macellati mandolli sopra 14 carra fuor di porta S. Michele
a Porporano ove campeggiava il nemico. Fece spianare sette case de’ Rossi,
[…] Duranti le esequie di Merlino, fatte in S. Francesco del Prato per
volere di Otto con tanta pompa quanta ne sarebbe stata per lui medesimo,
fu visto quel feroce tiranno piangere di continuo a calde lacrime. 177
Il giorno sei di agosto, Ottobono era all’assalto di Felino, rocca dei Rossi,
dove si era rifugiato il capitano Angelo Tartaglia con i suoi cavalieri, reduci dalla
disfatta di Rossena. Sotto l’attacco furioso del Terzi, nonostante il valore e il
coraggio del condottiero e delle lance fiorentine, queste furono un’altra volta
sconfitte, lasciando numerosi prigionieri tra i Rossi, le cui case furono, com’era
consuetudine, depredate e incendiate.
Sul finire del mese arrivò quindi, com’era inevitabile, la risposta dei Rossi
che, partiti dal loro castello di Felino, portarono la devastazione nelle terre dei
Terzi: a Sissa, Trecasali, Palasone e San Nazzaro. Replicò con maggior profitto
da par suo Ottobono, il quale per rappresaglia, a Parma, penetrò le sacre mura
del monastero femminile di San Paolo, rubò a man bassa ori, argenti, panni
finissimi e un tesoro di seimila fiorini ivi lasciati in deposito dai Rossi, distribuiti
poi tra i suoi a compenso dei loro servigi. Sempre ai Rossi furono tolti tutti i
benefici ecclesiastici o secolari, le proprietà in case o di fondi, legati al
convento.
Il diluviare di notizie di tanti delitti, ladrocini, eccidi, che devastarono e
insanguinarono Parma e le sue terre trasformandole in un inferno, non
potevano lasciare indifferenti i governanti delle altre signorie.
Il 2 di settembre erano giunti in città tre ambasciatori da Venezia,
Bologna e Firenze per avviare con sforzo congiunto trattative atte a sopire i
contrasti delle fazioni, rompere il ciclo perverso e l’effetto cumulativo delle
vendette, spegnere ogni lotta e concludere se non una pace, almeno una tregua
salutifera.
Il giorno sette Ottobono rispose a quelle preoccupazioni promulgando
un bando con il quale si comminava la pena di morte, unitamente alla sanzione
della perdita di ogni avere, contro chiunque tenesse in casa bambini imparentati
con i Rossi e non presentasse immediatamente denuncia di ciò a un suo
177
74
Ivi, p. 66.
ufficiale, il famigerato e spietato Pietro Vianino. Contemporaneamente, si
ordinò che i fanciulli d’età superiore ai cinque anni fossero imprigionati e che
per ciascun minore dei Rossi, denunciato a norma del suddetto bando, si
dovesse dare cauzione di 200 fiorini d’oro da presentarsi contestualmente a
ogni richiesta.
Parma data nuovamente in pegno a Ottobono
Il giorno otto di settembre 1404 il duca di Milano stabilì che la città di
Parma fosse data in pegno a Ottobono a risarcimento dei 78 mila fiorini che il
Visconti doveva al suo condottiero per stipendi arretrati. Il duca si riservò la
facoltà di recuperare la città, improrogabilmente entro un anno, trascorso il
quale Ottobono sarebbe rimasto libero padrone di Parma. L’undici di settembre
si stabilì (o, per meglio dire, fu imposta) e resa pubblica una nuova tregua fra i
Terzi e i Rossi che sanciva, però, l’emarginazione di questi ultimi dalla vita
comunale. Essa prevedeva la cessazione di tutti gli atti ostili fra le due fazioni
entro i giorni restanti del mese. La medesima tregua si poteva prolungare fino al
marzo successivo con il beneplacito di Ottobono. Nessuno della parte rossa
doveva avvicinarsi alla città di Parma o ai castelli dei Terzi superando la distanza
di due miglia, pena la vita dei contravventori. Nessuno dei Rossi poteva abitare
case, né proprie, né altrui, nella città e nelle pertinenze del Vescovado di Parma.
Due giorni dopo, il tredici, quelle disposizioni furono aggravate: tutte le
femmine della parte rossa dovevano uscire dalla città e restarne lontane mille
passi sotto pena del fuoco; chi avesse dato loro ospitalità sarebbe stato
impiccato e messo a ruba ogni suo avere.
Ottobono, dopo avere emanato queste ordinanze perentorie, rivolse le
sue attenzioni ai Manfredi di Faenza, colpevoli di avergli fatto perdere sue
giurisdizioni a beneficio degli Estensi. Il giorno venti andò ad assediare con le
bombarde il loro fortilizio di Mozzadella, o Muziatella, antico maniero eretto
dai Templari, sito nel Reggiano, che si arrese, scendendo a patti, otto giorni più
tardi.
Alla guerra di Padova e nel Veronese
Il 21 ottobre 1404 Ottobono, alla testa di 400 fanti e 200 lance, avendo
accettato di porsi agli stipendi della Serenissima, partì per la guerra che la
Repubblica aveva iniziata contro i Carraresi, signori di Padova. Lasciò il
governo di Parma sotto il presidio del fratello Giacomo, del cugino Antonio
Terzi e di Giberto Sanvitale.
Questi seppero far buona guardia e risposero adeguatamente quando le
squadre dei Rossi, pochi giorni dopo la partenza di Ottobono, tentarono di
sottrarsi alle imposizioni della tregua e rientrare nella signoria di Parma. Nella
notte del 10 novembre, Giacomo Rossi, il fratello vescovo di Pietro, arrivò con
50 cavalli e 1200 fanti. Tentò di aprirsi un varco nelle mura presso Porta
Cappellina, trovandole tuttavia così ben difese che fu costretto a ritirarsi.
75
Riprovò l’impresa dieci giorni dopo con maggiori forze, di pomeriggio e
sotto la pioggia battente, inviò Leonardo Rossi che si portò all’assalto delle
mura presso Sant’Agnese alla testa di 500 cavalli e più di 1500 fanti. Anche
costui fu sconfitto, costretto a fuggire, ottenendo solo d’eccitare le inevitabili
rappresaglie e vendette dei Terzi che, infatti, ripresero martellanti.
Circa la partecipazione di Ottobono agli eventi della guerra scoppiata tra
Venezia e i Carraresi, Tiraboschi premette che «all’improvviso nel mese di
ottobre [...] il Terzi entrato a mano armata nel territorio di Modena, lo scorse
con tal furore, e sì copiosa preda ne trasportò, che il danno si credette che
giugnesse a cento mila ducati».178 Il fiorentino Buoninsegni afferma che questo
accadde perché Venezia volle punire l’Estense per la perdita di Rovigo e del
Polesine: «In questi tempi il Marchese di Ferrara tolse a’ Viniziani tutto il
Pulesine e Rovico, & per quello i Viniziani presono a soldo messer Otto
Buonterzo, & mandarono a’ danni del Marchese, & in sul Veronese».179
Ottobono, conclusa quella spedizione punitiva nel Modenese, raggiunse,
passando per il Mantovano, l’esercito di Venezia concentrato nel Veronese, ove
militavano altri due capitani parmigiani e viscontei, Jacopo Dal Verme e
Ugolotto Biancardo. Domenica 2 novembre l’esercito veneto era attendato a
Bussolengo e quel giorno stesso partirono mille lance circa verso la Valpolicella,
ove rimasero per più di un mese, bloccando tutti i passi e impedendo i
rifornimenti di vettovaglie per il Carrarese, accerchiato a Verona. Sei giorni
dopo Ottobono e Jacopo dal Derme andarono all’assalto delle fortificazioni
della Chiusa, stretta fra Rivoli e l’Adige, le conquistarono e chiusero quindi tutti
i valichi per il Trentino e verso il Tirolo.
Scrive a questo punto Verci che «allora fu fatta una fortissima bastia tra
Gussolengo e Pescantina, ed una a Castelrotto, e fu gettato il terrore e lo
spavento fin dentro alla Città, correndo il popolo a romore, dicendo che i
nemici volevano passar l’Adige, ed assaltare Verona».180
Sempre Verci riferisce un altro episodio bellico in cui si distinse il Terzi,
combattuto gli ultimi giorni del 1404, «motivo di grandissimo dispiacere» per il
signore di Padova: «Imperciocché uscito di Verona Giacomo da Carrara con
ottocento cavalli, e mille pedoni per venire a Montagnana, e far colà una bastia,
e chiudere il passo a Jacopo dal Verme, e Ottobon Terzo, questi due bravi
generali, che se n’accorsero, se gli fecero incontro con numero assai superiore
di genti, ed assalitolo lo mise in fuga, facendo prigioni trecento cavalli de’
Veronesi, e tutti i carriaggi».181
Il 7 gennaio 1405 Ottobono con Jacopo Dal Verme era sotto le mura di
Verona, in Lungadige San Zeno, presso porta Calzolari, di scorta a Francesco I
Gonzaga. Questi era sopraggiunto dal suo campo posto a Cavaion dopo avere
comperato delle sentinelle veronesi, come narra il Verchi:
G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi, III, cit., p. 77.
P. BONINSEGNI, Historie fiorentine, cit., p. 785.
180 G. VERCI, Storia della marca trivigiana e veronese, XVIII, Venezia 1790, p. 162.
181 Ivi, p. 170.
178
179
76
Egli avea segretamente trattato con certe guardie che custodivano il muro di
San Zeno [...] I traditori aveano promesso di far tacitamente un’apertura
presso alla porta de’ calzolaj, e mantennero la loro promessa. Il Signor di
Mantova si portò personalmente con tutto l’esercito, ed erano con lui Jacopo
dal Verme ed Ottobon Terzo. Niuno senti la venuta di queste genti, se non
que’ traditori, che gli aspettavano al buco della muraglia rotta, per cui i
Veneziani incominciarono ad entrare audacemente e già n’erano entrati più
di trecento, ed avean preso tre torricelle piantate sopra la porta de’ calzolaj.
Giacomo da Carrara avvisato del grande pericolo in cui si trovava la Città,
poiché udito il rumore dalle sentinelle erasi incominciata fierissima zuffa, si
vestì frettolosamente le armi, e montato a cavallo corse animoso a quel
luogo. Al primo colpo di lancia passò dall’una parte all’altra Francesco
Gonzaga fatto nuovo Cavaliere, e messa mano alla spada gettossi fra quei
ch’erano entrati come un feroce leone. Arrivò di rinforzo Cecco da San
Severino e Paolo da Lione, e il popolo Veronese, gridando muojano i
traditori, i quali dopo fìerissimo contrasto ripresero il luogo rotto. 182
A Piacenza
Ottobono, il 7 marzo, abbandonato il campo e la sua condotta al servizio
della Repubblica di Venezia, tornò al Visconti, scortato da 1200 cavalli e
duecento fanti. Il Da Erba scrive che fece tappa a Piacenza da dove partì il dì 7
aprile per incontrare il duca a Milano, e che il Visconti gli andò incontro sino a
Binasco con più di 2000 cittadini «e gli fece molte carezze».
Il 9 maggio il Terzi ordinò a Pietro da Vianino, delegato all’esecuzione
dei bandi punitivi e spietato nemico dei Rossi, di mettere a sacco le loro terre.
Lo stesso giorno, con un seguito di plebaglia a piedi e di altri a cavallo, il da
Vianino si accanì contro Lesignano facendo demolire persino la chiesa; il 25 e il
31 si rivolgeva contro i castelli di Mamiano, Porporano e Alberi, nei dintorni di
Parma. E questo nonostante pochi giorni innanzi, il 20 maggio, fosse stato
pubblicato un nuovo bando per dar corso a un’altra tregua con i Rossi che
doveva durare fino a metà giugno. Il 30 ci fu un altro bando che impose ai
partigiani di quella famiglia, già cacciati dalla città, ma che, impuniti, erano
subito rientrati, di uscirne prontamente per non essere catturati e sottoposti a
taglia.
Mentre Ottobono si trovava a Piacenza, reduce dalla guerra con i
Carraresi, gli fu chiesto di portarsi in aiuto, alla testa di mille lance e mille
pedoni, a Francesco Visconti impegnato nell’assedio di Lodi in rivolta. L’8
giugno 1405, Giberto Sanvitale, un alleato parmigiano dei Terzi, nominato
podestà di Piacenza, si presentò per esercitare le sue funzioni.
L’accoglienza del ceto magnatizio, sobillato dagli Scotti, fu ostile e
un’insurrezione ispirata dagli stessi costrinse Giberto a trovare scampo nella
cittadella. I rivoltosi consegnarono il controllo del Comune a Gabrino Fondulo.
Due giorni più tardi, Ottobono con Francesco Visconti accorse da Lodi,
182
Ivi, pp. 170-171.
77
smorzò prontamente ogni disordine a Piacenza e reintegrò nei suoi pieni poteri
il podestà Sanvitale.
L’assedio di Lodi, ove Ottobono era intervenuto a fine maggio,
proseguiva frattanto infruttuosamente e stancamente. Scoppiarono ruvidissimi
contrasti circa le soluzioni tattiche e strategiche da decidere fra i capitani
viscontei, così che il Terzi esasperato preferì abbandonare il campo e ritornare
con le sue truppe a Piacenza.
Confermato signore di Parma con Borgo San Donnino
Era arrivato nel frattempo a scadenza il termine annuale stabilito con il
duca di Milano per la restituzione di Parma sotto condizione del pagamento
integrale degli stipendi arretrati spettanti per le condotte di Ottobono.
Le casse ducali non furono però in grado di onorare l’impegno,
sborsando l’ingente somma pattuita, e dunque Parma rimase possesso del Terzi.
Anzi, quel patto fu integrato da una nuova convenzione con la quale Ottobono
ottenne anche Borgo San Donnino con l’impegno dell’intervento ducale a tutela
di quella proprietà contro ogni molestia.
Era una promessa formale, poiché la difesa del Borgo rimase sempre
affidata alle autonome iniziative belliche del Terzi che si trovò da subito
impantanato in un estenuante conflitto. L’11 luglio, infatti, appena ottenuta dal
duca quella terra, Ottobono scoprì che gli era impedito di prenderne possesso:
due terrazzani, certi Giacomino Guarnazza e Giovanni Mazza, agevolati da tre
complici, dopo avere assassinato il castellano, si erano impadroniti del fortilizio
e lo stavano governando a loro proprio nome.
Iniziò con quell’usurpazione un’estenuante guerra locale che intrigò
lungamente Ottobono. Il 14 luglio egli accampò sotto la rocca sue truppe,
rinforzate il giorno seguente da 234 cittadini armati inviati da Parma sotto il
comando di sei connestabili, inalberando lo stendardo comunale, provvisti di
molte bombarde di grosso calibro e gran quantità di munizioni.
Una settimana dopo, il giorno 21, erano radunati davanti al castello di
Borgo San Donnino più di diecimila armati parmigiani. Eppure i terrazzani
seppero opporsi con successo: oltretutto non erano isolati nella loro resistenza,
trovando conforto negli aiuti che clandestinamente venivano assicurati dai
Pallavicino.
Scoperta questa sotterranea complicità, il 28 luglio Ottobono ordinò di
saccheggiare le terre dei colpevoli, o sospettati di esserlo, e di traslocare il
bottino requisito nelle proprie. Conseguentemente, nel contado molti adepti dei
Pallavicino mutarono campo: sostituirono sulle loro porte le insegne della
famiglia caduta in disgrazia con quelle, più protettive in quel momento, dei
Terzi.
L’otto di agosto arrivarono da Parma abbondanti scorte di vettovaglie e
munizioni per gli assedianti di Borgo San Donnino, ma il prolungarsi della
testarda resistenza della rocca convinse Ottobono a trovare in qualche modo
78
un’intesa con i Rossi. Riuscì a patteggiare una tregua per l’agosto, che poi si
prolungò sino a novembre.183
Morte della madre e della prima moglie Orsina
Il 10 agosto era morta a Parma la madre di Ottobono, Margarita. Fu
sepolta alle tre di notte nella chiesa di San Francesco del Prato dei frati minori a
Parma. Il giorno 28, sempre di quell’agosto 1405, si spense a Castelnuovo anche
Orsina, di ignota famiglia, prima moglie di Ottobono.184 Le esequie di entrambe
si celebrarono il 31 ottobre, con grande solennità e un’unica cerimonia, sempre
in San Francesco, tra luci di ceri, sfavillio di croci, gran concorso di popolo
chiamato dal suono delle campane.185 Erano presenti a onorare quelle esequie
Carlo da Fogliano, e il conte Guido Boiardo di Rubiera. L’11 settembre il
castellano di Colorno s’impadronì in nome di Ottobono della fortezza di
Casalmaggiore, facendo quattordici prigionieri. Continuava nei medesimi giorni,
senza esito, il guerreggiare sotto Borgo San Donnino. Il Terzi fece costruire due
bastie distanti tre miglia dalla rocca e quindi, dopo aver acquartierate qui delle
truppe con munizioni e scorte sufficienti per sostenere l’assedio, l’ultimo del
mese tornò con il resto del suo esercito a Parma.
183
184
185
Ma, come sempre, quelle tregue ressero male, tanto che dopo altri contrasti le figure dei due
maggiori esponenti dei Rossi, il vescovo Giacomo e Pietro, finirono dipinte impiccate per i
piedi quali traditori sul palazzo pubblico di Parma. L’ordine di cancellarle arrivò solo il primo
di novembre, dopo un intervento di Carlo da Fogliano.
Cfr. F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 219.
Le cronache del 1456, raccontando la conclusione di una singolare vertenza architettonica ed
ecclesiastica, ci forniscono dei ragguagli circa il luogo sacro riservato alle sepolture dei nobili
Terzi a Parma. Le vicende di quell’imponente tempio, l’intervento per demolire finalmente il
cappellone degli Aldighieri tirato su proprio nel bel mezzo della maestosa navata centrale, ci
informano che quella massa deturpante nascondeva, pietosamente situata dietro al pulpito, la
cappella dei Terzi eretta accanto a quella dei Sanvitale. Il Pezzana così riferisce di quella
lontana vicenda di deturpazione architettonica: «Venendo ora alle cose ecclesiastiche della
nostra città, e de’ luoghi dependenti dalla Diocesi Parmense, importa il sapere che nel bel
mezzo della vasta chiesa di S. Francesco del Prato sorgeva una cappella intitolata alla Madre
del divin Verbo. Gherardo ed Antonio Aldighieri da Parma aveanla dotata ne’ passati tempi.
Erasi di recente restaurato questo suntuoso tempio, e di laudabili opere di tarsia abbellito.
Parve a’ Frati Minori sconvenevol cosa il lasciar sussistere tale cappella che, scemando luce al
resto della chiesa, nuocendo al simmetrico diletto, e rappiccolando la gran navata di mezzo,
facea minore la magnificenza di uno de’ principalissimi edifizi nostri. Era il vivente patrono di
essa cappella il nobile Baldassarre Aldighieri di q. Antonio, il quale, piegatosi alle istanze de’
frati e del loro superiore Sebastiano da Bagnacavallo Ministro della Provincia Bolognese, ne
concesse la demolizione, ricevutone in cambio un’ altra» E lo storico aggiunge poi, in nota:
«Rog. Zangrandi del dì 12 genn. Ivi leggesi di questa cappella che era sita et edificata in medio
Ecclesiae, et ipsam Ecclesiam totaliter deornans et destruens omnem pulcram faciem et
apparentiam ipsius Ecclesiae noviter reparatae et tarssatae (sic). I frati cedettero all’Aldighieri
(chiamato ivi sempre Adighieri) le colonne, i ferramenti, i mattoni, e i cementi di essa
cappella, in cambio della quale diedergli la intitolata a S. Giov. Vang., che stava tra quelle de’
Sanvitali e dei Terzi, che il popolo chiamava di Maria moglie di q. Masotto Enzola, e che era
situata precisamente presso il pulpito». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, Parma
1847, p. 151.
79
I fratelli Terzi aggregati al patriziato della Repubblica di Venezia
In data 29 settembre 1405 i fratelli Ottobono e Giovanni Terzi, ovvero i
«magnifici domini Otto et Iohannes fratres, de Tercis qd. Magn. Dom. Nicolai»,
conti di Tizzano e Castelnuovo, per la loro provata devozione, con bolla aurea,
furono cooptati nel Maggior Consiglio di Venezia, privilegio trasmissibile ai
loro eredi. Il giuramento di fedeltà alla Serenissima fu prestato mediante
procuratore.186 Il medesimo giorno anche l’altro fratello, il giureconsulto
Giacomo, «magnificus dominus Iacobus de Tercis qd Nicolai», parimenti conte
di Tizzano e Castelnuovo, con altra bolla d’oro, ottenne quel privilegio e giurò
fedeltà alla Repubblica di Venezia.187 Si deve osservare che, nel momento in cui
i Terzi accedevano al Maggior Consiglio, già erano formalmente cittadini di
Venezia, iscritti nel Libro d’Oro della nobiltà, in virtù del privilegio ereditario188
riconosciuto al padre Niccolò sin dal 1393. 189
Ottobono legittima il figlio naturale Niccolò
Il 25 novembre 1405,190 la settimana precedente le nozze con Francesca
da Fogliano, Ottobono legittimò il figlio naturale Niccolò, celebre in seguito
come «il Guerriero» che ebbe per madre Cecilia Della Pergola. L’atto ufficiale è
conservato presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia.191
186
187
188
189
190
191
80
Si veda la scheda, Otto et Iohannes fratres, de Tercis qd magn. Dom. Nicolai, Cives Veneciarum,
http://www.civesveneciarum.net/dettaglio.php?id=2799, versione 48/2016-05-24.
Si veda la scheda dedicata online a Iacobus de Tercis qd Nicolai, Cives Veneciarum,
http://www.civesveneciarum.net/dettaglio. php?id=1625, versione 48/2016-05-24.
Al padre Niccolò il Vecchio, l’8 ottobre 1393.riconoscendo la sua devozione alla Serenissima,
era stato concesso il privilegio della cittadinanza di Venezia, estesa agli eredi.Cfr. la scheda in
http://www.civesveneciarum.net/dettaglio.php?id=2656, versione 48/2016-05-24, Nicolaus de
Terciis, Cives Veneciarum.
Cfr. D. Raines, Cooptazione, aggregazione e presenza al Maggior Consiglio: le casate del patriziato
veneziano, 1297-1797, «Storia di Venezia - Rivista», I, 2003, p. 62.
Il primo di novembre Ottobono e i fratelli, accompagnati da Carlo da Fogliano, avevano
cavalcato nelle terre di Fiorenzuola per ripartire fra loro terre e castelli proprietà della famiglia
Nell’ottobre 1403 si erano già accordati per un’altra ripartizione dell’eredità ricevuta dal padre
Niccolò. Cfr. F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 221.
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e carte della famiglia
Canossa di Montalto, 1256-1796, Legittimazione di Niccolò Terzi, Parma 25 novembre 1405.
La famiglia di domina Cecilia rimane imprecisata: di lei sappiamo solo che era «non soluta». Si
potrebbe forse azzardare l’ipotesi di una parentela, più o meno stretta, con Angelo Della
Pergola, il condottiero che affiancò Niccolò il Guerriero, al soldo dei Visconti, nelle battaglie
di Zagonara in Liguria e ancora a Maclodio. Un sia pur vago indizio che potrebbe avvalorare
questa congettura è la comparsa, sulla scena di Parma, nell’agosto 1424, del giovanissimo
vescovo Delfino Della Pergola, figlio di Angelo, pressoché coetaneo di Niccolò Terzi,
prescelto dal duca di Milano. Ora, il Guerriero era al tempo consigliere di Filippo Maria
Visconti «al quale fu sempre molto caro», e si sa che Angelo Della Pergola caldeggiò presso la
corte la promozione del figlio Delfino, trovando conveniente ascolto. È da aggiungere che il
vescovo Della Pergola, durante i quasi otto lustri in cui occupò la cattedra parmense, diede
prova di una personalità vigorosa e indipendente, integerrimo e accanito nell’azione di
recupero dei diritti, nonché dei doveri, episcopali. Per questo agì a tutto campo e soprattutto
Il rito della legittimazione fu celebrato coram populo, con grande apparato,
sotto le arcate del Palazzo pubblico di Parma. Ottobono non era presente alla
cerimonia: aveva dato piena procura a Cabrino dei Cernitori, uno dei cittadini
più insigni.192
L’atto fu rogato dal notaio milanese, a quel tempo podestà di Parma,
Lanzarotto o Lancillotto della Regna. L’elenco dei testimoni presenti
comprende gli esponenti delle più cospicue famiglie parmigiane, quelle
evidentemente considerate da Ottobono a lui più devote, tra le quali aveva
prescelto i Signori di Balia o i membri del Consiglio Generale: Antonio da
Pedrignacola, Adone Aliotti,193 Martino e Bartolomeo dei Cantelli, Tomaso
Buralli, Montino dei Montanari, Gervaso Musacchi. Tutti personaggi molto
attivi sulla scena politica che si ritrovano, elencati tra gli Anziani o i Cento, negli
Atti del dicembre 1407 dei consigli dei comuni di Parma e di Reggio.194
Il secondo matrimonio di Ottobono
Scrive Da Erba nell’Estratto: «A’ 2 dicembre (1405) Otto menò a marito
in Parma la Francesca figliuola di Carlo Foiano da Reggio e gli (fu) fatto grande
honore da tutto il popolo […] E furono 3 dì serrate le Botteghe e 8 dì si tenne
corte bandita nel vescovato».195 Giambattista Venturi, nella sua Storia di
«ingaggiò una battaglia ostinata contro i Rossi che avevano depredato la mensa al tempo del
vescovo Ugolino» (G. BATTIONI, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa nei secoli XIV e XV, in
Storia di Parma, III.I, cit., pp. 329-330). Ma Delfino non transigette nemmeno sugli abusi
consumati da chi avrebbe potuto essergli molto caro, come Niccolò il Guerriero, che
all’inizio del 1445 venne colpito dall’interdetto, assieme al popolo del suo feudo di Colorno,
per essersi impadronito di proprietà boschive ecclesiastiche. Pezzana precisa: «Cessò Delfino
da questa lite addì 9 febbrajo […] il Terzi lasciò al Vescovo l’arbitrio di deciderla». Ed è
notevole che, nel pronunciare la sua sentenza, il successivo 8 maggio, mentre condannava gli
abitanti di Colorno a rifondere i danni e spese alla mensa vescovile, il vescovo Delfino
dichiarasse «ad un tempo di voler procedere in modo amichevole e fraterno verso il Terzi, quanto
gliel permetteva Iddio». Da rilevare inoltre che alla sentenza fraterna era presente anche un
congiunto del vescovo, il conte Leonoro Della Pergola. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di
Parma, II, cit., p. 500 nota.
192 Pezzana scriverà più tardi: «Come la famiglia de’ Cernitori fosse fra le cittadinesche di Parma,
meritato avesse privilegi considerevoli poco dopo il cominciare del secolo XV, vantasse tre
famigliari e Marescialli Ducali»: Cfr. ivi, p. 461.
193 Adone Aliotti era tra i 16 Signori di Balia, creati il 14 aprile 1404 per il governo di Parma da
Ottobono e Pietro Rossi. Cfr. ivi, p. 127.
194 Fu quella una fedeltà a tempo, legata alla tenuta della presa di potere del Terzi su Parma. Una
fedeltà interessata che si dissolse poche ore dopo l’assassinio di Ottobono e la fuga della sua
famiglia. Proprio colui che, avendo ricevuto la procura per rappresentare il padre alla
legittimazione di Niccolò, Cabrino de’ Cernitori, parrebbe essergli stato più legato, il 28
giugno 1409, dopo l’insediamento del marchese Niccolò III d’Este a Parma, fu uno dei tre
sindaci eletti dal Consiglio Generale incaricati di presentare al conquistatore di Parma le
chiavi, la bacchetta della signoria e il gonfalone del popolo. Cfr. ivi, pp. 124-127.
195 Cfr. ivi, p. 82 nota. Altri, trascurando l’evidente errore di chi ha anticipato al 1403 la data di
quel matrimonio, scrivono che questo fu celebrato o in settembre o ai primi dell’ottobre 1405
a Dinazzano, nel castello dei da Fogliano, poche settimane quindi dopo la dipartita di Orsina,
la prima moglie di Ottobono. Se questa vicinanza dei due eventi può sorprendere, andrà
81
Scandiano, suppone che Francesca fosse nata dal primo matrimonio di Carlo da
Fogliano, celebrato nel 1374, con Isotta Visconti, figlia naturale di Bernabò.196
Firenze stipendia Ottobono purché non combatta per Pisa
Alla fine del 1405 e agli inizi dell’anno seguente il Terzi non ebbe
condotte. Scrive Gino Capponi nei suoi Commentari: «L’altro dubbio era,
ch’essendo messer Otto Buonterzo a Parma e Reggio sanza soldo di persona,
che egli non lo pigliasse da’ Pisani; e perchè ciò non facesse, si gli dette buona
somma di danari, ed egli promise ed obbligossi non andare a Pisa, e non vi
andò».197 Questo conveniente negozio stipulato dalla Repubblica di Firenze con
Ottobono per impegnarlo all’otium, ossia per distoglierlo dall’intervenire in
soccorso di Pisa, ha la singolarità di confermare in quanto pregio fosse tenuto
allora, e quanto fosse perciò temuto, il vigore e l’intelligenza del condottiero
parmigiano.
I compensi che Ottobono incassò dai Fiorentini non erano peraltro
bastanti a consentirgli di aprire nuove ostilità contro i suoi nemici ormai
tradizionali. Per questa ragione, soprattutto, essendo giunti al termine i tempi
fissati per la tregua con i Rossi e i Pallavicino, decise di rinnovarla con entrambe
le fazioni e tutti i loro aderenti. La nuova intesa, che ottimisticamente sarebbe
dovuta proseguire per altri due anni e due mesi, fu proclamata il 4 febbraio a
Parma e nei venti giorni successivi.
Trattative con Gabrino Fondulo per Cremona
Nello stesso mese di febbraio 1405 corsero trattative a Reggio con
Gabrino Fondulo, intenzionato a strappare ai Cavalcabò la città di Cremona,
ferma l’intesa che questa sarebbe poi stata consegnata al Terzi. Il 26 luglio
arrivò a Parma la notizia che il Fondulo era riuscito a impadronirsi di Cremona
e del castello di Pizzighettone, catturando Carlo e Marsilio Cavalcabò.
196
197
82
rammentato quanto osserva Scarabelli a proposito di usi e costumanze, e quindi dei funerali,
celebrati in quei luoghi e in quei tempi: «Sul Piacentino il pasto del morto tuttavia dura [...] ed
è spesso a quel pasto che al vedovo si propone la novella consorte»: L. SCARABELLI, Istoria
civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 187.
G. VENTURI, Storia di Scandiano, Modena 1822, pp. 67 e 73. Carlo da Fogliano aveva sposato
Isotta, figlia di Bernabò Visconti nel 1374, o forse nel 1373, e ricevette perciò in dono "li sui
castelli con molti capitoli utili et notabili" (come si legge nel manoscritto Storia della nobile
famiglia Fogliani, p. 221, citato da P. Golinelli). Nel 1382, dopo la nascita di un Taliano e forse
di Francesca, seguì il ripudio di Isotta, e conseguentemente i rapporti con Bernabò si
guastarono. Carlo nato verso la metà del secolo XIV da Guido Savina (II) e Camilla di
Canossa, fratello di Jacopo e Beltramo, fu personalità autorevole di Reggio, città ove rivesti
ruoli importanti, impegnato nelle contese che qui coinvolsero i Visconti e gli Estensi.
Affermò costantemente la sua autonomia politica e, a differenza del resto della sua parentela,
fu l’unico a contrastare le mire di dominio degli Este ed a sostenere i Terzi.
G. CAPPONI, Tumulto dei Ciompi, Commentari dell’acquisto di Pisa, in D. M. MANNI (a cura di),
Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della Lingua Toscana, Milano 1844, p. 346.
Così descrive Pezzana l’accaduto: «Narra Pompeo Litta ne’ suoi Cavalcabò
che Carlo Signore di Cremona invitato dal Fondulo a lauto convito nel suo palazzo
in Macastorna [...] fu nella notte del 24 al 25 luglio a tradimento trucidato co’
suoi parenti nel sonno per ordine del perfido Gabrino il quale volò tosto dopo
a Cremona e se ne impadronì coll’ajuto delle genti del Terzi condotte dallo
Sparapane, le quali sommavano a tremila pedoni e 600 cavalli; indi fatto uscir
dalla città questo Condottiero sotto colore di andare con lui ad alcun solazzo,
chiuse le porte, e il licenziò insieme colle sue soldatesche. Costretto lo
Sparapane a ritornarsene a Parma «vi fu poi in pena di sua dappocaggine decapitato».198
Ottobono, a supporto dell’iniziativa del Fondulo, andò con più di 8oo
Parmigiani e Reggiani, passando per Casalmaggiore, all’assedio di Viadana ove
«il 10 agosto arse molte case e ville [...] e castello». L’11 agosto si patteggiò una
tregua di quattro mesi fra Giovanni Maria, duca di Milano, e il fratello Filippo
Maria, allora conte di Pavia, da una parte, e Giovanni Vignate con Giorgio
Benzone dall’altra, alle quali avevano contribuito principalmente Francesco
Gonzaga e Ottobono. Questa partecipazione diede misura del prestigio e
dell’amicizia di cui godeva il Terzi in quel tempo presso il duca.
Il 22 Leonardo Rossi, fratello naturale del vescovo Giacomo e di Pietro
Rossi, invase i possedimenti di questi ultimi a San Secondo. Avuta quella
pessima notizia, gli stretti parenti usurpati accorsero in armi per assediare quei
luoghi. Ottobono, caso singolare, intervenne nella bega di famiglia comandando
l’invio di rinforzi ai due Rossi assedianti.
Ottobono signore di Parma, infeudato conte di Reggio
Agli inizi di ottobre era giunto a scadenza il secondo anno della cessione
in pegno della città di Parma a Ottobono decretata da Giovanni Maria Visconti,
e il duca si trovò ancora una volta impedito a saldare il debito delle condotte,
cresciuto ormai fino a 78 mila fiorini d’oro da 32 soldi imperiali cadauno.
Con le casse del tesoro ducale sofferenti e prosciugate di contante,
s’impose dunque il rinnovo del dominio del Terzi su Parma, pegno che fu
integrato con l’infeudazione di Reggio, Brescello, Gualtieri e Castelnuovo
oltr’Enza, erette ora in Contea «con tutte le rendite e i diritti ad essa connessi,
colla giurisdizione del mero e misto impero, e con tutta in somma l’autorità di
Sovrano, e ciò finattanto che il Duca sia in istato di soddisfare al debito con lui
contratto». L’investitura di Reggio in Contea a beneficio di Ottobono Terzi fu
formalizzata con diploma datato Milano, 2 ottobre 1406.199 Il 9 ottobre
Ottobono informò il reggimento di Reggio di quanto statuito dal duca di
Milano, comandando che venisse dipinto sul palazzo pubblico il suo stemma
con inquartata la vipera viscontea.200
Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 87.
Cfr. G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi, III, cit., p. 77.
200 G. BADINI, A. GAMBERINI (a cura di), Medioevo reggiano: studi in memoria di Odoardo Rombaldi, cit.,
p. 290, n. 36.
198
199
83
Nasce Niccolò Carlo
Il giorno 6 dicembre Ottobono Terzi ebbe un figlio dal matrimonio con
Francesca da Fogliano. Il rito lustrale per il neonato fu celebrato a Natale, nel
marmoreo fasto del battistero parmense, alla presenza di un corteggio di
compadri particolarmente illustri: il principe vescovo di Trento, Giorgio di
Liechtenstein;201 Baldassarre Cossa, cardinale di Bologna; il fratello di Pietro,
Giacomo Rossi, già vescovo di Verona e in quel tempo di Luni; il
rappresentante della Serenissima; i capitani viscontei Jacopo Dal Verme e
Ugolotto Biancardo; il signore di Rimini, Carlo Malatesta; quello di Mantova,
Francesco Gonzaga; Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, Niccolò III
d’Este, marchese di Ferrara. La cronaca del Cherbi annota così quell’evento:
Nascita ad Otto di un figlio. 6 Dicembre. Detto Nicolò-Carlo. Grandi feste e
suono di campane. La Comune col gonfalone ed arti a San Nicolò. Libertà ai
prigioni di Parma, Reggio, e sue Castella. Battesimo nel Natale. Invito di vari
compadri di messer Otto. Vescovo di Trento, Duca di Milano, Ugolotto, ed
il Vescovo Rossi, Marchese di Ferrara, Signore di Mantova, Carlo Malatesta
da Rimini, Comune di Venezia, Messer Giacomo del Verme, e Cardinale di
Bologna.202
Si scelse per l’infante il duplice nome di Niccolò Carlo: il primo ispirato
al santo onomastico festeggiato il 6 dicembre, giorno della nascita, oltre che al
defunto nonno paterno; il secondo nome rammentava invece il vivente e
pugnace nonno materno, Carlo da Fogliano.203
Il giorno dodici di quel memorabile dicembre, Ottobono accolse il
giuramento di fedeltà a lui recato dai ghibellini parmigiani tra i quali si segnalava
Jacopo Bechigni, presunto autore della Cronaca cittadina. Un altro giuramento
di fedeltà arrivò a Ottobono dai villici della fazione pallavicina dimoranti in
Parma, che passarono a quella dei Terzi. Queste promesse solenni, rese nelle
Giorgio I di Liechtenstein, principe vescovo di Trento dal 1390 al 1419, era politicamente
legato al duca d’Austria Alberto III e al pontefice Bonifacio IX. Allorchè, pochi mesi dopo il
battesimo di Niccolò Carlo Terzi, nel febbraio 1407, tornato a Trento, si trovò ad affrontare
una rivolta cittadina estesa pericolosamente sino alle valli di Non e di Sole, il Liechtenstein si
rassegnò a concessioni che portarono allo stabilirsi di un autonomo governo comunale. Egli
reagì in seguito tradendo i patti sottoscritti e, nel tentativo di riprendere il controllo su
Trento, chiamò nascostamente in suo aiuto il condottiero Ottobono Terzi. Il tentativo fu
scoperto e per questo il Liechtenstein venne dapprima incarcerato, nell’aprile 1407, e quindi
esiliato. Tornò a Trento un paio di anni dopo, subendo tuttavia la privazione di qualsiasi
potestà o diritto nella sfera temporale e un pesante condizionamento in quella spirituale con
l’imposizione di un vicario fedele al duca d’Austria. Insofferente, alla fine il Liechtenstein
preferì riprendere la via dell’esilio. Cfr. G. CRACCO, Belenzani, Rodolfo, in Dizionario Biografico
degli Italiani, VII, Roma 1970, www.treccani.it/enciclopedia/rodolfo-belenzani_(DizionarioBiografico)/.
202 F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 223-224.
203 Il piccolo Niccolò Carlo sarà vicino al padre allorché, il 27 maggio 1409, questi verrà ucciso.
Starà in sella con lo zio Jacopo, accompagnato dal nonno Carlo da Fogliano che gli cavalcava
accanto, portato a incontrare il suo padrino di battesimo, il marchese Niccolò III d’Este.
201
84
mani del podestà Lancillotto Regna, dei quali fu testimone, tra gli altri, il cugino
di Ottobono, Antonio Cornazzano de’ Terzi, furono festeggiate con grande
entusiasmo, mentre tutte le campane di Parma suonavano a distesa sopra il
garrire dei gonfaloni portati in corsa attraverso le vie cittadine affollate dal
popolo esultante, verso la chiesa di San Niccolò, con i trombetti vestiti a festa.
Per l’occasione si liberarono i prigionieri a Parma e a Reggio, e i festeggiamenti
si estesero nel contado coinvolgendo i castelli fino sui poggi più alti
dell’Appennino.
Ottobono raggiungeva alla fine del 1406 il culmine del suo successo
militare, politico e familiare, incarnato e simboleggiato icasticamente dalla
presenza al battesimo dell’ultimogenito di una corona così rappresentativa di
principi e signori italiani. Il concorso dei giuramenti di fedeltà assicurati alla sua
persona a conclusione di quell’anno dalle squadre già nemiche ma ora,
convertite alla sua amicizia, accorrenti sotto lo stendardo dei Terzi, lo
rappresentavano come rispettato governante di sudditi. Egli vide allora
riconosciuta concretamente, in tutte le implicanze, la propria signoria su Parma
e Reggio. La sua personale autorevolezza, quale governante, e la sua personale
fortuna parvero trovare, in quel sorridente passaggio tra il 1406 e il 1407,
ripetute conferme tanto nel consenso che si elevava dai sudditi quanto in
quello, quantomeno cerimoniosamente dissimulato, dei potentati confinanti.
Quella sua signoria poteva poggiare sul potere militare che egli era in
grado di dispiegare sulle città e sui territori parmigiani e reggiani, dai passi
appenninici alla bassa, fertile pianura, supportato dalle strutture amministrative,
giudiziarie, giurisdizionali mutuate dall’organizzazione viscontea. Si poté
constatare, allora, nella transizione dal 1406 al 1407, come Ottobono fosse
riuscito a costruire un dominio considerevolmente vasto e coeso, fornito di
quelle caratteristiche statuali e funzionali che, in quell’ambito specifico, Giorgio
Chittolini ha individuato e descritto come la «piccola statualità».204 Proprio a
quel punto, tuttavia, iniziò la fase discendente della parabola, che finirà, solo
due anni più tardi, nel disastro più completo, nell’annichilimento politico e
umano del Terzi.
In difesa del duca di Milano
Agli inizi del febbraio 1407 il duca Giovanni Maria ebbe notizia che
Gabriele, suo fratello naturale, assieme a Francesco e Antonio Visconti, tutti
ostili e tutti in rivolta, aveva assoldato Facino Cane. La sua reazione immediata
fu quella di prevenire gli avversari ordinando al suo capitano Jacopo Dal Verme
di predisporre forze militari adeguate per assicurare la difesa più efficace contro
i rivoltosi e, nel contempo, di assumere contatti utili a Mantova, a Venezia e
204
Cfr. G. CHITTOLINI, Il particolarismo signorile e feudale in Emilia tra Quattro e Cinquecento (1977), in
La formazione dello Stato regionale, cit., pp. 266-276.
85
presso il legato pontificio di Bologna. Alle truppe di Dal Verme si aggiunsero
presto quelle degli altri capitani d’arma viscontei.
Il 9 febbraio Ottobono partì da Parma con le sue truppe per unirsi a
quelle di Pandolfo Malatesta e raggiungere il Bresciano, ove si era radunato il
forte esercito che avrebbe marciato verso la difesa di Milano. Facino Cane
aveva già iniziato la sua offensiva impossessandosi della Certosa di Garegnano,
a sole tre miglia dalla città. Atterrito in faccia allo stuolo degli armati qui
condotti dal Facino, il duca accolse ben volentieri la mediazione che gli fu
offerta dai ghibellini. Aperte le trattative, accettò subito di concedere la grazia ai
parenti in rivolta. Pavido e fragile com’era, andò ben oltre: capitolando
ignominiosamente, non solo aprì le porte di Milano ai ribelli, ma nemmeno si
peritò di nominare il comandante nemico, Facino Cane, suo capitano generale.
Il giorno 14 febbraio emanò degli editti severissimi con cui intimava alle
sue città di negare ogni appoggio ai capitani del Dal Verme e alle proprie
truppe, le ducali, le medesime che avevano obbedito ai suoi ordini di
predisporsi alla guerra. Presso i capitani viscontei quegli editti trovarono la
considerazione che meritavano: il 15 febbraio, giorno che seguiva la loro
pubblicazione, Dal Verme con il Terzi e gli altri comandanti portarono
d’impeto le loro milizie nel Bergamasco, riuscendo cinque giorni dopo a
penetrare in profondità nel Milanese. Il Cane, in testa ai suoi, uscì allora dalle
mura di Milano per affrontare le avanguardie avversarie che avanzavano
minacciose con alla testa Ottobono. Il giorno 21 si arrivò allo scontro presso
Binasco. La battaglia si accese subito feroce e s’interruppe solo a notte tarda,
lasciando sul campo gran numero di vittime, tra caduti, feriti e militi catturati
dal nemico. Ottobono fu quello che dovette contarne di più, e su queste perdite
stava ancora rabbiosamente imprecando quando inattese, mentre ancora la
notte non era finita, sopraggiunsero nuove truppe fresche inviate da Jacopo
Dal Verme.
Si erano spenti a quel punto nel campo avversario tutti i fuochi che
avevano illuminato i prematuri festeggiamenti e i combattenti, esausti,
riposavano imbelli, e Facino Cane giaceva sotto il suo padiglione godendo in
pace, con il trionfo, il ben meritato riposo. Entrambi, trionfo e riposo, furono
irrimediabilmente guastati dal furibondo assalto che, all’improvviso, prima
dell’alba, fu scatenato da Ottobono. Il Cane fuggì immediatamente cavalcando
ventre a terra verso Binasco. Le sue soldatesche, orfane del comandante,
furono messe in rotta disperata e lasciarono nelle mani di Ottobono oltre mille
prigionieri. Tra questi si contò anche Marcardo della Rocca. Ottobono si rivolse
a lui per conoscere dove fosse finito Facino Cane. Marcardo da prode, o
impudente, gli rispose che egli lo ignorava affatto ma che, quand’anche lo
avesse saputo, non glielo avrebbe detto. Al che il Terzi, piuttosto contrariato, gli
trapassò la gola con la spada.
Facino Cane aveva nel frattempo trovato asilo in terra di Alessandria
della Paglia. Nei primi giorni di marzo Ottobono lo ritrovò e si scontrò con lui
nel Pavese, a Rosate, e nuovamente lo vinse. Pezzana, citando Da Erba,
86
riferisce, con lieve sarcasmo: «La nostra Cronaca narra di questa foggia così
strepitoso avvenimento: A tre marzo venne nova che Otto Terzo avea rotto
Facino Cane a Rosate sul Pavese; e ritornò il conte di Pavia in la sua signoria e
fece prigioni 1800 cavalli; e 140 capi di compagnie, e furono vestiti tre cavallari
di panno rosso, uno di Otto, uno di Cremona, uno del Duca e ne (fu) fatto
grande allegrezza et a dì 6 di marzo fu fatto in piazza appresso alla campana una
forca piccola alla quale fu condotto a suono di trombe di commissione di Pietro
da Vianino un cane e impichato per la golla; dopo fu arso con fuoco e paglia in
vilipendio di Facino Cane che diceva di volere arrostire un Parmigiano».205
Nelle settimane fra il febbraio e l’aprile a Ottobono pervennero
incalzanti richieste di soccorso dal principe vescovo di Trento Giorgio di
Liechtenstein, che era stato suo compare al battesimo del figlio Niccolò Carlo, il
precedente Natale, nella cattedrale di Parma.
Tornato nella sua sede episcopale, il principe aveva dovuto affrontare,
soccombendo, la rivolta di Trento e delle valli di Non e di Sole capeggiate da
Rodolfo Belenzani. Le trattative d’ingaggio del condottiero e delle sue milizie,
severamente impegnati sul fronte lombardo, non andarono tuttavia a buon
fine.206
Il 3 di aprile, Ottobono Terzi entrò a Milano alla testa delle sue truppe,
chiamato dal duca e dal conte di Pavia. Guido Panciroli così descrive quel
giorno: «Finalmente famoso per la celebrità del nome, insignito del titolo di
patrizio e dell’armi della vipera, fu dichiarato protettore di Giammaria e del
fratello.» E lo storico reggiano aggiunge: «Nel qual fare di cose divenuto più
forte avrebbe tolto via tutti quelli del partito ghibellino, se dal consiglio di
Jacopo Dal Verme aborrente da tanta sceleratezza non ne fosse stato
distolto».207
E infatti a quella proposta di Ottobono di sterminare tutti i ghibellini
milanesi il saggio Jacopo, che era appena stato nominato governatore di Milano,
non solo si oppose fieramente, ma si affrettò ad avviare e concludere con
successo un armistizio tra le faide.
Il 19 maggio 1407 si firmò così la pace, universalmente approvata.
Mentre questa notizia veniva festeggiata con gioia dirompente da tutti i
cittadini, forse l’unico che si sottrasse al giubilo, covando intimamente i suoi
rancori, fu Ottobono Terzi, contro la terribilità del quale Panciroli scocca uno
dei più memorabili giudizi: «E siccome sitiva di sangue umano, così era anche
insaziabile del denaro».
Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 92.
«Il vescovo Giorgio, nel tentativo di riacquistare il predominio sulla città (Trento), tradiva i
patti giurati il 28 febbraio, cercando l’appoggio del condottiero Ottobono da Parma»: G.
CRACCO, Belenzani, Rodolfo. Si deve dubitare tuttavia che le problematiche disponibilità
finanziarie del Liechtenstein consentissero di affrontare la spesa di un condottiero del rango
di Ottobono Terzi.
207 G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., p. 30.
205
206
87
Contro il duca di Milano insolvente
I malumori del Terzi, per molti versi comprensibili, erano venalmente
originati dalla perenne incapacità del duca di onorare i propri impegni e pagare
puntualmente i servigi resi dal suo condottiero e dalle sue truppe. Ottobono si
rifiutò di licenziare le sue genti in armi fino a che non gli fosse stata consegnata
l’intera somma pattuita. Il 27 di maggio gli fu dato un generoso acconto:
centomila fiorini e 400 buoi, scrive il Corio, che tuttavia non bastarono a
placare le sue ire.
Minacciò di mettere a sacco Milano, se non gli si pagava anche la parte
restante del credito vantato, sollevando con ciò l’indignazione dei cittadini che
si dichiararono pronti ad affrontare armati il Terzi. Questi, adontatissimo in
faccia a questa reazione, sul finire del maggio abbandonò il capoluogo del
Ducato alla testa delle sue milizie e della mandria di bovini ricevuta in conto
anticipi.
Il tre di giugno egli era a Monza per trattative con Astorre Visconti, uno
dei tanti figli naturali lasciati da Bernabò, che progettava insurrezioni contro il
duca. Il Corio annota che poco appresso Ottobono tornò con le sue
soldatesche nel Parmigiano. Il 14 giugno strinse d’assedio il Castello d’Orlando,
presso un guado del Taro, sulla strada che da Parma porta a Borgo San
Donnino, allora feudo di Rolando Pallavicino. La rocca si arrese sei giorni
dopo, il 20 giugno. La gente di Parma festeggiò quella conquista.
Ottobono ordinò poi di restaurare il castello ricostruendo interamente la
cerchia delle mura, spianata dalle bombarde. Sopra le merlature fece dipingere i
gigli sostituendoli alle aquile. Cambiò poi il nome di Torre dei Marchesi in
quello di Castelguelfo, che ancora oggi quel borgo mantiene, un nome che
emblematicamente indicava, allora, la parte per cui Ottobono preferiva
combattere, pur restando leale ai Visconti.
Il 22 giugno Ottobono notificava al podestà di Reggio d’avere nominato
Simone da Tizzano custode della torre nunc nominata castrum guelfum.208
Marchese di Borgo San Donnino
Il 17 luglio, il Terzi conquistò anche il castello di Scipione, che egli
teneva sotto assedio dal 30 giugno, togliendolo a Pietro Pallavicino. Ripeté
l’assedio alla Castellina, appartenente a Orlando, con il quale trovò presto un
accordo: gli cedeva Cortemaggiore, restituiva a Pietro la rocca di Scipione, e
otteneva in cambio Borgo San Donnino, dove finalmente egli poté entrare il
giorno 28 dandone comunicazione al podestà di Reggio.209
In seguito a quell’acquisto, Ottobono aggiunse ai suoi titoli quello di
marchese: comes Regii et marchio Burgi Sancti Donnini, ostentato nella
208
209
88
Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 302.
Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 95.
corrispondenza privata e in quella ufficiale con Jacopo Dal Verme, che in quei
mesi custodiva le fortezze di Piacenza per conto del duca.210
Il Terzi fu informato nel corso del mese di agosto 1407 che stavano
arrivando lungo il Po, provenienti da Milano e dirette a Venezia, delle navi
cariche di mercanzia pregiata.
Pur avendo preventivamente concesso il salvacondotto, egli catturò quel
naviglio con il relativo carico, del valore di circa 150 mila ducati, e imprigionò,
risorsa ulteriore da spendere in probabili riscatti, i mercanti e marinai che si
trovavano a bordo. A giustificare questo piratesco agguato fluviale, Ottobono
mise nuovamente in campo il pretesto del soldo arretrato che ancora gli doveva
il duca di Milano.
Malgrado l’episodio di pirateria fosse di considerevole gravità, si arrivò
per certo a qualche pacifico accomodamento perché non c’è riscontro di
conseguenze e i rapporti intrattenuti dal Terzi, tanto sul versante del Ducato di
Milano quanto su quello assai permaloso della Repubblica di Venezia, non
sembrano essersi guastati.
Il 17 agosto Ottobono, alla testa di duemila cavalieri, invase le terre di
Mirandola e di Modena, mettendole a sacco per tutto un mese, contrastato solo
dai difensori di Spilamberto e di Vignola.
Riprende Piacenza a Facino Cane
Il 19 settembre, per incarico del Visconti, che gli aveva promesso un
considerevole compenso in oro, Ottobono si portò sotto Piacenza per sottrarla
al redivivo Facino Cane. Qui egli entrava il giorno 20 per fare bottino e quindi
riconsegnare la città al duca.
In quello stesso mese il Terzi riuscì a concludere nuovi accordi con i
Rossi, con soddisfazione dei cittadini di Parma, liberati dall’onere dei turni di
guardia alle porte della città, che vennero restituite alla competenza dei capitani
il giorno 5 settembre.
210
Il 24 dicembre, in una missiva diretta a Dal Verme, egli tornò a intitolarsi Otto Comes Regii et
Marchio Sancti Donini. Scrive Poggiali: «Restavano tuttavia le Cittadelle di Piacenza nelle mani,
e in deposito di Jacopo dal Verme, il quale, venir dovendo a non so quale accordo con uno
de’ Castellani di esse, ne volle prima il consenso di Ottobon Terzo, che glie lo diede con la
seguente lettera, data di Parma sotto il dì 24. del corrente Dicembre. Otto Comes Regii, et
Marcbio Sancti Donini etc. Tenore praesentium, et sub mea fidei obligatione promitto, contra capitola, at
promissiones, quae, seu quas Magnificus Miles, seu Pater meus honorandus D. Jacobus de Verme cum
Capitaneo Cittadella Civitatis Placentiie contraxerit, atque firmaverit, non contravenire firmiter quoquo
modo». Poco oltre, lo storico piacentino commenta: «Non tutti intenderanno come sia che
Ottobono, il quale per l’addietro Conte di Tizzano solamente appellavasi, si dia fra gli altri
titoli in questa lettera quello di Marchese di Borgo S. Donnino ma bastano per mettere in
chiaro la cosa le seguenti parole della poc’anzi citata Cronichetta Cremonese che fornisce notizia
d’uno scambio concordato con i Pallavicino: Anchora in 1407, adì 27, de Lujo Orlando Palavesino
de’ Borgo San Dognino a Ser Otto de Tercii per la gran guerra ch’el ge fiva, e così el signor de Cremona ge
fiva guerra a Poliseno; de che vedendo che no podeva riparar a tutti duoi, si de’ Borgo a Ser Otto e subito havé
laccordio seco quel de Cremona». Cfr. C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 102.
89
Le cittadinanze reciproche di Parma e Reggio
Ottobono, proteso in questi tempi ad acquisire meriti e crediti di
benevolenza nelle città sottoposte al suo dominio signorile, promosse e fece
ufficializzare il reciproco scambio a tutti gli effetti delle cittadinanze tra cittadini
di Parma e cittadini di Reggio. Il 30 novembre furono nominati i procuratori di
Parma per ottenere la cittadinanza di Reggio. Il 9 di dicembre si presentarono in
Consiglio Generale di quella città presieduto dal podestà Giovanni Lalatta e
videro accolta la loro domanda di cittadinanza «siccome legale, e comoda, non
meno che onorevole a quella città, fu esaudita ad unanimità di suffragi qual base
principale e salda di desiderate unione e benevolenza tra i due popoli, e fu
allargata a tutti i figli e discendenti loro in perpetuo. Ed a tanto generoso
fondamento di colleganza volendo aggiugnere vincoli ancora più indissolubili,
fu statuito che tutti i cittadini Parmigiani presenti e futuri potessero per lo
avvenire comperare, o, sotto qual si fosse titolo, acquistare a perpetuità beni,
diritti ed azioni nella città e nel territorio di Reggio, e goderne i frutti alla pari
de’ cittadini originarii di essa Città».211
Con decisione analoga e speculare «allora tutti gli altri membri del
Consiglio, annuendo alla proposta, crearono cittadini di Parma novanta
Reggiani [...] statuirono ad un tempo, que’ novanta insieme co’ loro discendenti
potessero in futuro esercitare in Parma, quantunque ne fossero cittadini, anche
gli ufficii che non venivano conferiti se non a’ forestieri. Deliberò
contemporaneamente il nostro Consiglio a somiglianza del Reggiano che, oltre i
90, tutti gli altri cittadini di Reggio presenti e futuri potessero per lo avvenire
acquistare ogni sorta di beni, ecc. nella Città e territorio nostri, non altrimenti
che i veri ed originarii cittadini di Parma».212
Mentre venivano istituzionalizzati i rapporti di amicizia tra i cittadini
parmigiani e reggiani, posti reciprocamente sullo stesso piano nei diritti e nei
doveri, Ottobono aveva di suo conclusa una nuova tregua con i Rossi, dando
libero accesso al ritorno di questi dentro le mura di Parma con le loro famiglie e
beni. Questo avveniva sul finire del 1407 e agli inizi del nuovo anno. Ma il
rimpatrio del quale beneficiarono i Rossi, già esuli forzati, non cancellava
affatto il cumulo dei rancori e i propositi di vendetta nutriti durante la diaspora.
Allorché si ritrovavano fra loro, quelle famiglie esacerbate e ferite sapevano
sempre di che parlare e contro chi.
Gli incontri e le adunanze dei Rossi e dei cittadini delle squadre avverse
si infittivano e questo richiamò la vigile attenzione, per troppe ragioni
sospettosa, di Ottobono. Fu quindi posto mano, senza indugi, a ulteriori
provvedimenti repressivi e il 30 gennaio si pubblicò un nuovo bando che
ricacciava i Rossi dalla città dove erano stati ammessi solo un mese prima e
prometteva pena la forca per i renitenti.
211
212
90
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 98.
Ivi, p. 99
Il 18 febbraio 1408, nel suo castello di Madregolo, il condottiero
parmigiano Ugolotto Biancardo, prossimo a morire, fece testamento a favore di
quattro figlie naturali legittimate, una delle quali, Palma, fu promessa in sposa a
Giorgio Terzi, figlio naturale di Ottobono. Tra i fedecommissari ed esecutori
testamentari vennero indicati il fratello e il suocero di Ottobono: Giacomo,
conte di Tizzano e di Castelnuovo, e Carlo da Fogliano di Reggio, presenti e
accettanti.213
Il 18 marzo iniziarono i lavori per erigere una bastia a San Quirico, tra
San Secondo e Trecasali, in previsione dello scoppio di nuove ostilità con i
Rossi che stavano assoldando e radunando uomini armati nei loro luoghi
fortificati. Il 27 Ottobono già assediava con azione preventiva il castello di
Carona, e se ne impadronì due giorni dopo. Seguì la conquista della bastia di
Sant’Andrea oltre Taro, pure questa proprietà dei Rossi.
Nuove strategie contro l’Estense
Nel 1408 gli obiettivi politici e militari per il piccolo Stato di Parma e
Reggio perseguiti da Carlo da Fogliano, l’esperto e fidato consigliere di
Ottobono, erano divenuti più ambiziosi e di più largo raggio rispetto a quelli
individuati tatticamente nella quotidianità dal genero. Il da Fogliano aveva
probabilmente già concepito in quel tempo un ampliamento verso Oriente che
necessariamente contemplava l’invasione e la conquista di Modena per toglierla
al marchese d’Este. Un simile programma e l’attuazione conseguente delle
operazioni militari esigeva l’eliminazione di ogni minaccia nemica alle spalle e
prioritariamente imponeva la ricerca di un nuovo patto di tregua con i sempre
insidiosi Rossi.
Le trattative su quel versante furono intraprese e positivamente concluse
il giorno 5 di aprile al castello di San Secondo dallo stesso Carlo da Fogliano. Il
giorno seguente questi e Pietro Rossi partirono assieme cavalcando verso
Parma per formalizzare personalmente quel patto presso Ottobono. Questi,
desideroso di prestare il migliore omaggio al suo accanito avversario,
nuovamente rappacificato, gli andò incontro a cavallo. Il giorno quattordici si
pubblicò a Parma una pace «chiamata perpetua» con i Rossi. Quel giorno
medesimo, o forse il 16, assicurata la protezione delle sue retrovie, Ottobono
guidando le sue milizie forti di 400 pedoni e 2500 cavalieri invadeva le terre di
Vignola e Spilamberto per arrivare fin sotto le mura di Modena. Queste erano
difese da 250 lance dello Sforza e dalla compagnia di Giberto da Correggio, che
riuscirono a respingere tutti gli attacchi sferrati dal Terzi.
Il giorno 28, nel quadro di quella guerra, divenuta fluviale oltre che
campale, Gabrino Fondulo, agli ordini dell’Estense, arrivò con un galeone fino
213
«A Palma, promessa a Giorgio figlio del Conte di Reggio e Marchese di Borgo S. Donnino,
Ottone Terzi, lasciò 350 fiorini d’oro per beneficio dell’anima propria e per maritare alcune
donzelle povere.» Passi di questo testamento di Ugolotto Biancardo si possono leggere ivi, pp.
101-102, n. 2 e 3.
91
al porto di Torricella sotto Sissa, dove sbarcò soldatesche che si diedero a razzie
e incendi, facendo molti prigionieri.
Verso la soluzione finale
Il 16 maggio Ottobono si impadronì del castello di Montericco, nel
Reggiano, e di altre proprietà di Giovanni Manfredi. Nei giorni seguenti mise a
sacco le terre estensi di Correggio, Mirandola, Rubiera, Marzaglia. La reazione
di Niccolò III fu rabbiosa ma algida, tesa abilmente a strumentalizzare e far
montare la massa di rancori che per ogni dove il Terzi aveva eccitato.
Era ben chiaro a quel punto che si stava decidendo non l’effimera statica
di qualche equilibrio tra le distinte casate in conflitto, ma la loro stessa
sopravvivenza. Era maturata la convinzione che si doveva letteralmente
disintegrare il nemico universale incarnato dal Terzi in tutte le sue potenzialità.
In questo senso va inteso il documento con cui si costituì, il 13 maggio 1408,
una lega contro Ottobono nei cui capitoli il signore di Parma e di Reggio veniva
descritto quale «perturbator pacis, tranquillitatis [...] dominorum Lombardiae» (e
sin qui restava in ottima compagnia, anche fra i ‘pacifici’ sottoscrittori di quella
pergamena) per arrivare però alla ben più significante e funesta accusa, per le
implicazioni giuridiche e costumanze guerresche vigenti in quel tempo, di essere
«hostis publicus» e come tale meritevole del peggiore castigo. I membri della
lega si obbligavano, infatti, a conseguire una ‘soluzione finale’ che sterminasse,
con il Terzi, tutti i suoi alleati, partigiani, simpatizzanti e persino tutti i suoi
sudditi: «ad finale exterminium, consumptionem et depositionem domini
Ottonis de Terciis, suorumque subditorum, adherentium, recommendatorum et
sequatium».214
Aderirono alla Lega del 13 maggio 1408, accanto al marchese Niccolò III
d’Este, Gianfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Giovanni Maria Visconti,
duca di Milano, il legato di Bologna, Pandolfo Malatesta, Gabrino Fondulo. Si
aggiunsero poi, appena informati della pattuizione, altri nemici giurati dei Terzi,
quali Orlando Pallavicino e Pietro Rossi con il fratello vescovo Giacomo.
Il giorno 18 giugno, Gabrino Fondulo, che continuava la sua guerra sul
Po contro Ottobono, approdò con sei galeoni e due barbotte, o traghetti, a
Dosolo, sulla riva mantovana opposta a Guastalla, incendiandovi i mulini. Il
ventiquattro alla squadra navale si aggiunsero quattro galeoni ferraresi che
tentarono sbarchi di combattenti a Brescello e Guastalla, falliti sotto il fuoco
delle bombarde. Riuscì invece uno sbarco a Portiolo messa a ferro prima che il
naviglio tornasse a Casalmaggiore. Alla fine del mese Niccolò III d’Este entrò a
Modena con 600 lance, rafforzando le difese della sua città e provocando la
conversione di gran parte del fronte bellico, favorito dal passaggio sotto le sue
bandiere di un forte numero di seguaci dei Terzi infeudati di castelli del
Reggiano.
214
92
Il documento è stato integralmente trascritto da Muratori. Cfr. L. A. MURATORI, Delle antichità
estensi ed italiane, II, Bologna 1740, pp. 174-178.
I da Fogliano, tutti tranne Carlo, suocero di Ottobono, passarono in gran
fretta, anzi tornarono, all’Estense, della cui casata erano stati peraltro in passato
fautori. Per contenere quelle defezioni e quale ammonizione generale, il giorno
8 agosto, scrive Muratori, furono decapitati 65 cittadini parmigiani (ma sul
numero esatto dei giustiziati gli antichi storici sono in disaccordo). Nel corso
del mese precedente si era saputo di un loro tentativo di sollevare Parma contro
Ottobono. Lo stesso giorno fu occupata dalle soldatesche di Gabrino Fondulo
e di Orlando Pallavicino la bastia di Castione, eretta pochi mesi prima a difesa
di Borgo San Donnino.
I possedimenti dei Rossi parmensi si estendevano fino in Toscana, verso
la Lunigiana. Il cardinale Ludovico Fieschi, in rapporti amicali con Ottobono,
aveva messo ad agosto sotto assedio il loro castello di Grondola, presso
Pontremoli. In soccorso della sua rocca partì da Felino il giorno 27 Pietro Rossi
con 300 fanti e 400 villani armati, accompagnati da 400 cavalieri del Fondulo. Il
Terzi mandò avvisi al cardinale dell’imminente arrivo di quelle soldatesche e
questi, atteso al varco il Rossi, lo assalì d’impeto sgominandolo e facendo
letteralmente a pezzi Antonio Rossi e 150 della sua gente. Catturò poi Pietro
con i nobili del suo corteo: 370 cavalli e 550 fanti che condusse con sé a
Pontremoli dopo avere occupato Grondola. Ottobono, informato di quelle
catture, colse l’occasione per aggredire la rocca di Felino, spogliandola
completamente. Sulla via di ritorno si impadronì anche del forte di Vigatto.
Pochi giorni dopo entrò nella rocca di Malandriano, la fece demolire, catturò il
castellano e lo imprigionò a Guardasone.
Nemico di Jacopo Dal Verme
Nel luglio di quel 1408 Ottobono aveva dato nuovi segnali della sua
declinante lucidità e dello straordinario impegno con cui stava infittendo la
schiera dei suoi acerrimi avversari, riuscendo a inimicarsi persino Jacopo Dal
Verme, uno dei più esperti e valorosi condottieri in campo che, amico già del
padre Niccolò il Vecchio, aveva saputo affiancarlo assiduamente quale fidato
compagno d’armi, prezioso, anche se inascoltato, per prudenza e saggezza del
consiglio. Il Da Erba riferisce che il Terzi, il giorno 23, invase e fece spianare il
castello di Poviglio e le ville vicine, feudo del Dal Verme, sdegnato perché
questi aveva ricusato di fargli pagare gli stipendi promessigli a nome del duca.
Jacopo, esasperato per i danni e l’offesa patiti, decise senz’altro di far
assassinare il Terzi. A settembre inviò un sicario a Parma con questa missione
omicida e con l’altra di corromperne le milizie, ma questo fu però scoperto e
sottoposto a tortura. Gli furono cavati gli occhi e mozzate le mani. Il Dal
Verme, individuato come mandante del tentato assassinio, fu impiccato in
effige per un piede, come si usava per i traditori: dipinto sopra un’asse quadrata
alta e larga quattro braccia che fu affissa su una colonna piantata in mezzo alla
piazza in Malcantone, verso l’osteria e il postribolo. Qui rimase fino alla morte
di Ottobono, il quale, peraltro, non si accontentò di quell’impiccagione virtuale.
Ne fece dipingere una seconda, comandando fosse recata a spalle dall’armigero
93
che lo precedeva sempre nei suoi spostamenti, in modo che potesse ricordargli,
ad ogni pie’ sospinto, il tradimento che, lui, aveva patito.
Questa vicenda avrebbe dovuto far persuaso il Terzi di ben altro: e cioè
che la sua fortuna stava inesorabilmente precipitando di pari passo con il
proliferare dei suoi nemici. Quanto agli amici, come s’è visto, frutto delle viltà
da lui perpetrate ovvero di quelle subite, le diserzioni che doveva sopportare
nella sua crescente solitudine si erano moltiplicate a tal punto che, per rompere
l’accerchiamento, si era dovuto rassegnare a cercare un nuovo accordo con un
suo irriducibile antagonista: il capitano d’armi ghibellino Facino Cane.
Abbandonato da molti suoi castellani, Ottobono aveva dovuto ingegnarsi
a radunare quanto poté dei suoi beni mobili trasportabili e li inviò a custodia nei
luoghi fortificati appartenenti a Carlo da Fogliano. Gli armenti erano custoditi a
Valestra, in quel di Carpineti, sull’Appennino reggiano dove, a sorpresa,
arrivarono le soldatesche estensi di Francesco da Sassuolo e Atto da Rodeglia,
riuscendo a razziare 12 mila capi di bestiame, secondo quello che raccontano le
cronache riportate dall’Affò. Gli stessi razziatori passarono poi nel contado
parmense per ripetere con buon frutto le loro imprese contro i beni del Terzi.
La guerra agli Attendolo e all’Estense
All’inizio di novembre 1408, lo Sforza, in attesa dell’occasione
favorevole per andare allo scontro frontale, finse di salire l’Appennino diretto a
saccheggiare e devastare quel che residuava dei beni dopo la precedente
scorreria. Ottobono sulle prime si buttò con la sua cavalleria in quella direzione,
ma fu messo sull’avviso dagli esploratori che lo Sforza aveva dissimulato sulle
sue reali intenzioni e che si trovava in realtà sulle rive dell’Enza, a Castelnuovo,
dove stava depredando forsennatamente quei territori per accumulare poi il
bottino nella bastia del Cantone, a Reggiolo, sotto la guardia di Giberto da
Correggio e di Giacomo Pico della Mirandola. Qui arrivò come fulmine con i
suoi cavalieri l’ingannato Ottobono, calato dall’Appennino, sorprendendo i due
e mettendoli tosto in fuga. Quando accorse lo Sforza per recuperare le sue
prede, il confronto con il Terzi fu inevitabile e la battaglia ferocissima che si
accese lasciò molti caduti su quel campo.
Alla fine dello scontro, entrambi si ritirarono: Ottobono verso Reggio e
lo Sforza verso i suoi acquartieramenti, nessuno dei due avendo forze adeguate
per inseguire e prevalere sull’altro. Per l’Affò, chi ebbe la peggio in quello
scontro fu lo Sforza, abbandonato dai suoi due compari, Pico della Mirandola e
il da Correggio. Egli provò dapprima a ricoverarsi dentro il castello di Reggiolo,
ma fu respinto dalle bombarde della difesa, ritentò poi altrettanto inutilmente a
Novi; infine preferì tornare a Modena.
Il 10 novembre giunse notizia che i soldati della lega stavano costruendo
un ponte nei pressi della Bastia del Cantone, e contemporaneamente mettevano
a sacco e catturavano gente a Casalpò, a Poviglio, a Boretto ed a Castelgualtiero.
Ottobono li raggiunse con 150 cavalieri, ne ammazzò molti, il resto lo mise in
fuga catturando però la loro retroguardia: cento fanti e altrettanti cavalli.
94
Lo Sforza, frattanto, non cessava per parte sua di devastare il Parmense.
E così faceva il cugino Micheletto Attendolo, che però ebbe la sventura, mentre
guidava quaranta militi, di ncontrare e scontrarsi con Ottobono: finì catturato
assieme a trentadue dei suoi, condotto a Parma e messo ai ceppi con i
compagni. Ottobono ordinò che ogni giorno di quell’inverno i prigionieri
fossero denudati bagnandoli con acqua gelida. Quella prigionia tormentata dal
sadismo che sempre più guastava il Terzi doveva durare sino al maggio del
seguente anno e non sarebbe rimasta invendicata. Il giorno nove Giacomo, il
fratello di Ottobono, aveva conquistato il castello di Corniglio, proprietà dei
Rossi. Nei due giorni seguenti assalì e prese anche quello di Pietra Mogolana.
Nuova lega contro Ottobono
Nel gennaio 1409, provocata dalle notizie di nuove sintonie e concordie
che correvano tra i temibili condottieri Ottobono Terzi e Facino Cane,
inquietanti singolarmente e ancor più se uniti, insorse contro di loro una nuova
lega costituita da Giovanni Maria Visconti, Filippo Maria Visconti, Amedeo
VIII di Savoia, Ludovico di Savoia-Acaia e il maresciallo Jean Le Maingre
Boucicaut, governatore francese di Genova, diretta come la precedente «ad
dispendium et exterminiumdomini Facini Canis […] et etiam ad excidium
domini Ottonis».
Sempre in quel mese, Ottobono predispose misure per la ripresa,
all’arrivo della buona stagione, delle operazioni di guerra. Il diciannove inviò
rinforzi a Borgo S. Donnino: 100 uomini idonei alla guerra scelti tra i 300
riservati alla difesa di Parma; altri dieci ne mandò ai castelli di Rossena e di
Carona in val di Taro. Concentrandosi su Parma, egli ordinò quindi di scavare e
sistemare fossati, muniti di roste e sbarre, da Porta S. Michele fino al Borgo S.
Egidio e tutt’intorno a questo.
Lo Sforza, non appena scemarono i rigori della stagione, andò all’attacco
del castello di Dinazzano, dimora signorile di Carlo da Fogliano, posto in
posizione strategica sulla strada per Reggio. Sostenuto dalle soldatesche di
Galasso da Correggio si impadronì del maniero e lo bruciò, condannando alla
stessa sorte gli altri fortilizi del feudo. Mentre questo accadeva nelle terre dei da
Fogliano, il 12 marzo Ottobono devastava le terre di Poviglio, S. Sisto,
Meletolo, Boretto e Fontanesio. Avvisato poi delle devastazioni commesse
dallo Sforza a Dinazzano, si diresse con le sue milizie verso Reggio per passare
quindi nel Modenese, a Formigine. Niccolò III uscì allora da Modena per
controllare i movimenti del Terzi, seguito da un centinaio di nobili modenesi,
parmigiani e reggiani che avevano trovato rifugio presso casa d’Este. Quei
cavalieri, per qualche distrazione, persero i contatti con il marchese e si
smarrirono nelle campagne, finché, nei pressi di Magreda, furono sorpresi da un
assalto delle milizie di Ottobono e finirono tutti catturati.215
215
Questo episodio è narrato diversamente dal Da Erba nella sua Cronaca. Il primo di maggio,
Ottobono era partito da Parma alle ore sei di notte cavalcando verso Reggio, dove Niccolò
95
Edoari Da Erba scrive che il 3 aprile arrivò a Ottobono dalla Repubblica
di Firenze un’ambasceria con la proposta di una condotta in una lega contro
l’imperatore Venceslao. Quella notizia finisce lì, senza ulteriori riscontri; altre
c’informano invece che il 17 di quel mese Ottobono era nella terra di San
Secondo con tutte le sue lance allo scopo d’imporre la corvée ai villici di
Torricella, Sissa, Palasone, San Quirico e Fontanellato, costretti ad arare per la
semina del frumento tutti di campi di quel feudo.
L’uccisione
L’11 di maggio, Micheletto Attendolo, con gli altri commilitoni catturati
nel novembre da Ottobono e imprigionati a Parma, riuscì ad schiudere una
breccia nel muro della prigione confinante verso il magazzino del sale. Da quel
varco fuggirono tutti, in camicia e seminudi, come si trovavano, passando sopra
i tetti, scalando e scavalcando le mura con ogni mezzo di fortuna, traversando
campi e risalendo i poggi dell’Appennino per raggiungere Felino, ove furono
accolti, confortati e rivestiti dal vescovo Giacomo Rossi.216
Allorché la notizia di quella fuga dell’Attendolo e degli altri prigionieri
raggiunse Ottobono, la reazione fu rabbiosa. Il giorno 16 era già dentro il borgo
di Felino e sotto il castello guidando l’assalto di oltre quattro mila uomini,
contando quelli a piedi e a cavallo, parmensi in parte assieme a gente del
cardinale Ludovico Fieschi.
La difesa di Felino fu vigorosa e il Terzi fu ferito a un piede durante uno
scontro, sicché dovette tornare a Parma.217 La ferita non impedì a Ottobono di
recarsi a Reggio il giorno 20 e di essere presente, il 27 di questo stesso mese, al
fatale incontro che avrebbe programmato con Nicolò III d’Este, a Rubiera.
III d’Este voleva incontrarlo. Il giorno seguente, il Terzi era nascosto in agguato con i suoi
armati al ponte di Magreda, quando sopraggiunse da Modena il marchese di Ferrara scortato
da Muzio Attendolo Sforza e dai rispettivi seguiti. Ci fu improvviso l’assalto proditorio delle
milizie di Ottobono, al quale riuscirono a sfuggire sia il marchese che lo Sforza con gli altri
che montavano cavalli, tutti corsi a rifugiarsi dentro il castello di Magreda. Chi non potè
fuggire, cittadini e contadini che accompagnavano l’Estense, ma anche molti uomini d’arme,
in tutto 400 persone, finì catturato. Per questo esito si fece gran festa nel campo dei Terzi.
216 Da Erba, nella sua Cronaca, racconta più coloritamente quella fuga: «A 11 magio la notte a hore
6 fugirono dalla prigione del Comune 33 prigioni soldati del Marchese di Ferrara che erano
stati ivi mesi 5, e havevono para 3 di boge (ceppi) per ciascuno quali se cavorono e ruppono
‘1 muro grosso della camussina ( o camasina, come ha l’Affò, t. 3, 267) contro alla dovana del
sale alto più che braccia sei da terra, e poi escirono fuora per il canale del comune e
montorono per sopra i pallazzi per diversissimi modi e vie in sul tassello della camera del
comune, o indi sopra coppi di detta camera, e poi sopra quelli del palazzo, e sul muro della
dovana del sale, e ivi con una scala fatta di fette di lenzoli con peroli di legno ligati con le
stringhe comandata a un anelo con un chioldo smontarono dal muto sulla via cbe mai furono
uditi e andorono alla Beltresca tra il ponte mozzo e quello della pietra, e ligorono a detta
Beltresca i lenzoli e discessono in la Parma et andirono a salvamento a Felino». In A.
PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 111-112, n. 2.
217 Secondo Panciroli, a ferire il Terzi fu l’Attendolo: «Tornato a Parma Ottobono, e intesa la fuga
de’ prigionieri, incontinente andò a combattere Felina; dove ferito in un piede da Michele fu
costretto di tornar indietro». Cfr. G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., p. 34.
96
All’alba di quel giorno, scortato da poche dozzine di militi a cavallo, da
amici e alleati, primo tra i quali Carlo da Fogliano, suo suocero e intimo
consigliere, da Guido Torelli e Francesco da Sassuolo, tutti armati di sola spada
in ossequio ai patti concordati, Ottobono cavalcava verso il convegno in
qualche modo concordato con Niccolò d’Este per patteggiare una pace che
ponesse fine all’ennesimo conflitto che li aveva visti contrapposti per il
possesso del Modenese. Dei Terzi era presente il fratello Giacomo, che portava
accanto a sé, in sella, un fanciullo di appena due anni e mezzo: Niccolò Carlo, il
figlio di Ottobono, venuto per l’occasione di incontrare e omaggiare il marchese
d’Este che era stato suo padrino, compare quindi di Ottobono, nel battistero di
Parma il Natale del 1406.
Il Terzi si presentò a quell’incontro disarmato, vestito in modo dimesso e
persino umile, cavalcando non un destriero o un palafreno ma un ronzino, il
capo coperto da un cappuccio con la punta che, alla moda di quei tempi,
arrivava sino ai piedi;218 non portava elmo, né usbergo, né corazza. Nelle staffe
un piede era ancora ancor gonfio e dolorante per la ferita infertagli nell’assalto
alla rocca di Felino da Micheletto Attendolo, dieci giorni prima. Il corteo
raggiunse il ponte della Vallisella, o Valverde, nel contado di Rubiera, ove trovò
Niccolò III, scortato dai suoi militi, dagli alleati Uguccione dei Contrari, e
Micheletto Attendolo, con il quale iniziò senz’altro a discutere dei patti di pace.
La narrazione di come quell’incontro si svolse, del suo degenerare in
agguato mortale, nonché dell’efferatezza degli episodi susseguenti è stata mille
volte ripetuta, ispirata da intenti diversamente partigiani.
Colpisce sempre, nell’essenziale di tanti racconti fatti dagli storici più
antichi, che tuttavia si avvalsero di fonti narrative molto tarde, l’irrompere sulla
scena pacifica delle trattative di Muzio Attendolo, detto lo Sforza, che colpisce
a tradimento, alle spalle, Ottobono Terzi, mentre questi sta dando la mano
destra a Niccolò d’Este.
È il momento, scrive Da Erba nella sua Cronaca, in cui Ottobono
esclama, rivolto a Niccolò che suppone complice e mandante dello Sforza: A
me, marchese compare? Son tradito a questo modo! Una scena tragica nella quale si
consuma anche la vendetta del cugino dello Sforza, Micheletto Attendolo,
fuggito dal carcere di Parma, che maramaldeggia un uomo già morto
spezzandogli il capo con un fendente della spada.219
Secondo la moda del tempo, ossia, come scrive Luciano Scarabelli nella sua Istoria: «Cappucci,
che i vecchi portavano, ma stretti assai e col becchetto lungo insino a terra». Cfr. L.
SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 144.
219 Muzio Attendolo Sforza, per quell’esecuzione fu poi compensato dall’Este con il feudo di
Montecchio, dove tuttavia dimorò pochissimo preferendo traferirsi in Lombardia e più tardi
nel Regno di Napoli. Il 4 gennaio 1423, incaricato dalla regina Giovanna II di andare al
soccorso della città dell’Aquila, assediata da Braccio da Montone, mentre guadava a cavallo il
fiume Pescara, si precipitò a salvare un suo paggio che rischiava di affogare. Le zampe
posteriori della cavalcatura sprofondarono però nella melma del fiume e il condottiero,
gravato dall’armatura, scivolò di sella, si rovesciò in acqua, sprofondando, mentre il suo
cavallo, alleggerito, raggiungeva la riva opposta. Il corpo dello Sforza non fu più ritrovato.
218
97
Quel che ne seguì per i resti mortali di Ottobono è orrenda e belluina
cronaca,220 peraltro abbastanza consueta in quei tempi, quando fioriva ancora,
canta l’Ariosto, «la gran bontà de’ cavallieri antiqui».221 Una cronaca che
consegnò Ottobono Terzi alla leggenda; nera leggenda, in cui tutt’ora vive,
prima che nella storia.222
La famiglia dei Rossi sarà la più tenace nel serbare memoria di colui che
resterà il loro peggior nemico, quello che fu prossimo ad annientarli
politicamente e fisicamente. Si narra che nel 1450 Pietro Maria Rossi, il
magnifico, conservasse ancora, nella rocca di Felino, quale macabro trofeo da
esibire agli illustri ospiti, la testa mozza di Ottobono.223
Mentre il corpo del Terzi, sempre secondo le malcerte narrazioni più
tarde, era consegnato alle cannibalesche vendette di avversari e del basso
popolino modenese, avvolto dalle brume mattutine della campagna di Rubiera il
dramma continuava a svilupparsi. Guido Torelli, il più fedele e devoto amico
d’Ottobono, avrebbe voluto scatenare la reazione della sua scorta armata, ma si
trovò circondato dalle più agguerrite e numerose soldatesche dei due Attendolo
e dell’Este, uscite in massa allo scoperto dai recessi in cui si erano celate per
l’imboscata.
Questa, emblematica nella sua truculenza, la versione dello storico reggiano Guido Panciroli:
«I villani modenesi accesi d’implacabil odio per li danni ricevuti in quella guerra trassero le
viscere dell’occiso Ottobono, e con famelica rabbia ne mangiarono il cuore fritto in una
padella. Squartato e tagliuzzato il cadavere, altri, secondo è fama, ne divorarono
disumanamente le carni. Il capofitto in una lancia lo portarono i Rossi a maniera di trionfo a
Felina castello di loro giurisdizione»: G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., 34-36.
221 Tempi che l’Ariosto, poeta agli stipendi degli Estensi, così rievocava e cantava, quasi cent’anni
dopo, con equivoca ironia: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!/ Eran rivali, eran di fé
diversi,/ e si sentian degli aspri colpi iniqui/per tutta la persona anco dolersi;/ e pur per selve
oscure e calli obliqui/insieme van senza sospetto aversi»: L. ARIOSTO, Orlando Furioso, C. I, 22,
vv. 1-6.
222 Rilevante, a questo punto, l’affilatissimo giudizio di Andrea Gamberini che scrive a proposito
dell’esecuzione di Ottobono: «L’eliminazione con un tranello traduce, in una sorta di nemesi,
lo spregio per il «pervicax violator divini juris atque mundani», come lo definisce il Delayto,
penna semiufficiale dell’Estense. E tuttavia, anche se presentata come una vendetta divina – e
dunque come un supremo atto di giustizia – l’uccisione del Terzi rivela nelle sue stesse
modalità i caratteri della ritorsione umana e terrena. Non è un caso che ad assestare il primo
colpo sia stato – secondo la narrazione quasi unanime delle fonti – Muzio Attendolo Sforza,
cui l’Estense intese offrire la possibilità di vendicare le offese subite durante la dura prigionia
impostagli solo pochi mesi prima proprio dal Terzi. Inimicitia (quella covata dallo Sforza) si
sommava dunque a inimicizia (quella nutrita dall’Estense), convergendo nel compimento di
un disegno che tuttavia non perse mai la sua valenza anche pubblica. Lo scempio rituale del
cadavere – condotto a Modena e qui squartato, parzialmente divorato dal popolo, la testa
mozzata affissa su un’asse trascinata da fanciulli, le braccia e le gambe esposte sulle porte
della città – rispondeva infatti proprio a questa esigenza. Privare la vittima delle sue
sembianze, renderla irriconoscibile, profanarne il corpo al punto da precludere la sepoltura.
erano tutti gesti attraverso i quali si realizzava la damnatio memoriae, ovvero quella che fin
dall’età classica era la pena postuma per l’hostis publicus». Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero
alla conquista del suo Stato, cit., pp. 293-294.
223 Cfr. V. CARRARI, Dall’historia di Rossi parmigiani, Ravenna 1583, pp. 130-131.
220
98
Il seguito di Ottobono fu catturato: tra i prigionieri inviati nelle prigioni
di Ferrara si contarono, oltre al Torelli, i capitani Giovanni dei Pezzali, Pietro
Cantelli di Parma, Rampini da Cittadella, Giovanni da Cremona. Sfuggì alla
cattura invece Giacomo Terzi, fratello di Ottobono, che, portando in sella
l’ormai orfano Niccolò Carlo, raggiunse cavalcando ventre a terra Parma.224 La
città, ignara del tutto degli ultimi accadimenti e senza sospettare la slealtà del
marchese d’Este, aveva iniziato a festeggiare gioiosamente fin dalle prime luci di
quel lunedì di Pasqua, o dell’Angelo, come lo chiamano i buoni cristiani. Perché
proprio per quel giorno i banditori avevano preannunziato la conclusione della
pace fra Ottobono e Niccolò III. Giunsero poi le prime notizie dell’agguato
perpetrato, confermate dal drammatico precipitarsi entro la difesa delle mura di
Giacomo Terzi recante in sella l’orfano di Ottobono, Niccolò Carlo.
Giacomo ordinò tamburo battente la convocazione in cattedrale, per il
giorno seguente, di tutti i cittadini di Parma. Il 28 maggio l’assemblea si radunò
in effetti dapprima nella cattedrale di Santa Maria Assunta, ma si trasferì subito
dopo nell’antistante edificio del vescovato, dove aveva la sua residenza di
governo Ottobono. Dinanzi all’arengo di cittadini e di milizie, tenendo sulle
braccia il piccolo Niccolò Carlo, erede designato di Ottobono, Giacomo chiese
e ottenne che gli si prestasse rituale giuramento di fedeltà come nuovo signore
di Parma e di Reggio. Il potere effettivo restò nelle mani dello zio e del nonno
materno, Carlo da Fogliano, che governarono sinché fu loro concesso, in nome
e per conto del nuovo signore fanciullo, ultimo figlio maschio di Ottobono.
Il giorno 8 giugno Giacomo Terzi inviò Lorenzo Vallisnieri a Venezia
con un’ambasciata per chiedere soccorsi contro l’Estense. Egli poteva pur
sempre vantare, come lo spento fratello Ottobono, d’essere patrizio della
potente Repubblica e membro del Maggior Consiglio.
224
Resta condivisibile il rammarico che a questo punto esprime lo storico Amos Manni: «Bello
sarebbe completare il ritratto di questo Venturiero con notizie relative alla sua morale privata,
al suo pensiero religioso, ai suoi affetti famigliari ed erotici ecc. Ma nulla di tutto questo ho
trovato nelle cronache e negli studi da me esaminati all’infuori delle notizie riportate nel
presente lavoro – notizie che gli sono in generale tutte sfavorevoli - e di un’incerta frase
trovata a pag. 120 del Pezzana in cui si parla della desolata vedova di Ottobuono – Desolata per la
perdita di un buon marito, o semplicemente per le conseguenze economiche e sociali
derivanti da quella morte? Chissà che un qualche fortunato ricercatore rovistando fra i mss
della Palatina non possa trovare di più. A me però è stato assicurato da competenti, ed io
credo d’aver potuto controllare, che nulla è sfuggito al dotto Pezzana». A. MANNI, Terzi ed
Estensi (1402-1421), cit., pp. 28-29 nota.
99
4.1
Francesca da Fogliano
I discendenti di Ottobono
Il giorno 5 giugno 1409 partirono da Parma, ben scortati e «con molte
carra», diretti verso il castello di Guardasone, in terra di Traversetolo, la loro più
protetta dimora, Francesca, vedova dell’assassinato Ottobono, accompagnata
dai tre bimbi orfani. Era con loro anche la cognata, moglie di Giacomo Terzi.
Ottobono, lasciano capire i cronisti, ebbe cinque figli maschi. Il primo
fu, probabilmente, Jacopo Terzi che nel 1412 combatté per la Serenissima sotto
Feltre contro gli Ungheresi.225
Un Giorgio Terzi compare nel febbraio 1408 come promesso sposo di
Palma, figlia del condottiero Ugolotto Biancardo. Il matrimonio fu forse
celebrato il 17 settembre di quell’anno, secondo Pezzana.226 Defunta Palma,
Giambattista Verci riferisce così quell’episodio bellico: «Dall’altra parte la compagnia di
Ruggiero da Perugia, e del Grasso da Venosa composta di mille cavalli, e cinquecento pedoni,
penetrata pe’ monti Bellunesi si avvicinò a Feltre sperando di poter conseguir quella Città per
trattato. Ma i traditori furono scoperti, e premiato Giovanni dal Sole Tedesco, il quale aveva
manifestata la congiura. Allora i Veneziani assaltarono il Castello dalla Scala, luogo fortissimo
sul Canal di Brenta, passo che conduce a Feltre, e colla forza l’ottennero. Indi Ruggiero fece
una scorreria fino alle porte di Feltre abbruciando i borghi, e mettendo a sacco i luoghi vicini
e forse avrebbe presa ancor la Città, se i balestrieri avessero mostrato maggior valore. Non
però perdette ogni lusinga di aver la Città; ma ottenuto Castel nuovo per trattato, e rovinato
colle bombarde mezzo il Castello di Quero, che avea voluto difendersi, ritornò sotto Feltre a’
22 di novembre. Trecento cavalli Ungheri uscirono ad affrontarlo, e con essi molti pedoni, e
fu appiccata fìerissima zuffa. Per ben due volte i Veneziani li volsero in fuga incalzandoli fin
sulle porte di Feltre; ma sopraggiunti gli Ungheri di Serravalle, e degli altri luoghi vicini, e per
quanto scrive il Piloni, diretti da Marsilio da Carrara, e dallo stesso Brunoro Scaligero, e
formato un corpo di settecento cavalli, e di maggior numero di pedoni, fu ripigliata di nuovo
la battaglia, e finalmente i Veneti furono rotti, e messi in fuga con gran perdita di gente.
Rimasero prigionieri Bernardo Diedo, Jacopo Terzo, e Bernardo Morosini, con altri molti.»
G. VERCI, Storia della marca trivigiana e veronese, XIX, Venezia 1791, pp. 79-80. Di questo
Jacopo figlio di Ottobono scrive il Pezzana: «Che poi Jacopo rimasto prigioniero nel 1412
fosse da Parma si ha testimonianza alla col. 838 del t. 79 del Muratori (Rer. It. Scr.), ove il
Redusiolo chiama Jacobus Tertio de Parma armiger. Ora potrebbesi ragionevolmente conchiudere
che quel Jacopo Terzi che fu fatto prigioniere al tempo dell’assassinio di Otto, e cui alcuni
Istorici chiamano suo figlio, fosse appunto questi che liberato probabilmente per
intercessione de’ Veneziani passasse poscia a’ servigi loro, e, per loro combattendo, rimanesse
prigioniere degli Ungheri nei 1412». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 119
nota. Del medesimo Jacopo, torna a scrivere lo storico nella sua cronaca per l’anno 1438,
quando elenca i benefici concessi dal duca Filippo Maria Visconti. «Ai tanti privilegiati è da
aggiugnersi in quest’anno Jacopo Terzi, la salda, intera fede, e la devozione del quale verso il
Duca gli procacciarono da questo a’ 10. agosto le esenzioni pe’ luoghi di Beduzzo,
Albazzano, Isola di pietra ed Enzola eguali a quelle ch’ erano state da lui concesse agli altri
nobili Parmigiani». Informazione che accompagna con la nota: «Questo Jacopo Terzi è con
ogni verisimiglianza quel desso che fu fatto prigioniere dagli Ungheri nel 1412 e di cui ho
parlato nell’anno 1409». Ivi, p. 407.
226 Ivi, p. 102.
225
100
Giorgio sposò in seconde nozze la giovanissima Caterina di Canossa, di
Guidone, che gli diede Niccolò e Ginevra.227
Un altro figlio d’Ottobono, certamente diverso dai precedenti, si
intravvede ammantato di tonaca cistercense nella ossequiente missiva, vergata il
17 novembre 1406 dall’abate di Fontevivo, quale risposta alle insistenze del
potente signore di Reggio e Parma che lo aveva raccomandato per fargli
ottenere l’abbazia di Chiaravalle della Colomba.228 Si ignora se questi primi tre
figli fossero frutto del matrimonio con Orsina, morta nell’agosto 1405. Niccolò,
che divenne celebre come «il Guerriero», figlio naturale, Ottobono lo ebbe per
certo da domina Cecilia Della Pergola, e fu legittimato il 25 novembre 1405.229
Dal matrimonio con Francesca da Fogliano nacquero prima Niccolò Carlo, il 6
dicembre 1406, che fu signore di Parma e Reggio per venti giorni, morto in
tenera età,230 e quindi, con cadenza annuale, due figlie: Caterina e Margherita.
Caduto nel settembre 1409 sotto l’infuriare delle bombarde di Uguccione
dei Contrari e occupato dagli Estensi il castello di Guardasone, estremo rifugio
dei Terzi, la vedova di Ottobono decise di abbandonare le troppo malsicure
terre parmensi. Sul finire dell’anno o nei primi giorni del 1410,231 accompagnata
dai suoi tre bimbi, Niccolò Carlo che aveva appena compiuto i tre anni, e le più
piccole Caterina e Margherita, abbandonò il Parmense trovando la protezione
della Repubblica di Venezia. Francesca raggiunse la rocca di Villa Bartolomea,
feudo che Ottobono aveva ereditato dal padre Niccolò e conservato tra
Legnago e Carpi.232
Caterina rimase vedova prima del 1447 e sopravvisse lungamente al marito. Il 3 settembre
1485 dispose per testamento di essere sepolta nella cappella della famiglia Terzi posta nella
chiesa del convento di San Francesco dei frati minori di Parma. Cfr. G. PLESSI, Guida alla
documentazione francescana in Emilia-Romagna: Parma e Piacenza, Bologna 1994, p. 474.
228 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 297.
229 Atto conservato in Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e
carte della famiglia Canossa di Montalto, 1256-1796.
230 Che Niccolò Carlo sia defunto ancora fanciullo lo si apprende dalla già citata sentenza
sull’eredità di Ottobono, più sotto ricordata per altro argomento, quando si precisa:
«Investito il figlio infante Nicolò: ma estinta ben tosto colla morte di Nicolò la linea
mascolina». Cfr. Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione
d’investitura, Questioni fra vassalli), cit., pp. 559-569.
231 Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (1402-1421), cit., pp. 72 e 85 nota.
232 Questo è stabilito nel dispositivo dell’ultima, definitiva, sentenza, emessa nel 1873, riguardante
quella proprietà sempre contestata nei secoli: «Siccome si legge nelle ducali 25 agosto 1404 e
4 novembre 1405, e, morto poco appresso Ottobono, venne dal vescovo (cosi volente la
Signoria) investito il figlio infante Nicolò: ma estinta ben tosto colla morte di Nicolò la linea
mascolina De’ Terzi, e intanto che il vescovo ritentava disporre altrimenti di Villabartolomea,
la Repubblica comando che venisse lasciata alla vedova di Ottobono, Francesca da Fojano,
ed alle di lui figlie Caterina e Margherita: e per ciò avvenne che, mentre la vedova passando a
seconde nozze col conte Lodovico Sanbonifacio e la figlia Margherita divenendo sposa di
Marugolà Sanbonifacio figlio del suddetto, portarono in quel casato due terzi del possesso di
Villa Bartolomea, la figlia Caterina portò l’altro terzo al marito Franchino Strozzi da
Castiglione, segretario del duca di Milano». Cfr. Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione
femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli), cit., pp. 559-569.
227
101
La
nella nuova
nuova dimora,
immersa nel
La accompagnò
accompagnò nella
dimora, pacificamente
pacificamente immersa
nel verde,
verde,
eretta
aiutandola nel
nel governo
governo della
della ancor
ancor tenera
tenera figliolanza,
figliolanza, la
la
eretta in
in riva
riva all’Adige,
all’Adige, aiutandola
233
233
zia
Eleonora,
sorella
di
Carlo
da
Fogliano,
vedova
di
un
Pico
della
Mirandola.
zia Eleonora, sorella di Carlo da Fogliano,
Fogliano vedova di un Pico della Mirandola.
A
A Villa
Villa Bartolomea
Bartolomea iniziò
iniziò per
per Francesca
Francesca una
una nuova
nuova esistenza.
esistenza. Vedova
Vedova ee
234
madre
madre ancora
ancora giovane
giovane ee fiorente,
fiorente, conobbe
conobbe un
un altro
altro giovane
giovane vedovo
vedovo ee padre,
padre,234
anche
lui reduce
reduce fuggitivo
fuggitivo dalle
dalle desolazioni
desolazioni di
di guerre
guerre ee battaglie,
battaglie, ee ii due
due decisero
decisero
anche lui
di
coniugali. Il
Il nuovo
nuovo sposo
sposo era
era Ludovico,
Ludovico, conte
conte di
di unire
unire le
le loro
loro solitudini
solitudini coniugali.
di San
San
Bonifacio,
Bonifacio,, discendente
discendente da
da illustri
illustri lombi
lombi padovani,
padovani, ma
ma ora
ora cittadino
cittadino legnaghese,
legnaghese,
che
dieci miglia
miglia dal
dal feudo
feudo di
di
che aveva
aveva scelto
scelto come
come residenza
residenza Lendinara,
Lendinara, posta
posta aa dieci
Villa Bartolomea.
Bartolomea.
Villa
Ludovico
di
era stato
stato avviato
avviato prestissimo
prestissimo alla
alla carriera
carriera delle
delle armi:
armi: all’età
all’età di
Ludovico era
tredici
signori di
tredici anni,
anni, al
al sorgere
sorgere di
di quel
quel secolo,
secolo, era
era già
già al
al servizio
servizio dei
dei Carraresi,
Carraresi,
di
Carraresi signori
Padova.
alla battaglia
battaglia di
di Casalecchio
Casalecchio
Padova. Prese
Prese parte
parte quindi,
quindi, finendo
finendo catturato,
catturato, alla
combattuta
l’armata di
di Gian
Gian Galeazzo
Galeazzo Visconti,
Visconti,
con l’armata
combattuta ee persa
persa nel
nel giugno
giugno 1402
1402 contro
contro
235 Nel
Nel
sotto
sotto le
le cui
cui bandiere
bandiere si
si battevano
battevano gloriosamente
gloriosamente le
le lance
lance di
di Ottobono.
Ottobono.235
Eleonora
Eleonora ricorderà
ricorderà nel
nel suo
suo testamento
testamento (rogato
(rogato nel
nel settembre
settembre 1432)
1432) la
la sua
sua lunga
lunga convivenza
convivenza in
in
casa
A.
casa della
della nipote
nipote beneficiando
beneficiando ilil pronipote
pronipote Bernardo
Bernardo di
di due
due terzi
terzi delle
delle sue
sue proprietà.
proprietà. Cfr.
Cfr. A.
SSEGARIZZI
«Nuovo Archivio
Archivio Veneto»,
n.s., XX,
EGARIZZI,, Lodovico
Lodovico Sambonifacio
Sambonifacio ee ilil suo
suo epistolario,
epistolario, «Nuovo
Veneto», n.s.,
XX, 1910,
1910,
p.
p. 96,
96, n.
n. 3.
3.
234
234 Ludovico
contessa di
Ludovico aveva
aveva impalmato
impalmato in
in prime
prime nozze
nozze Beatrice
Beatrice Marocella
Marocella dalla
dalla Porta,
Porta contessa
Porta,
di Riva,
Riva,
che
che
he gli
gli aveva
aveva dato
dato due
due figli:
figli: ilil primo,
primo, Marugulato;
Marugulato; un
un secondo,
secondo, Guerra,
Guerra, che
che a,
a, dispetto
dispetto del
del
nome,
nome, cambiato
cambiato in
in religione
religione con
con quello
quello di
di Antonio,
Antonio, si
si sarebbe
sarebbe fatto
fatto frate,
frate, andando
andando aa studiare
studiare
teologia
correggere perchè
esagera
esagera
teologia aa Padova
Padova ee Ferrara.
Ferrara. Scipione
Scipione Maffei
Maffei èè da
da correggere
perchè distrattamente
dis
distrattamente
quando
quando fa
fa sposare
sposare per
per ben
ben due
due volte
volte Ludovico
Ludovico di
di San
San Bonifacio
Bonifacio con
con Francesca:
Francesca: una
una prima
prima
volta
volta indicandola
indicandola come
come vedova
vedova di
di Otton
Otton Terzi;
Terzi; una
una seconda
seconda sotto
sotto le
le vesti
vesti di
di Francesca
Francesca da
da
Fogliano.
Maffei: con
II,
giunte, note
Fogliano. Cfr.
Cfr. Verona
Verona illustrata
illustrata di
di Scipione
Scipione Maffei:
con giunte,
giu
note ee correzioni
correzioni inedite
inedite dell’autore,
dell’autore, II,
Milano 1825,
Milano
1825, p.
p. 184.
184.
235
235 In
In seguito
seguito aa quella
quella sconfitta
sconfitta Ludovico
Ludovico fu
fu fatto
fatto prigioniero,
prigioniero, riuscendo
riuscendo poi
poi aa scappare.
scappare. Anche
Anche ilil
Carrarese
Carrarese catturato
catturato si
si era
era dato
dato alla
alla fuga
fuga ee per
per giustificarsi,
giustificarsi, in
in una
una lettera
lettera diretta
diretta aa Facino
Facino Cane,
Cane
Cane,
233
233
102
102
giugno 1408 egli era alla guerra di Modena con le truppe di Niccolò III d’Este
«qui eo tempore cum Othone Tertio, viro strenuissimo et ductore sagacissimo
belligerabat». Insomma, in tutti gli eventi bellici ai quali partecipò quale capitano
d’armi, San Bonifacio si trovò sempre a militare nel campo avverso a quello ove
si distingueva lo strenuo condottiero del quale avrebbe sposato la vedova.
Vedova resa tale dall’assassinio perpetrato con la decisiva complicità del
Niccolò III d’Este, al cui servizio il conte Ludovico fu tanto fedele.
Tuttavia, Ludovico di San Bonifacio, protagonista di troppe battaglie e
disgustato infine dalle medesime, dopo avere impugnata un’ultima volta la
spada nell’Italia centrale, affiancando Braccio da Montone, aveva ripudiato la
guerra, preferendo i sereni ozii intellettuali e gli studi teologici sulla
predestinazione alle esagitazioni delle sanguinarie mattanze belliche. Si dedicò
quindi agli studi classici, intessendo fecondi rapporti epistolari con letterati di
varia fama ma soprattutto con l’insigne umanista Guarino Guarini, pedagogo di
Leonello d’Este. Quando decise di passare a nuove nozze, Ludovico aveva
rinunciato da due anni a inseguire la gloria militare.
Il matrimonio si celebrò il 30 dicembre 1417, nel palazzo dei San
Bonifacio a Legnago. Il conte Ludovico dichiarò di fronte al notaio Niccolò da
Treviso «d’aver ricevuto 3000 ducati d’oro quale dote della moglie Francesca da
Fogliano, e di bene amministrarli, e nello stesso giorno e luogo Francesca, che
nel documento è chiamata contessa della Valle, nominò contestualmente suo
procuratore il marito Lodovico».236 Quelle nozze, nell’ambito della casata dei
San Bonifacio, non rimasero isolate, perché pochi anni più tardi si celebrò lo
sposalizio di Marugolato (o, alla veneta, Marugolà, contrazione di Marco
Regolo), primogenito nato dal precedente matrimonio di Ludovico, con
Margherita, ultimogenita di Ottobono e Francesca. La sorella di questa,
Caterina, si maritò invece con Franchino Castiglioni, che per trent’anni fu ai
vertici della diplomazia del Ducato di Milano, guardasigilli maggiore, membro
del Consiglio Segreto, impegnato incessantemente in delicate ambascerie e nella
stipula dei più importanti accordi e trattati con gli altri potentati italiani per
conto di Filippo Maria Visconti. Impegni che proseguirono, dopo la morte del
Visconti, con la Repubblica Ambrosiana, alla quale Franchino partecipò come
esponente del Consiglio Generale e che cessarono improvvisamente con
l’avvento al potere di Francesco Sforza.237
236
237
si avvalse anche della testimonianza del San Bonifacio. Questa notizia, come pure le seguenti
informazioni relative ai da Fogliano e ai San Bonifacio, sono state tratte da A. SEGARIZZI,
Lodovico Sambonifacio e il suo epistolario, cit., passim.
«Il 30 dicembre 1417, nella propria casa di Legnago, il San Bonifacio dichiarava di avere
ricevuto 3000 ducati quale dote della moglie Francesca da Fogliano e di bene amministrarli,
mentre nello stesso giorno e luogo Francesca nominava suo procuratore il marito Ludovico.
Cfr. ivi, p. 76, n. 1.
Trattando di Franchino Castiglioni, Franca Petrucci cade in errore quando, a proposito del
primo matrimonio, scrive che «sposò Caterina Trechi», anziché «Caterina Terzi», tale essendo
esattamente il cognome della prima moglie: Caterina figlia di Ottobono Terzi e di Francesca
103
Dal nuovo matrimonio di Francesca da Fogliano con Ludovico di San
Bonifacio nacquero tre figli: Bernardo, Silvio e Rizzardo. A questi si aggiunsero
tre figlie: Isotta, Alisia e Violante. Dai figli maschi avuti con Francesca, e
specialmente dal primogenito Bernardo e da Silvio, il conte Ludovico ricavò
parecchi dispiaceri dei quali si trovano riferimenti esacerbati nella
corrispondenza, conservata nell’Archivio di Stato di Modena, ch’egli intrattenne
con Borso d’Este amico di Bernardo, il figlio maggiore.238
Ludovico testò due volte, il 26 giugno 1439 e il 27 gennaio 1445, e in
entrambe le occasioni figurò come testimone, fugace apparizione, anche la
moglie Francesca.
Quanto ai figli nati dal suo matrimonio con Ludovico di San Bonifacio,
di Silvio e di Isotta si sa che nel medesimo giorno, 14 ottobre 1434, celebrarono
le loro nozze rispettivamente con Pantasilea e con Dondadeo, fratelli, della
nobile famiglia veronese Cavalli. In precedenza, anche il primogenito Bernardo
aveva trovato la propria consorte, una Benedetta o Ludovica, in seno alla stessa
casata nella città scaligera. Bernardo, amico e compagno di sollazzi del
marchese Borso d’Este, concluse una vita dissoluta condannato e giustiziato per
avere assassinato il fratello Rizzardo. La sentenza venne eseguita sotto il
governo del duca Ercole I, successore di Borso. 239 Settantaquattro anni prima,
consumata un’altra Pasqua, sulla medesima piazza dominata dall’architettura di
Lanfranco, era stata portata dalla plebaglia tumultuante un’altra testa decapitata:
quella del primo sposo della madre di Bernardo, il condottiero Ottobono Terzi.
da Fogliano. Cfr. F. PETRUCCI, Castiglioni, Franchino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII,
Roma 1979, www.treccani.it/enciclopedia/franchino-castiglioni_(Dizionario-Biografico)/.
238 Cfr. A. SEGARIZZI, Lodovico Sambonifacio e il suo epistolario, cit., pp. 77-78 note.
239 Le cronache del 1473 narrano che il 5 giugno a Modena, sotto l’abside del duomo, accanto alla
pietra dell’arringa, «a ore 14, che fu la vigilia de pasqua rosata, fu tagliata la testa al conte
Bernardo San Bonifacio da Lendenara e zentilhomo di Ferrara e za compagno del duca
Borso; e fu in piaza drito a la rengera del palazo del comune e fu interà piana senza el
tribunale. Per ché fece amazzare suo fratello uterino». Ivi, p. 76.
104
4.2
4.2
Giacomo
Giacomo ee Giovanni
Giovanni Terzi
Terzi
Il
Terzi.
escovile di
(XI
Il Palazzo
Palazzo vescovile
vescovile
di Parma
Parma (XI-XII
(XI-XII sec.),
sec.), sede
sede del
del governo
governo di
di Ottobono
Ottobono Terzi.
««Fratello
quale per
per essersi
essersi dottorato
dottorato nell’una
nell’una ee
Fratello d’Otto
d’Otto fu
fu Giacomo,
Giacomo, ilil quale
nell’altra
dottore. Egli
Egli fu
fu aa nome
nome del
del Duca
Duca Governatore
Governatore di
di
nell’altra legge,
legge, si
si chiamò
chiamò ilil dottore.
Casalmaggiore.
uno dei
dei deputati
deputati aa portare
portare ilil baldacchino
baldacchino di
di panno
panno d’oro
d'oro
Casalmaggiore. Fu
Fu uno
240
sopra
di Giovan
Giovan Galeazzo
G
Galeazzo
Duca di
di Milano».
Milano».240
sopra ilil morto
morto corpo
corpo di
Duca
Giacomo
Giacomo Terzi
Terzi era
era presente
presente ilil 27
27 maggio
maggio 1409
1409 all’agguato
all’agguato di
di Rubiera
Rubiera in
in
cui
cui fu
fu proditoriamente
proditoriamente assassinato
assassinato ilil fratello.
fratello. Lo
Lo scortava
scortava con
con ilil suo
suo seguito,
seguito,
cavalcando
Fogliano
cavalcando accanto
accanto aa Carlo
Carlo da
da Fogliano.
Fogliano. In
In sella
sella recava
recava ilil nipote
nipote Niccolò
Niccolò Carlo,
Carlo,
figlio
figlio di
di Ottobono,
Ottobono, portato
portato con
con fidanza
fidanza ad
ad omaggiare
omaggiare ilil marchese
marchese d’Este,
d’Este, colui
colui
che
che nel
nel Natale
Natale 1406
1406 era
era diventato
diventato suo
suo padrino
padrino all’immersione
all’immersione con
con l’acqua
l’acqua
lustrale
Parma ee che
che,
lustrale nel
nel battistero
battistero di
di Parma
che, trascorsi
trascorsi solo
solo due
due anni
anni ee mezzo,
mezzo, ora
ora aveva
aveva
ordito
ordito l’imboscata
l’imboscata che
che avrebbe
avrebbe spento
spento in
in un
un bagno
bagno di
di sangue
sangue ilil genitore.
genitore.
Appena
Giacomo riuscì
riuscì aa sfuggire
sfuggire
Appena consumato
consumato quel
quel tragico
tragico evento,
evento, Giacomo
all’accerchiamento
dei loro
loro alleati,
alleati,
all’accerchiamento ee alla
alla cattura
cattura da
da parte
parte degli
degli armati
armati estensi
estensi ee dei
usciti
celavano
usciti in
in folla
folla allo
allo scoperto
scoperto dalla
dalla boscaglia
boscaglia ove
ove si
si celavano.
celavano. Cavalcando
Cavalcando ventre
ventre aa
terra,
terra, lui
lui ee ilil da
da Fogliano
Fogliano riuscirono
riuscirono aa portare
portare in
in salvo
salvo dentro
dentro le
le mura
mura di
di Parma
Parma ilil
piccolo
piccolo Niccolò
Niccolò Carlo.
Carlo.
provvediment
urgenti per
per ilil
Giacomo
Giacomo assunse
assunse tempestivamente
tempestivamente ii provvedimenti
provvedimenti urgenti
governo
governo della
della città,
città, ilil primo
primo dei
dei quali
quali doveva
doveva rispondere
rispondere all’esigenza
all’esigenza immediata,
immediata,
dopo
titolare della
della signoria,
signoria, di
di fornire
fornire legittimità
legittimità
dopo la
la scomparsa
scomparsa del
del fratello
fratello titolare
240
240
cit.,
B.
B. A
ANGELI
NGELI,, Historia
Historia della
della città
città di
di Parma,
Parma, cit.
cit., p.
p. 467.
467.
105
105
formale e una base legale al suo potere di supplente. Perciò diede ordine di
«convocare a ore», cioè per le ore 21 del 28 maggio, tutti i cittadini di Parma.
Radunatasi dapprima in cattedrale, l’assemblea si trasferì subito
nell’antistante palazzo del vescovado, che a quel tempo era ancora occupato dal
potere civile, sede ufficiale del signore della città e residenza di Ottobono.
Dinanzi a quell’arengo, Giacomo innalzò sulle sue braccia l’infante
Niccolò Terzi, proclamandolo legittimo erede del dominio di Ottobono. Esortò
quindi cittadini e milizie civiche a prestargli rituale giuramento di fedeltà quale
nuovo signore di Parma e Reggio. Era una ipocrita finzione giuridica, poiché il
potere effettivo durante i venti giorni in cui durò quell’effimera signoria restò
sempre nelle mani dello zio, affiancato dal Fogliano.
Giacomo, armato di studi e di ben collaudate esperienze in campo
giuridico, amministrativo e militare, si dimostrò all’altezza della situazione
finché non fu sconfitto da forze e circostanze troppo avverse, finendo
annientato e massacrato in quel fatale 1409 come i fratelli Ottobono e
Giovanni.
Figlio cadetto di Niccolò il Vecchio, si era laureato in utroque iure, ossia in
diritto civile e canonico, alla scuola giuridica dell’università di Pavia. Qui
studiava certamente nel 1392, quando la zia Giovanna, sorella di Niccolò e
sposa di Guglielmo Pallavicino, testò a suo favore.241 Nel 1395 egli saliva in
cattedra presso la medesima Università.242 Agli inizi del 1400, «Iacobo de Tertiis
comiti Tizani et Castrinovi ac legum doctori peritissimo» fu invitato a tenere
scuola a Mantova, precedendo l’arrivo di Vittorino da Feltre.243 Passò poi
dall’insegnamento alla corte del duca di Milano, come giurisperito.
Nel 1400 egli ebbe la carica di podestà e capitano del popolo a Lodi;
l’anno seguente fu podestà a Vicenza. Nell’estate 1402, Giacomo con il fratello
maggiore Ottobono e il minore Giovanni244 erano capitani, sotto il comando di
Alberico da Barbiano, nell’esercito di 18 mila fanti e 12 mila cavalieri, in
Toscana, all’attacco di Firenze.
In quei mesi il duca di Milano conferì in feudo ai Terzi le terre di
Montecchio Emilia, Brescello, Boretto, Gualtieri, Cavriago e Colorno, tolte ai
da Correggio. Quando Gian Galeazzo si spense, il 20 ottobre 1402, Giacomo
Il rogito datato 8 agosto 1392 del notaio Cassano de’ Cassani è citato in Archivio di Stato di
Parma, Comune, Raccolta Zunti, b. 4350, ENRICO SCARABELLI ZUNTI, Tavole genealogiche della
famiglia Terzi, ms., sec. XIX. Quella zia paterna morì poi nel 1401. Del testamento scrive
anche Pezzana che individua però Giacomo o Jacopo come fratello di Giovanna. Cfr. A.
PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 134-135 nota.
242 «Bossi, MS, Studio, annotò che nel 1395, I. C. (fu fatto) Lettore ad lecturam Voluminis ma di lui
non si trova verun’altra notizia»: G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V,
II, Pavia 1836, p. 195.
243 Cfr. R. SABBADINI (a cura di), Epistolario di Guarino Veronese, III: Commento, Venezia 1919, p.
161.
244 Giovanni Terzi, fratello minore di Ottobono e Jacopo, sposò il 16 gennaio 1405 Caterina
Scotti di Francesco Scotti, che gli portò in dote mille fiorini d’oro. Cfr. L. SCARABELLI, Istoria
civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 347.
241
106
venne convocato a Milano per le imponenti esequie celebrate in duomo. Quale
esponente de «i più nobili militi e meliori di Lombardia», egli fu tra gli otto che
ressero il grande palio tessuto di seta e d’oro, foderato d’ermellino, che
decorava la bara ducale.245
Negli anni che seguirono la morte del Visconti, nelle vicende tumultuose
di scomposizione e ricomposizione delle signorie comunali del Ducato
milanese, la biografia di Giacomo Terzi si intrecciò assiduamente e sempre più
con quella di Ottobono. Dopo l’uccisione di quest’ultimo era la persona
deputata, di fatto se non di diritto, a tentare di succedergli.
Prese le redini del governo di Parma, Giacomo assunse le prime vitali
decisioni di governo, tra le quali una nuova imposizione per pagare il soldo
atteso dalle milizie comunali. Furono emessi nuovi bandi per espellere le
squadre dei Rossi, partigiani palesi od occulti dell’Estense.
Niccolò III in quei giorni stava dilagando con le sue truppe nel Reggiano
e, avanzando, raccoglieva la resa senza condizioni e l’accorrere di nuovi alleati
in quasi tutti i feudi, persino tra gli aderenti dei Terzi, lesti a salire sul carro del
prevedibile vincitore finale.
Non mancò allora la reazione di Giacomo, che il 5 giugno mandò
all’assalto del castello di Tiorre, vicino a Felino, le sue soldatesche con dei
guastatori, ai quali fu ordinato di bruciare, far saltare e spianare interamente
quel ricetto privilegiato dei Rossi.
Ma la spedizione punitiva non ebbe successo, perché i guastatori, mal
sorvegliati dai soldati, preferirono ricrearsi a modo loro: si dispersero nei boschi
a caccia, o si diedero a far bottino nel borgo, lasciando incompiuta la loro
opera, con le mura della cerchia e il maschio ancora in piedi, tanto che i Rossi in
seguito poterono riutilizzarli.
Il marchese d’Este il giorno undici, passato l’Enza, ricoverato il materiale
bellico a Montechiarugolo, si era portato nella piana attorno al fortilizio di
Panocchia, otto miglia a Sud di Parma, pronto a ingaggiare battaglia in campo
aperto con le forze del Terzi, il quale, tuttavia, preferiva rimanere asserragliato
dentro Parma.
L’attesa del confronto durò sei giorni, poi Niccolò III, considerato
l’atteggiamento difensivo assunto da Giacomo e non avendo le forze necessarie
per mantenersi all’assedio di Parma, levò le tende e marciò su Reggio.
L’8 giugno partì da Parma, diretto a Venezia, Lorenzo Vallisnieri per
sollecitare soccorsi e la conferma della protezione della Serenissima già goduta
per il passato. Il Terzi, peraltro, aveva già concesso alle milizie venete il presidio
dei siti fortificati di Casalmaggiore, Brescello e Colorno. Conseguente
all’ambasceria di Vallisnieri fu l’arrivo, l’11 giugno, di una missione affidata a
245
«Sebbene il suo corpo non v’era dentro, si diceva però ch’era sepolto al monasterio della
Certosa»: G. M. FINAZZI (a cura di), I Guelfi e i Ghibellini in Bergamo: Cronaca di Castello Castelli
delle cose occorse in Bergamo negli anni 1378-1407, Bergamo 1870, p. 132.
107
Giovanni Contarini,246 plenipotenziario della Repubblica di Venezia che
consentì l’avvio di conversazioni interlocutorie.
Il giorno seguente, si aggiunse un secondo ambasciatore, Francesco
Foscari,247 latore di nuove disposizioni. Fu accolto sulla piazza di Parma da un
imponente schieramento di truppe appiedate e a cavallo. Riprese le trattative
con Giacomo che in quell’occasione era affiancato dal fratello Giovanni, queste
proseguirono fino al giorno 17.
Il 18 giugno gli ambasciatori Foscari e Contarini raggiunsero gli
acquartieramenti di Niccolò III per consegnare nelle mani del marchese le
missive del Consiglio dei Pregadi, mediante le quali il Senato veneto informava,
e invitava a prendere, atto che la Serenissima manteneva sotto la sua protezione
i Terzi. Stava accorta insomma, la Repubblica, a conservare aperti e vivi tutti i
rapporti diplomatici che le potessero consentire, conclusi i conflitti, di
partecipare alla divisione delle spoglie dei vinti a beneficio dei suoi presidi in
terraferma e nelle terre padane.
Giacomo, forse incoraggiato dall’allontanarsi dell’Estense dalla frazione
di Panocchia, prossima alle mura parmigiane, e forte delle assicurazioni ricevute
dai due nobili veneti, risolse di scendere in campo con nuovi attacchi al nemico.
Il giorno stesso in cui partivano da Parma il Contarini e il Foscari, cioè il 17
giugno, egli inviava Giovanni Malvicino alla testa di 300 militi a cavallo a
Guardasone e altri 100 a Pariano per disturbare le retrovie dell’Estense. Nel
contempo Carlo da Fogliano assaltava con 600 lance Montecchio. Rafforzavano
quelle truppe, informa il Da Erba, 800 armati tra cittadini e villici, appiedati o a
cavallo.
Il Malvicino ebbe un primo scontro con lo Sforza e la sua avanguardia
presso Traversetolo, sotto la rocca di Guardasone. La sorprese e in una prima
fase la sconfisse, ma irruppe poi sul campo di battaglia, guidato dallo Sforza, il
grosso delle truppe calato dai poggi sovrastanti. La battaglia si riaccese
sanguinosa, durò due ore e si concluse con la rotta delle forze alleate dei Terzi,
che contarono molti caduti e la perdita di trecento cavalli. Tra i feriti illustri vi
246
247
Giovanni apparteneva alla famiglia Contarini del ramo dei Santi Apostoli e fu variamente
incaricato di tenere rapporti con nobili veneti residenti all’estero. Nel 1392 egli aveva lasciato
la laguna per studiare all’Università di Oxford. Soggiornò poi a Londra per raggiungere, nel
1400, l’Università di Parigi. Qui, nel marzo 1409, egli conseguì la laurea in teologia. Quando
fu inviato dalla Serenissima a Parma, tre mesi dopo il suo rientro dal suolo francese, Contarini
stava recandosi, probabilmente, al Concilio di Pisa dove, appoggiato dal doge Michele Steno,
fu eletto pontefice con il nome di Alessandro V il cretese Pietro Filargis. La famiglia
Contarini, tuttavia, apparteneva al partito filo-romano molto forte a Venezia, guidato dal
beato Giovanni Dominici (al secolo Banchini o Baccini), vescovo e poi cardinale. Per questa
ragione il regnante pontefice Gregorio XII premiò la fedeltà dimostratagli dai Contarini
nominando Giovanni, nell’autunno 1409, patriarca latino di Costantinopoli.
Francesco Foscari (1373-1457) già capo della Quarantia nel 1401, eletto due volte capo del
Consiglio dei Dieci, procuratore di S. Marco nel 1416, diverrà doge nel 1423. Propugnatore
della politica di espansione sulla Terraferma, si trovò perennemente in aspro conflitto con il
Ducato di Milano e in primis con i Visconti.
108
fu il prode Antonuccio Camponeschi dall’Aquila. Giovanni Terzi, avuta notizia
della sorte subita da Giovanni Malvicino, tornò rapidamente a Parma.
I villici di Cazzola, di Sivizzano, di Rivalla, terre confinanti con
Guardasone, cercarono in quei momenti di approfittare delle difficoltà che
subissavano i Terzi. Assieme alle milizie estensi, essi tentarono con grandi
strepiti di assalire la rocca ove si erano barricati i familiari di Ottobono e di
Giacomo. Ma la difesa stava all’erta e costrinse i rivoltosi alla fuga. Ripetendosi
poi i tentativi di impadronirsi della cerchia esterna della rocca, il castellano del
Borgo, deciso a farla finita con le intrusioni, uscì dalla rocca con un congruo
numero di fanti armati, uccise sul posto un buon numero di villici ribelli, altri ne
catturò e li fece impiccare.
Il Senato della Repubblica di Venezia, dando ulteriore seguito alle
pressanti istanze dei Terzi, insisteva nel frattempo presso il marchese d’Este, al
quale aveva inviato una nuova ambasciata, perché si arrivasse a una tregua in
quella guerra che aveva ormai palesemente privato il nemico del suo vigore.
Il Senato confermò nuovamente la sua protezione ai Terzi, dichiarando
che per nessuna ragione li avrebbe abbandonati, e nel contempo garantì a
Niccolò III i suoi possedimenti nel Modenese. Mentre l’ambasciatore veneto
tornava in città, il marchese d’Este ne inviò un altro ai Veneziani, dando a
intendere che voleva aprire trattative di pace. Sennonché, nel medesimo tempo,
ordinò alle sue truppe di manovrare e portarsi sotto le mura di Parma.
A preoccupare i Veneziani in quella guerra c’era anche il fondato timore
che i Genovesi potessero approfittarne per compiere nuove conquiste in
Lombardia, terra ove la Serenissima intendeva fermamente restare con le sue
basi e allargare se possibile le sue zone d’influenza. Confermando allarmi e
sospetti veneziani, il marchese d’Este era diventato oggetto delle interessate
attenzioni del maresciallo Jean Le Meingre, sire di Boucicaut, 248 che governava
Genova per conto del re di Francia. Con l’intento di concretare una trattativa, il
20 giugno arrivarono al quartiere militare dell’Estense, posto nel Reggiano, in
veste di plenipotenziari genovesi, i capitani Nicolò da Spoleto e Luca Fieschi.
Nel frattempo, però, la situazione per i Terzi e i loro collegati stava
sempre più peggiorando irrimediabilmente ed i Parmensi percepirono le
difficoltà sempre più stringenti in cui si trovava Giacomo. Il giorno 26 giugno,
alle ore 14 narra la cronaca di Da Erba, entrò in città con i suoi armati Giberto
Sanvitale. Egli s’incontrò con Giacomo per due lunghe ore, esaminando
realisticamente la situazione delle forze in campo, ebbero quello che diplomatici
meno antichi avrebbero definito un franco e aperto scambio di idee, al termine
248
Genova era divenuta nel 1396 proprietà del re di Francia, vigorosamente sottoposta dal 1401
al governo del maresciallo Jean Le Meingre, sire di Boucicaut. L’ultima impresa in terra
italiana di colui che i Genovesi chiamarono “il Bucicaldo” fu di tentare, nel luglio 1409,
l’occupazione di Milano. I fuorusciti genovesi colsero l’occasione della partenza del
maresciallo da Genova per occupare la città e consegnarla al marchese Teodoro II Paleologo
di Monferrato, togliendola definitivamente al Boucicaut a cacciando i Francesi dalla Liguria.
Tornato in patria, il maresciallo partecipò alla battaglia di Azincourt (1415), ove fu catturato
dagli inglesi. Morì prigioniero in Inghilterra nel 1421.
109
del quale il Terzi, in ossequio alla cosiddetta volontà popolare, fu congedato da
Parma.
Ai cittadini in attesa questa novità fu annunciata, urlando, da un esaltato
Antonio da Cusino che inneggiava al popolo. Popolo che subito si diede a
festeggiare e manifestare tumultuosamente la caduta del dominio dei Terzi.
La confusione e le urla erano tali che parve una rivolta, e questo mise in
grande allarme le milizie del Malvicino che temevano esserne il bersaglio.
Questo costrinse Giberto Sanvitale a intervenire per rassicurare il capitano e
consigliarlo a non reagire alle provocazioni. Giacomo, dopo essere stato
licenziato, si rifugiò con le sue squadre armate nella cittadella di Porta Nuova,
ma, quando vide le altre porte di Parma darsi una dopo l’altra al nemico, preferì
trasferirsi nella meglio difesa rocca di Guardasone.
I Sanvitale erano nel frattempo molto impegnati a convincere i loro
cittadini ad accettare come nuovo signore di Parma Niccolò III.
A questi fu infine inviato Galeazzo da Correggio con l’esortazione ad
appropriarsi formalmente di quello che era già divenuto, di fatto, militarmente
suo.
L’Estense entrò a Parma, preceduto da 200 cavalieri comandati da
Uguccione dei Contrari, passando per porta san Michele che gli era stata
spalancata da un gran tumulto di fanatici partigiani. Egli raggiunse il palazzo del
vescovato, già dimora di Giacomo e di Ottobono, tra gli evviva e gli schiamazzi
della folla.
Il giorno 27 fu convocato il Consiglio Generale del Comune, ove
vennero eletti tre sindaci che consegnarono al nuovo padrone di Parma, i
simboli della signoria: le chiavi, la bacchetta e il gonfalone del popolo. Le
bandiere estensi sventolarono sulle porte di Bologna e di S. Michele. Si decretò
che le insegne di casa d’Este sostituissero ovunque quelle dei Terzi.
Il popolino, per parte sua, si dedicò all’assalto delle prigioni, liberò quanti
vi stavano rinchiusi per qualsiasi ragione, assalì poi con mirato impegno il
palazzo comunale, prelevando i registri delle gabelle con i quali si fecero, tra
corali entusiasmi, imponenti falò. Il 9 luglio tutte le porte della cerchia cittadina
si erano arrese, ma non erano state ancora sconfitte le forti sacche di resistenza
delle squadre di Giacomo in diversi fortilizi cittadini.
Lo Sforza cominciò quindi a bombardarle. Fra queste vi erano le difese
dei ponti che, bersagliate dalle artiglierie, arsero sulla sponda della città. Il primo
di luglio si arresero anche la postierla sulla sponda verso Santa Caterina e i due
fortini del Ponte di galleria, che fu conquistato su ambo le sponde. Le forze
residue dei Terzi resistevano sparse anche nella città di Reggio, che aveva
patteggiato la consegna delle armi a fine giugno ma si arrese solo il 22 luglio.
Nelle terre del Parmense altri focolai di resistenza armata dei partigiani
dei Terzi, disseminati a macchia di leopardo sul territorio e nei borghi fortificati,
continuavano a insidiare l’Estense e i suoi alleati. Il 5 luglio Gherardo da
Correggio, che aveva tentato di introdursi con l’aiuto dei villici nella cerchia
110
interna di Colorno, dovette fuggirne sotto il fuoco dei razzi incendiari scagliati
dai difensori della rocca che arsero le case sotto le mura.
Ma se alcune piazzaforti in qualche modo lottavano, ovunque si
defezionava dal campo dei Terzi, persino tra le fila del parentado. Antonio e il
nipote di questi Giberto II Terzi, persa ogni speranza di rivincita, per salvare il
salvabile si umiliarono rassegnati all’Estense.
I valenti capitani della fanteria di Ottobono, Giovanni Malvicino,
Galcazzino da Langhirano e Maffeo dal Fosio, passarono da bravi mercenari al
soldo del marchese d’Este non appena costui entrò in Parma, salvo poi finire
tutti imprigionati, perduti dal sospetto di congiurare per una restaurazione dei
Terzi. Anche le milizie di quei capitani di ventura passarono compatte in campo
estense e già il giorno 10 luglio cominciarono a riscuotere regolarmente i loro
stipendi dal nuovo padrone.
Quanto ai pragmatici Veneziani, davanti al dilatarsi inarrestabile del
dominio del marchese di Ferrara, che giorno dopo giorno acquisiva nuove terre
e castelli nel Parmense e nel Reggiano, abbandonarono al loro ineluttabile
destino di perdenti Giacomo e Giovanni, e si chiusero a difesa dei loro presidi
fortificati sul Po, a Brescello e Casalmaggiore, insediamenti che avevano
ottenuto proprio dai Terzi.
Dentro Parma continuava a consolidarsi Niccolò III, che il giorno 17
conquistava anche la fortezza di Porta Nuova. Domenica 19 si cancellò il
biscione visconteo dal palazzo del governo, per dipingervi l’aquila bianca degli
Estensi. Alle ore 14, si celebrò una messa solenne in cattedrale con la
partecipazione del marchese Niccolò III, al quale si rinnovò la consegna rituale
delle insegne della signoria di Parma: le chiavi della città, il gonfalone e il
bastone del comando. Tre giorni dopo, tra gli altri provvedimenti di
normalizzazione del Comune, ci fu il bando che consentiva il rientro ai
fuoriusciti, reintegrati in tutti i loro averi. Fra questi vi erano i Rossi, ma senza
speranza di riacquistare la misura del potere che essi avevano goduto in
precedenza.
La fine di Giovanni e di Giacomo Terzi
Agli inizi del mese di settembre 1409, dopo avere ristabilito nel corso
dell’agosto le strutture istituzionali del Comune e la loro funzionalità con la
nomina ai vertici di uomini di provata lealtà, primo fra questi il suo
luogotenente generale Giacomino Rangoni da Modena, il marchese Niccolò
ritornò a Ferrara, la sua capitale.
Mentre tutti questi avvenimenti e altri parimenti importanti si svolgevano
a Parma, i due fratelli Terzi, Giacomo e Giovanni, conducevano una guerriglia
strisciante partendo dalle rocche ben munite in cui essi si erano rifugiati: a
Guardasone il primo, dentro Borgo San Donnino l’altro. Il 10 settembre,
Giovanni Terzi, partendo da quest’ultimo caposaldo alla testa di 150 cavalli,
fece scorrerie verso la Lunigiana, a Codiponte in Val di Magra, razziando
sessanta paia di buoi e facendo numerosi prigionieri che trasferì a Castelguelfo.
111
Passò poi a Colorno, dove i Terzi conservavano la rocca dopo aver ceduto ai
Veneziani la cerchia esterna, e da qui partiva per nuove intrusioni nelle terre
circostanti, spingendosi fino a S. Martino de’ Bocci, in Val Serena,
saccheggiando ovunque.
In quegli stessi giorni, Giacomo subiva a Guardasone l’assedio di
Uguccione dei Contrari. Il castello era gagliardamente difeso, ma le artiglierie lo
batterono con tanta furia da costringere gli assediati alla resa il giorno 24.
La vicenda dei fratelli Terzi sopravvissuti a Ottobono uscì allora dalla
fase preagonica, segnata dalla perdita repentina del dominio su Parma,
conquistata dall’Estense, per accelerare verso la soluzione finale e un’atroce
eliminazione fisica. Uguccione, preso Guardasone a Giacomo, si scagliò contro
Borgo San Secondo per assalire Giovanni, ma scoprì subito che questi lo aveva
abbondonato per rifugiarsi nella rocca di Colorno. Cavalcò allora con le sue
truppe verso quel sito, ma come lo raggiunse, il 29 settembre, dovette
rinunciare all’offensiva perché i Veneziani, insediati fortemente sotto il castello
dentro la cerchia delle mura del borgo, dichiararono di essere intenzionati a
impadronirsi essi stessi di quella preda. Uguccione si rassegnò allora a tornare
con le proprie soldatesche a mani vuote nei suoi quartieri.
Non erano trascorsi due giorni che Giovanni, conniventi evidentemente i
Veneziani, usciva dal castello di Colorno per depredare con i suoi armati le terre
di Sorbolo, Lentesone, Enzano, Bersagna, Frassanara, Ravadese, Pizzolese,
Pietra Baldana, Sant’Andrea, catturando inoltre diversi prigionieri per chiederne
un riscatto. Il giorno 8 ottobre Ferro da S. Felice, capitano del marchese d’Este,
tentò con 200 cavalli e 400 fanti l’assalto a Castelguelfo, rimasto in mano a
Giacomo e Giovanni. Ma quando, una settimana dopo, il giorno 15, scoprì che
qui si stavano radunando le milizie, provenienti da altri luoghi rimasti ai Terzi, e
saputo che i Veneziani di Brescello stavano arrivando in loro soccorso,
temendo di rimanere chiuso in una manovra a tenaglia, nel corso della notte
preferì tornare a Parma.
Incoraggiati dai ripiegamenti di Uguccione dei Contrari e del San Felice,
sentendosi forti per l’appoggio indiretto che loro veniva concesso dai
Veneziani, le squadre dei Terzi scatenarono dalle loro basi di Castelguelfo e di
Colorno nuove offensive e saccheggi nelle campagne circostanti, estendendo le
devastazioni fin sotto le mura di Parma.
L’esasperazione in città raggiunse l’acme il 25 ottobre, sicché fu inviata
un’ambasceria di quattro cittadini al marchese d’Este perché ponesse fine a
quelle angherie. Gli ufficiali dell’Estense pubblicarono poco dopo un bando
con cui s’imponeva a quanti possedevano beni nelle terre di Colorno di riparare
con le loro famiglie a Parma e di rimanervi sino a quando quel castello e quelle
terre non fossero stati definitivamente tolti ai Terzi.
I due fratelli, peraltro, stavano dando il loro personale contributo nel
coadiuvare i nemici e accelerare la propria fine. Cominciò Giovanni a scavarsi la
fossa e quindi subito lo seguì Giacomo, stando alla narrazione che ne fa
Pezzana sulla scorta di Delaito:
112
«Giovanni, uomo crudele al pari di Otto, ritiratosi nella Rocca di Borgo S.
Donnino in sul finir di settembre, chiamò a sé Alberto Scotto suo cognato
che risedeva in Castell’Arquato coi suoi Zii Francesco e Giovanni Scotti, il
consigliò ad uccidere questi due per unire in sé tutto l’avere e il dominio
loro. Non contento a si esecranda proposta gli si offrì di portarsi egli stesso
sotto colore di visitarli a Castell’Arquato, e di porla in effetto colle proprie
mani. Inorridì Alberto a tanta scelleraggine; pure finse di aderirvi, e, andati
insieme colà, il fece porre in ceppi.» 249
E Pezzana continua: «Queste cose raccontate dal Delaito furono inserite
nelle Storie di Piacenza anche dal Poggiali La nostra Cronaca dice solamente
come il dì 4 ottobre giugnesse qui la nuova della prigionia di Giovanni, se ne
facesse gran festa, e addì 5 fosse vestito il messaggio di panno rosso e condotto
intorno la piazza a suon di trombe e di pifferi. Il Delaito aggiugne che in quella
cattività dopo alcun tempo fosse tolto di vita nece detestabili; cioè di veleno,
secondo l’Angeli».250
Giacomo, quando fu informato della prigionia in cui era tenuto il fratello
minore, si trovava nella rocca di Castelguelfo. Si portò dunque celermente al
comando di molti dei suoi all’attacco del castello di Borgo San Donnino, dal
quale scacciò la gente degli Scotti e dei loro aderenti. Affidato quel fortilizio a
un adeguato presidio, con la sua scorta cavalcò verso Fiorenzuola d’Arda. Qui
era stato preceduto da Alberto Scotti con la sua soldatesca che, trovate porte
aperte e coadiuvato dai villici, aveva occupato la cerchia del borgo e sbarrato
ogni via d’accesso al soprastante castello. Quando Giacomo arrivò, finì
accerchiato e sequestrato assieme a tutti i suoi armigeri e partigiani.
Dopo questa cattura, lo Scotti vincitore ordinò che gli si aprissero le
porte della rocca, ma il guardiano si rifiutò recisamente.
Giacomo, tenuto prigioniero, fu allora condotto sotto le mura affinché
ordinasse al suo castellano di calare il ponte levatoio. Tuttavia né gli ordini né le
suppliche riuscirono a smuovere quel testardo difensore, giustamente convinto
che il padrone venisse forzato a invocare e a ordinare quello che in realtà non
voleva.
Il popolo dei terrazzani, già passato agli Scotti, esasperato dal prolungarsi
di quei dialoghi fra sordi e testardi, smanioso di passare al saccheggio, «sdegnato
della fallita speranza, assalì furente il Terzi e il tagliò per pezzi» raccontano,
fredde e compunte, le cronache più sopra citate.
Divenne a quel punto inesorabile la spoliazione dei beni, terre e castelli
dei Terzi avviata in primavera con l’assassinio di Ottobono e proseguita
nell’autunno con le uccisioni dei fratelli Giovanni e Giacomo. I Veneziani, loro
protettori, nel corso del mese di ottobre si appropriarono per conto proprio di
Torricella e di Sissa. In precedenza, altri amici dei Terzi, i Fieschi, non appena
Giovanni Terzi tentò di implicare il cognato nell’assassinio del proprio suocero, avendo
sposato quattro anni prima, nel 1405, Caterina, una figlia di Francesco Scotti.
250 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 132-133.
249
113
spento Ottobono e tramontato il suo potere, erano divenuti aspri avversari del
suo casato, al quale tolsero i feudi di Tizzano e di Ballone.
II castello di Belvedere rifiutò alla fine di novembre la soggezione ai
Terzi, per darsi all’Estense. Il castellano di Colorno, dopo che furono catturati e
uccisi Giacomo e Giovanni, si appropriò prestamente di Castelguelfo, ma dopo
il 6 dicembre dovette trasferirne il presidio al più titolato Giovanni Scotti. Due
giorni dopo Gabrino Fondulo consegnò a Rolando Pallavicino il castello di
Borgo San Donnino.
Quando tutti quei sommovimenti conobbero una tregua, ai sopravvissuti
del lignaggio dei Terzi rimaneva solo una frazione dei possedimenti che
avevano goduto all’apice della loro fortuna. Quel che loro restava non era
tuttavia di trascurabile importanza: «Poche terre - osserva Muratori negli Annali
- rimasero ai Terzi, tante però che bastarono a mantenerli in isplendore di
nobiltà sino ai tempi di lui».251
Mentre di Giovanni Terzi non si conosce discendenza, del fratello
Giacomo si sa che ebbe un figlio, Gioan o Giovan Filippo. Questi fu capitano
d’armi nel solco della tradizione di famiglia, e affiancò Niccolò il Guerriero, figlio
naturale di Ottobono, al servizio dei Visconti.
251
Ivi, p. 122 nota.
114
5.
5.
Niccolò
il Guerriero
Guerriero
Niccolò Terzi,
Terzi, il
Francesco
Laurana,
Sfilata
di militi,
, altorilievo
a destra dell'arco
trionfale
di Castel
Nuovo
di a
Francesco
Laurana,
Sfilata
di militi,
altorilievo
nell’intradosso
dell'arco
trionfale
di Castel
Nuovo
Napoli.
sovrano amico
amico di
di Niccolò
Niccolò ilil Guerriero,
Guerriero, volle
volle fosse
fosse eretto
eretto nel
nel 1443.
1443.
Napoli. Alfonso
Alfonso V
V d’Aragona,
d’Aragona, sovrano
Negli
n
Negli stessi
stessi giorni
giorni in
in cui
cui l’ultimo
l’ultimo nato
nato di
di Ottobono,
Ottobono, Niccolò
Niccolò Carlo,
Carlo,
trovava
nella fortezza
trovava asilo
asilo con
con la
la madre
madre Francesca
Francesca nella
fortezza di
di Guardasone,
Guardasone, un
un altro
altro
figlio
figlio del
del condottiero,
condottiero, anch’egli
anch’egli battezzato
battezzato come
come Niccolò,
Niccolò, poco
poco più
più che
che
nelle
adolescente,
scendeva
sul
campo
di
battaglia
iniziando
una
lunga
carriera
ne
adolescente, scendeva sul campo di battaglia iniziando una lunga carriera nelle
armi
emulare le
le imprese
imprese degli
degli strenui
strenui capitani
capitani della
della sua
sua casata,
casata,
armi che
che lo
lo porterà
porterà aa emulare
sino
Guerriero.
sino aa divenire
divenire celebre
celebre come
come ilil Guerriero
Guerriero.
Niccolò
Parmensi, nato
nato
Niccolò Guerriero
Guerriero Terzi,
Terzi, ovvero
ovvero «Nicolao
«Nicolao de
de Terciis
Terciis Parmensi,
magnifici
de
magnifici et
et potentis
potentis domini
domini domini
dominiOttonis»,
Ottonis»,ebbe
ebbeper
permadre
madredomina
dominaCecilia
Cecilia
Lapergola,
non soluta.
. Egli Egli
nacque
verosimilm
verosimilmente
durante
il penultimo
lustro
del
Della Pergola,
non soluta.
nacque
verosimilmente
durante
il penultimo
lustro
XIV
secolo,
per quanto
si deduce
dal dall’atto
dall’atto
di legittimazione,
decisodeciso
dal padre
delVXIV
secolo,
per quanto
si deduce
di legittimazione,
dal
Ottobono
e rogato
dal notaio
milanese,
a quel
Parma,
padre Ottobono
e rogato
dal notaio
milanese,
a queltempo
tempopodestà
podestà di
di Parma,
Lanzarotto
o Lancillotto
Lancillotto Regna
Regna ilil 25
1405. In
In quel
quel documento,
documento, oltre
oltre
Lanzarotto o
25 novembre
novembre 1405.
al
di Niccolò,
Niccolò, si
si indica
indica la
la sua
sua età
età approssimativa:
approssimativa: «considerantes
«considerantes
al buon
buon carattere
carattere di
252
in
in te
te bone
bone indolis
indolis inditia
inditia que
que demonstras,
demonstras, et
et pubertatis
pubertatis etate».
etate».252
252
252
La
presenta diffuse
diffuse ferite
ferite prodotte
prodotte dal
dal tempo
tempo che
che interpongono
interpongono lacune
lacune nel
nel testo.
testo.
La pergamena
pergamena presenta
Regna de
Di
riportano alcuni
alcuni passaggi
passaggi essenziali:
essenziali: «Vancarotus
«Vancarotus Regna,
Regna,
Di seguito
seguito si
si riportano
de Mediolano,
Mediolano, filius
filius
quondam
egregii viri
viri domini
domini Azonis
Azonis […]
[…] comes
comes sacri
sacri Lataranensis
Lataranensis palatii
palatii […]
[…]
quondam spectabilis
spectabilis et
et egregii
dilecto
viro Nicolao
Nicolao de
de Terciis
Terciis Parmensi,
Parmensi, nato
nato magnifici
magnifici et
et potentis
potentis domini
domini
dilecto nobis
nobis spectabili
spectabili viro
domini
ac felices
felices ad
ad vota
vota successus
successus […]
[…] Sane
Sane cum
cum nobilis
m in
domini Ottonis
Ottonis […]
[…] salutem
salutem
in Domino,
Domino, ac
nobilis et
et
egregius
vir Cabrinus
Cabrinus de
de Cernitoribus,
Cernitoribus
constitutus,
Cernitoribus, civis
egregius vir
civis Parmensis,
Parmensis, in
in nostra
nostra presentia
presentia constitutus,
procurator,
et procuratorio
procuratorio nomine
nomine prelibati
prelibati magnifici
magnifici domini
domini Ottonis
Ottonis
Otton patris
patris tui,
tui, et
et ab
ab eo
eo
procurator, et
habens
suprascripta et
dicenda et
et fatienda,
fatienda, legiptimum
legiptimum et
et
habens ad
ad omnia
omnia et
et singula
singula suprascripta
et infrascripta
infrascripta dicenda
115
115
Ottobono non era presente a quella solenne cerimonia, presieduta dal
podestà, celebrata pubblicamente «in civitate Parme, sub lobia palatii
habitationis domini potestatis Parme, sita versus plateam magnam, in vicinea
Sancti Georgii». Aveva dato procura a rappresentarlo l’«egregius vir Cabrinus de
Cernitoribus, civis Parmensis». Le formule giuridiche riportate assicuravano a
Niccolò, figlio di Ottobono e della nubile Cecilia Della Pergola, lo status di figlio
legittimo con pienezza di diritti e di doveri, «omnibus et singulis prerogativis,
honoribus, utilitatibus, dignitatibus, et capacitatibus». Posto sullo stesso piano
degli altri figli del signore di Parma e Reggio, che tale era Ottobono nel
novembre 1405, Niccolò diveniva di fatto e di diritto il primogenito, e quindi il
suo naturale erede. E tuttavia dopo che il padre fu assassinato, lo zio Giacomo
Terzi fece proclamare successore l’ultimogenito: il piccolo Niccolò Carlo, di
appena due anni e mezzo, figlio di Francesca e nipote di Carlo da Fogliano.
Un’usurpazione forzata e maldestra che comunque sarebbe durata pochi giorni.
Niccolò, il futuro Guerriero, apprese dell’assassinio del padre mentre stava
a Parma presso Jacopo e Beltramo da Fogliano, fratelli di Carlo ma,
diversamente da questi, aderenti agli Estensi. Appena avuta la tragica nuova,
Niccolò si precipitò a indossare le armi e cavalcando a spron battuto raggiunse
Carlo da Fogliano, suocero e influente consigliere del defunto genitore. Al suo
fianco lo si trovò combattere sotto Montecchio. Stavano proseguendo, infatti,
le operazioni militari con l’avanzata e il dilagare delle truppe di Niccolò III. Il
signore di Ferrara aveva da poco tolto tatticamente il suo campo a Pannocchia,
in prossimità di Parma, arretrando di qualche lega verso Reggio, abbastanza da
illudere Giacomo e lasciargli intendere che fosse disposto a cedere alle pressioni
suffitiens mandatum prout constat instrumento publico ipsius mandati, per eum coram nobis
producto, ac rogato et scripto per Jacopinum de Porta n[ota]rium publicum Placentinum
anno ab incarnatione Domini millesimo quadringentesimo quinto, indictione quartadecima,
die vigesimo primo mensis novembris […] Et etiam tu Nicolaus supradictus, genitus ac natus
de ipso d[…] domina Cecilia de Lapergola non soluta, nobis supplicavit, ac […] suprascripto
Cabryno attento nomine presente, et tibi ad hec omnia et singula infr[ascripta] […] fatienda et
contrahenda, seu celebranda consentiente, ac suam parabolam et consensum dante et
prestante, pro te legitimare […] Considerantes in te bone indolis inditia que demonstras, et
pubertatis etate […] activus esse conspiceris, et pro es unicum mare filiale solamen patri tuo,
te prefatum Nicolaum presentem et acceptante[m] […] legitimum, et in omnibus habilem
facimus, producimus, et creamus […] Et generaliter te omnibus et singulis prerogativis,
honoribus, utilitatibus, dignitatibus, et capacitatibus […] habilitamus, et imperiali auctoritate
qua fungimur communimus […] Et qui Nicolaus coram prefato domino comite flexis
genibus constitutus […] iuravit ad sancta Dei evangelia corporaliter tactis scripturis, in
manibus prefati domini comitis […] Acta fuerunt hec omnia et singula suprascripta anno a
nativitate domini nostri Yhesu Christi milleximo quadringentesimo quinto, indictione
tertiadecima, die vigexim[o] [q]uinto novembris, in civitate Parme, sub lobia palatii
habitationis domini potestatis Parme, sita versus plateam magnam, in vicinea Sancti Georgii
[…] Et etiam presente Petro de Sacis, filio quondam domini Guidonis, cive et notario Parme,
vicinie Sancte Marie Madalene, porte Chrispine, rogato se huic instrumento publico
subscribere debere». Il documento della legittimazione è conservato in Archivio di Stato di
Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e carte della famiglia Canossa di Montalto,
1256-1796, Legittimazione di Niccolò Terzi, Parma 25 novembre 1405.
116
degli ambasciatori inviati dalla Repubblica di Venezia che manteneva i Terzi
sotto la sua protezione, comunque e contro tutti.
Pezzana, nella sua Storia della città di Parma, osserva che Giacomo Terzi,
«entrato forse in qualche speranza di raddrizzare le cose, pensò tosto ad
inseguire 1’esercito nemico per attaccarlo da più parti. Mandò nello stesso
giorno 17 giugno Giovanni Malvicino con trecento cavalli a Guardasone; e
Giovanni Terzi, Carlo da Fogliano e il nostro Niccolò Guerriero con 600 lance
a Montecchio; ed ordinò ancora che 100 altre si portassero a Pariano per
infestare il retroguardo del nemico».253
In quella mischia lo Sforza era al comando delle forze estensi che
prevalsero e costrinsero alla rotta quelle dei Terzi. Niccolò Guererio filio Othonis,
conosciuta la prima sconfitta, trovò riparo entro la cinta di Porta Nuova di
Parma,254 ultimo baluardo ove ancora resistevano i partigiani di Giacomo. Ma
anche quel fortilizio si arrese all’avanzata degli Estensi un mese dopo, il 17
luglio, segnando con l’entrata a Parma del marchese Niccolò III d’Este,
acclamato dal popolo, il definitivo tramonto della signoria dei Terzi.
La militanza al servizio di Filippo Maria Visconti
Dopo la battaglia di Montecchio del giugno 1409 non si hanno più
notizie del giovanissimo Niccolò Terzi. Lo si ritrova anni più tardi quale
capitano in armi al soldo di Filippo Maria Visconti, strenuo combattente agli
stipendi del casato milanese nel solco della tradizionale militanza incarnata dal
padre Ottobono e dal nonno Niccolò il Vecchio. Ma al duca di Milano egli non si
limitò ad assicurare il suo talento militare. Filippo Maria, con il quale entrò
presto in confidenza e «al quale fu sempre molto caro», ne apprezzò forse, ben
oltre il valore militare, i talenti di consigliere e di diplomatico perspicace.
Lo utilizzò in missioni impegnative, ad esempio presso Sigismondo re
dei Romani, quando questi discese in Lombardia, tappa del viaggio verso Roma
per l’incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero. Lo volle quindi nel
suo Consiglio Segreto, nella più esclusiva e riservata cerchia di corte, «perocché
egli da pochi e poche volte si lasciava avvicinare».255
A ben guardare, gli esiti militari di Niccolò Terzi che ci consegnano le
cronache delle tante battaglie cui partecipò, è ritmato non da vittorie sonore ma
piuttosto da secche sconfitte, da catture e imprigionamenti e conseguenti
liberazioni. Niccolò non vanta un curriculum militare così glorioso come farebbe
supporre il titolo guerresco che lo fregia, mentre per contro appaiono più
ragguardevoli i servizi che, negli ambiti della corte e diplomatici, svolse, più
maturo in età, presso il Visconti, esponente della fazione braccesca e quindi
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 122.
Qui si trovava ancora il 23 di luglio, secondo Ludovico Cavitelli: «Guererio filio Othonis in
arce Parmae obsesso»: L. CAVITELLI, Cremonen. Annales. Quibus res vbique gestas memorabiles à
patriae suae origine vsque ad annum salutis 1583. breuiter ille complexus est, Cremonae 1588, p. 149.
255 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 264.
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254
117
anti-sforzesca; poi come delegato dei Reggitori la Repubblica Ambrosiana e
infine, in esilio e al tramonto della sua lunga carriera, come camerlengo presso
la corte di Ludovico III Gonzaga, marchese di Mantova.
Niccolò il Guerriero era un coetaneo di Filippo Maria e ne accompagnò,
servendolo, la vicenda storica sin dal tempo in cui questi, salito al potere nel
1412, morti il fratello e l’ingombrante Facino Cane, uscì dall’ombra per divenire
signore di Milano. Il Visconti si stava confrontando con un’eredità disastrata,
ove imperavano ancora le dinamiche della dissoluzione dello Stato conseguenti
alla morte del padre Gian Galeazzo avvenuta dieci anni prima. Filippo Maria
seppe reagire con vigore concretizzando presto una politica di riedificazione dei
domini paterni. Il suo programma ambizioso di espansione fu però
ridimensionato, e in gran parte fallì, proprio per effetto del suo iniziale
successo, poiché provocò la reazione inquieta degli altri forti stati regionali
nell’Italia settentrionale e centrale. Per contenere l’espansionismo visconteo, le
repubbliche di Venezia e di Firenze si allearono ripetutamente, provocando
lungo tutta la prima metà del secolo un confronto serrato e una serie di guerre
che portarono, tra l’altro, alla decisiva battaglia di Maclodio, combattuta nel
1427, che consentì alla Serenissima di estendere i propri domini di terra fino a
Bergamo.
Filippo Maria aveva sposato Beatrice di Tenda, vedova di Facino Cane,
conte di Pavia, impadronendosi in tal modo dei vasti possessi territoriali che
questi aveva accumulato e assicurandosi la lealtà delle sue milizie, essenziali per
la difesa del potere e del Ducato. Riorganizzò il proprio esercito affidandone
alternativamente il comando supremo ai migliori condottieri: Francesco
Bussone, celebre come il Carmagnola, Francesco Sforza, Niccolò Piccinino.
Contemporaneamente poteva contare sull’eccellenza di capitani come Guido
Torelli e Niccolò il Guerriero, ai quali s’aggiungevano i figli del Piccinino.
Il Terzi si distinse certamente, salvo una breve eclisse, per fedeltà e
costanza al servizio del duca di Milano, sullo sfondo dell’incessante andirivieni,
fra il fronte bellico visconteo e quello nemico, di supremi comandanti
mercenari: una disinvolta alternanza e scambi di ruoli che vide per protagonisti
soprattutto il Carmagnola e Francesco Sforza. L’ultimo dei Visconti utilizzò a
largo raggio la potenza delle sue armate e il valore esperto dei condottieri di
volta in volta da lui scelti per guidarle verso l’attuazione dei suoi programmi
iniziali e conseguenti: consolidare e difendere il nucleo originale dello Stato
visconteo, domare le città lombarde ribelli e le risse nei feudi, tentare di
ripristinare la struttura geo-politica e le funzionalità del Ducato.256
256
Seppe coltivare e ottenere, finchè le sue ambizioni si mantennero contenute, la neutralità delle
repubbliche di Venezia, Firenze, Genova e dei Savoia, che gli consentì di riprendersi Como,
Lodi, Piacenza, Cremona, Bergamo e Brescia e di costringere Niccolò III a cedergli Parma e
Reggio (febbraio 1420). Ma quando Milano intraprese una politica espansionistica, anche alla
ricerca di sbocchi per i mercati dello Stato, e impegnò i suoi capitani d’armi su tutti i fronti,
dall’Ossola a Genova, allora le reazioni militari di Venezia e di Firenze, in lega con altri
avversari anti-viscontei, furono pronte, accanite e reiterate. Ogni guerra che si infiammava sul
118
Nella primavera del 1416 le milizie ducali diedero inizio a operazioni
militari contro quelle dell’Estense che continuava a imperversare in quelli che
erano stati i domini viscontei nel Parmense e nel Reggiano. Niccolò Terzi e
Guido Torelli, già stimati quali «capitani egregi», combattevano sotto il
comando generale del Carmagnola. 257
Nel 1417 il Guerriero, sempre affiancando il Torelli, era al comando
delle truppe di cavalleria accorpate a quelle proprie del duca, alla sua guardia del
corpo e alle divisioni delle famose Lance spezzate. Niccolò condusse anche le
compagnie a cavallo che si erano battute sotto il comando del padre
Ottobono.258 Di lui, Nicolaus Tertius Othonis filius, e di Guido Torelli, condottieri
di Filippo Maria Visconti, Giulini scrisse che erano illustri e «tutti peraltro così
magnifici, che da alcun altro in Italia non venivano superati».259
Agli inizi del marzo 1420 il Terzi, con Torelli e Antonio Pallavicino,
tentarono di riconquistare Parma al duca di Milano, città che sarebbe comunque
ritornata al Visconti nel corso di quell’anno, non per virtù delle armi ma per
257
258
259
fronte tosco-veneto si consumò in un arcipelago di scontri o battaglie dai nomi più o meno
noti, come Zagonara nel 1424, la decisiva Maclodio nel 1427, Anghiari nel 1440, e fu
interrotta da qualche pace precaria come quelle di Ferrara, del 1428 e 1433, e di Cavriana del
1441.
«Guido Torelli e Nicolò Guerriero (naturale di Ottone Terzi) capitani egregi uscirono sotto il
comando di Francesco Carmagnola generale, e nella primavera presero Sarmato, Corano, la
Motta, posero campo su quel degli Arcelli, si prepararono a prendere la città. Dice la cronaca
avere avuto 1’ esercito una consistenza di venticinque mila fanti, e di quattrocento cavalli, ma
io credo che fossevi errore di cifra e che i fanti si abbiano a tenere per dieci volte meno». Cfr.
L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 243.
Un’importante caratteristica che si deve rilevare nella nuova condotta sta nell’inquadramento
dei combattenti. Mentre per il passato il loro impiego era stagionale e temporaneo,
intervallato dal succedersi di guerre, armistizi, paci e conflitti, con il compenso reperito
troppo spesso in maniera devastante, ricorrendo sistematicamente alla depredazione dei
territori attraversati o occupati, ora a quelle compagnie si assicurava uno stipendio ducale che,
se non lo escludeva assolutamente, quantomeno riduceva l’indispensabilità del ricorso ai
saccheggi. Questa belligeranza professionalizzata sollevava da uno dei più gravosi problemi di
gestione della compagnia, all’origine dei peggiori comportamenti imputati ai condottieri,
trasferendo il mantenimento delle truppe prevalentemente a carico delle casse ducali.
Citando il cronista milanese Andrea Biglia, Giorgio Giulini così scrive: «Tutte queste erano
truppe di Cavalleria proprie e particolari del Duca; le altre erano assoldate co’ loro Generali.
Ceteri jam conduċtitii erant, quos tamen ita demum ſibi devinxit, ut nemo pene Ductorum secessise
inveniatur. Contraxit ex Apulia Fabricium, qui cum Ladislao ductor fuerat. Accessit Guido Torellus, qui
etiam cum Patre quondam acies ductaverat. Nicolaus Tertius Othonis Filius aliquot turmas habens paterni
Equitatus, tamquam in perpetuum stipendium successit. Sic alii ignotiores inter alas dispositi, ut nulli in
Italia conspectiores essent. Il resto dunque della Cavalleria Ducale era composto di quelle
Compagnie, che varj Capitani avevano sotto di sè, e che si assoldavano da Principi
belligeranti secondo le occasioni; de quali Capitani, quelli che vennero al servigio di Filippo
Maria rare volte da Lui si dipartirono mai più. Tre più illustri ne ha nominati l’ Autore; oltre
ad altri ch’erano men noti, tutti peraltro così magnifici, che da alcun altro in Italia non
venivano superati. Il Biglia parla de’ tempi, ne’ quali il Carmagnola era generalissimo della
nostra armata». Cfr. G. GIULINI, Continuazione delle memorie della città di Milano ne’ secoli bassi, III,
Milano 1771, pp. 286-287.
119
denaro.260 Quell’azione militare che, valutata la consistenza delle forze scese in
campo, sembra essere stata più che altro un’esibizione dimostrativa, suscitò
comunque grande soddisfazione nel duca, che il 13 marzo premiò Torelli
investendolo di Guastalla, Montechiarugolo e di tutti i privilegi già goduti nel
1406.
A fine agosto, ancora Torelli e Terzi, alla testa di 600 lance, si
impadronirono, assieme a Cecco da Montagnana, di Borgo S. Donnino per
dilagare poi nel contado lungo lo Stirone sino a Castelnuovo e raggiungere le
terre prossime a Parma.
L’anno seguente il valore militare del giovane condottiero Niccolò Terzi,
comprovato sul campo, incoraggiò la presentazione di nuove istanze affinché
egli fosse ricompensato con il conferimento dei feudi tolti alla sua famiglia
dopo l’assassinio del padre, il signore di Parma e Reggio.
Una delle richieste riguardava la proprietà di Castelguelfo, la Torre dei
Marchesi così rinominata da Ottobono: il podestà competente a dirimere la
questione fu sollecitato pressantemente a decidere con giustizia ed equità. Il
duca, in data 20 gennaio, gli ordinò di convocare le parti in causa, i Terzi e i
Sanvitale, di informarsi con diligenza e intelligenza sull’oggetto del contendere.
Filippo Maria, nello stesso tempo, comandò di acquisire precauzionalmente il
possesso della rocca e delle relative pertinenze, a suo nome, per prevenire
qualsiasi incidente in attesa della deliberazione definitiva. Peraltro, quando poi
si arrivò a sentenza, il 12 di agosto, il duca decretò che quel fortilizio, con il
territorio di pertinenza, gli apparteneva senz’altro.
Conseguentemente, intimò che riguardo agli altri beni e fondi allodiali il
podestà giudicasse «sommariamente, semplicemente, senza strepito e figura di
giudizio, senza ammettere cavilli e frivole eccezioni», ma doveva assolutamente
astenersi dal menzionare le terre e le fortificazioni delle quali il duca si era
impadronito.261
Alla battaglia di Zagonara
Agli inizi dell’estate del 1424, Filippo Maria Visconti, in attesa di calare
sull’Italia centrale, stava ammassando un esercito, forte di 4000 cavalieri e di un
pari numero di fanti sotto il comando di Angelo Della Pergola, in Romagna.
260
261
Niccolò III d’Este fu ospite di Filippo Maria il 13 novembre a Milano, ove, tra l’altro,
patteggiò il versamento differito di qualche mese di 28.000 fiorini. L’Estense cedette in
quell’incontro anche parte del Reggiano, mentre conservò la città di Reggio a solo titolo di
vassallaggio.
Non si conosce quale fu il vantaggio che i Terzi trassero dalla decisione ducale. Tuttavia, fu
forse perché istruito da quella defatigante esperienza che Niccolò per un’altra successiva
pratica temendo anche qui ritardi, remore o liti, ottenne che si ordinasse perentoriamente di
arrivare ad una decisione sollecita. Fu quando, in accordo con il fratello Giorgio, mediante
formale ricorso al duca chiese la restituzione di diversi poderi. Il duca dopo aver chiesto il 18
febbraio di indagare le ragioni dei chiedenti, il 10 marzo ordinò al podestà di convocare i
contendenti e di chiudere con sentenza entro 20 giorni sommariamente e senza cavillazioni,
assegnando il possesso dei poderi ai due fratelli Terzi, se loro fossero appartenuti per diritto.
120
Niccolò, alla testa di 400 cavalli, assieme all’immancabile Guido Torelli che ne
guidava altrettanti, partecipò il 28 luglio alla battaglia di Zagonara combattuta
dalle truppe viscontee contro quelle della Repubblica di Firenze. La cavalleria
fiorentina, forte di ottomila unità agli ordini di Carlo I Malatesta, signore di
Rimini, dopo avere preso l’iniziativa dell’attacco subì una pesante sconfitta. Il
Malatesta venne catturato con 5000 tra cavalieri e fanti e il castello di Zagonara
fu spianato.
In Liguria contro Alfonso d’Aragona e i Fiorentini
L’anno seguente, nella primavera del 1425, il capitano Niccolò Terzi fu
inviato in Liguria al comando di tre mila cavalieri e cinque mila fanti.262 Genova,
dominio dei Visconti da quasi un lustro, era in quel tempo minacciata da
Alfonso d’Aragona, alleato alla Repubblica di Firenze e del vecchio doge
Tommaso di Campofregoso, esiliato nella Lunigiana come signore di Sarzana.
Una flotta di ventiquattro galee, sotto il comando di Pietro d’Aragona, il
minore dei fratelli di Alfonso, incrociava ostile davanti a Genova il dieci di
aprile. Sbarcò lungo la costa uomini armati, cavalieri e fanteria, che occuparono
Portofino, Sestri, Moneglia, arruolando rinforzi.
Filippo Maria Visconti reagì per mare e per terra. Ordinò ai suoi capitani
che dagli acquartieramenti di Parma, Reggio, Alessandria e Tortona portassero
rifornimenti a Genova. Fece approntare diciotto galee e altre navi di maggiori
dimensioni, servite da galeotti e truppe di sicura fedeltà prelevate in
Lombardia,263 messe sotto il comando di Antonio Doria.
Niccolò Terzi, già allora conosciuto come «il Guerriero», mosse da
Piacenza al comando di forze viscontee raccogliticce, reclutate alla meglio un
po’ dovunque, entrò in Liguria per affrontare nella piana di Sestri Levante
quelle dei Fiorentini e dei ribelli liguri del Fregoso, che qui si erano concentrate
agli ordini di Gian Luigi Fieschi. Mentre il Doria salpava per intervenire in
appoggio alle truppe del Terzi, questi le lanciava all’attacco, impegnandole in
scontri che si ripeterono senza esito risolutivo sino a notte.264 Il giorno seguente
ripresero i combattimenti, nella vana attesa del soccorso della flotta amica.
Sull’orizzonte comparvero invece le navi con le insegne di Pietro d’Aragona
che, vinta la squadra del Doria, presero d’assalto le forze viscontee con le
262
263
264
Secondo il Corio, i cavalieri erano in numero molto inferiore: «Filippo ordinò l’armata a
Genova, contra i Fregosi mandò Niccolò Terzo figliuolo di Otto da Parma, detto il Guerriero
con cinque mila pedoni, et trecento cavalli». Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit, p. 754.
«E perch’essa si compia con maggior lena, manda a supplire a’ remiganti gli abitatori di
lunghesso il Po, bene esperti del fiume»: J. BRACELLI, Della guerra di Spagna, I, versione di F.
Alizeri, Genova 1856, p 93.
Quale fosse la qualità delle truppe in qualche modo messe a disposizione di Niccolò il
Guerriero lo precisa il cronista Bracelli: «Ora avendo il Terzi ordinate a campo aperto le
schiere, i nemici non ricusarono il cimento, dacchè i mercenari avvezzi com’ erano al
combattere, quantunque di numero assai minori, agevolmente si ridean di quelle truppe
spigolate in fretta da diversi paesi, nè al capitano conosciute, ne lui conoscenti». Cfr. ivi, p. 95.
121
proprie artiglierie e balestre. Il cronista coevo sarzanese Jacopo Bracelli,
tradotto dal latino, racconta così quel che successe:
Come il Terzi mise in campo le sue genti, diedero queste chiari indizi di
paura: tantoché potea muoverle appena d’un passo, sebbene quasi fuor di
vista al nemico. Quando poi corse nuova che giù per Taro e Pontremoli
scendea Giovan Luigi Fieschi con iscelta gioventù, dieder tosto le spalle
innanzi di trarre saetta, precipitandosi per luoghi non segnati d’alcun
sentiero; per guisa che i nemici temendo non covassero agguati sotto quella
strana paura, fermato il passo, sostettero alquanto. Ma tosto chè dileguossi il
sospetto, i cavalieri non solo, ma i pedoni e i soldati navali inseguendo i
fuggiaschi, e calpestando saette, scudi, e gran numero d’ armi passo passo
gittate per via, pochi ne uccisero, molti n’ebber cattivi.265
Gli ammazzati furono più di settecento, oltre mille duecento i prigionieri
tra cavalieri e fanti. Niccolò, minacciato di finire nella morsa tra la flotta
aragonese e gli armati del Fieschi e dei Fiorentini, raccolse le sue forze migliori
e riparò a Genova.
Il conflitto fra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia
Il Carmagnola, nel corso della nuova guerra che nel 1427 contrappose i
Visconti alla Serenissima per il controllo delle rive del Mincio, tra il lago di
Garda e la foce sul Po, e delle strade che traversavano quella regione, tentò
invano di impadronirsi di Montichiari.
Il 29 maggio riposizionò il suo esercito di 30 mila armati per dare
l’assalto, nell’indomani, al castello di Gottolengo, che si ergeva a guardia di un
incrocio viario strategico tra Mantova, Cremona e Brescia. Ma nel corso della
notte Niccolò Piccinino, reduce da una cocente sconfitta a Brescello, riuscì a
introdursi in quella rocca, ove si erano via via raccolte le truppe viscontee
guidate dai più valorosi capitani. Tra questi, anch’egli giunto senza troppo
rumore, c’era Niccolò Terzi il Guerriero, al comando di settecento cavalieri.
Il Carmagnola aveva attendato le sue truppe nei paraggi, senza
preoccuparsi di trinceramenti o di altre protezioni difensive. All’improvviso, egli
si vide invaso il campo dalla cavalleria viscontea, uscita di furia dal castello. La
sortita dei ducali mise in rotta rovinosa le truppe venete. In questa fuga si
contarono pochi uccisi, eppure ben più di mille e cinquecento nemici furono
catturati dal Terzi.
Sempre durante quella guerra, esattamente tre mesi dopo, il 29 di agosto,
dei galeoni veneti, risalito il Po fino alla foce del Taro, sbarcarono degli armati
che si dedicarono pacificamente alla vendemmia nelle terre e nelle ville
circostanti caricando poi a bordo del loro naviglio il raccolto.
L’armata fluviale veneta, dopo aver sconfitto quella ducale nei giorni
precedenti e aver ancorati alcuni galeoni a sentinella della foce del torrente
265
Ivi, p. 97.
122
Parma, era riuscita a prendere il controllo del corso del Po. I Veneziani
tentarono anche di prender terra a Cremona, ma il condottiero Cristoforo da
Lavello, con le poche forze di cui disponeva, ne aveva fatto strage, specie degli
Schiavoni, pochi dei quali si salvarono tornando a bordo del naviglio, malgrado,
scrivono le cronache, fossero ben armati di balestre e scoppietti. A quel punto, gli
equipaggi veneti sconfitti si rifugiarono precipitosamente, con le loro navi, a
Pavia. Quando corsero di nuovo a Cremona, per tentare la rivincita, furono
affrontati e vinti dalle armi di Niccolò il Guerriero.
Seguì a quelli scontri la battaglia di Maclodio, ben più importante per le
vaste e decisive conseguenze politiche. Combattuta il 12 ottobre 1427, vide
l’armata ducale milanese guidata dal Piccinino sconfitta dalle forze di Venezia e
Firenze sotto il comando tattico del Carmagnola. La memoranda disfatta
consigliò il Visconti, isolato e ormai preda degli avversari, di cercare un accordo
con il duca di Savoia.
Il 2 dicembre si concluse una pace fra Amedeo VIII e Filippo Maria, che
s’impegnò a sposarne la figlia, Maria di Savoia, e a cedergli Vercelli. A questa
buona nuova per i Milanesi si aggiunse il 28 quella che riferiva come i Genovesi
fedeli al duca avessero sconfitto i fuorusciti capitanati da Tommaso di
Campofregoso.
Una vittoria guastata, tuttavia, dalla sconfitta subita da Francesco Sforza,
posto sotto attacco da Abramo, fratello di Tommaso, il quale, informato del
sopraggiungere in Val di Scrivia delle forze viscontee, inviate dal duca con
l’ordine di eliminare le ultime sacche di resistenza dei ribelli liguri, aveva teso
loro un’imboscata, assalendole improvvisamente con l’ausilio di un gran
numero di suoi villici e riuscendo a porle in fuga.
Questo infortunio bellico fu strumentalizzato dai nemici a corte di
Francesco Sforza. Sostiene il Corio che tra coloro che portarono accuse o
insinuarono calunnie vi fossero Alberico Novello da Barbiano e Niccolò Terzi,
mai dimentico, quest’ultimo, che l’accusato era il figlio del vile assassino del
proprio genitore.
Messo sotto accusa dal sospettoso Filippo Maria, Francesco Sforza fu
quindi relegato nel Castello di Mortara, e corse il rischio di una condanna a
morte. Lo salvò, da quella fine immeritata e ingloriosa, l’intervento del prode e
leale condottiero Guido Torelli, che solo due anni più tardi riuscirà a riportarlo
nell’amicizia e nella grazia del duca Filippo Maria.
Luogotenente del capitano generale Niccolò Piccinino
A novembre del 1430 il Guerriero era in Toscana con Niccolò Piccinino.
Il 2 dicembre, agli ordini di quest’ultimo, egli guidava la prima schiera, forte di
400 cavalieri, nella battaglia del Serchio.
Nel gennaio dell’anno successivo il Piccinino, nominato dal duca
capitano generale dei Genovesi, avendo come vicario militare il Guerriero,
aveva posto i suoi acquartieramenti a Pontremoli. Il 29 gennaio inviò d’urgenza
al referendario di Parma, Antonio Simone da Pavia, l’ordine di fornire a mastro
123
Antonio da Felino il materiale (legni, funi, canapi, chiodi) e tutti gli attrezzi
indispensabili per costruire due briccole, macchine da assedio per catapultare
pietre. La richiesta perentoria era caricata di minacce pesanti al referendario
qualora non avesse provveduto alla consegna con tutta la premura che si
esigeva. Queste raccomandazioni ebbero evidentemente il loro effetto, perché
già il 6 febbraio Niccolò Terzi poteva rassicurare il referendario confermando
l’arrivo di quanto imperiosamente richiesto.
In aprile il Piccinino e il suo vice Niccolò il Guerriero conquistarono
Pontremoli. Il giorno 27 il comandante in campo diede l’ordine al referendario
a Parma di consegnare «senza eccezione veruna» al Terzi, che li doveva
conservare fino a conclusione della guerra (in attesa di una restituzione
promessa a Gian Luigi Fieschi) i castelli di Marzolara, di Calestano e di
Vigolone, in val Baganza, con tutte le loro pertinenze, possessioni e rendite.
In quell’anno Filippo Maria Visconti, volendo dimostrare la propria
riconoscenza per il valore e la fedeltà dimostratagli, remunerò Niccolò Terzi
con i feudi di Guardasone e Montelungo. «Di più ancora gli fece dono di
Colorno, come si tragge assai chiaramente da Giovanni Simonetta».266
La discesa in Italia di re Sigismondo
La venuta di Sigismondo era fervidamente invocata dal duca di Milano, il
quale, specie dopo la battaglia di Maclodio, tenuto costantemente sotto
minaccia dalla Repubblica di Venezia e da quella di Firenze, anche a motivo
dell’annessione di Lucca, avvertiva il proprio isolamento. Filippo Maria Visconti
insisteva perché l’imperatore, non ancora incoronato, scendesse in Italia o
quantomeno vi mandasse il suo esercito, offrendosi di approntargli navi a
Genova e promettendogli ogni aiuto per il suo viaggio.267 Nel 1431 Sigismondo
di Lussemburgo rispose finalmente alle attese del duca di Milano. E nel Ducato
avrebbe a lungo indugiato, quale ospite sempre meno gradito e anzi mal
sopportato, prima di ripartire per Roma, raggiunta nel 1433 dopo un’altra,
lunga, permanenza a Siena.
Quando, alla fine del 1430, giunsero a Milano gli ambasciatori imperiali
per preparare il viaggio del sovrano, venne incaricato di presiedere alla loro
accoglienza l’ambasciatore ducale Franchino Castiglioni, eminente funzionario e
consigliere che aveva sposato in prime nozze Caterina Terzi, figlia di Ottobono
e quindi sorellastra di Niccolò il Guerriero. Peraltro anche Niccolò, allorché
Sigismondo con la sua corte approdò in terra lombarda, si trovò sempre più
coinvolto, per disposizione del duca, nell’organizzazione del soggiorno reale.
Non solo: dalle funzioni di accompagnatore, con ruoli organizzativi e
decorativi, passò ben presto a incarichi più delicati: ambascerie presso Sua
266
267
I. AFFÒ, Memorie storiche di Colorno, Parma 1800, pp. 30-31.
«Se non puoteste venire se no cum dece cavalli, doveristi voler venire, benché tanto più favore
haveresti quando vegnereti più forte»: L. OSIO (a cura di), Documenti diplomatici tratti dagli archivi
milanesi, III, Milano 1872, n. CCLXXXV, p. 593.
124
Maestà, delle quali fu esplicitamente incaricato dal duca Filippo Maria, pronto a
cogliere le opportunità offerte dalla confidenza e stima crescente che il Terzi si
sarebbe guadagnata presso il re.
Fin dalle fasi preparatorie dell’itinerario, e poi per la permanenza in terra
lombarda del sovrano, si presentarono problemi di costi per l’erario che il duca,
recalcitrante, monitorava in prima persona, dando disposizioni minute per
contenere il più possibile quegli esborsi ingenti.
Nel gennaio del 1431 Filippo Maria fece valutare a Franchino Castiglioni,
al fratello di questi, Guarniero,268 e a Nicolò Guerrero le richieste ed esigenze di
Sigismondo e della corte imperiale, manifestate in vista del viaggio in Italia. Il
28 luglio sempre Franchino, ancora con Niccolò, nell’imminenza dell’arrivo del
re, dovette occuparsi per ordine ducale di rinnovare gli accordi organizzativi
con il monarca.
Il 20 novembre 1431, scrivendo a Niccolò Piccinino a proposito delle
risposte da fornire a un memoriale presentato dagli ambasciatori di Sigismondo,
il Visconti chiamò a testimone il Terzi: «Per tanto siamo contenti ch’a li dicti
ambassiatori respondi per nostra parte in quella forma che dicono le dicte
resposte, como etiandio te dirà Nicolò Guerrero che s’è trovato presente,
quando ordinassimo queste resposti».269
In data 24 novembre il duca ingiunse al Piccinino, a Gaspare Visconti, al
proprio Consiglio, al conte Alberico da Barbiano e a Nicolao Guerrerio di
accordarsi con il cardinale piacentino Branda da Castiglione in merito al
cerimoniale e agli onori da rendere al re dei Romani.270 Cinque giorni dopo, il
29 novembre, Filippo Maria era già inquieto per il protrarsi della permanenza
del re Sigismondo nel suo Ducato e impose al Piccinino di presentarsi al re allo
scopo di incitarlo a partire verso Roma.271 La sollecitazione era accompagnata
dalla promessa di scortarlo con un buon numero di milizie agli ordini del
Piccinino o di Francesco Sforza. Infine, il duca aggiunse: «E de tutte queste
cosse volemo ne partecipi principalmente cum monsignore de Piasenza et le
Guarniero nel 1426 aveva abbandonato l’insegnamento del diritto per la carriera diplomatica,
esercitata prestigiosamente a fianco del fratello Franchino al trentennale servizio del duca di
Milano.
269 La missiva continua con il duca che comincia a spazientirsi per le richieste esose degli
ambasciatori: «Et ben te avisamo che quando ordinassimo se gli desse quelli tria milia ducati,
quali hano ultimamente recevuto, li fecimo dire che per le altre nostre graveze non
poressemo più portare questo carico. Et ancora te recordamo che, quantunca li habiamo dati
queli denari gli habiamo dati fino a qui, non eravamo tenuti a darli, anci li havemo dati pe’
nostra cortesia, et ancora faressemo el simile de buona vogla, havendo l’abelitate.
Concludendo, tu sei su el facto, et poi vedere la possibilità nostra; respondeli como te pare,
che nui, siando tanto gravati d’altro spese quanto siamo, non sapiamo che dire. Dat. Abiate,
die XX novembris millesimo quadrìngentesimo trigesimo primo. In castro nostro porte Jovis
Mediolani, portentur celeriter. Cito Cito Cito ». Ivi, n. XLIX, cit., p. 40.
270 Cfr. ivi, n. XLII, pp. 42-43.
271 È da dire che Filippo Maria Visconti non volle partecipare ad alcuna delle solenni cerimonie
previste per il viaggio di Sigismondo, preferendo starsene ritirato nel castello di Abbiategrasso
per tutto il tempo in cui il re rimase a Milano.
268
125
drizi cum suo consiglio, et etiandio siamo contenti ne partecipi cum el conte Albrico et
cum Nicolò Guerrero».272
Allorché, il 17 dicembre, Sigismondo lasciò la città, il duca dispose che
alcune illustri personalità, fra le quali l’arcivescovo, Guarniero Castiglioni e
Niccolò Terzi il Guerriero, lo accompagnassero a Piacenza, la tappa successiva.
Al Castiglioni, che aveva tentato goffamente di schivare questa incombenza, il
duca irritato impose l’immediata partenza assieme agli altri prescelti, in quanto
la sua dignità di guardasigilli maggiore gli imponeva la presenza presso il re.
Il 25 gennaio 1432 il duca di Milano ingiungeva al conte Alberico e a
Niccolao Guerrerio di raccomandarsi al re affinché si degnasse di ricevere un
ambasciatore, auspicando che questo in qualche modo inducesse Sua Maestà
alla partenza: «E venuto qui uno mandato per lo principe de Salerno […]
dicendo che tuti sono grandemente alegrati per la venuta del serenìssimo re de’
Romani e desiderano sopra tuto che vada a Roma et gli stia».273
Il 3 febbraio, di fronte all’inerzia di Sigismondo, si cercò di facilitarne la
partenza promuovendo un’iniziativa in grado di propiziargli la simpatia di Siena,
ove egli doveva far tappa nel tragitto verso Roma. Filippo Maria scrisse perciò
ai suoi rappresentanti diplomatici, Niccolao Guerrerio e il da Barbiano, perché
inducessero Sua Maestà a inviare un messaggio ai Senesi con il fine di
convincerli dei vantaggi ridondanti che un suo soggiorno avrebbe prodotto per
la loro Repubblica. Doveva essere, quello scritto, «una lettera gratiosa per la
quale li dia a vedere che il suo andare in Toscana sia per bene et per
acressimento dello Stato de quella citate e de la sua republica, e per desfactione
de l’inimici suoi, e per la dicta littera confortasse li dicti signori et citadini Senesi
«E perché se poria dire: Como poterà andare el re a Roma? volemo dirte el pensero che
faceriamo. Pariria a nuy che poteressemo mandare cum luy o ti cum la compagnia toa, o el
conte Francisco cum la soa, e fasiamo nostro cuncto che, andendo un de vuy, venereste ad
essere una gran gente; prima, siandoli uno de vuy, se porta mettere per MD cavalli,
Bernardino per MCC, el conte Alberico per DC, Ludovico Columna per CCCC, le lance
spezate per mille; e poriase mandare Arasmino per governarle, el signor Hestor per CCCL,
Bartholameo da Gualdo et Cenapello (?) per D. […] Nondimanco, Nicolò, non guardare al
dire nostro. Nuy havemo voluto aprirte el pensero nostro, perché ancora ti sapii et possi
meglio pensare sopra tute, et avisarne del parere tuo de parte in parte. E parendote che
questo nostro pensero o tute o in parte se debia communicare cum la Majestà del re, siamo
contenti lo commnnichi in quella forma te parirà; ma che se prenda subito partito a quello sia
da fare e senza expectare altro nostro rasonamento se metta ad effecto, et la serenità soa se
metta a l’opera, perchè nuy el visiteremo bene puoy inance che se parta da Piasenza. E de
tutte queste cosse volemo ne partecipi principalmente cum monsignore de Piasenza et le drizi
cum suo consiglio, et etiandio siamo contenti ne partecipi cum el conte Albrico et cum Nicolò Guerrero».
Cfr. ivi, n. LIV, pp. 44-47.
273 «Dicendo che, siando già tuti sulevati, molto dubitano che non vada, o che, andendo, poi che
loro haverano saltato, la Maiestà. soa non gli abandoni e lassi in mano de l’inimici et per tanto
volemo che, venendo a Piasenza el dicto mandato lo quale se chiama Antonello da Sancto
Christophoro, gli diati et faciati dare per la Maiestà del re quelle bono parole et speranze che
a vui parirà, confortando el dicto principe et li altri a fare de le cosse per la Maiestà del re et
per nui, avisandovi chel dicto mandato senza fallo venerà. a trovare el re, ma vole stare
secreto et è venuto sconossuto per non dare suspecto al Papa. Mediolani, XXV januarii
1432». Ivi, n. LXV, pp. 55-56.
272
126
a stare de bona vogla et allegri con quelle miglore parole se potesse dire». E qui
il duca incise una frase che consente di misurare la sua corrucciata impazienza:
«Scrivendoli etiandio quanto anderà presto, perché li emuli dicono non anderà
fino a quatro mesi».274
Dopo questa data, Niccolò Terzi sembra essere divenuto il referente
preferito e lo strumento ideale per svolgere informali missioni diplomatiche per
conto di Filippo Maria presso il re Sigismondo dimorante a Reggio. Il 24
febbraio, ad esempio, il duca incaricò Nicolao Guerrerio di riferire al re che,
riguardo alle proposte di pace avanzate dalla Repubblica di Venezia, («nobiscum
de pace tractare in civitate Ferrarie per manus et medium illustris marchionis
Estensis») egli avrebbe spedito i suoi oratori a Ferrara. 275 La lettera ufficiale di
istruzioni, in latino, da esibire al futuro imperatore, era accompagnata da
un’altra, esplicativa, riservata al solo Niccolò in cui il duca forniva più
dettagliate istruzioni.276
Altro esempio della fiducia e del credito che Niccolò godeva presso
Sigismondo è la lettera con cui un preoccupato Filippo Maria, in data 12 marzo,
gli chiedeva di rivolgersi al sovrano perché questi, a sua volta, autorevolmente
esortasse e convincesse il nobile senese Antonio Petrucci 277 a non lasciare i
preziosi servizi che assicurava al Ducato di Milano e a rifiutare quelli del
pontefice.278 E ancora, solo due giorni dopo, il 14 marzo, il duca di Milano
Ivi, n. LXVII, p. 57.
«Scrivemo in questa forma che tu vedi perchè possi monstrare a la Maestà del re le littere cum
dire che hai gran piacere se accordamo in quella propria opinione che ha la Serenità sua: Che
Venetiani cercano pratica cum lui et cum nui per mettere divisione, ma che pur è ben mandar
li nostri a Ferrara e fare venire li suoi a Rezo per li rispecti che scrivemo. E non monstrare
mia ti de haverne scripto quello ha dicto la Maestà soa che lo facino per mittere scandalo et
divisione, ma che pur scrivamo questo da nui stessi et per propria opinione nostra. Mediolani,
XXIIII februarii 1432». Ivi, n. LXXIII, p. 62.
276 Ivi, pp. 62-63.
277 Antonio Petrucci, nato nel 1400, letterato, politico e uomo d’armi, amico degli Strozzi, era un
esponente dei toscani anti-medicei. Giovanissimo, ebbe la carica di podestà a Perugia. Nel
1428 fu ambasciatore del Comune di Siena presso il papa, continuando a militare come
capofila della Toscana anti-fiorentina. Podestà di Lucca quando la città, nel 1429, era sotto
attacco da parte di Niccolò Fortebraccio mandatovi dai Fiorentini, ottenne l’appoggio di
Filippo Maria Visconti, che inviò in aiuto suoi capitani, come Francesco Sforza, con il cui
aiuto Petrucci ripristinò il governo repubblicano. In premio per questa difesa, nel 1431 egli
venne eletto a Siena capitano del Popolo e da allora fu per trent’anni il primo cittadino del
reggimento in quella città. La sua biografia è ricca di uffici ricoperti con grande prestigio. In
qualità di uomo d’armi, Petrucci fu al servizio del Piccinino e di Francesco Sforza.
278 «Nicolao Guerrerio. Per molte lettere siamo avisati, che messere Antonio Petrucci da Siena lo
quale tu de’ bene conoscere, delibera partirse da’ nostri servitii et prendere altra ventura. E lui
proprio ne ha scripto questo, et rechesto licentia, ben che nui li habiamo rescripto,
confortandolo a perseverare cum nui, cum dirli che, havendo facto buono principio et bono
mezo, de’ similmente volere fare bono fine. E specialmente siando adesso per andare de la el
nostro serenissimo signor re de’ Romani, et lo dicto messere Antonio per recevere merito de
quanto ben ha facto. Ma sentiamo pur, Nicolò, che lui è fermo in opinione de andarsene, et
de novo siamo avisati che se conduce con el Papa cum CC lance, e quelle terre de Marema,
de Pisa, che teneva per nui le ha molto ben fòrnite, et hale tute in sua possanza per cussì facta
forma, che se dubita grandemente non voglia. farne altro. Et in conclusione li servitori nostri
274
275
127
incaricava Niccolò di un’altra ardua missione: convincere il re Sigismondo a
intercettare il transito per Trento e per altre strade dei suoi domini della
corrispondenza diretta al cardinale Giuliano Cesarini, appena nominato legato
pontificio e presidente del Concilio generale convocato a Basilea. Il giorno 16
una nuova lettera del duca diretta a Niccolò, o più precisamente a Nicolao
Guerrerio de Tertiis, inviata anche al «Consilio nostro in Placentia», era volta ad
ottenere dal sovrano la liberazione del conte croato Pietro Zrini.279
Trascorsero altri due giorni e il 18 marzo Filippo Maria Visconti si
rivolse nuovamente al suo ambasciatore Nicolao Guerrerio de Tertiis presso il re
Sigismondo che, unitamente alla sua dispendiosa corte, continuando a gravare
sulle finanze di Milano, indifferente a ogni garbata sollecitazione alla partenza,
perpetuava la villeggiatura lombarda. Sua Maestà aveva evidentemente preteso
nuovi esborsi all’esausto tesoro ducale. Il Visconti pose a quel punto
inderogabili condizioni ultimative: ordinò bensì a Niccolò di versare al re i 1800
ducati che questi pretendeva, ma solo dopo avere accertato che il sovrano
avesse effettivamente tolto le sue tende da Parma per andarsene in Toscana
(«advertas ipsos Majestati sue nequaquam exbursarei nisi certus fueris eum
statim debere ex Parma recedere, et versus Tusciam iter suum prosequi»).280
Il 27 marzo Sigismondo non dava ancora sintomi di volersi muovere.
Peggio, il duca di Milano fu costretto a ordinare bruscamente a Niccolò di
chiedere al monarca di porre termine ai colloqui che stava prolungando con gli
ambasciatori di Venezia e di sollecitarlo ad avviarsi senza frapporre ulteriori
indugi verso la Toscana. I toni che usò Filippo Maria esprimono tutta
l’esasperazione suscitata dal sovrano. Scriveva infatti il duca di Milano a Nicolao
Guerrerio:
279
280
de là. dubitano tuti che non prenda mala via et tuti li signali sono de volere fare questo.
Pertanto, Nicolò, volemo che retrovandote presto cum el serenissimo signor re de’ Romani
gli notifichi tuto questo per nostra. parte; supplicandoli voglia scrivere prestamente al dicto
messere Antonio in quella bona forma gli parirà, per confortarlo a perseverare in fare bene,
offerendoli de magnificarlo et exaltarlo in honore, et farli per lui et per suo fratello del bene
assai, et etiandio de operare per modo che suo fratello messere Guilielmo quale è preso già
più di, come tu say, serà liberato, e mandandoli a dire tutte le altre bene parole che parirano
alla Serenità soa per mantenerlo in la bona via, avisandote che lui è homo molto ambitioso de
honore, et proferendoli la Maiestà soa dehonorarlo et de farli bene, verisimilmente se reduria
a lassare ogni mala opinione che havesse preso. E quelle lettere deliberarà la Maiestà soa de
scriverli, mandanele qui, perchè nui proprii le manderemo, e fale duplicare o triplicare, perché
almeno una ne vada a salvamento. E questo dicemo perché la via non è secura. Et ancora per
avisamento nostro mandane la copia de le ditte lettere. Mediolani, XII martii 1432». Cfr. ivi,
n. LXXVII, pp. 65-66.
Bano di Croazia (pronipote del Leonida di Szigeth), accusato d’aver partecipato ad una
congiura viennese «mal soffrendo che la Corte non avesse dato a lui il goveno di Karlstadt».
«Nicolao Guerrerio de Tertiis. Accepimus nuper a serenissimo domino nostro rege litteras inclusi
tenoris, et nos ei rescribimus litteras his annexas, quarum copiam etiam ad te mittimus. Cum
igitur ordinaverimus ut illi ducati MDCCC, de quibus in litteris ipsis fit mentio, ad te
mittantur, volumus ut, quando eos habueris, advertas ipsos Majestati sue nequaquam
exbursarei nisi certus fueris eum statim debere ex Parma recedere, et versus Tusciam iter
suum prosequi. Mediolani, XVIII martii 1432». Ivi, n. LXXXII, p. 68.
128
«Ben che per un’altra te habiamo scripto quello proprio scriveremo per
questa, pur, havendo la cossa molto a core como havemo, te recordamo che,
intendendote cum monsignore de Piasenza et cum li altri nostri de chi parirà
a la signoria soa, faciati ad ogni modo tale opera che la Maiestà del re rumpa
et levi in tuto quella pratica che fa a Rezo cum li ambassatori de Venetiani, e,
senza perdere più tempo, se avia prestamente verso Toscana».281
E qui il duca Filippo Maria finalmente prorompeva, ferreo nell’ordine
impartito ma nello stesso tempo, contando sul talento persuasivo del Guerriero,
vellutato per quanto atteneva la sua esecuzione («cum tale modo che la dicta
Maiestà vegna a fare questo de soa voluntà»):
«E per dio, Nicolò, sii a questo ben solicito cum aiuto del dicto monsignore,
perchè non se poria fare cossa più utile, né più fructuosa per nui. Ma
guardatilo a fare bellamente e cum tale modo che la dicta Maiestà vegna a
fare questo de soa voluntà, nè possa dire che sia gravata per nui, nè per vui a
farlo, avisandote che de certo conoscamo questo tenere le cosse in tempo
essere la destructione nostra, e che l’inimici nostri non cercano altro. Si che
de novo te caricamo fare per modo che la dicta pratica da Rezo se levi cum
bella maineìra in tuto via, et la Maiestà del re se avia subito verso Toscana,
perchè non poresti fare cossa ne fusse più grata, né megliore».
La documentazione sulla missione espletata da Niccolò Terzi presso la
corte di re Sigismondo termina qui. Per certo il Guerriero non riuscì, con le sue
sole forze di persuasione, a sospingere il re verso la Toscana e Roma.
Il duca Filippo Maria, da par suo, ottenne di far alzare i sovrani speroni
solo più avanti, e non senza nuove pene. E così Sigismondo fu incoronato
imperatore da papa Eugenio IV il 31 maggio 1433, giorno della Pentecoste, a
Roma dopo essere stato a lungo ospite di Siena.
La seconda pace di Ferrara
Niccolò, cresciuto nella considerazione di Filippo Maria per le sue
attitudini diplomatiche anche grazie all’esperienza maturata nei rapporti con il
futuro imperatore Sigismondo durante la permanenza di questi in Lombardia,
fu impiegato dal duca nelle trattative preliminari alla seconda pace di Ferrara,
stipulata il 26 aprile 1433.282 Immediatamente dopo, tuttavia, s’interruppe
all’improvviso il servizio di Niccolò Terzi agli stipendi del Visconti.
L’anno seguente nacque un nuovo conflitto provocato principalmente
dalle intrusioni di Filippo Maria nei domini di papa Eugenio IV, a Bologna e in
Romagna. Il 28 agosto 1434, si scontrarono, tra Castel Bolognese e Imola,
l’esercito dei pontifici, alleati a Veneziani e Fiorentini, posto sotto il comando di
Niccolò da Tolentino, e quello dei ducali guidato da Niccolò Piccinino. In quel
frangente il Terzi era schierato tra i capitani della lega anti-viscontea.
281
282
Ivi, n. LXXXIII, p. 69.
Si veda la lettera del 24 febbraio 1432: ivi, n. LXVII, p. 57.
129
L’esito di quel confronto vide le milizie del Piccinino vittoriose su quelle
della lega, e Niccolò Guerriero finì catturato assieme ad altri capitani alleati. Di
questi, solo il Tolentino fu poi trattenuto in prigione dal duca Filippo Maria; i
restanti vennero ben presto liberati, compreso il Terzi che, sia per riconoscenza
suscitata dal trattamento generoso ricevuto, o per riguardo alla reciproca
convenienza, tornò sotto gli stendardi del Visconti.
Passati pochi mesi, infatti, il Guerriero combatteva nuovamente con i
ducali. Il Da Erba scrive che il 5 novembre sostarono nel Parmigiano, diretti a
Bologna con le loro compagnie, Niccolò Guerriero, Luigi Sanseverino e
Cristoforo da Uella e che le loro soldatesche imperversarono arrecando grandi
danni nel loro passaggio.
Guerre private
Il 19 settembre 1441 Niccolò Terzi, consigliere del duca Filippo Maria
Visconti, fu creato cittadino di Milano. L’Angeli scrive che: «Fu suo consigliero
creato il dicinove di Settembre 1441. cittadino di Milano».283 In realtà anche in
precedenza egli partecipava, informalmente, ma influentemente, al Consiglio
Segreto.
Nel contempo, il milanese Niccolò Guerriero, consigliere alla corte di
Filippo Maria Visconti, doveva occuparsi più prosaicamente, oltre che delle
imprese ducali, anche dei propri interessi in terra parmense. Nel 1434 egli
affrontò una spinosa controversia con Guido Torelli, suo compagno d’armi e
altro valoroso condottiero, come lui consigliere ducale. Il contendere riguardava
diritti d’utilizzo delle acque e i confini nei rispettivi feudi di Guardasone e di
Montechiarugolo. Il 22 giugno il duca, contrariato per le notizie che gli erano
state recate circa le liti scoppiate tra i suoi condottieri, tanto violente da
allarmare i vicini, investì della causa Bartolomeo Cacci, maestro delle entrate
straordinarie, con l’ordine, quale commissario ducale, di spegnere gli scandali e
di punire i colpevoli. In realtà non fu facile dirimere quel conflitto e pacificare
gli animi, dato il ruolo rivestito e la rude ostinatezza dei due principali
protagonisti. Oltretutto Niccolò fu improvvisamente colpito da malattia e il
processo fu sospeso. La causa riprese il 25 gennaio 1439, quando il duca Filippo
Maria scrisse al Cacci informandolo che il Terzi era guarito e ordinandogli di
provvedere di conseguenza. Il Cacci riuscì a pronunciare sentenza definitiva,
tracciando confini e regolando le vertenze accessorie, soltanto agli inizi del
gennaio 1440, un anno dopo. Peraltro, a dispetto della decisione ducale, i
vassalli del Terzi a Guardasone continuarono a deviare imperterriti, come loro
conveniva, le acque pertinenti a quelli di Montechiarugolo, costringendo il
locale castellano e podestà a reclamare il 4 di febbraio presso quello competente
283
Si potrebbe anche intendere che, essendo Niccolò già consigliere ducale, quel giorno fosse
creato cittadino di Milano. Cfr. B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 467.
130
di Guardasone, minacciando le più severe conseguenze per i turbatori dei diritti
del suo signore.284
Il 24 dicembre 1442, con una sua missiva inviata al referendario, il duca
dovette fare ammonire Niccolò, per le sue giurisdizioni di Guardasone e
Colorno, assieme ad altri feudatari del Parmigiano, tra i quali Pietro Maria Rossi
per Felino e Borgo San Secondo, accusati dai gabellieri di impedire loro la
riscossione dei dazi in dispregio dei loro appalti e dei decreti sovrani. Gli
evasori furono esortati a cessare le loro opposizioni. Un’ammonizione severa
ma che rimase inascoltata se nel maggio successivo si dovette reiterarla con
l’aggiunta di minacce in caso d inosservanza e con la seguente conclusione:
«Non soffrirò che coloro, i quali pe’ ricevuti beneficii procurare dovrebbono i
vantaggi della mia Camera, gl’impediscano per tal fatta, e procurino anzi,
ingrati! il mio detrimento».285
La seconda Lega anti-viscontea
Nell’estate del 1439, nel corso di una nuova guerra scoppiata fra il
Ducato di Milano e la lega ricostituita dalle repubbliche di Venezia e di Firenze,
le forze di Filippo Maria Visconti sotto il comando di Niccolò Piccinino, che
aveva tra i suoi capitani Niccolò il Guerriero alla testa di 200 cavalieri, erano
riuscite, con una serie fortunata di vittorie, a prendere il controllo di tutte le
terre lombarde fino al lago di Garda. Conquistata Desenzano con il suo porto,
il 26 settembre il Piccinino rivolse le proprie forze contro la flotta veneziana
riparata a Toscolano, riportando una schiacciante vittoria. Catturò la maggior
parte delle navi286 ed i loro ufficiali, i provveditori veneziani e il marchese
Taddeo d’Este. Il comandante veneziano Pietro Zeno riuscì a rifugiarsi con due
vascelli nel porto di Torbole, sulla sponda settentrionale. Il giorno seguente il
Piccinino espugnava anche il castello di Maderno.287
«Fu il nob. Cacci incaricato da Filippo col pred. atto del dì 22 giugno di portarsi sulle facce de’
luoghi controversi per assicurarsi d’ ogni cosa non solo per veduta propria, ma col chiedere
informazioni agli abitanti affine di poter far ragione a ciascuno de’ contendenti, e punire
d’irremissibili castighi i colpevoli sì pe’ delitti civili, e pe’ criminali. E per togliere ogni
cagione di scandalo tra i due feudatarii prescrisse il Duca al Commessario d’intimar loro di
non comparire né personalmente, né per mezzo de’ loro figli sul luogo, ma di spedirvi i loro
procuratori». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 405-406 nota.
285 Ivi, p. 462.
286 Erano galee, fregate e altro naviglio che Venezia era riuscita a portare nel gennaio precedente
al lago di Garda, aggirando i territori Viscontei. La flotta risalì l’Adige dalla foce sino a
Rovereto, in Trentino, da dove, calata a terra, fu trasbordata su slitte per raggiungere,
superate le elevazioni del Monte Baldo, il porto di Torbole. Fu una formidabile impresa
militare, ricordata come Galeas per montes. Sconfitti a Toscolano e Desenzano, i Veneziani,
nuovamente riforniti per montes, allestirono, a Torbole, altre navi. Il 10 aprile 1440, comandata
da Stefano Contarini, una più potente flotta vinse quella viscontea al largo del promontorio
del Ponale, presso Riva del Garda, riportando a Venezia il completo dominio del lago.
287 Gli storici sono discordi sul giorno in cui si combatté quella battaglia. La data qui riportata è
quella indicata da Carlo de Rosmini nella sua Istoria di Milano, sulla quale converge il maggior
numero di consensi. Cfr. C. DE ROSMINI, Dell’Istoria di Milano, II, Milano 1820, pp. 345-346.
284
131
A quella sconfitta reagì per terra Francesco Sforza, il nuovo
generalissimo della lega anti-viscontea, preoccupato di meritare la fiducia
riposta in lui dalle due repubbliche al cui soldo era passato in luglio dopo
l’addio al duca di Milano. Il nove di novembre si accese una nuova, dura
battaglia, iniziata a sorpresa con un attacco delle forze della lega, calate dai passi
montani non sorvegliati alle spalle delle truppe milanesi disperse lungo le
sponde del lago, conclusa dopo fasi alterne con la vittoria dei Veneziani.
Sopraffatte, le truppe viscontee fuggirono disordinatamente verso le navi e il
monte, contando seicento uccisi e trecento cavalli dispersi. I vincitori fecero
sessanta prigionieri e tra questi ve ne furono di illustri, come Carlo Gonzaga,
figlio del signore di Mantova, Cesare Martinengo e Niccolò Terzi. Il Guerriero
fu condotto a Brescia e la sua libertà venne scambiata con quella del
provveditore Giorgio Corner, tenuto in prigione dal duca di Milano fin dal
1432.
Scrive nelle sue Memorie Michele Daverio che Filippo Maria Visconti,
duca di Milano, «pure volle premiar alcuni di quelli Condottieri d’armi che dal
canto loro non avevan mancato di attaccamento e valore […] Infine concedette
alli 26 ottobre 1440 anche al magnifico Nicolao Guerrero la terra di Colorno
nel Parmigiano».288
La pace di Perugia
Nell’agosto 1443 Alfonso d’Aragona, salito al trono del Regno di Napoli,
inviò a Milano Giovanni della Noce per patteggiare un’alleanza contro
Francesco Sforza, allora fortemente osteggiato dal suocero Filippo Maria.
Franchino Castiglioni, per la sostanza diplomatica, e Niccolò Terzi con
Uguccione dei Contrari sul piano militare, furono coinvolti in quell’impresa che
ebbe il comando del Piccinino.289 Francesco Sforza era in quel tempo agli
stipendi di Veneziani e Fiorentini, alleato di Sigismondo Pandolfo Malatesta, e
conservava ancora in parte il suo dominio della ricca Marca d’Ancona: teneva
Ascoli, Fermo e Rocca Contrada, mentre tutto il resto gli era stato tolto
dall’avanzare delle milizie aragonesi e pontificie.
Assoldato dal papa Eugenio IV, su istigazione del suocero Filippo Maria
Visconti, Niccolò Piccinino, coadiuvato da Alfonso V d’Aragona, gli mosse
contro. Francesco Sforza si rinchiuse a Fano: stretto d’assedio forze numerose e
agguerrite, egli si difese con tanta gagliardia da costringere i suoi aggressori a
M. DAVERIO, Memorie sulla storia dell’ex ducato di Milano, Milano 1804, p. 169. Pezzana, nel dare a
sua volta questo annuncio, aggiunge: «Di fatto trovo poi fra le carte Sanseverini nell’Archivio
dello Stato […] che Niccolò Guerriero verso il finire del 1441 ed al cominciar del 1442 erasi
lagnato ai Maestri delle entrate perchè si facevano novità a danno delle sue esenzioni in
Colorno ed in Guardasone; e che i predetti Maestri ordinarono il 18 genn. 1442 al nostro
Refer[endario] di prendere informazioni diligentìssime intorno a ciò, o di mandar a Milano
uno de’ dazieri che ne fosse bene istrutto». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit.,
pp. 429-430 nota.
289 Cfr. B. FACIO, De rebus gestis ab Alphonso Primo, Neapolitanorum rege, I, Napoli 1769, p. 171.
288
132
restringersi nel rocca di Monteloro, tra Pesaro e Rimini. Quando il comandante
in capo visconteo Niccolò Piccinino fu richiamato a Milano dal duca, lasciando
a supplirlo l’inesperto figlio Francesco, questi fu sconfitto dal Malatesta nella
battaglia combattuta sotto quel castello l’8 novembre 1443, ove anche le forze
pontificie e quelle aragonesi furono messe in rotta. Quella vittoria consentì a
Francesco Sforza di rioccupare le terre che egli aveva perduto nella Marca.
Era nel frattempo nuovamente mutato nei confronti del genero
l’atteggiamento del duca di Milano, riscopertosi più magnanimo e pedagogico:
aveva voluto umiliare Francesco, era pur vero, ma giammai annichilirlo.
Attuando disinvoltamente un’inversione della sua politica diplomatica, Filippo
Maria si era rivolto alla Serenissima per stipulare una nuova alleanza, affinché la
Repubblica aiutasse il genero a uscire dalle difficoltà in cui lui medesimo l’aveva
messo.
Niccolò il Guerriero, con le sue truppe a cavallo, rimase sull’altro versante
di quella strana guerra dagli obiettivi mutevoli ed ambigui, agli ordini del
Visconti ma ostile allo Sforza. Nel gennaio 1444 egli era presente a Fano,
pronto a cavalcare verso l’Umbria, incaricato dal Piccinino di assoldare truppe.
Conobbe mesi dopo, il 19 agosto 1444, la sconfitta di Montolmo, presso
Macerata, inflittagli dalle truppe di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Francesco
Sforza, che a Montolmo aveva disertato, stava diffondendo, incoraggiato dal
riconciliato suocero Filippo Maria, proposte di armistizio. Il pontefice Eugenio
IV fu lieto di accettarle e si arrivò così alla firma di una nuova pace a Perugia,
città che festeggiò la notizia con immenso giubilo di popolo tra lo squillare di
trombe e campane a distesa: «Adì 19 de ottobre, alle 19 ore, comenzaro a
sonare le campane del Comuno al doppio un’ altra volta per la pace fatta, e alle
20 ore se bandì la ditta pace con 8 trombe e piphari per la piazza, tutti a cavallo:
come ditta pace era fatta fra la Santità de nostro signore papa Eugenio quarto,
per la Chiesa e suoi subditi e cità e terre da una parte, e ‘l conte e marchese
Francesco Sforza».290
Pochi giorni dopo la firma della pace, a Perugia giungeva anche Niccolò
Guerriero per radunarvi la sua gente d’armi e riportarla a Milano. Tanto si legge
nella Cronaca della città di Perugia: «A quisti dì passate venne de Lombardya
Nicolo Guerriere de meser Otto Buon terzo da Parma, e venne qui in Peroscia
per parte del Capitano per tutte quille gente suoi che fuoro rotte nella Marca, e
che tutte andassero in Lombardya; et così ogni persona va via». A metà
novembre le truppe ducali guidate da Niccolò, alle quali si erano aggiunte quelle
dei fratelli Piccinino e di Giacomo da Caivano, risalirono da Perugia l’Alta
Valtiberina per valicare l’Appennino al Verghereto, presidiato dalla rocca che
nel 1404 i Fiorentini avevano tolto ai conti Guidi. La Signoria autorizzò il
transito dell’esercito visconteo rilasciando il 16 novembre una burocratica
290
Per Muratori, quelli accordi furono firmati a Perugia il giorno 10, da papa Eugenio IV, mentre
il Cronista Riminese e il Sanuto scrivono della presenza, il 19 ottobre 1444, del suo delegato
cardinale Luigi Patriarca. Cfr. Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1494 (Diario del Graziani),
«Archivio Storico Italiano», XVI, I, 1850, pp. 558-559.
133
patente: «La Signoria fa riferimento alla richiesta di salvacondotto da parte di
Francesco e Giacomo Piccinino, Niccolò Terzi, detto Guerrero, e Giacomo
Gaivano che desiderano tornare in Lombardia con le loro compagnie e con robe
et arnesi: pur non essendo necessario, vista l’alleanza con il duca di Milano,
Filippo Maria Visconti, di cui sono al servizio, in risposta anche alla lettera dello
stesso duca, vengono concessi il passaggio e l’esenzione dal pagamento dei dazi.
Un mazziere li attenderà tra Sansepolcro e Città di Castello e saranno scortati. Il
sigillo apposto sulle lettere patenti rende ufficiale la concessione».291
Il pontefice Eugenio IV intervenne come pacificatore in un’altra guerra
che coinvolse agli inizi dell’anno 1445 il Terzi. Accusato di essersi impadronito,
nel suo feudo di Colorno, di proprietà boschive ecclesiastiche, questi stava
affrontando un’insidiosa battaglia giudiziaria con Delfino Della Pergola,
vescovo di Parma. In quelle circostanze il prelato non aveva esitato a ricorrere
ai soliti estremi rimedi e aveva colpito con l’interdetto Niccolò e il popolo di
Colorno, proibendo severamente al clero di celebrarvi gli uffizi divini. Fu a quel
punto che intervenne da Roma il pontefice delegando l’arcidiacono di Reggio,
Bartolomeo Anguissola, a dirimere la controversia. Ma non passò molto tempo
che il vescovo Della Pergola, dichiarando finalmente «di volere procedere in
modo amichevole e fraterno verso il Terzi», e schivando con ciò anche
l’accumularsi di spese di giudizio in una fattispecie dai profili insidiosi, raggiunse
un compromesso con Niccolò Guerriero e con i Colornesi, ponendo fine a ogni
conflitto con una sentenza che arrivò l’8 di maggio. Ma già il 9 febbraio, sopiti i
contrasti, era stato tolto l’interdetto sulla terra di Colorno ed era stata concessa
l’assoluzione al parroco Ilario che aveva proseguito, incurante delle censure, a
celebrarvi i riti sacri.
Nell’autunno di quell’anno Niccolò, rappacificatosi con il suo vescovo, si
trovò arruolato come fedele condottiero braccesco, agli ordini viscontei, contro
gli sforzeschi. Dalle sue terre parmigiane e piacentine, dopo avervi «fatta buona
raccolta di gente d’arme», si raggiunse Giovan Filippo, suo cugino, nella Marca,
a Monte San Piero degli Agli, borgo fortificato a sette miglia dalla città di
Fermo.292 Qui giunto, egli unì le proprie alle milizie di Francesco Piccinino,
capitano generale del duca di Milano, in guerra contro Francesco e Alessandro
Sforza.
Nuova guerra del duca di Milano contro Venezia
Nel 1446 il Visconti si riaccese improvvisamente il ventennale confronto
bellico con la Serenissima. Fu una guerra dagli effetti particolarmente disastrosi,
che vide le forze nemiche invadere agevolmente il ducato e arrivare fino alle
porte di Milano, riguardo alla quale il Decembrio rilevò l’assenza di motivazioni
291
292
Cfr. Il carteggio della Signoria fiorentina all’epoca del cancellierato di Carlo Marsuppini (1444-1453),
inventario e regesti a cura di R. M. Zaccaria, Roma 2015, n. 146, p. 553.
Archivio privato De Moll-Guerrieri Gonzaga di Villa Lagarina (Trento), n.n., PARMENIO
TERZINIO, Memorie istoriche della famiglia de’ Guerrieri di Fermo e di Mantova, ms., 1756.
134
politiche e la preponderanza di quelle personali: l’inimicizia del duca verso
genero Francesco Sforza (ispirata dai bracceschi di corte, afferma il Simonetta).
La situazione politica non cessava d’essere quanto mai confusa e Filippo Maria
aveva contribuito non poco a renderla, se possibile, ancor più problematica
divenendo protagonista di un turbinio di tentati accordi e ventilate alleanze
alternative con Angioini, romano pontefice, patteggiamenti con il delfino di
Francia, duelli con gli altri signori padani; andando allo scontro e infine
all’incontro con il genero Francesco Sforza per sondare approcci con le
repubbliche di Firenze e di Venezia.
Agli inizi del 1446, in questo quadro ondivago e inesplicabile in cui la
diplomazia del ducato appariva del tutto disorientata, Niccolò Terzi fu inviato
in missione diplomatica presso la Serenissima, accompagnato da Lancellotto
Crotti, con delle proposte di accordo che il 10 febbraio 1446 ebbe modo di
illustrare davanti al Senato.293 Che l’accoglienza di quel supremo consesso fosse
stata molto tiepida e la risposta interlocutoria lo attesta una lettera del 5 marzo
con cui l’occhiuta Signoria di Firenze ragguagliava il proprio ambasciatore
Domenico Martelli a Venezia «Si è appreso il tono ‘prudente’ della risposta dei
Veneziani agli ambasciatori del duca di Milano, Filippo Maria Visconti». Nella
missiva si aggiungevano altre due notizie pessime per Milano: «In ottemperanza
al parere espresso dalla Signoria di Venezia si sta provvedendo affinché le forze
della Lega possano equipaggiarsi in maniera adeguata. Il sabato precedente il
conte Francesco Sforza è partito da Firenze soddisfatto per le misure adottate:
si esorti Venezia a fare altrettanto».294
Tuttavia, mentre l’ambasciatore Niccolò Terzi illustrava le ducali
proposte al Senato veneto, da Milano partivano degli ordini divergenti, come
riferisce la corrispondenza della Signoria fiorentina. Il 2 aprile in una direttiva
all’ambasciatore Domenico Martelli si deve constatare che: «Le «profferte» del
duca non sembrano corrispondere agli avvenimenti in corso. Da Pontremoli,
infatti, arrivano notizie sui tentativi del Visconti di impadronirsi del luogo per
spingersi in Lunigiana; la sera precedente da Bologna si è stati avvisati che
truppe milanesi sono giunte a San Giovanni in Persiceto, da dove hanno fatto
scorrerie e saccheggi fino a San Giorgio di Piano, mentre altri uomini stanno
avanzando».295 La Signoria il 16 aprile scrisse nuovamente al Martelli
aggiornandolo minutamente. Le proposte del duca di Milano, Filippo Maria
Visconti, sarebbero degne d’esame solo se coderenti con i fatti e Firenze ha
molto apprezzata la prudenza con cui il Senato veneto ha risposto agli
ambasciatori del Visconti. Si fa presente che Bologna per il protrarsi della
guerra è allo stremo delle forze, privata di ogni risorsa pubblica e privata,
Cfr. Il carteggio della Signoria fiorentina, cit., p. 239 nota.
Cfr. ivi, n. 162, p. 240.
295 La lettera prosegue: «Si esorta Venezia a salvaguardare Bologna e fare in modo che non
defezioni dall’alleanza con la Lega; il che potrebbe avvenire se questa non adotterà
provvedimenti diversi dal passato come testimoniano le lettere dei Bolognesi e le parole del
loro ambasciatore a Firenze». Cfr. ivi, n. 175, p. 248.
293
294
135
assolutamente non in grado di resistere a lungo. Il rimedio più valido per i
Bolognesi sarebbe il dislocamento di truppe veneziane verso i territori del
Visconti per minacciarne la sicurezza. La Signoria, fa presente che l’iniziativa
non è dovuta a Firenze bensì imposta dalle difficoltà in cui si trova Bologna.
Pur apprezzando la buona volontà dei Veneziani d’intervenire quando le
circostanze lo esigeranno, la Signoria, ben conoscendo la «natura timida e
sospectosa» del Visconti riteneva urgente spostare quanti più uomini possibile
ai confini del Ducato per costringerlo «a fare quello con facti che per aventura
al presente dimonstra con parole».296
L’arresto di Bartolomeo Colleoni
Nel 1446 Il Terzi fu protagonista d’uno degli episodi memorabili
dell’ultima guerra veneta: l’arresto del grande condottiero Bartolomeo Colleoni.
Francesco Piccinino, nipote del più valoroso Niccolò, si era alleato con il
Colleoni per riprendere Cremona a Francesco Sforza, ma in seguito ai contrasti
insorti fra di loro e sulla base di sospetti d’intesa con la nemica Serenissima,
imputati al grande condottiero bergamasco, si ordinò al Guerriero di arrestarlo
quale indiziato di fellonia.297
L’ordine fu eseguito il 21 settembre a Pontenure, presso Piacenza. Il
Colleoni, che cavalcava attorniato dai suoi cancellieri e segretari, distanziato e in
retroguardia rispetto alle sue compagnie, fu assalito improvvisamente dagli
armati guidati da Niccolò Guerriero e subito incatenato, nonostante le sue fiere
proteste. Quindi fu dapprima portato nel castello di Sant’Antonino, poi, il
giorno 26, a Milano e infine incarcerato ai Forni del castello di Monza,
famigerato luogo di supplizio e di morte per gli oppositori dei Visconti. Restò
recluso per quasi un anno, finchè, non appena defunto Filippo Maria, riuscì a
fuggire e a raggiungere la sua compagnia di militi, ancora in linea dopo avere
rifiutato la sua sostituzione al comando con il Terzi.
Morte del duca Filippo Maria Visconti
Filippo Maria Visconti morì il 13 agosto 1447. Ancora agli inizi di
quell’anno, incapace di controllare un altro conflitto scoppiato con la
Repubblica di Venezia, egli aveva avvertito l’urgenza di ricorrere al valore
militare di Francesco Sforza, il genero periodicamente ripudiato e invocato.
All’ultima ripulsa avevano contribuito i sospetti alimentati da eminenti
personaggi della fazione braccesca presso la corte di Milano, e tra questi
Niccolò Terzi, che il Corio, attingendo alle coeve cronache stilate dal
Simonetta, rappresenta come personaggio di corte dotato «di grande auttorità,
come quelli che ministravano i denari».298
Cfr. ivi, n. 180, pp. 251-252.
Che dei contatti ci fossero effettivamente stati si trovò conferma nelle istruzioni a trattare con
il Colleoni impartite dal Senato veneto ad Antonio Martinengo il 2 di agosto.
298 B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 830.
296
297
136
Il Terzi era in grande sintonia con Jacopo e Francesco Piccinino, eredi di
Niccolò, gli altri importanti bracceschi della corte milanese titolari della
responsabilità di tesorieri in administranda pecunia, e insieme sembra riuscissero a
inquietare Filippo Maria, suscitando in lui timori e sospetti circa le ambiziose
intenzioni del genero, tanto strenuo combattente e condottiero quanto infido di
carattere.
Nell’aprile, essi riuscirono a persuadere il duca a rifiutargli il pagamento
degli stipendi convenuti per la sua condotta, indispensabili, peraltro, allo
sviluppo delle operazioni difensive e offensive imposte dalla interminabile
guerra con Venezia. Francesco Sforza non tardò a essere informato nella Marca,
a Pesaro, dove si trovava, di queste iniziative, ne prese buona nota e pose in
atto confacenti contromisure, facendosi precedere a corte da un suo incaricato,
Pietro da Pusterla.299
Partì quindi egli stesso da Pesaro verso la Lombardia il nove di agosto,
alla testa di 4 mila cavalieri e 2 mila fanti. Filippo Maria, già ammalato
mortalmente, si spense quattro giorni dopo.
Gli successe la Repubblica Ambrosiana e Francesco Sforza, nominato
capitano generale, ebbe il comando dell’esercito milanese. Signore in proprio di
Cremona e di Pavia, egli trovò la strada aperta per divenire il nuovo padrone di
Milano.
299
Corio riferisce puntualmente su questi intrighi e loro conseguenze: «Erano molti a Milano, che
favorivano la parte Braccesca, et la persona del Duca, fra i quali era Niccolò Guerriero da
Parma, Antonio da Pesaro, et Jacopo da Imola di grande auttorità, come quelli che
ministravano i denari. a costoro era molesto, che Francesco havesse tanta ministratione, et
essi fossero privati dell’auttorità, et che perdessero gli utili, et Francesco Piccinino, et Iacopo
fratelli fossero costretti a uscire di Lombardia, o ridursi in miseria, e scherniti da gli altri. Per
fare dunque il Conte sospetto al Duca, gli fecero persuadere, che essendo il Conte d’animo
insatiabile, et cupidissimo di signoria, et d’Imperio, non verrebbe, come Capitano, ma come
Signore di tutto il suo Ducato et che per questo haveua promesso a Pietro da Pusterla le
possessioni, che, nel Lodigiano possedeva l’Imolese, le quali dal nome di Pusterla sono dette
Casali de’ Pusterlenghi. Et di quello mostravano d’haver varie lettere da chi intendeva il
consiglio del Conte. perchè Filippo, il quale nelle cose sicure pigliava sospetto commandò che
più denari non si mandassero al Conte: et poi lo fece avisare, che per non ne havere,
indugiaua a pagarlo: ma che in quello mezo usasse a la sua solita temperanza: et che guidosse
l’essercito per Romagna, et per il Ferrarese, et passasse il Po, scorrendo hora nel Padovano,
hora nel Veronese, ch’arebbe havuta almeno una di queste due Città per qualche trattato.
Quello commosse il Conte, considerato che questi commandamenti erano alieni dalla guerra,
perciò che da quella parte non si potevano vincere i Vinitiani, e massimamente senza il favore
di Lionello Marchese di Ferrara: ma apertamente conosceva, che i malevoli l’havevano messo
in sospetto; il che anchora intese da’ suoi Oratori, et che più non haverebbe denari. perché
mandò per Pietro da Pusterla, co ‘l quale purgò l’innocentia sua et poi gli disse ch’avisasse il
Duca di quello, che bisognava ad haver vittoria contra i nimici. Pietro preso il camino, in
quattro giorni giunse a Milano. Ma il Duca adirato non gli diede audienza, anzi con nuova
commissione lo mando a Ferrara, dove stesse fin che l’avisasse d’altro. Ubidì Pietro, ne
d’alcuna cosa hebbe ardire d’avvisare il Conte, il che fu la cagione che l’andata del Conte a
Filippo si ritardò molti mesi, et le forze de’ Vinitiani accrebbero, declinando ogni hora piu lo
stato del Duca». Ivi, p. 830.
137
Un interminabile processo alle intenzioni
Per Niccolò Terzi il Guerriero la presa del potere di Francesco Sforza, con
il vissuto di tutti gli antecedenti, creò una situazione scomoda, foriera di
minacce e di pericoli. Si ritirò quindi nelle sue terre parmigiane e piacentine, in
attesa degli eventi e richiamatovi dall’attivismo di Pietro Maria Rossi che,
prevedendo vantaggi dall’arrivo a Milano di un nuovo signore, stava tentando di
impadronirsi delle castellanie a lui tolte dai Piccinino e dai bracceschi. Era passato
quindi subito all’assalto della rocca di Guardasone, pertinente a Niccolò Terzi, e
a quella di San Andrea, dei da Cornazzano.
Il Rossi, tuttavia, non aveva messo in conto, la dura reazione dei Terzi,
per nulla rassegnati a subire, e tantomeno quella dello Sforza, poco disposto ad
appoggiare le sue mire.300 In quel tempo i Milanesi della Repubblica
Ambrosiana spingevano il loro capitano generale a stringere accordi con gli altri
capitani d’armi e già il 21 agosto Francesco Sforza ne concludeva uno con i due
Piccinino, Francesco e Iacopo.
Con il Guerriero non dovettero esserci difficoltà se il 29 agosto, da
Cremona, gli fu rilasciata una patente biennale, estesa a tutte le sue terre
(Castelnuovo piacentino, Colorno, Guardasone e Canossa) valida anche per i
famigliari Terzi (Giacomo, Beltrando, Girardino, Giberto, Guidone e Nicolò) e
per la sua compagnia di milizie accreditata di 1400 unità tra cavalieri e fanti. Un
secondo salvacondotto fu concesso alla moglie di Niccolò, Ludovica. Il 16
settembre un altro documento rilasciato a Niccolò permetteva a questi di
raggiungere Parma passando per il Po e il Ticino.
Tali fonti, a loro modo, provano che il Terzi e Francesco Sforza seppero
presto acconciarsi con tutta l’intelligenza, o, se preferiamo, il bastante realismo
e opportunismo, che le nuove circostanze esigevano e che i reggenti la
Repubblica Ambrosiana verosimilmente suggerivano.
A fine settembre, il mese successivo alla scomparsa del duca Filippo
Maria, i due condottieri sembravano avere trovato rapidamente un’intesa
abbastanza cordiale. Pezzana ne dà conferma riferendo di una lettera del 30
settembre di Francesco Lupi di Soragna ove si leggeva di un uomo d’armi di
Niccolò Terzi che confermava il passaggio del suo capitano al servizio in
condotta di Francesco Sforza al comando di 1500 cavalli.301
Nondimeno, trascorsi tre mesi, al tramonto di quell’anno, cominciarono
a giungere insinuazioni sull’atteggiamento del Terzi e sui suoi rapporti con i
Veneziani, che avevano dato inizio a ostilità contro la Repubblica Ambrosiana.
Il 29 dicembre si parlò di incontri occulti avvenuti nottetempo a Casalmaggiore
«Sul principio di ottobre Pier Maria scrisse a Francesco esprimendo la sua grande delusione».
Cfr. N. COVINI, Le condotte dei Rossi di Parma. Tra conflitti interstatali e «picciole guerre» locali (14471482), in L. ARCANGELI, M. GENTILE (a cura di) Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI
secolo, cit., p. 60 nota.
301 E il Pezzana qui commenta: «il che suppone a parer mio che lo Sforza gli avesse perdonato le
passate offese». A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 554.
300
138
fra Girardino, o Gherardino (II) Terzi, un familiare di Niccolò, e Micheletto
Attendolo, capitano generale veneto che comandava un’armata comprendente
sei galeoni.
Il 31 dicembre le forze di Venezia e dei suoi alleati, tra i quali il Gonzaga,
erano già nel Cremonese con cavalieri, fanti e genieri attrezzati per superare il
Po e assalire i borghi fortificati. Da Parma furono inviati alla Repubblica
Ambrosiana e a Francesco Sforza segnalazioni allarmate che Niccolò Guerriero,
ufficialmente al servizio di Milano, avesse improvvisamente passato il Po al
comando delle sue truppe per portarsi nel proprio feudo di Castelnuovo. Si
chiedeva ai commissari di campo milanese che al Terzi, considerato inaffidabile
e insidioso, pronto a unirsi ai Veneziani, fosse ordinato di ritornare subito nei
precedenti quartieri. A motivare i sospetti dei Parmigiani c’erano delle voci circa
le subdole iniziative alle quali continuava a dedicarsi Gherardino (II) Terzi che,
moltiplicando i suoi contatti, aveva raggiunto Ferrara dove, si vociferava a
Parma, aveva patteggiato la consegna della città. Lasciata la corte estense,
assieme a uno della squadra dei Sanvitale, Gherardino aveva raggiunto Niccolò
a Piacenza, per riferire e valutare. A conclusione di questo consulto, Niccolò
avrebbe deliberato di trasferirsi in forze a Castelnuovo.
Quelle trattative con il marchese di Ferrara sarebbero proseguite perchè,
come riferisce Pezzana, si mandarono «più fiate messi travestiti a Borso d’ Este
in Rubiera, quella stessa Rubiera (nota bene, o lettore) che, ordinante il padre di
Borso, fu teatro dell’ assassinio del padre di esso il Guerriero quasi 40 anni
avanti ! e patteggiossi colà che in giorno da determinarsi Borso verrebbe sul
Parmigiano colle sue genti, mentre Niccolò dalla parte di Castelnovo de’ Terzi
farebbe una mossa colle proprie spalleggiate dagli altri gentiluomini che faceano
parte della congiura».302 Peraltro, a tutte queste supposizioni mancò la certezza
testimoniale in quanto, scrive sempre Pezzana, chi denunciò le congiure non
aggiunse conferme.
Questo processo alle intenzioni di Niccolò il Guerriero doveva durare a
lungo, alimentato a Parma dai Reggitori, ovvero «Difensori», della città. Nuovi
dubbi furono insinuati allorché Niccolò, ai primi del 1448, inviò cinquanta dei
suoi armati a rinforzare la squadra radunata dagli inquieti Sanvitale.
Nel tentativo di sopire o sviare quei sospetti sempre montanti, il 4 di
febbraio, da Castelnuovo, Niccolò scrisse due lettere ai Reggitori parmigiani
rivolgendo loro ampie lodi per il loro impegno a favore delle libertà civiche: «La
quale non men di voi desidero per ogni rispecto, perchè credo le prudentie
vostre conoscono che se fa tanto per mi quanto si faccia per voi, il perchè
sempre me offerisco con l’avere et con la persona in saluatione di essa
libertà».303 Nondimeno, pur prendendo atto di quelle solenni rassicurazioni, il
19 febbraio Luigi Bravi, ambasciatore dei Reggitori di Parma presso la
Repubblica Ambrosiana, sentì il dovere di segnalare che Niccolò Guerriero
aveva inviato da Castelnuovo trecento dei suoi cavalieri a precederlo nel
302
303
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 576-577.
Ivi, p. 606.
139
proprio castello di Colorno, e insinuava l’opinione che stesse tramando a favore
di Venezia assieme a Francesco Piccinino.
Il 18 marzo, con una nuova lettera diretta ai rettori della Repubblica
milanese, i Reggitori parmigiani tornavano alla carica con nuove imputazioni:
una persona amica li avrebbe informati di una congiura ordita da Niccolò Terzi
sempre in combutta con Francesco Piccinino. Entrambi, tempo quattro giorni,
avrebbero scatenato la loro aggressione alla libertà e indipendenza di Parma.
Una settimana dopo, smentita dai fatti anche questa notizia, i Reggitori
insistevano comunque nuovamente a Milano per lamentare le rapine e le
molestie che le terre parmigiane dovevano soffrire da Niccolò Terzi e da suo
figlio Gaspare.
Un’altra missiva di protesta fu inviata allo stesso Guerriero con la
denuncia a carico dei suoi villici del feudo di Colorno, accusati di infestare tutti i
borghi circostanti, sottoposti incessantemente a ruberie. Si dava inoltre per
certo che il Guerriero, nominato capitano generale «di qua del Po», avesse
pattuito una condotta di 400 lance e un pari numero di fanti. I latori di quelle
notizie erano in grado di asseverare che fosse già stato esborsato metà
dell’importo d’ingaggio e che il saldo sarebbe stato liquidato a breve. Notizie e
sospetti suggeriti da «personaggi di grande affare, fededegni e moltissimi», come
ci rivela puntigliosamente Pezzana, e che per tanti mesi costituirono una
paranoica ossessione per i Difensori di Parma. Ai primi di maggio, «queste
ingrate novelle comunicate aveano i nostri ai Signori di Milano, e raccomandato
loro di tenere in ostaggio la moglie e i figliuoli di Niccolò, i quali colà
dimoravano».304
Tuttavia i Milanesi,305 più aggiornati in merito alla situazione sul campo,
e trovando nell’evidenza dei fatti comprovati motivi per un più lusinghiero
giudizio sul Guerriero, senza badare agli allarmi che salivano da Parma
permisero senz’altro che Ludovica e i figli tornassero al rispettivo sposo e
padre, che in quei giorni aveva dimora nel suo feudo di Colorno.
Il 5 maggio, poiché a Parma aveva preso corpo un’ulteriore fantasia, e
cioè che anche Alberto Pio, signore di Carpi, si sarebbe aggiunto con le sue
milizie, 800 cavalli e 400 fanti, a quelle del Terzi, si pensò bene di inviare a
304
305
Ivi, p. 636.
Notizia e conferma di queste voci arrivarono poi fino a Firenze. Il 28 febbraio 1448 i Dieci di
Balia informarono il loro ambasciatore a Venezia, Guglielmo Tanagli, che due giorni prima
avevano ricevuto la visita di Gabriele Meraviglia, Giovanni Omodei e Giacomello Trivulzio,
rappresentanti della Repubblica Ambrosiana. «Costoro si sono rammaricati che, dopo la
morte del duca Filippo Maria Visconti, nei colloqui avuti a Venezia e a Bergamo, i Veneziani
hanno chiesto la cessione di Lodi, con il relativo contado, Crema, Pizzighettone e Lecco,
tanto da rendere insicure Milano e Como […] Infatti, quando si riteneva di essere prossimi a
concludere la pace, avendo manifestato ai Veneziani l’intenzione di rinunciare a Lodi, i
Milanesi hanno appreso che Francesco Piccinino e Niccolò Terzi erano stati allettati ad
aderire a Venezia. Tutto questo potrebbe alterare l’equilibrio in Italia e perciò, pur di non
assoggettarsi, Milano si rivolgerà al re di Napoli, Alfonso d’Aragona, o a qualsiasi altro
signore, avendo nel frattempo stipulato un’alleanza con Genova». Cfr. Guglielmo Tanagli a
Venezia, 28 febbraio 1448, in Il carteggio della Signoria fiorentina, cit., n. 129, p. 762.
140
Colorno presso quest’ultimo Lancellotto Tardeleri per chiedere di non essere
aggrediti e di non offendere né i Parmigiani, né i loro alleati, né le loro terre.
Ciò udito, Niccolò Guerriero rispose prontamente «che non li offenderebbe
come non era per offendere Parma».
L’11 di maggio il Terzi decise di consegnare a un atto autentico,
debitamente convalidato, le sue solenni assicurazioni che furono poi trasmesse
per la formale ratifica addirittura a Pietro Maria Rossi, il capo della famiglia
irriducibile avversaria dei Terzi.
Ciononostante l’incalzare delle insinuazioni riprese solo poche ore dopo,
il giorno seguente la ratifica, quando il medesimo Rossi scrisse occultamente ai
Reggitori parmensi di avere avuto altra rivelazione, da un innominato
personaggio veneziano, ovviamente “fededegno”, che Niccolò Terzi aveva
intascato ben sedicimila ducati dai Veneziani per condurre la guerra nel
Parmigiano unitamente alle soldatesche di Alberto Pio.
Questo proliferare di elucubrazioni provocò nuovo accorrere di
parlamentari a Colorno, desiderosi di ottenere dal temibile Niccolò Terzi il
Guerriero solenni dichiarazioni di lealtà alle quali puntualmente non venne
prestato credito, come si evince dalle accurate e accorate cronache che ne fa il
Pezzana306 per il primo semestre del 1448.
Gli ultimi oratori mandati da Parma al Magnifico Niccolò Guerriero Terzi,
ovvero a «questo potente, scaltro ed ambiguo Signore» (così lo definisce
Pezzana),307 conclusero e siglarono un nuovo accordo di non belligeranza il tre
di giugno.308
306
307
308
Non si deve scordare, come fa il Pezzana, peraltro in buona compagnia quando elenca una
congerie di sospettazioni di tradimento scagliate dai nemici di Parma contro Niccolò Terzi,
che tra i rappresentanti più autorevoli del Consiglio generale della Repubblica Ambrosiana, si
distingueva per saggezza e dottrina il giureconsulto e sottile diplomatico Franchino
Castiglioni. Questi, come si è già osservato, oltre ad essere cognato del Terzi, era soprattutto
perfettamente in grado di valutare, per esperienza convissuta, reduce da una stretta
collaborazione serenamente svoltasi per quasi quattro lustri in seno al Consiglio segreto di
Filippo Maria Visconti e in ripetute missioni diplomatiche, la consistenza delle accuse
ventilate. La lealtà e l’affidabilità del Guerriero non tardarono a ricevere, peraltro, una
eclatante conferma nella realtà effettuale degli accadimenti successivi.
Così lo definisce a questo punto il Pezzana, che non mai riesce a dissimulare la propria
antipatia per Niccolò Terzi il Guerriero, sul quale fa ricadere, oltre al peso di colpe oggettive
o sospettate, anche le troppe del defunto genitore Ottobono, assassinato quarant’anni prima.
«Nel confermare il Capitolato i Difensori, gli Otto di Balia, ed i Signori di Credenza vi
preambolarono in questa forma: “Volendo piuttosto col mezzo della pace e colla tranquillità
rassodare e render quieta la Repubblica Parmigiana che con varii e molti pericoli tentarne
l’ingrandimento, considerando quanto fosse conveniente per la salute e per lo mantenimento
di essa Repubblica unire al corpo le membra, e sotto il lor capo ridurle in guisa che questo
secondino ed obbediscano, e veggendo quante parti del territorio non obbedienti alla città
loro capo riteneva sotto di sè il Magnifico Niccolò Guerriero Terzi, le quali obbedendo
recato avrebbono molto di comodità e di sicurezza allo Stato determinano di accettare il
predetto Capitolato, del quale ecco la sustanza. 1.° Niccolò cederebbe liberamente in pien
dominio e giurisdizione della Magnifica Comunità di Parma alcune tra le ville ch’ei teneva col
luogo di Colorno, tra le quali Casalpò; 2.° Obbligherebbesi con malleveria a far che i comuni
di Guardasone e di Colorno levassero la tassa del sale alla dogana di Parma in que’ termini e
141
A questo punto si impone una severa riflessione. Nessuno fra quanti si
sono avventurati a riferire su presunti progetti o sull’attuazione concreta di
tradimenti da parte di Niccolò Terzi (e nemmeno uno tra quanti hanno scritto
d’inestinguibili rancori covati dal Guerriero contro Francesco Sforza, in quanto
figlio dell’assassino d’Ottobono) ha mai veramente preso in esame i rapporti
vissuti dall’accusato a Milano, nell’ambito della corte viscontea, nella stretta
cerchia degli intimi del duca.
Sarebbe forse doveroso, in merito, fare finalmente constatazione di una
importante e oltremodo significativa compresenza, durata oltre quattro lustri,
nella prima metà del XV secolo, presso la corte milanese, e soprattutto
nell’ambito intimo del Consiglio Segreto di Filippo Maria, di due personalità
legate da strette, ma fin qui del tutto ignorate, affinità parentali: Franchino
Castiglioni, autorevole uomo di legge, ambasciatore e fine tessitore di accordi,
considerato fidatissimo dal duca, e il coetaneo Niccolò Terzi il Guerriero, un
capitano d’armi la cui intelligenza il Visconti utilizzò volentieri e
frequentemente anche per incarichi diplomatici, in particolare, come si è visto,
durante la discesa in Italia dell’imperatore Sigismondo.
Franchino Castiglioni, nato a Parma verso la fine del XIV secolo, aveva
sposato in prime nozze Caterina, figlia di Ottobono Terzi e Francesca da
Fogliano, sorellastra quindi di Niccolò. Un interrogativo che nasce spontaneo
riguarda la consapevolezza, presso il Terzi e il Castiglioni, dell’esistenza di
questi loro stretti legami di affinità parentale dei quali gli storiografi, antichi e
moderni, per parte loro, si dimostrano sempre ignari. La risposta si trova
considerando l’improbabilità che i due ragguardevoli componenti la corte
modi che il farebbono Pier-Maria Rossi e gli altri Gentiluomini e Castellani del Parmigiano,
ch’eransi già accordati o fossero per accordarsi col Comune di Parma; 3.° e 4.°
Contribuirebbe pe’ luoghi e ville a lui soggetti ad ogni spesa di soldatesche, che fosse per fare
il nostro Comune fino alla somma occorrente per 300 cavalli e non più, e per guastatori o
fanti; 5.° Permetterebbe che i dazieri ponessero i Comarchi nelle sue terre appunto in que’
luoghi che a loro piacessero; 6.° Osserverebbe e farebbe osservare nelle terre stesse tutti gli
Statuti, Ordini e Decreti del Comune di Parma; 7.° Non darebbe nelle sue terre ricetto ai
ribelli, banditi e malfattori di Parma, e, trovandone in esse, consegnerebbe ad ogni richiesta
nelle nostre mani; 8.° Non concederebbe spontaneo passaggio ai nemici nostri, e non
riceverebbe nelle sue terre più di 40 forestieri senza nostra licenza; 9.° Rivelerebbe di buona
fede e senza indugi qualunque cosa tendente a nuocere alla patria; 10.° Non iscriverebbe, nè
manderebbe messi ai nemici palesi o sospetti del nostro Comune, salvo a quellial servigio de’
quali ei militasse; 11.° Farebbe guerra ( tranne a que’ di sua casa, a meno che non fossero
chiariti ribelli), tregua e pace come piacesse al Comune stesso; 12. Darebbe a questo
giuramento di fedeltà; 13.° A qualunque cittadino, distrettuale od abitante del Parmigiano
lascierebbe liberamente godere i beni da loro posseduti nelle terre di lui. Il nostro Comune
prometteva dal canto suo di ricevere nella sua protezione Niccolò, i suoi figli, ed i suoi eredi
come buoni e divoti figliuoli, insieme colle loro ville e castella; di non far guerra alle terre del
Terzi purch’ ei non la facesse alle nostre ed al Borghigiano, di concedere a lui tutti que’
capitoli favorevoli che in futuro si concedessero per avventura a Pier-Maria Rossi, e ad altri
Signori. Permettevagli di prender partito e d’acconciarsi con qualunque Signoria, purch’egli
non venisse a’ danni di Parma; e promette agli che, se il Comune di Parma spontaneo si
assoggettasse a qualche Signore, inchiuderebbe ne’ capitoli della dedizione il Terzi e le sue
terre». Il documento è trascritto da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 640-642.
142
viscontea possano averli ignorati, progredendo nella consuetudine quasi
ventennale delle loro frequentazioni negli ambiti della corte ducale e nella
ristrettissima cerchia del Consiglio Segreto di Filippo Maria. Più probabile, al
contrario, che li abbiano dissimulati per l’incombere della memoria di
Ottobono.
Il Castiglioni, è da evidenziare, oltre alle responsabilità politicodiplomatiche esercitava ai vertici amministrativi della corte milanese altri
rilevanti incarichi: compare come testimone negli atti di infeudazione e di alta
amministrazione, firmava i contratti di condotta di luogotenenti e capitani
ducali. Inoltre nel 1430, sempre in una materia che riguardava strettamente il
mestiere delle armi intrapreso da Niccolò il Guerriero, aveva elaborato un
regolamento richiesto dal duca, in cui venivano precisati i doveri e poteri che
potevano attribuirsi a un luogotenente generale e quelli spettanti a un capitano
ducale. Il parere del Terzi potrebbe avere in qualche misura influito sulla sua
redazione.
Ambasciatore della Repubblica Ambrosiana presso la Serenissima
Nell’autunno del 1448, la Repubblica Ambrosiana, smentendo
nettamente ogni illazione e tutti i sospetti che verminavano in terra parmigiana
circa ventilati o consumati tradimenti, affidava proprio a Niccolò Terzi una
nuova, decisiva missione, inviandolo quale suo ambasciatore presso la la
Repubblica di Venezia con lo specifico incarico di offrire e patteggiare con la
Serenissima proposte per stipulare una pace che prevedeva, tra l’altro, la
cessione di Brescia. Una pace subordinata al formarsi di un’alleanza ostile a
Francesco Sforza.
La missione affidata al Guerriero era frutto di una situazione paradossale
anche nell’ambito dei subitanei voltafaccia bellici e delle precipitose politiche
pendolari tipiche dell’epoca, perché Francesco Sforza era, in quei giorni, il
comandante supremo dell’esercito della Repubblica Ambrosiana. Il 15
settembre, nella battaglia di Caravaggio, egli aveva annientato, per conto di
Milano, l’armata di Venezia, fornendo però successivamente chiari e non
trascurabili sintomi di essere in procinto di passare nel campo degli sconfitti.309
309
In seguito alla grande vittoria di Caravaggio, Francesco Sforza si impadronì delle terre
bergamasche e bresciane che, impaurite, gli si consegnarono spontaneamente. Si dispose a
conquistare Brescia per poi accordarsi con la Repubblica di Venezia, allearsi con questa e
rivolgersi contro Milano. Di questo suo progetto di tradimento fu accusato presso la
Repubblica Ambrosiana dai due fratelli Piccinino, capitani bracceschi che militavano sotto il
suo comando nell’esercito milanese. Quando Francesco Sforza lasciò andare liberi e senza
imporre taglie o gli usuali riscatti, sequestrando loro solo le armi e i cavalli, tutti i prigionieri
che a migliaia aveva fatto a Caravaggio, questo comportamento fu interpretato come
strumentale all’inseguimento di accordi e alla cattura di benevolenza presso la Repubblica di
Venezia. Conseguentemente, e a ogni buon conto, i reggenti di Milano, dissimulando le loro
intenzioni, ordinarono a Francesco Sforza di trascurare la conquista di Brescià e di spedire la
sua armata suddivisa ad assalire Lodi e Bergamo. Questi, a conferma della sua inaffidabilità,
ubbidì solo parzialmente alle direttive dei reggenti: nel mentre inviava la minima parte
143
Il Senato Veneto accolse Niccolò Terzi con lusinghiera cortesia, grandi
espressioni di stima ed elogi. Ascoltò le argomentazioni e le valutazioni che
questi espresse in veste di ambasciatore, in nome dei Reggitori del governo
milanese, sull’interesse che la Serenissima trovava nell’avere confini con uno
Stato lombardo amico e dotato di potenzialità belliche inferiori anziché un
antagonista, principe condottiero come il conte Francesco Sforza, ambizioso e
reso incontentabile dalle sue vittorie.
Alla fine, partito il Terzi per riferire ai Reggenti delle difficoltà incontrate
dalla sua missione, il Senato della Serenissima decise: che era preferibile un
accordo con Francesco Sforza all’alleanza offerta dalla Repubblica Ambrosiana.
Il 18 ottobre stipulò con il condottiero il patto di Rivoltella sul Garda: in
cambio del riconoscimento di Brescia e Bergamo, gli offriva aiuti militari che
comprendevano 6000 cavalli e 2000 pedoni, uno stipendio per la condotta che
lo gratificava di 30 mila fiorini annui fino alla resa di Milano.
Così si consumava il tradimento tante volte preannunciato e denunciato
dai Reggitori di Parma. C’era però da prendere atto che i paventati accordi con
la Repubblica di Venezia contro la Repubblica Ambrosiana dovevano essere
imputati non a Niccolò Terzi il Guerriero, perseguitato dai sospetti, ma, senza
alcun dubbio, e con qualche attenuante, a Francesco Sforza e alle sue ambizioni
di potere. Un particolare e una conclusione divenuta subito assolutamente
trascurabile e rimossa dalla mente dei petulanti accusatori del Guerriero, e con
troppe ragioni: il traditore effettivo stava per impadronirsi di Milano
divenendone il Signore.310 Forse, per conservare dritta la barra del giudizio,
bastava ricordare quanto osservò Machiavelli, nella sua opera maggiore,
riguardo al medesimo fatto:
«I Capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi
fidare, perché sempre aspireranno alla grandezza propria, o con l’opprimere
te, che li sei patrone, o con l’opprimere altri fuora della tua intenzione; ma,
310
dell’esercito al comando dei capitani di scuola braccesca a lui avversi, come i Piccinino e i
Sanseverino, all’assedio di Lodi, egli alla testa delle milizie più fedeli si portava a quello di
Brescia. Una disubbidienza grave, che convinse i reggenti ambrosiani a spedire con urgenza
Nicolò Guerrieri a Venezia per tentare di neutralizzare i disegni di tradimento di Francesco
Sforza, contrapponendo simmetricamente alle profferte di questo le proprie, alternative
proposte di alleanza nonché il possesso della città di Brescia.
Fra gli accusatori temerari si deve comprendere anche il Pezzana, storico per altro
scrupolosissimo. Nel III tomo della sua Storia di Parma, non si perita di nascondere il suo
astio preconcetto, ostentato a tutto campo. Egli rimprovera, tra l’altro, Francesco Sforza
perché con «Niccolò Guerriero Terzi […] a soverchia clemenza era disceso il Conte allorché
in febbrajo (1449) s’insignorì di Parma». Peggio ancora, a pag. 267, rammenta assai
compiaciuto che Guardasone fu «con ogni sua dipendenza, tolto da Francesco al perfido
Niccolò Guerriero Terzi quando quel traditore passò al campo de’ Veneziani», ignorando
intrepidamente che il traditore autentico, passato poi ai Veneziani, di fatto e non per
sospetto, fu proprio lo Sforza. Ma il meglio della sua singolare oggettività il Pezzana lo
elargisce alla pagina 11, dove impreca contro Niccolò il Guerriero, colpevole addirittura
d’esser nato: «fossero chiamati da’ Cieli a spogliare delle restategli castella il perfido bastardo
del feroce Ottobuono Terzi». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, p. 11.
144
se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l’ordinario [...] I Milanesi, morto il
Duca Filippo, soldorono Francesco Sforza contro a’ Viniziani; il quale,
superati li inimici a Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere e’
Milanesi suoi patroni».311
Quando Niccolò dovette abbandonare la Lombardia, inviato dai
Reggitori di Milano in missione presso la Serenissima, Francesco Piccinino, che
teneva sotto assedio Lodi occupata dai Veneziani, dovette intervenire nel
Parmense a protezione dei beni e delle persone legate ai Terzi. Egli fu
urgentemente informato, infatti, delle gravi ingiurie di cui era stata vittima, a
Borgo San Donnino, la badessa del monastero di San Giovanni, parente del
Guerriero.
Il 7 ottobre intervenne con una lettera diretta ai Reggitori di Parma
chiedendo la punizione esemplare dei responsabili degli atti commessi ai danni
della badessa. In quella lettera il Piccinino spiegava che gli stavano a cuore le
cose di Niccolò quanto le proprie e che comunque chiedeva solo giustizia.
Poiché questa tardava a essere concessa, vi fu un secondo intervento energico
del Piccinino.
Sulla via di ritorno da Venezia, mentre sostava a Verona, Niccolò venne
allertato circa avvisaglie di guerra che si stava apparecchiando contro di lui nel
Parmigiano, specie attorno al fortilizio di Noceto. Il giorno 11 egli preavvertì i
figli di vigilare e predisporre con urgenza le difese di Guardasone e delle altre
rocche poste a presidio delle sue terre, cautelandosi dunque contro attacchi
improvvisi. Posti in preallarme tutti i castelli dei Terzi, ne conseguì un tumulto
di armi e armati convenuti entro quelle mura.
Il nove del mese di novembre i timori espressi dal Guerriero divennero
certezze: i Reggitori di Parma avevano deciso di passare all’attacco e inviarono
le loro milizie all’attacco di Colorno, allora affidata da Niccolò al figlio Gaspare,
le cui imprese ai danni di vicini e più lontani avevano accumulato e diffuso nel
tempo molti motivi di vendetta.
Posta sotto assedio la cinta di Colorno, gli abitanti non tardarono a
sottomettersi ai Parmigiani. L’11 dicembre essi firmarono nel corso della notte i
capitoli di resa che erano stati loro proposti. Il giorno 14, oltre quaranta dei più
facoltosi Colornesi, in rappresentanza del borgo, andarono a Parma per giurare
ai Reggitori fedeltà e obbedienza. Non altrettanto avvenne per il castello della
rocca, che il 31 dicembre restava sotto assedio.
Francesco Sforza signore di Milano
La vicenda di Niccolò Terzi il Guerriero valicava da sempre i confini del
Parmense per interagire con gli eventi di Milano e, per quanto riguardava i
destini della sua famiglia, con le iniziative degli Sforza. Così fu anche nel corso
di quell’anno.
311
N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XII.
145
Francesco Sforza, dopo il suo tradimento e la conversione al soldo di
Venezia, era divenuto il peggior nemico della Repubblica Ambrosiana, al punto
che il 27 dicembre precedente questa aveva addirittura posto una taglia di 10
mila ducati per la sua cattura. Il condottiero, al comando dell’armata veneta,
aveva conquistato nei mesi precedenti Novara e successivamente Alessandria,
Tortona e Vigevano. Il 14 febbraio Parma, arrendendosi all’inevitabile, si
concesse allo Sforza, traditore conclamato della Repubblica Ambrosiana, e abolì
il suo Reggimento di difesa che l’aveva governata fino a quel punto e che tanto
si era impegnato a denunciare fantasiosi tradimenti di Niccolò Terzi.
Il Corio ci informa che Francesco occupata Parma, ordinò che la città
fosse affidata ai fratelli Manfredo e Giberto da Correggio, Ludovico Malvezzi e
Pietro Maria Rossi. A questi egli aggiunse Niccolò Guerriero. Stando a quel che
narrano i fatti, sembra che in quei primi mesi del 1449 i rapporti instaurati fra i
due capitani d’armi, il vittorioso Francesco e l’emarginato Niccolò, fossero
animati da reciproca fiducia e persino familiari. Francesco Sforza assicurò ai
Terzi la conservazione di ogni loro dominio, possesso e beni. Niccolò teneva
allora nel Parmigiano le terre e le rocche di Guardasone e Colorno, sopra e
sotto Parma, oltre a Castelnuovo nel Piacentino.312
Tuttavia quella cordiale intesa risultò assai effimera, come tutte le altre
stipulate a quel tempo. Poche settimane più tardi, infatti, il Terzi si accordò con
l’amico Alfonso V d’Aragona, re di Napoli e pretendente al Ducato di Milano
in virtù del testamento rogato a suo favore da Filippo Maria Visconti. Mise a
disposizione i suoi feudi parmigiani per interventi a supporto della Repubblica
Ambrosiana, ridotta in stato preagonico, assalita e circondata dall’esercito
veneto sotto comando sforzesco.
Re Alfonso, che teneva sue truppe in Toscana e in Romagna, poté così
disporre di basi militari avanzate contro Milano, come le munitissime rocche di
Colorno e Guardasone dove inviò subito ottocento fanti, mentre Astorre II
Manfredi, a Faenza, ordinava l’invio di 1500 cavalli e 500 fanti. Se non che
Francesco Sforza, informato di quanto stava maturando, prevenne le manovre,
convinse presto il Manfredi, versandogli un anticipo di alcune migliaia di ducati,
a riportare le sue milizie in Romagna.
Il presidio del castello di Guardasone,313 assediato da Alessandro Sforza e
dalla gente dei Rossi, non appena seppe che l’attesa di ulteriori rincalzi sarebbe
stata vana, decise d’arrendersi. Niccolò Guerriero, che attendeva l’evolvere degli
eventi a Colorno, si rese allora conto a sua volta che la situazione era ormai
irrimediabilmente compromessa e di trovarsi isolato, senza più speranze di
312
313
Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 572.
Agli inizi d’autunno 1449, sorpreso entro le mura del castello di Guardasone, assediato dagli
sforzeschi e dai Rossi, si trovava anche il giovane umanista e letterato Basinio da Parma (noto
anche come Basinio Basini), forse qui inviato da Lionello d’Este con un’ambasciata per il
Terzi. Costretto a combattere tra i difensori, cantò poi quell’esperienza bellica in una sua
elegia. Basinio era nato nel castello di Tizzano nel 1425, scrive in un epistola a papa Niccolò
V. Il padre Vincenzo aveva combattuto agli ordini di Ottobono. I. AFFÒ, Memorie degli scrittori
e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò, II, Parma 1789, pp. 185-196.
146
riscatto, privo di adeguate risorse militari e politiche, tanto a Parma come a
Milano.
Egli aveva già fatto partire la propria famiglia, la moglie Ludovica e i figli
non combattenti, per Mantova. Pochi giorni dopo, commosso, accompagnato
da un gran numero di suoi cavalieri e fanti, abbandonò anch’egli il suo ultimo
feudo, le terre e il castello Colorno, per essere accolto presso l’amica e ospitale
corte del marchese Ludovico III Gonzaga.
L’Angeli, ripetendo fedelmente la narrazione di questi avvenimenti
compiuta da Giovanni Simonetta nella sua Sforziade,314 ripresa con poche
varianti anche da Bernardino Corio,315 nella Historia di Milano, così scrive:
Per la qual cosa quelli di Guardasone veggendosi fuori della speranza di
questo soccorso, né d’altronde aspettandone, pochi dì dopo si danno ad
Alessandro. della qual cosa havutone Nicolò novelle, non giudicò, che
fusse da aspettarlo in Colorno, dove allhora si trovaua, & perchè non
paresse a’ suoi, ch’egli se ne fuggisse, finſe havere bisogno di gire a
Mantova, dove prima haveua mandato la moglie, & l’altra famiglia non
atta all’arme, per procurare il sussidio gia domandato al Re, et così
lasciato Colorno, il quale era ben fornito di cavalli, & di fanti con molte
lagrime se ne’ fuggì a Mantova.316
Lo accompagnarono verso quell’esilio altri della famiglia Terzi che
avevano combattuto nelle sue compagnie: Giacomo o Jacopo, Beltrando o
Beltramino, Gherardino o Girardino, Giberto, Guido o Guidone e Niccolò.317
Dopo la precipitosa e disperata partenza del Guerriero, arrivò in suo tardivo
soccorso, inviato da Alfonso re di Napoli, il valoroso capitano Raimondo
Anichino alla testa di 500 cavalieri. Posto il suo quartiere in terra reggiana, egli
seppe che Colorno era stata messa sotto assedio dalle truppe di Alessandro
Sforza. Pur dotato di forze scarse, portandosi con il favore della notte sotto la
cinta colornese, Anichino operò dei tentativi, tutti falliti, di introdurre nella
rocca che ancora resisteva i suoi militi. Lo Sforza reagì assalendo, anch’egli
nottetempo, le truppe dell’Anichino mettendole in rotta e bruciandone
l’accampamento. Seguì poco tempo dopo la completa resa dei Colornesi, del
borgo e della rocca.
Cfr. G. SIMONETTA, Sforziade, Lib. XIX, p. 178
Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., pp. 906-907.
316 B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 390.
317 I Terzi, che poi radicarono la loro discendenza in terra mantovana, furono impiegati per uffici
di rilievo presso la corte dei Gonzaga. I medesimi, fregiati dal titolo di comes, o i loro figli, si
sposarono con fanciulle o eredi del patriziato di quella terra. Niccolò Terzi, figlio del Giorgio
Terzi, fratello del Guerriero, che fu promesso sposo nel 1408 di Palma, erede di Ugolotto
Biancardo, nel 1456 si unì in matrimonio con Lucia di Cervato Secco; Guido, figlio di
Guidone, con Lucia Lanfranchi di Panfilo; Jacopino, figlio di Giacomo, con Armellina
Folenghi di Lorenzo. Il conte Gherardino II Terzi fu il consorte, in prime nozze, di Polissena
di Alessandro di Giovanni Lisca. La loro figlia Elena, sposò nel 1474, Ludovico Uberti.
Beltramino, prima di finire in prigione per reati imprecisati, impalmò Agnese Strozzi, figlia di
Uberto. Cfr. I. LAZZARINI, Fra un principe e altri stati, cit., pp. 298, 335, 344 nota, 373.
314
315
147
Con questa estrema disfatta dei Terzi aveva conclusione anche la guerra
nel Parmigiano, dove ogni terra si era ormai arresa al nuovo padrone milanese.
Alfonso d’Aragona serbò sempre gratitudine per l’aiuto coraggioso che aveva
ricevuto da Niccolò il Guerriero nel suo fallito tentativo di insediarsi a Milano
quale erede designato del duca Filippo Maria. Il re di Napoli intervenne presso
Francesco Sforza il 28 ottobre 1453 inviando una missiva che si concludeva con
una richiesta: «Postremo se demanda che a lo magnifico Nicolo Guerrero et
altri Signori de Terciis recomendati de la prefacta Maiesta siano restituiti tucte le
castelle, terre et roba qualsivoglia che le sia tolta per ipso conte Francisco. Et
etiam a quelli signori di Cortegio».318 L’istanza non trovò ascolto e il re di
Napoli la ripeterà, annota Bartolomeo Facio nelle sue Res Gestae Alphonsi Regis,
allorchè decise infine d’aderire alla Lega Italica, formatasi in seguito alla firma
della pace di Lodi dell’aprile 1454. Il giorno 26 gennaio 1455, scrive Pezzana
«impetrò inoltre che fossero restituite a Niccolò Guerriero ed ai Correggesì le
castella che aveano perdute».319
Camerlengo alla corte dei Gonzaga a Mantova
Niccolò Terzi trovò certamente la migliore accoglienza presso la vivace
corte mantovana di Ludovico III. Non si conosce la data, ma probabilmente da
subito, al suo arrivo in quell’esilio, egli fu investito di mansioni delicate non in
quanto Guerriero – l’appellativo con il quale passò alla storia - meritato nelle sue
prime imprese giovanili, ma in virtù delle competenze ed esperienze acquisite
presso la corte ducale milanese. Qui egli era stato apprezzato da Filippo Maria
Visconti per la sua opera di diplomatico, nel rango di consigliere e quindi come
tesoriere in administranda pecunia «di grande auttorità, come quelli che
ministravano i denari».
Il Terzi approdò alla corte di Mantova in una fase temporale in cui, tra il
1444 e il 1459, Ludovico III Gonzaga stava «definendo il proprio ruolo come
inequivocabile signore della città» per «organizzare il governo e
l’amministrazione del marchesato».320
Nel 1457 Niccolò il Guerriero era accreditato quale camerlengo, una carica
che seppe mantenere anche dopo il 1460, quando gli effetti delle ampie
riorganizzazioni e degli «intenti del Gonzaga ebbero modo di dispiegarsi
progressivamente e uniformemente in sincronia con lo sviluppo della città e del
territorio»;321 un rango e una dignità di corte322 che ancora lo distingueva
A. JAVIERRE MUR, Alfonso V de Aragón y la República Ambrosiana, 1447-1450, «Boletín de la Real
Academia de la Historia», 156, 1965, p. 269.
319 «Facius, Res Gestae Alphonsi Regis, in Graev., T. 9, Pars. 3, col. 174 e 186». Cfr. A. PEZZANA ,
Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, pp. 119-120.
320 I. LAZZARINI, Fra un principe e altri stati, cit., p. I.
321 Ivi, p. VIII.
322 L’importanza della funzione di camerlengo va qui considerata nell’ambito delle caratteristiche
proprie della corte mantovana, descritte nello studio dedicato a quel contesto dalla Lazzarini:
«Intorno ai Gonzaga dunque si muoveva un gruppo di uomini assai vario, organizzato in
modo non formale, ma chiaro, cui erano attribuite varie funzioni di diverso peso e significato,
318
148
allorché, dodici anni dopo, ottenne il cingolo di cavaliere dall’imperatore
Federico III d’Asburgo.
Il 17 giugno 1457 Ludovico III Gonzaga scrisse ai Reggitori della
Comunità di Lucca per raccomandare «il nobile nostro camerlengo Nicolò
Terzo» che si recava in quella città per risolvere alcuni suoi problemi
amministrativi. In quella missiva il signore di Mantova insisteva perché
venissero senza indugi accolte le sue richieste: «Il perché avegna siamo certi che
esse sempre haverrano ricomandato cischuno et maxime li nostri, no glie
mancharano d’alcuno favore, per satisfare ale pregere de esso Nicolò». Non
mancava, il marchese Ludovico, di pregare le autorità lucchesi di avere riguardo
del nobile Terzi anche per amor suo: «Per la qual pregiamo le prefate
magnificentie vostre che etiam per amor nostro vogliano a rasone havere per
ricomandato dicto Nicolò». Ludovico Gonzaga concludeva chiedendo di
assicurare a Niccolò ogni favore e quant’altro necessario affinché la questione
fosse risolta con la massima sollecitudine, «facto ragione summaria breve et
expedita», consentendo così che il suo camerlengo «cum presteza il vegna ad
esser satisfacto e possa ritornare a servirce, che di questo ce farano piacere
assay esse vostre magnificentie».323
Quando nel febbraio 1469, sulla via di ritorno verso la Germania dal suo
secondo viaggio a Roma, sostò a Ferrara l’imperatore Federico III d’Asburgo,
vi creò molti cavalieri. Fra i più illustri si trovò anche il treenne Francesco
Gonzaga, celebre poi come Francesco II, primogenito del signore di Mantova
Federico I, qui accompagnato dall’ormai anziano “parmexano” Niccolò Terzi
323
caratterizzate dall’essere fisicamente e idealmente presenti là dove il potere incarnato dal
principe risiedeva abitualmente. Questi uomini rivestivano incarichi diversi: gli uni gestivano
funzioni nevralgiche per il governo dello stato (possiamo riconoscerli fra i detentori dei
‘principali offici di Mantova’ dello Schivenoglia), gli altri erano responsabili della cura minuta
e quotidiana del principe e dei suoi familiari ed erano loro compagni negli svaghi (sono
camerlenghi e cortigiani). […] Tutti si muovevano in corte, allorché a questo termine
polivalente si attribuisca, com’è frequente riscontrare nelle fonti, un significato fisico,
architettonico. Nel complesso dei palazzi gonzagheschi gravitanti intorno alla grande piazza
del Duomo, oggetto plurisecolare dell’attenzione dei Signori di Mantova si trovavano infatti
non solo gli appartamenti di residenza dei capitani, poi marchesi della città, ma i locali della
cancelleria, del consiglio, della camera». Ivi, pp. 110-111.
«Comunitati Luce, magnifici et cetera. Venendo adesso a quelle parte il nobile nostro
camerlengo Nicolò Terzo, portator presente, per certe sue facende et maxime per riscodere
certa quantità de denari da uno suo debitore habitante lì, come da luy le magnificentie vostre
serano apieno informate, el ne havia pregato che lo volessemo ricomandare a quelle. Il perché
avegna siamo certi che esse sempre haverrano ricomandato cischuno et maxime li nostri, no
glie mancharano d’alcuno favore, per satisfare ale pregere de esso Nicolò non gli havemo
voglito negare questa nostra per la qual pregiamo le prefate magnificentie vostre che etiam
per amor nostro vogliano a rasone havere per ricomandato dicto Nicolò e contra questo suo
debitore comettere che ‘l ge sia facto ragione summaria breve et expedita, prestandoli circa
ciò ogni favore et altorio ge fosse necessario, aciò che cum presteza il vegna ad esser
satisfacto e possa ritornare a servirce, che di questo ce farano piacere assay esse vostre
magnificentie. Ali piaceri dele quale et cetera. Mantue ut supra [XVII junii 1457]» In Archivio
di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2885, libro 30, c. 21v, Ludovico Gonzaga alla
Comunità di Lucca, Mantova 17 giugno 1457.
149
presso presso
la cortela mantovana.
Si legge
Terzi
«il Guerriero»,
«il Guerriero»,
ancora ancora
in caricacamerlengo
quale camerlengo
corte mantovana.
Si
nella
coevacoeva
di Andrea
Schi Schivenoglia:
Schivenoglia:
legge cronaca
nella cronaca
di Andrea
Nota
Fedrigo aa Ferara
Ferara con
con gran
Nota che
che de
de lano
lano 1469
1469 vene
vene lo
lo imperadore
imperadore Fedrigo
gran
trionfo,
da Roma
Roma et
et questo
questo foe
foe fato,
fato, perchè
perchè quando
quando luij
luij
trionfo, el
el qual
qual era
era venuto
venuto da
andete
chognossuto ne
ne saputo
saputo
andete aa Roma
Roma luij
luij andete
andete che
che luij
luij maij
maij non
non foe
foe chognossuto
perfina
sotoscripti andete
andete aa Ferara
Ferara ee foe
foe fati
fati
perfina chel
chel non
non foe
foe in
in Roma
Roma et
et lili sotoscripti
chavalerij
1469 et
chavalerij adij
adij 14
14 de
de febraro
febraro 1469
et si
si se
se parti
parti da
da Mantoa
Mantoa con
con grande
grande trionfo
trionfo
et
mess. Fedrigo
Fedrigo fiol
fiol de
de mes.
mes. lo
lo
et Chompagnie.
Chompagnie. Mes.
Mes. Francesco
Francesco fiol
fiol de
de mess.
324 Mes.
marchexo
qual avia
avia trij
trij anij:
anij: 322
Mes. Lanzalete
Lanzalete di
di Ipolitij,
Ipolitij, el
el
marchexo de
de Mantoa,
Mantoa, el
el qual
qual
conte de
de Gazolio,
Gazolio, Mes.
Mes. Nicolò
Nicolò Terzo,
Terzo, el
el qual
qual se
se chiamava
chiamava prima
prima el
el conte
qual era
era
325
parmexano,
chamerlengo del
del nostro
nostro marchexo.
marchexo.323
parmexano, ma
ma al
al presente
presente era
era chamerlengo
Questa
Questa èè l’ultima
l’ultima traccia
traccia che
che lasciò
lasciò di
di sé,
sé, al
al tramonto
tramonto della
della sua
sua
combattuta
Guerriero,
combattuta esistenza,
esistenza, Niccolò
Niccolò ilil Guerrie
Guerriero, divenuto
divenuto infine
infine mantovano
mantovano ee alto
alto
dignitario
dignitario alla
alla corte
corte dei
dei Gonzaga.
Gonzaga.
Andrea
Andrea Mantegna,
Mantegna, Personaggi
Personaggi della
della corte
corte di
di Ludovico
Ludovico III
III Gonzaga,
Gonzaga, Castello
Castello di
di San
San Giorgio
Giorgio aa Mantova,
Mantova,
Camera
completato
pletato tra
tra ilil 1465
1465 ee ilil 1474,
1474, al
Camera degli
degli Sposi.
Sposi. L’affresco
L’affresco fu
fu completato
al tempo
tempo in
in cui
cui Niccolò
Niccolò Terzi
Terzi ilil
Guerriero
Gonzaga
Guerriero era
era camerlengo
camerlengo alla
alla corte
corte dei
dei Gonzaga.
Gonzaga.
322
324
323
325
Francesco
1519), primogenito
al padre
padre quale
quale
Francesco II
II Gonzaga
Gonzaga (1466-1519),
(1466-1519),
primogenito di
di Federico
Federico I,
I, succederà
succederà al
d’Este.
marchese
Isabella d’Este.
d’Este
marchese di
di Mantova
Mantova nel
nel 1484.
1484. Il
Il 15
15 febbraio
febbraio 1490
1490 sposerà
sposerà Isabella
Cfr.
1484
Cfr. A.
A. SSCHIVENOGLIA
CHIVENOGLIA,, Cronaca
Cronaca di
di Mantova
Mantova dal
dal 1445
1445 al
al 1484,
1484, trascritta
trascritta ee annotata
annotata da
da Carlo
Carlo
d'Arco,
d’Arco, Mantova
Mantova 1976,
1976, pp.
pp. 45-46.
45-46.
150
150
6.
I Terzi di Sissa
Il 1409 fu l’annus horribilis per i Terzi. A conclusione della guerra con Niccolò III
d’Este i personaggi di maggior spicco della famiglia, i tre figli del conte Niccolò Terzi il
Vecchio, scomparvero annichiliti: massacrato a fine maggio Ottobono, trucidato a
settembre Giacomo, imprigionato e spento con il veleno Giovanni. Alla disintegrazione
fisica degli esponenti maggiori della stirpe corrispose la dispersione e, almeno
all’indomani della faida, la rovina materiale dei loro eredi, subito privati di terre e
castelli. A questa malasorte riuscirono a sottrarsi abilmene i Terzi di Sissa che
s’acconciarono senza indugi agli ordini dei nuovi padroni di Parma, correndo ad
asservirsi al carro del vincitore. Il 6 luglio 1409, quaranta giorni dopo l’assassinio del
cugino Ottobono, Giberto II e Antonio Terzi «vedendo ogni loro cosa andare in
sinistro, venuti a Porta S. Croce, conchiusero un accordo coll’Estense».326
Nati come ramo della casata dei Terzi di Parma, i Sissa discendevano da
Gherardo (I) Terzi, o Gerardo Tercius, padre di Guido I (il Guido Tercius nominato in un
documento del 1311).327 Il medesimo Guido è menzionato accanto al fratello Filippo,
per le esenzioni e i privilegi loro accordati, nel diploma concesso dall’imperatore
Ludovico il Bavaro il 7 dicembre 1329, ove entrambi recano il cognome de Tertiis.328
Di Filippo, o Filippone, non si conosce discendenza, mentre Guido, o Guidone,
ebbe certamente una figlia, Giovanna, andata sposa al marchese Gugliemo Pallavicino,
e tre figli maschi: Ghirardino I, Niccolò il Vecchio, conte di Tizzano, e Giberto.
Quest’ultimo fu il capostipite dei Terzi di Sissa. A lui e ai suoi discendenti, nel 1386,
Gian Galeazzo Visconti concesse in feudo la terra di Sissa unitamente a Trecasali,
rafforzando il privilegio con immunità ed esenzioni. Giberto morì lo stesso anno, nel
1413, in cui fu infeudato quale conte, lasciando due figli: Antonio e Guido (II), militi
egregi.
Antonio Terzi non ebbe figli: capitano d’armi al servizio dei Visconti, tra i
migliori del Ducato, alla celebrazione delle sfarzose esequie di Gian Galeazzo, nel 1402,
fu tra gli otto nobili lombardi che ebbero l’onore di recare a spalla il feretro. L’otto
giugno 1413 Guido (II), morto il padre Giberto, fu inscritto come signore di Sissa nel
registro delle investiture feudali milanesi. 329 Egli ebbe due figli: Costanza, ricordata nel
testamento della prozia Giovanna Pallavicino, e Giberto (II). Questi fu il padre di
Guido (III), di un Niccolò e di Giberto (III).
Nel 1422 Sissa fu occupata dalle milizie della Repubblica di Venezia, alleata dei
Terzi allora in guerra contro il duca di Milano. I Veneziani già possedevano il forte
castello di Torricella, il cui porto, sito fra il Po e il Taro, il cui presidio era di
fondamentale importanza strategica, presidiando i collegamenti fluviali lombardi, in
A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 126.
Nel 1311 un Guido Tercius è citato tra i cittadini più insigni di Parma. Cfr. A. GAMBERINI, Un
condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 285.
328 Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, cit., pp, 370-371.
329 Precisa il Pezzana: «Perciocché nel Registro delle Investiture feudali che stanno in questo
Archivio dello Stato si trova una concessione fatta da Giovanni a Frate Ercolano da Canobio,
Proposto degli Umiliati di Parma, ed a Guido Terzi di quondam Giberto, Signore di Sissa,
concessione che si asserisce rogata il dì 8 di giugno del vegnente anno 1413 (scritto con tutte
lettere così: millesimo quadrìngentesimo decimo tertio, Indictione sexta) dal Cancelliere vescovile
Andrea da Neviano)». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 149 nota.
326
327
151
particolare con Milano e Cremona.330 Due anni più tardi la rocca di Sissa, al centro
d’interminabili scontri e obiettivo di troppi assalti, aveva accumulato rovine e danni
ingenti. A gennaio i Veneziani, dovendo optare tra la ricostruzione integrale o
l’abbandono, scelsero una terza via: ne demolirono in gran parte la cerchia, consapevoli
che il mantenere la rocca in quello stato fatiscente sarebbe stato eccessivamente
oneroso, e in definitiva altrettanto inutile come il mantenervi una stabile guarnigione,
poiché la fortificazione, isolata e in posizione sfavorevole, sarebbe rimasta comunque
facile preda degli altri manieri, ben più muniti, che la circondavano, presidiati da forze
ostili. Ne preservarono soltanto il mastio, la torre principale, e consegnarono quanto
restava del borgo, con Torricella, a Guido (II) Terzi, nominato contestualmente
«governatore del castello di Sissa».
Una più ampia ricostruzione della rocca, di dimensioni tuttavia assai meno
poderose rispetto a quelle originarie, fu avviata solo dopo il 22 ottobre 1440, quando
Filippo Maria, duca di Milano, investì del feudo di Sissa e delle ville dipendenti,
concedendo il mero e misto impero e il godimento di ogni più ampia giurisdizione, i
fratelli Giberto (III), Niccolò e Guido (II) Terzi, tornati nell’amicizia dei Visconti «i
quali spontanei e con grave propria incommodità sovvenuto aveanlo di ragguardevole
somma di pecunia». Queste concessioni furono rese effettive dalla commissione del
duca di Milano del 21 di novembre e decisero la separazione da Parma delle
giurisdizioni di Sissa e delle sue dipendenze di Borgonovo sotto l’argine, Casal
Foschino, Sala e San Nazaro. Alla cerimonia d’investitura era presente Guido (II):
prestò giuramento anche a nome dei fratelli.331
Michele Daverio, nelle sue Memorie sulla storia dell’ex Ducato di Milano, scrisse che
il 3 novembre 1440 «quantunque il Duca avesse poco da gloriarsi della campagna di
quest’anno, pure volle premiar alcuni di quelli Condottieri d’armi, che dal canto loro
non avevan mancato di attaccamento, e valore». Tra questi condottieri premiati da
Filippo Maria Visconti, si trovavano, oltre al magnifico Niccolao Guerrero, altri Terzi del
ramo di Sissa: i fratelli Beltramino e Gherardino (II), ai quali furono assegnati in feudo
il castello di Torricella e le ville di Gramignazzo, Coltaro, Trecasali, Palasone con le case
di Barcolo dalla Fossa, Rigosa.332
330
331
332
Il 16 marzo 1427 Torricella, già possesso dei Terzi, occupata dai Veneziani, subì gli assalti di
Niccolò Piccinino inviato da Filippo Maria Visconti al comando di mille militi forniti da
Orlando Pallavicino, Pietro Rossi e Giberto Sanvitale. A rinforzo delle truppe in campo, la
città di Parma inviò agli assedianti 250 guastatori e una catapulta per scagliare pietre e ordigni
contro le mura. Il 23 marzo Torricella si arrese a Niccolò Piccinino, condottiero dei Visconti.
«A concedere la quale fu mosso Filippo dalla indefessa sollecitudine dei Terzi a prò di lui, e
specialmente dall’ averlo essi in que’ giorni di grandi necessità sovvenuto di 2000 fiorini a 32
soldi imp. l’uno. Dichiara egli nell’investitura di essere sempre per ricordarsi di così segnalato
servigio prestatogli con grave loro incommodo, poiché erano essi medesimi poveri di danaro,
e, volendo in qualche guisa rimunerameli, e considerando ad un tempo la sincerità della fede,
e la servitù dei loro antenati, concede loro quel feudo, e delega il suo Consigliere Corradino
de’ Capitani di Vimercato a darne loro il possesso». Ed aggiunge: «Il rogito di questa fatto
nelle case del Corredini in Milano a’ 21 novembre è di Gian-Francesco Gallina Segretario e
notajo Ducale (Arch. dello Stato, Registro d’investiture feudali, da c. 234, t.°, a 241- Ivi n’ è
altra copia antica fra le carte dei Terzi)». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp.
429-430 nota.
Cfr. M. DAVERIO, Memorie, cit., p. 169. Daverio qui scrive di Beltramino e Gherardino fratelli
«da Trezzo» volendo forse scrivere «da Terzo». Pezzana, citandolo, sottolinea l’errore e subito
propone la correzione che, però, sembra contenerne due altri. Infatti, dopo dopo aver letto
«da Trezza invece di de’ Terzi», scrive che Beltramino e Gherardino «erano figliuoli di Matteo
152
Beltramino e Gherardino (II) erano verosimilmente figli del Terzo, figlio
naturale di Gherardino I, beneficiato nel testamento, più sopra ricordato, di Giovanna
Terzi vedova Pallavicino, e quindi nipoti del Gherardo I Terzi che nel 1362 aveva
ottenuto da Bernabò Visconti la proprietà della rocca in rovina di Torricella che si
ergeva in riva al Po e l’aveva ricostruita. 333
Tornando ai Terzi di Sissa, si trova che nel 1441, il 27 di novembre, Filippo
Maria Visconti assegnò a Giberto (III) e Guido (II), e ai loro discendenti, nuove terre e
castellanie in aggiunta a quelle loro concesse l’anno precedente. Quale compenso della
loro fedeltà e, soprattutto, della loro tangibile e generosa devozione (avevano offerto
‘spontaneamente’ al duca un sonante sussidio di mille ducati d’oro) furono investiti dei
nuovi feudi di Belvedere, Vezzano, Moragnano, Lalatta, Fontanafredda, Triviglio ed
Antignola, sottratte alla giurisdizione di Parma e separate da questa.334
Il favore che i Terzi di Sissa avevano saputo riconquistare presso la corte dei
Visconti fu coltivato e incrementato con cortigiana sagacia anche quando, defunto il
duca Filippo Maria e tramontata la Repubblica Ambrosiana, Francesco Sforza prese il
potere su Milano e sulle terre lombarde. La concessione in feudo sancita nell’ottobre
1440 e integrata nel 1441 dal Visconti fu rinnovata ed estesa dieci anni dopo da
Francesco Sforza. Il 17 giugno 1450 il nuovo duca di Milano, allora dimorante a Lodi,
decise l’erezione in Contea delle terre di Belvedere e di Sissa con le ville annesse, e
proclamò conte Guido II, presente a quell’atto solenne, e tutti i suoi discendenti,
maschi e legittimi, in infinitum con il mero e misto impero, con la podestà di gladio e con
piena giurisdizione.
Giusto un anno dopo, con la deliberazione ducale del giugno 1451, fu concessa
ai nipoti di Guido II, figli di Giberto III, i diritti sopra una terza parte di Sissa e una
metà di Belvedere. Un’altra terza parte fu assegnata al fratello di Guido e Giberto, il
nobile Niccolò.
La Contea di Sissa estendeva allora la sua giurisdizione sino a Casalfoschino,
Sala, Borgonovo sotto la ghiaia, San Nazzaro. La Contea di Belvedere comprendeva le
ville di Montignano, Antignolo, Urzano, Beliate, Fontanafredda e Trivilio. Lo Sforza
dichiarò testualmente che così aveva deciso per ricompensare «la singolar fedeltà e
Terzi» (A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 430). Ora, di un Matteo dei Terzi
non si trova alcuna traccia nelle cronache. Se ne reperiscono invece, puntuali, riguardo a un
Terzo, figlio naturale di Gherardino o Gherardo Terzi, abitante a Torricella, che l’8 luglio
1362 fece suppliche a Bernabò perché gli concedesse, ottenendola, una torre in gran parte
caduta in rovina e disabitata che sorgeva in riva al Po (cfr. A. PEZZANA, Storia della città di
Parma, I, cit., p. 14 nota). Il medesimo Terzo, figlio di Gherardo o Gherardino Terzi,
verosimilmente padre di quest’ultimo Gherardino, nonché di Beltramino, nuovi feudatari di
Torricella, risultava beneficiario, l’8 agosto 1392, di un legato stabilito dalla zia, la nobile
Giovanna Terzi, vedova del marchese Guglielmo Pallavicino. Il rogito è quello del notaio
Cassano de’ Cassani del quale si è riferito in note precenti. E. SCARABELLI ZUNTI, Tavole
genealogiche della famiglia Terzi, cit.
333 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 105 nota.
334 «L’atto d’investitura fu rogato in Milano: il Capitani ricevette colà dai due fratelli Terzi il
giuramento di fedeltà conforme in tutto a quello che prestarono nel precedente anno pel
feudo di Sissa, ed eglino obbligaronsi a restituire il feudo di Belvedere al Duca quando
piacesse a lui di dar loro cosa equivalente.Trovasi menzione di questa nuova investitura anche
in una lettera del dì 27 novembre, con cui il Duca ne rende partecipi gli Uffiziali di Parma,
affinchè i luoghi concessi ai Terzi non sieno per l’avvenire aggravati d’imposte». Cfr. A.
PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 454 nota.
153
devozione verso lui e lo Stato suo, la grandissima integrità, la prestanza, il valore e l’altre
preclare doti» di Guido, del quale ogni studio, ogni pensiero era unicamente rivolto a
prestarsi al piacere di Sua Signoria, e il quale «a tutelare ed ampliare lo Stato di questa
espone a del continuo con franco animo le proprie facoltà».335
Guido II sposò Paola dei Lanfranchi ed ebbe due figli: Panfilo e Giovan Maria,
padre a sua volta di Panfilo e di un Giovan Francesco con i quali il suo ramo si estinse.
Il fratello di Guido, Giberto (III) si era unito a Chiara Pallavicino e quel matrimonio
fecondo contò nove figli: Panfilo, Giovan Maria, Niccolò, Apollonio, Carlo, Filippo,
Ottobuono, Antonio e Ludovico. Quest’ultimo fu il marito di Caterina degli Arcelli di
Piacenza. Dal loro matrimonio nacquero Guido (III) e Francesco.
La nuova rilevanza conquistata dalla casata dei Terzi, o meglio dal superstite
ramo di Sissa, è significativamente testimoniata dagli atti diplomatici. Quando, nel 1451,
fu patteggiata la lega tra la Repubblica di Firenze e il duca di Milano, tra le norme vi era
quella che imponeva a ciascuno degli alleati di comunicare all’altro l’elenco dei propri
feudatari e degli altri più importanti collegati ai due stati. Il duca Francesco Sforza
nominò suo rappresentante plenipotenziario il fratello Alessandro, che nel novembre, a
capo dell’ambasciata ducale, ratificò il trattato di alleanza. Quando l’atto fu rogato a
Parma, il 14 di quel mese, era presente alla cerimonia il conte Guido (III),
accompagnato dai suoi zii Filippo e Ottobuono.336
Le nuova investiture di Sissa e Belvedere
Il conte Guido (II), sempre benvoluto e quindi beneficato dai duchi di Milano,
morì agli inizi del 1459. La vedova Paola dei Lanfranchi rivolse subito istanza al signore
di Milano Francesco Sforza, a tutela dei figli Pamfilo e Giammaria, per la parte loro
spettante dell’investitura dei feudi di Belvedere e di Sissa concessa al padre e ai suoi
discendenti nel 1450. La nuova investitura venne data il 12 aprile da Cicco Simonetta,
quale mandatario e procuratore del duca, a Cristoforo Piazza, procuratore di Paola,
vedova del conte Guido.337
Il 26 marzo 1467 venne formalizzata la deliberazione ducale con la quale
Galeazzo Maria e Bianca Maria Visconti prorogarono l’investitura di Belvedere e Sissa
335
336
337
«Registro d’investiture Feudali nell’Arch. dello Stato, ac. 241, t.°, e 242 […] Per maggiore dignità di
essa Contea il Duca diede al Terzi lo stemma consistente in un Cane bianco sur un monte con una
palma nella destra zampa ed un cartello colle parole Tibi soli: «unum Canem album super uno
monte existentem cum palma una in grampha dextera cum brevi uno cum litteris dicentibus:
TIBI SOLI, cum cazia una scopino moralia in campo caelestro et viridi habenti super
adamantes tres simul connexos». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 41
nota.
La ratifica fu rogata dal notaio Martino Ricci presso la dimora di Alessandro Sforza a Parma,
nella parrocchia di S. Paolo pro burgo anteriori. «In quest’atto si legge che il Duca avea
conchiusa di fresco una vera ed intrinseca confederazione e lega colla Eccelsa e Potente Comunità di
Fiorenza, e che la nominazione de’ predetti aderenti e complici dovea da questi essere appunto
riconosciuta ed approvata con atto pubblico da mandarsi alla parte che li avea nominati. Ivi
dichiarò Alessandro di accettare essa nomina libenti, hilari, et gaudenti animo». Cfr. ivi, p. 59.
Il rogito fu stilato da Cristoforo da Cambiago, Cancelliere ducale: cfr. ivi, p. 190. Gentile, un
nipote del potente Cicco Simonetta, segretario di ducale di Francesco e poi di Galeazzo Maria
Sforza, fu insediato quale cofeudatario condomino con i Terzi nelle terre di Sissa, titolare
della Contea di Torricella, che comprendeva le terre a Gramignazzo, Coltaro, Palasone,
Trecasali, Rigosa e Fossa. Il feudo fu confermato a Gentile Simonetta nel 1499 da Luigi XII,
re di Francia.
154
al «prode Lodovico Terzi del q. Giberto (III), per lui, pe’ fratelli e per altri consanguinei
suoi».338 L’11 maggio 1495 promisero fedeltà, omaggio e obbedienza al duca Ludovico
il Moro e alla consorte duchessa Beatrice d’Este gli esponenti della famiglia Terzi legati
al rinnovo delle investiture per le parti delle contee di Sissa e Belvedere loro spettanti.
Prestarono giuramento i figli di Ludovico, Francesco I e Guido III. Erano presenti
inoltre al giuramento, per mezzo dei rispettivi procuratori, Antonio, figlio di Giberto
(III), i nipoti di quest’ultimo Paride ed Ettore (figli legittimi di Ottobuono) e Giberto
(IV) (di Filippo).
La battaglia di Fornovo
Francesco I Terzi, capitano di Ludovico Sforza detto il Moro, duca di Milano,
due mesi dopo quel giuramento, il 6 luglio 1495, fu ucciso alla battaglia di Fornovo
combattendo da prode contro i Francesi. Egli aveva sposato Taddea dei Roberti figlia di
Scipione. Dal loro matrimonio nacquero Caterina, morta nel 1485, Paolo, ancora
vivente nel 1544, e Giampietro. Nel 1497 Giberto (III), nonno del valoroso Francesco,
agendo in qualità di procuratore della vedova Taddea, tutrice di Giampietro, si appellò
alla corte del duca di Milano per ottenere l’investitura a favore del figlio dell’ottava parte
dei feudi di Belvedere e di Sissa. Il 29 settembre il duca accolse la domanda, memore
soprattutto dei servizi che gli aveva reso il Ducalis Squadrerius Francesco Terzi. Giberto
prestò poi, a nome dei suoi rappresentati, Taddea e Giampietro, il rituale giuramento di
fedeltà nel Castello di Porta Giovia.339 Giampietro si sposò due volte: con Elisabetta dei
Bernieri di Antonio di Parma e quindi con Isabella Benadusi di Scipione mantovano.
Dai matrimoni nacquero Giuditta, Claudia e, nel 1505, Francesco (II). Vittima di un
oscuro complotto, nel 1532 Giampietro finì assassinato per mano del prozio
Ottobuono.
Alleati e sudditi dei Farnese
Nel 1551 i Terzi avevano affiancato i Farnese alleati della Francia contro gli
imperiali e la Spagna nel corso la «guerra di Parma». Le loro terre fruirono della
protezione delle milizie del duca Ottavio Farnese. Il 12 giugno, tuttavia, nonostante i
rinforzi ricevuti, il castello di Sissa fu posto sotto assedio, espugnato, saccheggiato e
diroccato dal conte Troilo Rossi al comando delle forze imperiali,. I Terzi poterono
rientrarne in possesso solo l’anno successivo. Anche Torricella, feudo dei conti
Simonetta, parimenti alleati dei Farnese, fu assalita nel corso di quella guerra dalle
soldatesche spagnole. Ci furono tentativi di impadronirsi delle risorse preziose costituite
dai mulini sul Po, ma i terrazzani, preavvertiti, reagirono con efficacia. Essi
organizzarono una sortita riuscendo a sorprendere, catturare e massacrare una
quarantina di invasori. La notte successiva arrivò la rappresaglia degli Spagnoli, che
distrussero e affondarono tutti i mulini.
Francesco II, figlio di Giampietro, conte di Sissa e Belvedere, sposò il 26 ottobre
1529 Isotta di Nogarola del conte Girolamo, dalla quale ebbe due figli: Giampietro (II)
e Anton Maria. Quest’ultimo impalmò Flavia Appiani d’Aragona di Antonio. Dal loro
«I fratelli erano Ottobuono, Filippo, Carlo, Apollonio ed Antonio. I consanguinei Panfilo e
Gian-Maria (che avevano a tutrice Paola, vedova di Guido) e Niccolò zio di esso Lodovico»:
ivi, p. 279.
339 L’atto, sta nel Registro delle Invest. feudali (Archivio dello Stato) da carte 256 a 26: Cfr. ivi, p.
303 nota.
338
155
matrimonio nacquero Francesco (III), morto nel 1590, e Luigi. Questi il 12 luglio 1623
convolò a nozze con Maria Cavalli, figlia del conte Paolo Camillo, ed ebbero cinque
rampolli: Alessandro, primogenito, morì nel 1630; Francesco fu conventuale dei minori;
Maria si maritò con Manuccio Visdomini; Lucilla era vivente nel 1636. L’ultimogenito,
Ludovico, andò sposo alla contessina Lucrezia Scoffoni, dalla quale ebbe Ottavio,
Niccolò, Angelica Corona e Antonio Maria.
Antonio Maria Terzi (1629-1693) visse come gentiluomo alla corte del duca
Ranuccio II Farnese. Sposò Anna Maria Farnese che gli regalò nove tra figli e figlie,
tutte con il prenome di Maria o Mario. Cinque entrarono in convento: Francesca di S.
Alessio, Anna di S. Francesco Saverio, Isabella, Costanza e Vittoria. Giulia rimase
nubile e finalmente una Maria impalmò il conte Orazio della Somaglia. Dei due figli
maschi, il secondogenito Mario sposò Lucrezia Scoffoni di Marc’Antonio da Parma
senza lasciare discendenza.
Il primogenito Gherardo (1655-1729) si sposò due volte: celebrò la prime nozze
con Maria Teresa Cantelli che defunse il 16 gennaio 1687; passando alle seconde, scelse
Anna Maria Maino (1667-1714). Da questo secondo matrimonio discese Francesco
Maria che fu l’ultimo conte di Sissa e Belvedere. Maritato con Anna Maria Sanvitale,
figlia del conte Ludovico, dama della duchessa Enrichetta d’Este, ebbe solo due figliole.
La prima, Corona, andò sposa al marchese Bonifacio Rangoni di Modena. La seconda,
Costanza,340 si maritò con il conte Antonio Marazzani Visconti di Piacenza.
Il 17 dicembre 1758, deceduto il conte Francesco Maria Terzi privo di eredi
maschi, la casata dei Terzi di Sissa si estinse confluendo nelle famiglie dei Rangoni
modenesi e dei Marazzani Visconti piacentini.
Il feudo di Sissa fu quindi devoluto alla Camera Ducale di Parma.
340
La contessa Costanza, figlia dell’ultimo conte di Sissa, sposa del conte Antonio Marazzani
Visconti, diede alla luce l’11 agosto 1755 Francesco Maria. Educato a Roma all’Accademia
Ecclesiastica, entrò nel 1780 come abbreviatore della Cancelleria Apostolica. Nella curia
pontificia fu tra i collaboratori più stretti di Pio VI. Governatore di Sabina (1782-85), di
Fabriano (1785-94), di Orvieto (1794-97), ricoprì quelli incarichi “con somma lode e decoro”.
Successivamente fu assessore al Tribunale del governatore di Roma; relatore della
sacra Consulta; referendario e votante nelle due sezioni del supremo Tribunale della
Segnatura. Delegato apostolico a Fermo tra il 1802 e il 1808, si ritirò a Parma durante
l’occupazione napoleonica di Roma. Nel 1819 era Vicario della basilica patriarcale di
Laterano. Nel 1823 Pio VII lo nominava suo maggiordomo e Protonotario Apostolico. Papa
Leone XII, che si avvalse di Francesco Maria Marazzani Visconti, tra l’altro, per avviare la
riforma del palazzo apostolico e della guardia pontificia, lo creò cardinale in prectore dell’ordine
dei preti nel concistoro del 2 ottobre 1826, tre anni prima della morte.
156
7.
I Terzi di Fermo, poi Guerrieri
I Terzi divennero cittadini di Fermo con il capitano d’armi Giovan Filippo, o
Gio Filippo, figlio di Giacomo Terzi, nipote di Ottobono. Egli restò tuttavia unico e
ultimo a portare in terra marchigiana il cognome parmense, e lo tenne solo per pochi
anni, poiché, per ignote ragioni, lo cambiò in quello di Guerrieri, dando vita a un nuovo
ramo della sua casata.
Dopo l’uccisione di Ottobono e del padre Giacomo, nell’autunno 1409, nella
diaspora che ne seguì per i Terzi di Parma, di Giovan Filippo si perdono le tracce.
Ricompare nel 1431, rivestito della carica di podestà a Osimo, nella Marca
anconitana.341
In quell’anno egli aveva già sostituito il nome del suo antico lignaggio con il
nuovo e le Memorie historiche dell’antichissima, e nobile città d’Osimo lo indicano nel «Catalogo
delli podestà» come Gio Filippo Guerrieri dal Monte Santo Pietro degl’Agli.342
Come il padre Giacomo «dottorato nell’una e nell’altra legge», egli si era potuto
dedicare alla prestigiosa carriera podestarile. Similmente al genitore, e agli avi, seppe
però praticare all’occorrenza anche l’arte della guerra. E infatti, nel novembre 1445,
proprio a Monte San Pietro degli Agli (o Monsanpiero), indicato come sua dimora nelle
Memorie historiche, Giovan Filippo si trovò a combattere a fianco del cugino Niccolò
Terzi il Guerriero, figlio di Ottobono.
Niccolò, obbedendo agli ordini perentori di Filippo Maria Visconti, aveva
portato nell’autunno di quell’anno le sue lance nella Marca contro Francesco Sforza,
genero del duca e, malgrado ciò, episodicamente, suo acerrimo antagonista. Il Terzi,
acconciandosi alle disposizioni del volubile signore di Milano, dopo avere reclutato
truppe nel Reggiano e nel Parmense, aveva raggiunto Giovan Filippo alla rocca di
Monsanpiero, nella terra di Sant’Elpidio, distante poche miglia dalla città di Fermo. 343
Qui il Guerriero e il cugino avevano congiunto le proprie forze militari a supporto di
quelle di Francesco Piccinino, capitano generale del Visconti, assediato dai due fratelli
Sforza.
Allorché la città di Fermo, il 25 novembre 1445, giorno di Santa Caterina, insorse
riuscendo a cacciare Alessandro Sforza che la occupava, Niccolò il Guerriero, che stava
«valevolissimo difensore» nella rocca di Monsanpiero, avuta notizia della ribellione,
inviò immediatamente in appoggio degli insorti fermani un contingente di milizie sotto
il comando di Giovan Filippo.344
Allora sottoposta al dominio pontificio. Nel 1433 di Osimo si insignorì Francesco Sforza che
ne fece la base per le sue scorrerie nelle Marche.
342 L. MARTORELLI, Memorie historiche dell’antichissima, e nobile città d’Osimo, Venezia 1705, p. 437.
343 Archivio privato De Moll-Guerrieri Gonzaga di Villa Lagarina (Trento), n.n., PARMENIO
TERZINIO, Memorie istoriche della famiglia de’ Guerrieri di Fermo e di Mantova, ms., 1756.
344 Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, Loreto, 1846, p. 47. Del fatto riferiscono anche
Simonetta nella sua Sforziade (VIII, p. 150) e, più diffusamente, gli Annali di Fermo d’autore
anonimo, dall’anno 1445 sino al 1557 ove si legge: «Correva l’anno del Signore 1445 al tempo di
papa Eugenio IV, avendo usurpato alla Chiesa tutta la Marca et parte dell’Umbria Francesco
Sforza et per spatio de undici anni, essendoli poi voltati contra il Papa con l’aiuto del re
Alfonso di Napoli, Gio. Maria Visconti duca di Milano, dopo diverse factione, e battaglie
seguite del mese di settembre, questo anno vedendo non potere resistere, fece disegno di
retenere e difendere Fermo […] et lui si retirò con parte dell’esercito a Palero nei confini di
Romagna, lasciato signor Alessandro Sforza suo fratello nella città con tre milia cavalli e doi
341
157
E le Memorie storiche della famiglia de Guerrieri di Fermo concordano:
«Niccolò Guerrieri, che vigilante vigilava ad ogni andamento de nemici, tostoché
ebbe inteso che li Fermani avean preso le Armi contro gli Sforzeschi, subito spedì da
Monte San Pietro degli Agli in soccorso dell’afflitta Città Giovanfilippo suo fratello
cugin carnale con buon numero di valorosi soldati come per attestato pubblico della
medesima […] e che ora solo indichiamo dicendo: Eoque nomine fuisse Cives nobiles
Ioannem Philippum Guerrierium qui etiam de Anno 1445 multi militibus auxilium prestitit
Civitati nostrae contra Alexandrum Sforziam Arma sumpserat».345
Fermo fu allora grata a Giovan Filippo, il quale, così bene accolto e onorato dalla
città a cui aveva portato soccorso militare, vi mise nuove radici. Qui sposò Andreana
dei Verrieri di Sant’Elpidio, signora del Castellano e della Valle, e divenne capostipite
della nuova casata Guerrieri di Fermo. Il Guerrieri fu immediatamente annoverato tra i
notabili cittadini. Due mesi dopo il suo approdo a Fermo, il 6 gennaio 1446, era già
accanto ai Priori nell’accogliere Domenico Capranica inviato dal governo pontificio
quale legato della Marca.
Nel 1453 Giovan Filippo, accompagnato «di una onorevolissima lettera dei Priori
di Fermo», fu inviato ad esercitare una nuova podesteria a Norcia. Citando questa
lettera, il cronista delle Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato va oltre l’avvenimento
per arrivare ad affermare che: «La famiglia de’ Marchesi Guerrieri di Fermo trae la
origine dal celebre Nicolò Terzi di Mantova che per il suo militar valore fu
soprannominato Guerriero».346 Senonché questa affermazione regge male, poiché la
milia fanti per difendere il paese [...] Ora li cittadini vedendo l’occasione per levarsi il giogo
dal collo trattarono con il legato della Marca, il cardinale Ludovico da Padova Patriarca
d’Aquileia Camarlingo e capitano del Papa di ammazzare li soldati, nella città e prendere la
rócca con l’aiuto loro, et accordatasi la cosa, se venne alla esecutione che fu cosi. La vigilia di
S. Caterina a dì 24 novembre, la città a certo segno dato si sollevò il popolo et ammazzati et
fatti prigioni tutti quelli che alloggiavano nelle case loro, corsero in piazza et cominciarono a
combattere con li soldati del signor Alessandro, quali per parecchie hore combatterono et si
difesero, ma poi furono fatti retirare dal signor Alessandro dentro la rócca, dicono per esserli
stati fatti avvertiti dalle sentinelle d’aver visto fuori della porta di S. Caterina una gran
moltitudine de gente che con lumi venivano verso la città. et entrorono dentro, e perciò
furono fatti retirare dentro la rócca, et però la città reconoscendo tanto benificio del miracolo
fatto da S. Caterina, il di della sua festa va in processione con candele ad honorare et riverire
detta Chiesa. Rinchiusi li nemici dentro alla rócca la città prese li capi delle vie che andava là,
li fece fortificare et bastionare con travi, tavole et altre cose per ostare che li nimici non
uscissero per quelle vie, poi mese buoni corpi de guardie per le mure della città, se andarono
a riposare. Al cenno dato per tutte le castella furono uccisi, presi e svaligiati li soldati
Sforzeschi […] Il signor Alessandro, non so se in quella notte o la seguente, uscito per vie
occulte, avvisato da uno de’ Priori et dal Cancelliere, prese li Priori nel palazzo e li menò nella
rócca. La mattina venne Gianfilippo de Giacomo Guerriero da S. Pietre con una gran
compagnia di gente e poi da le castelle vennero in aiuto della città». Cfr. G. DE MINICIS (a cura
di), Cronache della Città di Fermo, cit., pp. 201-202.
345 PARMENIO TERZINIO, Memorie istoriche, cit.
346 «1453. I Priori di Fermo accompagnano di una onorevolissima lettera Giovan Filippo
Guerrieri che va podestà a Norcia. La famiglia de’ Marchesi Guerrieri di Fermo trae la origine
dal celebre Nicolò Terzi di Mantova, che per il suo militar valore fu soprannominato
Guerriero. Militò esso sotto Filippo Visconti duca di Milano insieme al conte Francesco
Sforza, al quale fu inimicissimo, per lo che congiurò sempre a suoi danni. Quando questi
assediava Monsampietro Nicolò Terzi ne era valevolissimo difensore, essendovi stato spedito
158
famiglia dei Guerrieri fermani non «trae origine dal celebre Nicolò Terzi» (che nel 1453,
sconfitto e costretto all’esilio da Francesco Sforza, da quasi un lustro dimorava ed
esercitava l’ufficio di camerlengo presso la corte di Ludovico III Gonzaga a Mantova),
bensì dal suo meno noto cugino Giovan Filippo, figlio del quondam Giacomo, o Jacopo,
Terzi. E infatti gli Annali di Fermo d’autore anonimo, dall’anno 1445 sino al 1557, riferendo
del soccorso portato a Fermo ribellatasi ad Alessandro Sforza, puntualmente notano
che «la mattina venne Gianfilippo de Giacomo Guerriero da S. Pietre con una gran
compagnia di gente e poi da le castelle vennero in aiuto della città». 347 Quel Guerriero era
«Gianfilippo de Giacomo» e non già suo cugino Niccolò il Guerriero di Ottobono.
Dal matrimonio di Giovan Filippo con Andreana dei Verrieri nacquero cinque
figli. Il primo fu Apollonio, o Polonio, che rappresentò Fermo in ambascerie presso il
pontefice Alessandro VI Borgia dal 1488 al 1492, anno in cui fu inviato ad Osimo come
podestà; poi Giacomo o Giacopo che si distinse come capitano d’armi e fu tra i priori
fermani. Di un Giovanni Battista, uomo d’arme, al contrario, si conservava pessima
memoria perché nei giorni di ferragosto 1515 tentò d’impadronirsi di Fermo, finendo
sconfitto ed esiliato.348 Altri figli di Giovan Filippo furono Alessandro, che sposò
Lodovica de’ Paccaroni, un’illustre casata fermana, e Giovanni Francesco.
La famiglia Guerrieri era dunque divenuta così forte nel volgere di pochi lustri
da capeggiare a Fermo una fazione che si contrapponeva aspramente all’altra dominante
dei Brancadoro, legata ai potenti Orsini romani. Le cronache sul finire del XV secolo e
dei primi decenni del XVI lamentano un susseguirsi di scontri, faide sanguinose, con
vittime nell’una nell’altra squadra, violenze che sconvolsero la vita comunale fermana, a
fatica represse dai legati del governo pontificio.
Ma non tutti i Guerrieri rimasero nella Marca. I discendenti maschi di Giovanni
Francesco, figlio di Giovan Filippo del quondam Giacomo Terzi, si trovarono in due
momenti distinti a godere della felice opportunità di potersi trasferire a Mantova,
godendo della benevolenza dei Gonzaga.
La prima occasione si presentò provvidenzialmente nel novembre del 1496.
Francesco II Gonzaga, reduce dal regno di Napoli dove aveva comandato le truppe del
corpo di spedizione che la Repubblica di Venezia aveva inviato in soccorso di
Ferdinando V d’Aragona, fece tappa nella Marca d’Ancona. Doveva curarsi dalla
virulenta febbre malarica che l’aveva colpito, riuscendo qui a superare la convalescenza,
assistito anche dalla consorte Isabella d’Este che lo aveva premurosamente raggiunto.
Vinta la malattia, durante una cerimonia celebrata in suo onore a Offida ebbe modo di
dal duca di Milano. Allora che intese la ribellione de’ Fermani contro Alessandro Sforza,
mandò in aiuto con alquante milizie il suo cugino Gian Filippo. Nicolò partì per Milano, e
quegli restò a Fermo. […]. Allora fu che Gian Filippo sì stabilì a Fermo, e ammogliatosi a una
gentil donna di casa Verrieri di s. Elpidìo Signora del Castellano e della Valle diede orìgine alla
famiglia de’ Marchesi Guerrieri, la quale produsse illustri personaggi nelle ecclesiastiche
dignità, nelle lettere e nelle armi». Cfr. Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit. p. 47.
Queste notizie sono riprese anche da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, p.
89.
347 G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., p. 202.
348 Il giorno 14 agosto 1515 «Battista Guerrieri entrò in Fermo con 500 fanti e 60 cavalli; per due
giorni la città fu sotto il suo dominio […] Gli abitanti de’ Castelli mal sofferendo, che Battista
Guerrieri pensasse insignorirsi di Fermo, insorgono alle armi, e capitanati da Girolamo
Brancadoro, lo sforzano uscire dalla città; quindi lo inseguono, lo combattono sotto le mura
di Torre s. Patrizio, e lo sconfiggono uccidendogli 200 valorosi». Effemeridi della città di Fermo e
suo antico Stato, cit., pp. 68-69.
159
notare Ludovico, figlio primogenito di Giovan Francesco Guerrieri, cavalcare uno
splendido destriero che gli veniva recato in dono. Colpito dalla valentia del cavaliere,
oltre che dal pregio del palafreno, volle avere con sé a Mantova entrambi: l’uno per
arricchire i suoi pregiati allevamenti di cavalli da guerra, famosi in tutta Europa; l’altro, il
giovanissimo aitante guerriero e cavaliere Ludovico, a ornamento e servizio della sua
corte. Si legge nelle Cronache:
«De novembre […] passò il signor Giacomo S. Severino e fu regalato, il simile al
Marchese de Mantua al quale fu donato un bel cavallo, che essendovi sopra un
giovinetto, disse il Marchese che voleva ogni cosa, e quello fu Ludovico Guerrero,
che se lo menò con lui, e da quello è discesa la famiglia de Guereri in Mantua oggidì
cosi illustre».349
Verosimilmente il Gonzaga scoprì nel giovane Ludovico Guerrieri un parente
del valoroso Niccolò il Guerriero che era stato camerlengo nel suo palazzo a Mantova.
Assieme all’ormai anziano Niccolò, nel febbraio 1469, a Ferrara, l’allora fanciullo
Francesco aveva ricevuto l’investitura a cavaliere dall’imperatore Federico III
d’Asburgo.
Propiziato da questi precedenti, nell’autunno del 1503, sei anni dopo il primo, ci
fu un secondo incontro fra la famiglia di Giovan Francesco Guerrieri e il marchese
Francesco II Gonzaga. Il signore di Mantova fu magnificamente ospitato a Fermo
quando vi sostò, afflitto e costretto ancora da una sua malattia, anche allora sulla via di
rientro dal Regno di Napoli verso le sue terre lombarde. Luogotenente generale delle
truppe francesi in Italia, nei mesi precedenti aveva combattuto senza successo contro gli
Spagnoli alla battaglia del Garigliano. Gratissimo per le cure e l’accoglienza superba, il
marchese Gonzaga compensò Giovanni Francesco Guerrieri accogliendo a Mantova
altri due della famiglia, Giovanni Battista e Vincenzo che quindi raggiunsero il fratello
Ludovico, da sette anni al servizio presso quella corte.350
Messe radici in riva al Mincio, iniziò per quei Guerrieri una carriera di prosperi
successi tra gli ufficiali gonzagheschi. Dieci anni dopo l’arruolamento ad Offida, «il dì
penultimo aprilis 1506», Francesco II Gonzaga decretò l’aggregazione di Ludovico alla
sua casata con il privilegio per lui, famigliari e discendenti del doppio cognome
349
350
Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., p. 225. E Ludovico confermò
quella partenza avvenuta nel 1496 quando, nel 1522 tornò temporaneamente in patria
parlando di una sua assenza che durava da 26 anni. Effemeridi della città di Fermo e suo antico
Stato, cit., p. 55.
L’anno doveva essere necessariamente il 1503, allorché Francesco II abbandonò il Regno di
Napoli. Ma Carlo d’Arco indica una data diversa, e introduce tra i partenti per Mantova
Ludovico: «Nell’anno 1505 Francesco II Gonzaga, disgustato dai francesi, per i quali aveva
combattuto, tornando dalla Sicilia fu magnificamente ospitato dai Guerrieri a Fermo, memori
dell’accoglienza ricevuta a Mantova da Niccolò. Francesco, gratissimo per l’ospitalità ricevuta,
chiese come avrebbe potuto contraccambiare i favori ricevuti. Gio-Francesco Guerrieri
rispose che nulla gli sarebbe stato più grato di quella che esso signore pigliasse a servizio i
suoi figlioli; così acconsentendovi il principe seco lui condusse in Mantova Gio-Battista,
Lodovico e Vincenzo Guerrieri. Ciò accadde in quell’anno medesimo 1505 in cui esso GioFrancesco Guerrieri poté ritornare in patria dopo essere stato bandito per aver ucciso Lucca
Brancadori a cui sempre mantenuto aveva odio implacabile». Cfr. Archivio di Stato di antova,
Documenti patrii raccolti da Carlo d’Arco, n. 217, CARLO D’ARCO, Annotazioni genealogiche di famiglie
mantovane, sec. XIX, IV, p. 390.
160
Guerrieri Gonzaga.351 Nel 1514 gli fu riconosciuto il rango prestigioso di marchionalem
consocium beneamatum.
Il 18 dicembre 1521, al comando di una compagnia di armigeri mantovani, fu
inviato dal marchese Federico II Gonzaga al soccorso di Parma – patria dei suoi
progenitori Terzi, del bisavolo Giacomo o Jacopo e del prozio Ottobono – allora
assediata dai Francesi. Vi andò di rincalzo alla assai problematica, ma infine vittoriosa,
difesa opposta da Francesco Guicciardini, pontificio commissario e governatore della
città, che, nella sua celebre Relazione, loda la prudenza e il valore di Ludovico.352
Poche settimane dopo la vittoria di Parma, Ludovico dovette occuparsi dei
conflitti che nell’altra sua patria, Fermo, opponevano la sua famiglia a quella dei
Brancadoro. Trovò un efficace sostegno nell’oratoria di Baldassar Castiglione, al tempo
ambasciatore a Roma del marchese di Mantova, che intervenne a suo favore, e della sua
famiglia fermana, presso la corte pontificia e il collegio cardinalizio. In un dispaccio
spedito a Federico II Gonzaga il 25 marzo 1522, Castiglione poteva riferire: «Jeri fui in
Congregazione di questi Signori Cardinali, e parlai della cosa del Magnifico M.
Ludovico da Fermo per parte di V. E. pregando Lor Signorie Reverendiss., che
volessero fare tal provvisione, che Girolamo Brancadoro si levasse dal paese di Fermo
per onore della Sede Apostolica e per satisfazione di V. E. e servizio dell’impresa: non
parendo a Lei ragionevole il vietare al prefato M. Ludovico di venire a guardar le cose
sue, e a difender, che gli amici e parenti sui non sieno maltrattati da questo fuoruscito».
E Castiglione aggiungeva: «Ricordai ancora le opere fatte da questo M. Ludovico in
questa impresa per servizio della Sede Apostolica, come fu la difesa di Parma, e tutto
quello, ch’io seppi dire a tal proposito. Questi Sigg. mi dissero che farebbono
provvisione opportuna: io non mancherò di sollecitarli».353
L’intervento di Castiglione sembra essere stato determinante, poiché alcune
settimane dopo Ludovico venne richiesto dai Priori a Fermo. La cronaca del 26 giugno
così narra: «Lodovico Guerrieri patrizio fermano […] si presenta alla Cernita,
conciossiachè i Priori l’avessero richiamato in patria. Alla presenza de’ Savii egli narra
essere stato lontano ventisei anni: avere servito i Principi di Mantova, e non esser prima
tornato per le discordie, che laceravano la patria, alla quale esso intendeva essere
obbediente figliuolo. Dopo ciò si stabili pace generale, e specialmente fra i Guerrieri, e i
Brancadoro».354 Tornato a Mantova, sempre nel 1522, venne nominato, da Federico II
Gonzaga, suo luogotenente generale.
Ludovico aveva sposato Violante da Correggio.355 Da quel matrimonio nacque
Isabella, maritata a Galeazzo Canossa, di Verona, riconosciuta in un famoso ritratto,
opera di Paolo Veronese, eseguito nel 1547-48 (Musée du Louvre). In data 10 gennaio
Cfr. C. D’ARCO, Annotazioni genealogiche di famiglie mantovane, cit., p. 391.
Meno entusiasta il giudizio sulla truppa: «Vi erano ancora entrati due di innanzi cinquanta
uomini d’arme del marchese di Mantova, gente assai inutile, di chi era capo messer Ludovico
da Fermo, quale si portò prudentemente e valorosamente» (F. GUICCIARDINI, Relazione della
difesa di Parma, in IDEM, Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 54).
353 Cfr. P. SERASSI, Lettere del conte Baldessar Castiglione …, I, Padova 1769, p. 17.
354 Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit., p. 55.
355 «Madonna Violante moglier de messer Ludovico Guerriero» morì nel settembre 1510. Avvolta
nella tunica di terziaria, venne sepolta in San Domenico a Mantova. Lo si apprende da una
lettera indirizzata il 30 di quel mese dall’amica Maria Della Torre al marchese Federico II
Gonzaga, in quei giorni a Roma. Cfr. Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b.
2479, c. 100.
351
352
161
1526, il marchese di Mantova donava al suo luogotenente il turrito palazzo della
Gabbia, già proprietà dei Bonacolsi, che si erge nella contrada mantovana dell’Aquila.356
Defunto Ludovico nel 1530, questo edificio e la carica di maestro delle stalle
passarono in ‘eredità’ al fratello minore Vincenzo, già capitano, dal 1521, del Lago di
Mantova. Nel 1544, dopo l’acquisizione del Monferrato da parte di Federico II
Gonzaga,357 Vincenzo fu deputato al governo di quelle terre e s’insediò come
governatore del castello di Casale. Con la firma della pace di Cateau-Cambrésis, egli
venne incaricato di missioni diplomatiche, concernenti l’assetto dei territori monferrini,
prima a Parigi, nel 1559, e quindi a Milano, nel 1562. Mori nell’aprile del 1563 e venne
sepolto, come il fratello, nella chiesa di San Domenico a Mantova. 358 Vincenzo aveva
sposato Francesca Soardi, figlia di Giacomo, nobile di Bergamo, che gli diede quattro
figli.
I Guerrieri di Mantova
Con Vincenzo proseguì a Mantova la discendenza dei Guerrieri Gonzaga. Tra le
figure eminenti della casata emerge la figura sette-ottocentesca del cardinale Cesare.
Dotato di vaste competenze giuridico-finanziarie, il cardinale segretario di stato Ercole
Consalvi lo volle per ciò accanto a sé come coadiutore nella sua opera di restaurazione e
di riforma amministrativa dello Stato della Chiesa. Oltre a presiedere la Congregazione
del Censo, Cesare Guerrieri Gonzaga fu membro di quella del Concilio, della
Economica, del Buon Governo, della Fabbrica di S. Pietro, e di altre minori. Nel 182627 il Guerrieri fu camerlengo del S. Collegio e nel maggio 1828 venne candidato alla
Segreteria di Stato. Ma la sua carriera doveva concludersi qui. Salito al soglio pontificio
Pio VIII con il conclave del 1829, l’ormai ottantenne cardinale Cesare Guerrieri
Gonzaga si scoprì improvvisamente emarginato e abbandonò allora tutti gli incarichi
più gravosi. Si spense a Roma il 5 febbraio 1832.359
A coronare, dunque, le due casate fiorite dal lignaggio dei Terzi di Parma, quella
dei Terzi di Sissa e quella dei Terzi di Fermo (qui subito ribattezzati Guerrieri e quindi,
passando nel Mantovano, Guerrieri Gonzaga), furono, agli inizi del XIX secolo e quasi
in sincronia, due cardinali: per il ramo di Sissa, Giovanni Francesco Marazzani Visconti
(1755-1828); per il ramo di Fermo con propaggini a Mantova, Cesare Guerrieri
Gonzaga (1749-1832), camerlengo del Sacro collegio cardinalizio.
Camerlengo, quantunque laico, era anche la più illustre e vigorosa personalità
espressa dall’originaria casata di Parma al termine della sua parabola: Niccolò Terzi il
Guerriero, che ricoprì per oltre quattro lustri quell’importante ufficio presso la corte dei
Gonzaga, in un periodo in cui Mantova si trovò al centro della Cristianità.
La città infatti, nel 1459-1460, divenne sede del Concilio, ovvero Dieta, che il
papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, aveva convocato per lanciare contro Turchi e
musulmani, invasori d’Europa, l’ultima crociata: quella che mai dispiegò le vele.
L’attuale via Cavour, alla porta di piazza Sordello, poco distante dal Palazzo Ducale.
Dopo il matrimonio con Margherita Paleologo, Federico II Gonzaga aveva acquisito nel 1536
il Marchesato di Monferrato.
358 Di quella chiesa, spianata nel 1925, oggi rimane soltanto il campanile. Essa si ergeva nei pressi
della Loggia di Giulio Romano, alle Pescherie.
359 Fu sempre molto legato ad Orvieto, dove era spesso ospitato dalla sorella Drusilla, sposa del
marchese Gualtieri. Beneficò la città con notevoli elargizioni destinate al restauro di
monumenti e particolarmente per la costruzione del ponte «dell’Adunata» sul fiume Paglia.
356
357
162
TAVOLE
GENEALOGICHE
A. Dai Cornazzano ai Terzi di Parma
B. I Terzi di Sissa
C. I Terzi di Fermo, poi Guerrieri
A - Dai Cornazzano ai Terzi di Parma
A1. Oddone I
É menzionato in due atti coevi che Ireneo Affò data attorno al 1015, con cui il vescovo Enrico, immediato successore di Sigefredo II sulla cattedra
episcopale di Parma, riconferma in tutte le sue proprietà il convento di San Paolo. In entrambi questi documenti compare la sequenza dei nomi di
appartenenza salica «Gerardus filius Oddonis» secondo una struttura parentale reiterante, nelle filiazioni, i nomi propri ereditati dagli avi; in questa
peculiare fattispecie per i da Cornazzano. Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi dei sec. X-XI, II, Dall’anno 1001 all’anno 1100, Parma 1928,
www.yumpu.com/la/document/view/13992403/d-drei-vol-ii-itinerari-medievali, nn. XVIII, XIX, p. 34.
B1. Gandolfo
Nel documento datato Fornovo 24 ottobre 1045 si trovano elencati Gandolfo (Gandulfus filius quondam Obdoni) assieme ai nipoti Gerardo II e
Oddone II, figli del fu Gerardo I (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi) vassalli di Bonifacio III di Canossa. Cfr. G. DREI,
Le carte degli archivi parmensi, cit, n. LXXVI, pp. 125-126. Gandulfus da Cornazano il 15 maggio 1076 è testimone all’atto di donazione da parte di
Giulia, vedova di Arcoino, a favore del Capitolo di Santa Maria di Parma ove è arcidiacono suo figlio Giovanni. Cfr. ivi, n. CXXXXI, p. 211.
C1. Lanfranco
É chierico e canonico della cattedrale di Santa Maria di Parma. In un documento del 2 gennaio 1090 egli dichiara il suo «consensum et
volumtatem Lanfranci clerici et canonici predicte sanctae Parmensis aecclesiae et filius Gandulfi de Cornazano». Cfr. G. DREI, Le carte degli
archivi parmensi, cit., n. CXLVII, pp. 233-234.
B2. Gerardo I. Risulta defunto nel 1045.
C1. Oddone II
Vassallo di Bonifacio III di Canossa assieme al fratello Gerardo II nel documento datato Fornovo 24 ottobre 1045 (Girardus seu Obdo germanis
bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi). Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, n. LXXVI, cit., pp. 125-126. Presente al placito tenuto il 21
novembre 1046 nel Palazzo vescovile di Parma da Teutmario, o Dietmar, giudice imperiale, vescovo di Coira, messo dell’imperatore Enrico
III. Cfr. ivi, n. LXXXII, p. 135. Il 18 giugno 1051 Odo, ovvero Oddone da Cornazzano, si trova a Spilamberto, menzionato tra i vassalli al
seguito di Bonifacio III di Canossa, che presiede un placito a favore di Cadalo vescovo di Parma. Nel febbraio 1055 Gunterio e Olderico,
messi imperiali, sentenziano contro Oddo qui dicitur de Cornazano a favore dei diritti di proprietà dei canonici di Santa Maria. Cfr. C. MANARESI
(a cura di), I placiti del ”Regnum Italiae”, III, I, Roma 1960, n. 392, p. 210. Ancora Odo de Cornazzano rende testimonianza, a Marengo il 18
agosto 1073, per la contessa Beatrice e la figlia Matilde di Canossa. Il 9 dicembre 1081, con il pronipote Gerardo, testimonia per la contessa
Matilde a Reggio.
164
C2. Gerardo II
Citato come vassallo di Bonifacio III di Canossa assieme al fratello Oddone II in un atto datato Fornovo 24 ottobre 1045 (Girardus seu Obdo
germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi). Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, cit., n. LXXVI, pp. 125-126. Il 9 dicembre 1081
testimonia per la contessa Matilde a Reggio.
D1. Oddone III, figlio del quondam Gerardi de Cornazano, il 13 agosto 1136 con proprio iudicatum stabilisce in base alla legge salica che, nel caso morisse
senza discendenza maschile, la metà dei suoi possedimenti nella Contea di Parma passi ai suoi vassalli.
D2. Gerardo III, o Gherardo
Affò lo chiama pronipote di Oddone (II). Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, Parma 1793, p. 104. È testimone in veste di vassallo per
Matilde di Canossa nel 1096 a Piadena e nel 1099 a Lucca e quindi, il 29 marzo 1101, in un atto rogato a Guastalla. Dodici anni dopo, nel
1113, Gerardo è al seguito della contessa a Pegognaga. L’8 aprile 1116 Girardus de Cornazano è menzionato tra gli eminenti cives parmenses
presenti al placito tenuto dall’imperatore Enrico V a Reggio. A maggio 1116 si trova, quale vassallo, all’insediamento dell’imperatore
Enrico V nel castello di Governolo per l’acquisizione dell’eredità di Matilde di Canossa. Gerardo nel 1140 trasferisce la propria famiglia a
Piacenza dando origine a un nuovo ramo della casata da Cornazzano. «Sotto il 1140 vediamo allettato da’ Piacentini con donativi
Gherardo da Cornazzano a stabilirsi nella loro patria, dove gli offersero casa e ricchezze»: ivi, pp. 178-179.
…….
…….
F1. Gerardo IV
Alla fine del 1161, quale capitano imperiale, comanda le forze in armi di Parma portate all’assedio di Milano, affiancando le milizie
comunali lombarde al seguito di Federico I Barbarossa. Cfr. Acerbi Morenae historia, a cura di F. Güterbock, in Monumenta Germaniae
Historica, Scriptores rerum Germanicarum, n.s., VII, Berolini 1930, p. 155. Nel marzo 1162 sempre Gerardo IV, ovvero Girardus de
Cornazano, è designato tra i capitani che raccolsero la resa dei Milanesi. Secondo Corio, è delegato a ricevere il giuramento di
sottomissione degli «habitatori» di Porta Romana. Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, Venezia 1565, p. 119. Tre mesi più tardi, il 24
giugno 1162, viene convocato tra i principali testimoni del placito tenuto dal vicario imperiale Guibertus Bornado in Castrum Macreti.
Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi del secolo XII, III, Parma 1950, n. 280, p. 229. Il 16 ottobre 1176 una sentenza del podestà
di Parma lo condanna a restituire ai canonici della cattedrale di Parma i beni dei quali si era impossessato. Cfr. ivi, n. 465, p. 370.
Nel 1178 ancora Gerardus de Cornazano è segnalato tra i seguaci di Federico Barbarossa de domo Comitissae Matildis. Cfr. N. TACOLI,
Memorie storiche della città di Reggio di Lombardia, 3 voll., Reggio Emilia 1741-1769, II, p. 179. Compare quale vassallo della Chiesa di
Parma in un atto perfezionato tra il 1188 e il 1193 in cui viene documentato il giuramento di fedeltà prestato il 13 dicembre 1192.
Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, cit., III, n. 77a, p. 734.
165
G1. Manfredo († 1247) ∞ Auda Tavernieri o Tabernario
«Nacque da Gerardo (IV) in data di poco posteriore al 1180». Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Manfredo da, in Dizionario
Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, www.treccani.it/enciclopedia/manfredo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/.
Il Salimbene lo ricorda nella sua Cronaca come armigero di solida sapienza giuridica e religiosa. Il suo nome compare in due
documenti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo IV da Cornazzano, accanto a quelli dei fratelli Oddone IV e
Gerardo V. Il notaio registra la vendita a loro vassalli di possedimenti fondiari che questi habebant et tenebant già in
precedenza, a Pizzo e a San Secondo, precisando che Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et refutationem. Cfr. G.
DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605. Nel 1224 è podestà di Parma e quindi di altre città padane e
toscane. Muore a Borghetto sul Taro il 16 giugno 1247 in uno scontro fra filoimperiali e fuorusciti parmensi. Cfr. I. AFFÒ,
Storia della città di Parma, III, Parma 1793, p. 197.
G2. Oddone IV o Oddo de Cornazano
Menzionato come testimone in sentenze pronunciate il 16 dicembre 1181 e il 15 aprile 1196 da «Macagnanus iudex,
advocatus» dei consoli di Parma. Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, cit., III, n. 154a, p. 783. Compare poi, vassallo
della Chiesa di Parma, in un atto perfezionato tra il 1188 e il 1193 in cui viene documentato il giuramento di fedeltà prestato
il 13 luglio 1188. Cfr. ivi, n. 77a, p. 734; e quindi è registrato in due atti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo
IV da Cornazzano, accanto a quello dei fratelli. Cfr. ivi, n. 831, p. 605.
G3. Gerardo V
Il suo nome compare in due atti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo IV da Cornazzano, accanto a quelli dei
fratelli Manfredo e Oddone IV. Il notaio registra la vendita a loro vassalli di possedimenti fondiari che questi «habebant et
tenebant» già in precedenza, a Pizzo e a San Secondo, precisando che «Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et
refutationem». Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605.
……….……………………………………………………………………………………………………………………………………….
F2. Bernardo da Cornazzano o Gherardo o Gherardo Trino, Gherardo Terzo o ancora Gerardo Terzo Cornazano
Nato tra il 1160 e il 1170. Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983,
http://www.treccani.it/enciclopedia/bernardo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/. É podestà di Parma nel 1192. Nel 1213 è
testimone alla pace sottoscritta fra il partito imperiale di Ferrara e gli Este. Nel 1216 è podestà a Reggio; nel 1218 a Cremona; nel
1224 a Pavia. Il 10 marzo 1225 è iudex a Brescia; nel 1226 podestà a Reggio; nel 1227 a Modena. Il 28 settembre 1229 firmò per la
città di Parma, l’atto con cui il vescovo di Reggio Niccolò fissava la tregua fra Modena e Bologna.
166
G1. Guido I Tercius. Figlio di Gherardo o Bernardo o Gerardo o ancora, come scrive Angeli: «Gerardo Terzo Cornazano, che secondo
il Campo, fu podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese / Guido, che fu Capitano dello ‘mperatore». Cfr. B. ANGELI,
Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 463.
H1. Filippo o Filippone, de Tertiis. Destinatario, con il fratello Guido, di benefici nel diploma del 7 dicembre 1329 dell’imperatore
Ludovico IV il Bavaro, trascritto da I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, Parma 1795, pp. 370-371: «Nobilibus viris
Guidoni, et Filippono fratibus de Tertiis Civibus Civitatis Parme».
H2. Guido II o Guidone de Tertiis
I1. Giovanna († 1401). Vedova del marchese Guglielmo Pallavicini. Testò l’8 agosto 1392. Rogito citato da E. Scarabelli Zunti,
Tavole genealogiche della famiglia Terzi, ms., sec. XIX, Archivio di Stato di Parma, Comune, Raccolta Zunti, b. 4350.
I2. Ghirardino I. «Abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli concedesse una torre
caduta in rovina, che ivi sorgeva in riva al Po». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105, n.
126.
J1. Terzo. Beneficia di un legato, stabilito l’8 agosto 1392, dalla zia, Giovanna Terzi, (v. L1), vedova del marchese Guglielmo
Pallavicino.
…
K1. Matteo
L1. Gherardino II. Capitano d’armi al servizio del duca di Milano, premiato assieme al fratello Beltramino con il feudo
di Torricella M. DAVERIO, Memorie sulla storia dell’ex ducato di Milano, Milano 1804, p. 169. ∞ settembre 1444
Polissena, figlia di Alessandro Lisca, mantovano.
M1. Elena ∞ nel 1474 il nobile veronese Ludovico Uberti.
L2. Beltramino, Capitano d’armi al servizio del duca di Milano, premiato assieme al fratello Gherardino con il feudo
di Torricella.
I3. Giberto I, conte di Sissa e Torricella (v. Tav. B - I Terzi di Sissa)
I4. Niccolò il Vecchio (1327 - Bergamo, gennaio 1398) ∞ Margarita († 10 agosto 1405). Nicholao filio quondam nobilis Guidonis
capitanei de Terciis de Cornazzano. Condottiero al servizio dei Visconti. Il 19 agosto 1387, con diploma datato da
Norimberga, l’imperatore Venceslao di Boemia concesse a Niccolò il titolo comitale per le giurisdizioni dei Terzi
nel Parmense, a Tizzano e Sissa con altre minori nel Piacentino e nel Reggiano. Fu capitano del popolo a
Bergamo, Brescia, Reggio, e Verona. Nel 1393 gli venne concessa la cittadinanza della Repubblica di Venezia,
privilegio conferito a tutti gli eredi.
167
J1. Ottobono, o Ottobuono. Condottiero, signore di Parma e Reggio, marchese di Borgo San Donnino, conte di Tizzano e
Castelnuovo († Rubiera, 27 maggio 1409, assassinato). Sposò in prime nozze Orsina (defunta il 28 agosto 1405)
di famiglia ignota. Nel dicembre 1405 passò a nuove nozze con Francesca da Fogliano, figlia di Carlo e di
Isotta Visconti, madre di Niccolò Carlo, di Caterina e di Margherita. Da Cecilia Della Pergola, non soluta,
Ottobono ebbe il figlio naturale Niccolò, divenuto celebre come il Guerriero.
K1. Jacopo, Jacobus Tertio de Parma armiger. Nel 1412 combatteva per la Repubblica di Venezia, presso Feltre, contro gli
Ungheresi, arruolato nella cavalleria di Ruggiero da Perugia. Cfr. G. VERCI, Storia della marca trivigiana e
veronese, XIX, Venezia 1791, pp. 79-80.
K2. Giorgio († ante 1447). ∞ 1408 Palma, figlia del condottiero Ugolotto Biancardo. Cfr. A. Pezzana, Storia della città di
Parma, II, cit., p. 102. Sposa poi Caterina di Canossa, di Guidone. Rimasta vedova, il 3 settembre 1485
Caterina dispose per testamento di essere sepolta nella cappella della famiglia Terzi, posta nella chiesa del
convento di San Francesco dei frati minori di Parma. Cfr. G. PLESSI, Guida alla documentazione francescana in
Emilia-Romagna: Parma e Piacenza, Bologna 1994, p. 474.
L1. Niccolò ∞ a Mantova, nel 1456, Lucia di Cervato Secco.
L2. Ginevra ∞ Pierpaolo Cattabriga, condottiero di Francesco Sforza; assassinato da Jacopo Rossi, che era amante
della consorte, venne sepolto nella cappella dei Terzi nella chiesa dei Frati Minori a Parma. Ginevra
fu infatti protagonista di una tragica vicenda: «Tra i misfatti del figliuolo Jacopo gravissimo giudica
Pier Maria quello di tenersi a concubina, con intendimento d’ingiuriare il proprio genitore, Ginevra
di q. Giorgio d’Ottone Terzi, famiglia nimicissima ai Rossi, Ginevra femmina spregevole cui avea
Jacopo pur conosciuto carnalmente mentre viveva il marito di lei Pierpaolo Cattabrighe fatto
uccidere da Jacopo medesimo» (A. PEZZANA, Storia della città di Parma, IV, cit., p. 310).
M1. Barbara. ∞ Daniele di Niccolò Da Palù «strenuo guerriero». «Abitava nella vicinanza di S. Paolo pro burgo
plazolae. Essa fece testamento a’ 15 luglio 1486, ed ordinò d’esser sepolta nella stessa tomba del
padre. Barbara era stata negli anni precedenti istituita erede della spettabile Caterina Canossa (Rogiti
di Antonio Boroni del dì 15 luglio e 3 novembre 1486 nell’Arch. pub.)» (ibidem).
K3. Niccolò il Guerriero, Nicolao de Terciis Parmensi, conte di Tizzano e Castelnuovo († a Mantova, intorno al 1370).
Sposa Ludovica, della quale si ignora la famiglia. Figlio naturale di Ottobono e di Cecilia Della Pergola,
viene legittimato il 25 novembre 1405.
L1. Giovan Francesco. Uomo d’armi, accompagnò il padre nelle sue ultime imprese militari al sevizio del Visconti
e della Repubblica Ambrosiana, ma soprattutto nella difesa dei beni feudali. Dopo l’avvento di
Francesco Sforza, segue Niccolò nell’esilio di Mantova.
168
L2. Gaspare. Come il fratello, affiancò il padre al sevizio del Visconti e nella tutela dei feudi familiari, in particolare
quello di Colorno. Seguì il Guerriero nell’esilio mantovano.
K4. Niccolò Carlo (* 6 dicembre 1406). Fatto proclamare signore di Parma e Reggio dallo zio Giacomo il 28 maggio
1409, l’indomani dell’uccisione di Ottobono, dopo venti giorni viene deposto con l’insediamento di Niccolò
III d’Este. Muore ancora fanciullo, probabilmente nel feudo legnanese di Ottobono, a Villa Bartolomea,
dove ha seguito in esilio la madre.
K5. Caterina (* 1407, da Francesca da Fogliano). É la prima moglie di Franchino Castiglioni, giureconsulto, consigliere,
guardasigilli maggiore e diplomatico, per un trentennio, del duca Giovan Filippo Visconti.
K6. Margherita (* 1408, da Francesca da Fogliano) ∞ Marugolato (o, alla veneta, Marugolà, contrazione di Marco
Regolo), primogenito del precedente matrimonio di Ludovico di San Bonifacio.
J2. Giacomo
o Jacopo, conte di Tizzano e Castelnuovo († Fiorenzuola d’Arda, inizi ottobre 1409, assassinato). Laureato in
utroque iure all’Università di Pavia, nel 1395 vi ottiene una cattedra. Cfr. G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia
della sua patria, V, II, Pavia, 1836, p. 195. Giurisperito alla corte del duca di Milano, dopo esser stato governatore
di Casalmaggiore, nel 1400 era podestà a Lodi e nel 1401 a Vicenza. «Fu uno dei deputati a portare il
baldacchino di panno d’oro sopra il morto corpo di Giovan Galeazzo Duca di Milano». Conclude la sua vita
affiancando come primo consigliere e strenuo compagno d’armi il fratello maggiore Ottobono, signore di Parma
e Reggio.
K1. Giovan Filippo (v. Tavola C - Terzi di Fermo)
J3. Giovanni, conte di Tizzano e Castelnuovo († Castell’Arquato, fine ottobre 1409) ∞ nel 1405, Caterina Scotti di
Francesco, che gli porta in dote 1000 fiorini. É capitano d’armi. Cfr. L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di
Parma, Piacenza e Guastalla, II, Piacenza 1858 (stampa 1846), p. 347. Imprigionato dal cognato Alberto Scotti,
viene da questi avvelenato nell’ottobre 1409, cinque mesi dopo l’uccisione del fratello Ottobono. Cfr. A.
PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 132-133.
169
Genealogia della famiglia da Cornazzano - Terzi
come riportata da Edoari Da Erba, Luca Contile, Bonaventura Angeli, e Ireneo Affò.
A1. Pietro di Cornazzani. Bonaventura Angeli, che aveva letto le memorie di Da Erba, lo fa discendere da Gerardo: «di questo albero fu Gerardo [...] di cui
ne nacque Pietro che fiorì intorno l’anno 1140 [ 1240 ? ] [...] questi ordinò, che la famiglia del suo ramo sì chiamasse dal nome
suo e mutando il nome della gentilità, diversificò l’arma anchora, levando dall’antico i corni». B. ANGELI, Historia della città di
Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462. Affò, citando le Antichità et Nobiltà di Cornazzano di Parma di Da Erba: «Et
da questo generosissimo Capitanio Pietro n’uscì con felicissimo successo un primo figliuolo qual fu chiamato Primo e fu
Capitanio strenuo dopo il padre delle genti d’arme di Federico 2.° Imperatore; et un secondo qual fu chiamato Secondo, et fu
per sua virtù elletto dal Popolo Capitanio de la militia de la Città; et un terzo qual fu chiamato Terzo, e fu condottiero de le genti
d’arme di Papa Innocentio 4.°, et da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre Famiglia di Terzi di Parma». Cfr. I.
AFFÒ, A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e continuate da Angelo Pezzana, VI, II, Parma
1827, p. 330.
B1. Primo. «Conciosia che Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figluolo e chiamollo Primo che fu capitano invitto di
Federigo lmperadore». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli academici affidati et con le
interpretationi et croniche, Pavia 1574, p. 109.
B2. Secondo. «Pietro Cornazzano [...] hebbe anco un’altro figliuolo e lo fece nominare Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia nella
sua città». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento, cit., p. 109.
B3. Terzo (dovrebbe corrispondere a F2. Bernardo da Cornazzano o Gherardo: vedi sopra). «Fu nominato Terzo il qual ſu condottiero
delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii
de Cornazzani figliuolo di un nomato Guidone». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento, cit., p. 109. Di lui scrive Pezzana: «Fu chiamato
Terzo, e fu condottiero de le genti d’arme di Papa Innocentio 4.°, et da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre
Famiglia di Terzi di Parma». Cfr. I. AFFÒ, A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e
continuate da Angelo Pezzana, VI, II, 1827, p. 330. E Angeli: «Fu egli padre di Gerardo Terzo Cornazano, che secondo il Campo, fu
podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese Guido, che fu Capitano dello ‘mperatore, e da lui Nicolò che condottiere di
gente servì Bernabò nella guerra ch’egli ebbe contra Genovesi. Fu fatto conte di Tizzano, militò sotto Giovan Galeazzo Duca di
Milano». Cfr. B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462.
170
B–I
Terzi di Sissa
A1. Giberto I, conte di Sissa e Torricella († 1386)
Capostipite dei Terzi di Sissa. A lui e ai suoi discendenti nel 1386 Gian Galeazzo Visconti concesse in feudo Sissa unitamente a Trecasali,
garantendo così il privilegio con immunità ed esenzioni.
B1. Antonio, capitano d’armi
Nel settembre 1402, ai funerali di Gian Galeazzo Visconti, Antonio era tra gli otto nobili lombardi che ebbero l’onore di recarne a
spalla il feretro. Quando il cugino Ottobono fu assassinato, nel maggio 1409, Antonio e il nipote Giberto II si affrettarono ad
accordarsi con Niccolò III d’Este.
B2. Guido I, capitano d’armi
Il 13 novembre 1387, contro i Carraresi a Padova, «nella fazione di Pieve di Sacco trovossi il Parmigiano Guido Terzi, e convien dire
ch’ei pugnasse con somma prodezza, poichè ivi fu creato Cavaliere»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 186, n. 209.
C1. Costanza
Risulta beneficiaria di un legato, subordinato alla condizione che si facessea monaca, nel testamento rogato l’8 agosto 1392
della prozia Giovanna, vedova del marchese Guglielmo Pallavicino.
C2. Giberto II († 1413)
D1. Niccolò
D2. Guido II († 1459) ∞ Paola dei Lanfranchi
Nel 1413, morto il padre Giberto II, viene inscritto come signore di Sissa nel registro delle investiture feudali del Ducato di
Milano. Dopo che la Repubblica di Venezia, nel 1422, ha occupato Sissa, viene nominato governatore del castello. Il 17
giugno 1450 il nuovo duca di Milano, Francesco Sforza, decide l’erezione in Contea delle terre di Belvedere e di Sissa con le
ville annesse e crea conte Guido II, presente all’atto solenne, e tutti i suoi discendenti.
«Per maggiore dignità di essa Contea il Duca diede al Terzi lo stemma consistente in un Cane bianco sur un monte con una
palma nella destra zampa ed un cartello colle parole Tibi soli»: «unum Canem album super uno monte existentem cum palma una in
grampha dextera cum brevi uno cum litteris dicentibus: TIBI SOLI, cum cazia una scopino moralia in campo caelestro et viridi habenti super
adamantcs tres simul connexos» Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 41 nota.
171
E1. Panfilo
Morto Guido II agli inizi del 1459, la vedova Paola dei Lanfranchi rivolge istanza a Francesco Sforza a tutela dei figli
Pamfilo e Giammaria, per la parte loro spettante dell’investitura dei feudi di Belvedere e di Sissa fatta al padre e ai suoi
discendenti nel 1450. La nuova investitura virne concessa il 12 aprile da Cicco Simonetta, quale mandatario e
procuratore del duca di Milano. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 190.
E2. Giammaria
F1. Giovan Francesco
F2. Panfilo
D3. Giberto III ∞ Chiara Pallavicino
Il 22 ottobre 1440 Filippo Maria Visconti investe del feudo di Sissa e delle ville dipendenti i fratelli Giberto III, Niccolò e
Guido II Terzi. Un anno dopo, nel giugno 1451, il duca di Milano concede ai nipoti di Guido II, figli di Giberto III, i diritti
sopra una terza parte di Sissa e una metà di Belvedere. Un’altra terza parte viene riservata al fratello di Guido e Giberto, il
nobile Niccolò. Il 27 novembre 1441 vengono investiti dei feudi di Belvedere, Vezzano, Moragnano, Lalatta, Fontanafredda,
Triviglio ed Antignola, tolti e separati dalla giurisdizione di Parma. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 454
nota.
E1. Giovan Maria
E2. Niccolò
E3. Carlo
E4. Filippo
F1. Giberto IV
E5. Antonio
E6. Apollonio
E7. Ottobuono di Sissa. Nel 1532 uccide il pronipote Giovan Pietro, figlio di Francesco.
F1. Paride
F2. Ettore
F3. Lazzarino. Figlio naturale, nel 1456 chiede dispensa al vescovo di Parma per accedere agli ordini minori.
E8. Panfilo
E9. Ludovico ∞ Caterina degli Arcelli, di Piacenza
F1. Guido III
F2. Luca
172
F3. Francesco I († 6 luglio 1495, alla battaglia di Fornovo) ∞ Taddea de’ Roberti di Scipione. Francesco fu ducalis Squadrerius
di Ludovico il Moro
G1. Caterina († 1495)
G2. Paolo
G3. Giampietro I († 1532) ∞ 1. Elisabetta dei Bernieri, di Antonio parmense, 2. Isabella Benadusi di Scipione
mantovano. Vittima di un complotto, viene assassinato dal prozio Ottobuono.
H1. Giuditta
H2. Claudia
H3. Francesco II (* 1505) ∞ il 26 ottobre 1529, Isotta di Nogarola figlia del conte Girolamo.
I1. Giampietro II
I2. Anton Maria I ∞ Flavia Appiani d’Aragona (* 1539) di Antonio.
J1. Francesco III († 1590)
J2. Luigi ∞ il 12 luglio 1623, Maria Cavalli, figlia del conte Paolo Camillo.
K1. Alessandro († 1630)
K1. Francesco. Minore conventuale
K3. Maria († 25 febbraio 1658) ∞ Manuccio Visdomini .
K4. Lucilla
K5. Ludovico II († 1639) ∞ Lucrezia Scoffoni.
L1. Ottavio
L2. Angelica Corona
L3. Niccolò
L4. Anton Maria II (1629 - 20 luglio 1693) ∞ Anna Maria Farnese. Gentiluomo alla corte del duca
Ranuccio II Farnese.
M1. Francesca di S. Alessio. Monaca.
M2. Anna Maria di S. Francesco Saverio. Monaca.
M3. Maria Isabella, al secolo Lucrezia. Monaca.
M4. Maria Costanza. Monaca.
M5. Lucilla
M6. Maria ∞ conte Orazio della Somaglia.
M7. Maria Vittoria, al secolo Fortunata. Monaca.
M8. Giulia
173
M9. Gherardo (1655 - 5 marzo 1729) ∞ 1. Maria Teresa Cantelli († 1687); 2. Anna Maria Maino
(1667 - 1714).
N1. Francesco Maria († 17 dicembre 1758) ∞ Anna Maria Sanvitale, dama della duchessa
Enrichetta d’Este. Senza discendenza maschile, è l’ultimo conte di Sissa e Belvedere.
O1. Corona ∞ marchese Bonifacio Rangoni, di Modena
O2. Costanza ∞ conte Antonio Marazzani Visconti, di Piacenza. Dal loro matrimonio
nacque Giovanni Francesco Marazzani Visconti, creato cardinale nel 1826.
_________________________________________________________
Con la morte del conte Francesco Maria, il 17 dicembre del 1758, la casata dei Terzi di Sissa
si estingue confluendo nelle famiglie dei Rangoni di Modena e dei Marazzani Visconti di Piacenza.
Il feudo di Sissa venne devoluto alla Camera Ducale di Parma.
174
C–I
Terzi di Fermo, poi Guerrieri
Giacomo o Jacopo Terzi, figlio di Niccolò il Vecchio, fratello di Ottobono e Giovanni († settembre 1409).
A1. Giovan Filippo Terzi o Gioan Filippo o Gianfilippo de Giacomo ∞ Andreana dei Verrieri di Sant’Elpidio, signora del Castellano e della Valle.
Nel 1431, é podestà a Osimo, nella Marca anconitana. Trapiantato a Fermo nel 1445, dopo aver combattuto a difesa della città agli ordini
del cugino Niccolò Terzi il Guerriero, contro Alessandro Sforza. Nel 1453, podestà di Norcia.
B1. Alessandro ∞ Lodovica de’ Paccaroni.
B2. Giovanni Battista. Capitano d’armi. Nel 1515 tenta d’impadronirsi di Fermo finendo sconfitto ed esiliato. Effemeridi della città di Fermo e suo
antico Stato, Loreto 1846, pp. 68-69
B3. Giacomo o Giacopo. Capitano d’armi, è tra i priori fermani.
C1. Pier Tommaso
D1. Guerriero Guerrieri. Nel 1500 si trasferisce a Sant’Elpidio.
E1. Camillo. Compì gli studi di diritto a Padova, Bologna e Ferrara, città dove dà vita «in ragguardevole prole» a un nuovo ramo della
casata.
B4. Polonio o Apollonio. Rappresenta Fermo in ambascerie presso il pontefice Alessandro VI Borgia dal 1488 al 1492, quando viene inviato a
Osimo come podestà.
C1. Francesco. Capitano di ventura, si arruola nelle milizie francesi acquisendo fama di prode nella guerra contro gli Ugonotti .
B5. Giovanni Francesco.
Nell’anno 1503 « Francesco II Gonzaga, disgustato dai francesi, per i quali aveva combattuto, tornando dalla Sicilia fu magnificamente
ospitato dai Guerrieri a Fermo, memori dell’accoglienza ricevuta a Mantova da Nicolò. Francesco, gratissimo per l’ospitalità ricevuta,
chiese come avrebbe potuto contraccambiare. Giovanni Francesco Guerrieri rispose che nulla gli sarebbe stato più grato di quella che
esso signore pigliasse a servizio i suoi figlioli; così acconsentendovi il principe seco lui condusse in Mantova Gio. Battista, […] Vincenzo
Guerrieri». Cfr. Archivio di Stato di Mantova, Documenti patrii raccolti da Carlo d’Arco, n. 217, CARLO D’ARCO, Annotazioni genealogiche
di famiglie mantovane, sec. XIX, IV, p. 390.
C1. Giovanni Battista ∞ Eleonora Preti. A Mantova.
C2. Eleonora ∞ Cesare Gonzaga.
C3. Federico († agosto 1527), a Fermo.
175
C4. Ludovico, poi Ludovico Guerrieri Gonzaga († 1530) ∞ Violante da Correggio († settembre 1510). Nel 1496 Francesco II Gonzaga
lo conobbe a Offida nella Marca d’Ancona e lo volle con sé alla corte di Mantova. Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di
Fermo, cit., p. 225. Nel 1506, Francesco II Gonzaga decretò l’aggregazione di Ludovico alla propria casata con il privilegio del doppio
cognome Guerrieri Gonzaga. Nel 1514, Federico II Gonzaga gli riconobbe il rango di marchionalem consocium beneamatum. Nel dicembre
1521, Ludovico venne inviato dallo stesso Federico Gonzaga a Parma assediata dai Francesi, di rincalzo alla strenua resistenza di Francesco
Guicciardini, pontificio commissario e governatore della città. Cfr. F. GUICCIARDINI, Relazione della difesa di Parma, in IDEM, Opere, a cura di
V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 54. E nel 1522, sempre Federico II nominò Ludovico Guerrieri Gonzaga suo luogotenente
generale.
D1. Isabella ∞ Galeazzo Canossa, di Verona. È stata riconosciuta in un ritratto, opera di Paolo Veronese, eseguito nel 1547-48 (Musée
du Louvre).
C5. Vincenzo (1495-1563) ∞ 1554, Francesca Soardi. Nel 1516 era camerarius del marchese Francesco II Gonzaga; nel 1521 il successore
Federico II Gonzaga lo nominò capitano del Lago di Mantova, quindi divenne, nel 1532, prefetto della scuderia ducale. Nel 1544, dopo
l’acquisizione del Monferrato da parte di Federico II, Vincenzo fu deputato al governo di quelle terre e s’insediò come governatore del
castello di Casale. A seguito della firma della pace di Cateau-Cambrésis, egli venne incaricato di missioni diplomatiche concernenti
l’assetto dei territori monferrini a Parigi, nel 1559, e infine a Milano nel 1562. Morì nell’aprile 1563.
D1. Olimpia ∞ conte Massimiliano d’Arco
D2. Ludovico († 1589)
D3. Lucrezia ∞ Francesco, conte di Rho
D4. Violante ∞ 1. Claudio, conte di Arco; 2. Coffini
D5. Tullo, 1° conte di Mombello in Monferrato, ∞ 1. contessa Giulia Brembati; 2. marchesa Flavia Capilupi
E1. Alfonso († 1639), 2° marchese di Mombello ∞ 1. marchesa Anna Maria del Carretto; 2. Margherita Albini
E2. Giovanni Battista ∞ Maddalena Gavotti
E3. Felicita ∞ Luigi Gonzaga
E4. Francesca ∞ 1. Alessandro Canzi Boschetti Gonzaga; 2. Ercole Gonzaga
E5. Alessandro († 10 maggio 1630). Cavaliere di Calatrava e cavaliere di Malta.
E6. Ludovico. Cavaliere di Malta.
E7. Vincenzo (1573 ca. -1617). 2° conte e 1° marchese di Mombello, ∞ 1620 contessa Ippolita Guerrieri Gonzaga, figlia di
Giovanni Battista 2° conte di Conzano.
E8. Cesare († 21 febbraio 1656), 3° marchese di Mombello, primo ministro e consigliere ducale, ∞ 1. Giulia Caffini; 2. Contessa
Savina Trissino, di Vicenza
F1. Anna
176
F2. Bonaventura (1651 ca. - 26 novembre 1706). Cavaliere del Redentore, primicerio di S. Andrea a Mantova.
F3. Cesare Fortunato
F4. Tullo, 4° marchese di Mombello, ∞ nel 1678, Drusilla Visconti, vedova di Alessandro Grassi. Governatore di Casale.
G1. Costanzo (* 1702)
G2. Delia ∞ Francesco Strozzi di Spilimbergo
G3. Elena († 29 luglio 1759) ∞ 1709 Giovanni Picco Pastrone, conte di Cadorzo, (1685 - 1755)
G4. Alessandro († 1780), 5° marchese di Mombello ∞ Marianna Spolverini Dal Verme
H1. Girolamo (1717-1808), 6° marchese di Mombello, ∞ Cecilia Borromeo.
I1. Maria ∞ nel 1783, conte Andrea Simonetta. Dama di palazzo della duchessa di Parma dal 1785.
I2. Tullo († 1845), 7° e ultimo marchese di Mombello, ∞ Antonietta Monteggia. Podestà di Mantova.
I3. Alessandro
H2. Ludovico († 1790) ∞ Antonia de Numispak
I1. Francesca
I2. Barbara († 1807) ∞ conte Ignazio Caroni
I3. Marianna ∞ Gaetano Rovetta
H3. Anna († 1763) ∞ Francesco Zanardi Landi, patrizio di Piacenza
G5. Bonaventura (1691-1756) ∞ 1. Anna Salm zu Salm; 2. Lucrezia Valenti Gonzaga
H1. Cesare (1749-1832). Cardinale.
H2. Camillo (1751-1776)
H3. Bradamante (1765-1846) ∞ nel 1780, il conte Federico Rasponi, patrizio di Ravenna (1757 - 1835)
H4. Marianna (1753-1832) ∞ Anselmo Zanardi Landi, conte di Veano e patrizio di Piacenza
H5. Odoardo (1748–1820) ∞ Camilla Gallarati Scotti (1754 - 1817)
I1. Bonaventura (1778–1841) ∞ Maria Castiglioni (1782)
J1. Alessandro (1816-1897)
J2. Odoardo (1818-1877) ∞ Marianna Maffeis, ebbero tredici figli, dei quali sopravvissro:
K1. Giovanni Battista ∞ Lucy Pyke, con discendenza
K2. Tullo (1866–1902) ∞ Gemma de Gresti di San Leonardo (1876 - 1928)
L1. Anselmo (1895-1974) ∞ Emma Maraini (1902 - 1990)
M1 - Maria Gemma (1929)
M2 - Tullo (1931)
M3 - Carlo (1938), con discendenza
K3. Ludovico (1869-1900) ∞ Maria Luisa Beccaro
177
L1. Gianluigi (1898-1969) ∞ Emilia Vimercati Sanseverino
M1. Odoardo (1929-2015) ∞ Alessandra Marsigli Rossi Lombardi, con discendenza
M2. Giambattista (1933-2019)
M3. Alessandro (1938-2008)
K5. Alfonso (1818) ∞ Maria Mazzorin
K6. Beatrice (1876-1954) ∞ barone Leopoldo De Moll
K8. Ines (1877-1894)
J3. Alfonso (1820)
J4. Ranieri (1822)
I2. Lucrezia (1773) ∞ conte Bolognini
I3. Teresa (1781-1769) ∞ march. Giuseppe Cavriani
I4. Giovan Battista (1872-1856) Cavaliere di Malta
I5. Camillo (1785-1844) Cavaliere di Malta
I6. Marianna (1784 ) ∞ march. Gualterio
I7. Giovanna (1785) ∞ march. Girolamo Gardoni
I8. Giuseppe (1786-1789)
I9. Catterina (1788-1793)
I10. Rosa (1790-1791)
I11. Francesca (1792-1812 ) ∞ Scotti di Molfetta
I12. Maria (1794-1807 ) ∞ Odoardo Donesmondi
I13. Luigi (1783 -1854) ∞ Maria Rasponi (1799-1865)
J1. Camilla (1817-1897) ∞ Ippolito Gamba (1806-1890), con discendenza.
J2. Anselmo (1819-1879), politico mazziniano, nel 1848 al governo di Milano durante le “Cinque Giornate”
J3. Marianna, educatrice a Parma ∞ Domenico Caggiati, medico di Parma.
J4. Lucrezia (1824-1854 )
J5. Teresa ∞ Giuseppe Curuz, ingegnere di Mantova
J6. Carlo (1827-1913), combatté con Garibaldi, senatore del regno d’Italia, ∞ Emma Hohenemser (1835-1900).
K1. Luigi (1868-1900)
K2. Maria (1869-1950 ) ∞ Clemente Maraini (1864-1932)
K3. Sofia (1873-1961) ∞ Pietro Bertolini (1859-1920), ministro del regno d’Italia
______________________________________________________________________________________
178
MAPPA DEI LUOGHI
179
La cartina riproduce in modo schematico l’area emiliana con i castelli e i borghi fortificati ove si svolse la vicenda della casata dei Terzi.
180
180
INDICE
dei nomi
Indice dei nomi
A
Aceti, Antonio ............................................... 48
Acquaviva, Antonio ..................................... 48
Acuto, Giovanni (v. Hawkwood, John) .. 47;
49
Adam, Salimbene de ............................. 19; 20
Aldighieri, Antonio ...................................... 79
Aldighieri, Baldassarre ................................. 79
Aldighieri, Gherardo degli ................... 61; 79
Aldighieri, Giberto degli.............................. 72
Alessandro III (Rolando Bandinelli) papa17
Alessandro V (Pietro Filargis) papa ........ 108
Alessandro VI (Rodrigo Borgia) papa .... 175
Alighieri, Dante ............................................. 22
Aliotti, Adone................................................ 81
Aliprandi, Pagano ......................................... 41
Anguissola, Bartolomeo ............................ 134
Anichino, Raimondo.................................. 147
Antelami, Benedetto .................................... 67
Appiani d’Aragona, Antonio .................... 155
Appiani d’Aragona, Flavia ............... 155; 173
Appiani, Giacomo ........................................ 49
Appiano, Gherardo d’ ................................. 50
Aquila, Antoniuccio dall’............................. 44
Aragona
Alfonso V d’, re di Napoli ....... 121; 132;
135; 140; 146; 148
Ferdinando V d’, re di Napoli............ 159
Giovanna II d’, regina di Napoli ......... 97
Pietro d’ .................................................. 121
Arcelli, Caterina degli ........................ 154; 172
Arco, Claudio, conte d’ ............................. 176
Arco, Massimiliano. Conte d’ ................... 176
Arduino, vescovo ......................................... 15
Ariosto, Ludovico ........................................ 46
Arrigoni di Taleggio, famiglia ..................... 41
Asburgo, Federico III d’ ........................... 149
Asburgo, Leopoldo IV d’............................ 52
Asciano, Guido d’......................................... 49
Attendolo, Micheletto............. 44; 95-97; 139
Attendolo, Muzio, detto Sforza (v. Sforza )
44; 46; 47; 54; 55; 91; 94; 95; 97
Avogari, famiglia ........................................... 59
B
Baese, Guilelmi de ........................................ 18
Bagiardini, Giuliano ..................................... 46
Bagnacavallo, Sebastiano da ....................... 79
Balestraccio, il .............................................. 61
Barbiano, Alberico da ...... 40; 47-58; 64; 106
Barbiano, Alberico II (Novello) da 123; 125
182
Barbiano, Giovanni da ......................... 49; 51
Barbiano, Ludovico da ................................ 55
Bartolini Salimbeni de’, famiglia ................ 45
Bartolomeo da Gualdo, o dei Santi ......... 126
Basinio da Parma (o Basinio Basini) ....... 146
Beatrice di Tenda ........................................ 118
Beccaria di Robecco, Lancellotto .............. 55
Belenzani, Rodolfo ....................................... 87
Bellanoce, Corrado di .................................. 16
Benadusi, Isabella .............................. 155; 173
Benadusi, Scipione ..................................... 155
Bentivoglio, Giovanni..................... 51; 53-56
Benzone, Giorgio ......................................... 83
Berengario I, re d’Italia ................................ 33
Bernieri, Antonio dei ................................. 155
Bernieri, Elisabetta dei...................... 155; 173
Biancardo, Palma ........................ 91; 100; 168
Biancardo, Ugolotto .... 38-40; 47: 53; 61; 76;
84: 91; 100; 147
Biglia, Andrea .............................................. 119
Boiardo, Guido, di Rubiera ........................ 79
Bonghi, o Bongi, famiglia di Bergamo ..... 41
Bonifacio IX (Pietro Tomacelli) papa 59; 84
Bornado, Guiberto de ........................ 17; 165
Boucicaut, Jean Le Meingre sire di... 95; 109
Bozzoli, Ubertino dei................................... 38
Braccio da Montone............... 47; 59; 97; 103
Bracelli, Jacopo ........................................... 122
Brancadoro, famiglia di Fermo ....... 159; 161
Brancadoro, Girolamo............................... 161
Bravi, Luigi................................................... 139
Brembati, Giulia contessa ......................... 176
Brembilla, famiglia ........................................ 41
Broglia, Cecchino ............................. 47-49; 51
Buralli, Tomaso ............................................. 81
Burgani, Uberto ............................................ 14
C
Cacci, Bartolomeo ...................................... 130
Cadalo, vescovo di Parma ..................... 11-13
Caivano, Giacomo da ................................ 133
Caliari, Paolo, detto il Veronese .............. 176
Cambiago, Cristoforo da, notaio ............. 154
Camerino, Antonio da ................................. 53
Camino, Gerardi de...................................... 18
Camponeschi dall’Aquila, Antonuccio ... 109
Canale, Luca da ....................................... 46-48
Canobio, Frate Ercolano da ..................... 151
Canossa
Bonifacio III di .......................... 10; 11; 13
Camilla di ................................................. 82
Caterina di ..................................... 101; 168
Donizone di............................................. 10
Galeazzo di ............................................ 176
Guidone ........................................ 101; 168
Matilde, contessa di................... 10; 13; 14
Simone da ................................................ 61
Canossa di Montalto, famiglia........... 80; 101
Cantelli, Bartolomeo .................................... 81
Cantelli, Luca ................................................. 69
Cantelli, Ludovico .................... 41; 49; 54; 55
Cantelli, Maria Teresa ....................... 156; 174
Cantelli, Martino ........................................... 81
Cantelli, Pietro............................................... 99
Capilupi, Flavia .......................................... 176
Capitani, Corradino dei ............................. 152
Capponi, Gino ....................................... 54; 82
Capranica, Domenico ................................ 158
Carmagnola, (Francesco Bussone), detto il
................................................. 47; 118; 122
Carpeneta, Gerardi de.................................. 18
Carrara, Francesco II da (detto Novello)
......................................... 38; 39; 49; 51; 61
Carrara, Giacomo da .................................... 76
Carrara, Marsilio da .................................... 100
Carraresi, famiglia 38; 50-56; 61; 75-77; 102
Cassani, Cassano dei ......................... 106; 153
Castiglione, Baldassare .............................. 161
Castiglione, Branda da ............................... 125
Castiglioni, Franchino.... 101; 103; 124; 132;
142; 169
Castiglioni, Guarniero....................... 125; 126
Caterina da Siena, santa ............................... 48
Cattabriga, Pierpaolo ................................. 168
Cattaneo, Galeazzo da Mantova ................ 61
Cavalcabò, famiglia ......................... 15; 82; 83
Cavalcabò, Giovanna ................................... 70
Cavalcabò, Marsilio ...................................... 82
Cavalli, Dondadeo ...................................... 104
Cavalli, Maria ...................................... 156; 173
Cavalli, Pantasilea ....................................... 104
Cavalli, Paolo Camillo................................ 156
Cernitori dei, famiglia .................................. 81
Cernitori, Cabrino dei ................. 81; 115-116
Cervato Secco, Lucia di .................... 147; 168
Cesarini, Giuliano cardinale ...................... 128
Chiaravalle, Bernardo di .............................. 63
Cittadella, Rampini da.................................. 99
Clemente VII (Roberto di Ginevra),
antipapa .................................................... 48
Colleoni, Bartolomeo.......................... 47; 136
Colonna, Giovanni ................................ 47; 59
Colonna, Ludovico..................................... 126
Compagnia Bianca........................................ 47
Compagnia della Rosa .................... 49; 54; 55
Compagnia di San Giorgio ......................... 47
Consalvi, Ercole cardinale ........................ 162
Contarini, Andrea doge .............................. 35
Contarini, Giovanni ................................... 108
Contarini, Stefano....................................... 131
Contrari, Uguccione 44; 97; 101; 110; 112;
132
Cornazzano
Aicardo da, vescovo............................... 17
Alberto da, canonico ............................. 19
Armanno da............................................. 19
Bernardo da ................................ 19; 23; 24
Gandolfo da ............................... 10; 11; 13
Gerardo (I) da ......................................... 10
Gerardo (II) da ....................................... 11
Gerardo (III) da ............................... 14; 15
Gerardo (IV) da ............................... 15; 16
Gerardo (V) da........................................ 20
Giacomo da ............................................. 18
Lanfranco da, (Vigoleno) ...................... 27
Lanfrancus da, canonico ....................... 14
Manfredo da ........................ 19; 20; 23; 28
Oddone (I) da ................................ 10; 164
Oddone (II) da.................... 10; 11; 12; 14
Oddone (III) da ...................................... 14
Oddone (IV) da ...................................... 20
Pietro da ............................. 24; 26; 27; 170
Uberto da ................................................. 19
Corner, Giorgio .......................................... 132
Corner, Pietro .............................................. 35
Correggio,
Galeazzo da .................................... 95; 110
Gherardo da .......................................... 110
Giberto da................... 31; 56; 91; 94; 146
Manfredo da .......................................... 146
Matteo da ................................................. 24
Violante da ............................................. 161
Correggio, famiglia 20; 57-65; 71; 92; 106
Corte, Pietro da ............................................. 72
Cossa, Baldassarre, (v. Giovanni XXIII,
antipapa) ............................................ 62; 84
Cremona, Giovanni da ................................ 99
Crotti, Lancellotto ...................................... 135
Cusino, Antonio da .................................... 110
D
da Fogliano, famiglia .............. 81; 93; 95; 103
da Palù, Niccolò .......................................... 168
da Padova, Ludovico, patriarca, ............. 158
Dal Verme, Jacopo ...... 36-38; 47-54; 61; 76;
84-89; 93
de Sacis, Pietro, notaio ............................. 116
de Porta, Jacopino, notaio ....................... 116
Dalla Corte, Girolamo ................................. 39
Della Pergola, Angelo ......................... 80; 120
Della Pergola, Cecilia, madre di Niccolò il
Guerriero ........ 80; 101; 115; 116; 120; 168
183
Della Pergola, Delfino ................. 80; 81; 134
Della Pergola, Leonoro .............................. 81
Della Scala, famiglia ........................ 38; 48; 53
Della Torre, Maria ..................................... 161
Diedo, Bernardo ......................................... 100
Doria, Antonio ............................................ 121
E
Enrico III, imperatore .......................... 11; 12
Enrico IV, imperatore .......................... 12; 14
Enrico V, imperatore ................................... 14
Enrico, vescovo di Parma ........................... 10
Enzo di Svevia, re di Sardegna............ 20; 28
Este
Aldrovandino d’...................................... 23
Beatrice d’ .............................................. 155
Borso d’ ......................................... 104; 139
Enrichetta d’ .......................................... 156
Ercole I d’ .............................................. 104
Isabella d’ ............................................... 150
Leonello d’ ............................................. 103
Niccolò III d’ ... 44; 61; 84-103; 108; 117
Taddeo d’ ............................................... 131
Eugenio IV, (Gabriele Condulmer), papa
............................................... 129; 132; 134
F
Facino Cane . 47; 52; 55; 69; 85-95; 102; 118
Faenza, Martino da....................................... 65
Farnese, Anna Maria ......................... 156; 173
Farnese, Ottavio, duca............................... 155
Farnese, Ranuccio II, duca .............. 156; 173
Federico I di Svevia, detto il Barbarossa 1518; 33
Federico II di Svevia ................ 20; 24; 26; 28
Felino, Antonio da ..................................... 123
Feltre, Vittorino da..................................... 106
Fieschi
Gian Luigi ..................................... 121; 124
Luca......................................................... 109
Ludovico cardinale .......................... 93; 96
Obizzo, vescovo di Parma ................... 23
Fieschi, famiglia .......................... 27; 113; 122
Fogliano
Beltramo da .................................... 82; 116
Carlo da ... 42; 44; 79-84; 91;-99; 102-116
Eleonora................................................. 102
Francesca da, .........56; 80; 84; 100; 142
Guido Savina (II) da .............................. 82
Jacopo da ............................................... 116
Folenghi, Armellina, di Lorenzo ............. 147
Fondulo, Gabrino 43; 77; 82; 83; 91-93; 114
Foscari, Francesco, doge di Venezia....... 108
Fosio, Maffeo dal........................................ 111
Fregoso, Abramo (Campofregoso) ......... 123
184
Fregoso, Tommaso (Campofregoso) ..... 121
Frizzolino (Fuzzolino) di Golem ....... 50; 54
G
Gaivano, Giacomo ..................................... 134
Gallina, Gian-Francesco, notaio ducale . 152
Gattamelata (Erasmo da Narni) detto il .. 47
Gente, Giberto da ........................................ 20
Giovanni XXIII, antipapa ................... 62; 84
Giudice, Giovanni del.................................. 37
Gonzaga, famiglia ....................................... 148
Carlo ....................................................... 132
Federico I ............................................... 149
Federico II ..................................... 161;176
Francesco I ................................. 53; 54; 76
Francesco II ............... 149; 159; 160; 176
Gianfrancesco .................................. 43; 92
Ludovico III ........................ 118; 147; 148
Gozzadini, Nanne ........................................ 55
Grasso, Nigro, podestà a Parma ................ 18
Gregorio XI (Pierre-Roger de Beaufort),
papa ........................................................... 30
Gregorio XII, (Angelo Correr), papa ..... 108
Guarino Veronese (Guarino Guarini) .... 103
Guarnazza, Giacomino ............................... 78
Guerrieri
Alessandro ............................................. 159
Giacomo, o Giacopo .................. 159; 175
Giovan Filippo, già Terzi .................... 158
Giovan Francesco ................................ 160
Giovanni Battista.................................. 159
Giovanni Francesco ............................. 159
Polonio .......................................... 159; 175
Guerrieri Gonzaga
Cesare, cardinale .................................. 162
Isabella .................................................... 176
Ludovico ........................................ 160-162
Vincenzo ....................................... 160; 162
Guicciardini, Francesco ................... 161; 176
Guidi, conti (famiglia) ................................ 133
Guinigi, Paolo, signore di Lucca................ 51
Guinizone, notaio ......................................... 15
Gunterio, messo imperiale .......................... 12
H
Hawkwood, John (v. Acuto Giovanni) .... 47
Herberia, Gerardo de ................................... 14
I
Imilia, badessa ............................................... 11
Imola, Jacopo da ........................................ 137
Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi) papa... 20;
24; 27
Innocenzo VII (Cosimo Migliorati) papa 72
L
Lalatta, Giovanni .......................................... 90
Landi, Bernabò.............................................. 36
Landi, Ubertino............................................. 36
Lanfranchi, Lucia, di Panfilo .................... 147
Lanfranchi, Panfilo ..................................... 147
Lanfranchi, Paola dei ........................ 154; 171
Langhirano, Galcazzino da ....................... 111
Lavello, Cristoforo da ................................ 123
Leone XII (Annibale della Genga
Sermattei), papa .................................... 156
Liechtenstein, Giorgio di, vescovo di
Trento ................................................ 84; 87
Lione, Luca da ............................................... 55
Lisca, Alessandro ........................................ 147
Lisca, Polissena .................................. 147; 167
Locatelli di Valle Imagna, famiglia ............ 41
Lorena, Beatrice di ................................ 10; 13
Ludovico il Bavaro, imperatore ..29; 31; 151
Luigi XII, re di Francia .............................. 154
Lupi di Soragna, famiglia ............................ 20
Lupi di Soragna, Francesco ...................... 138
M
Macagnanus, iudex ..................................... 166
Machiavelli, Niccolò ........................... 47; 144
Maino, Anna Maria ........................... 156; 174
Malaspina, Bartolomeo................................ 67
Malaspina, famiglia ....................................... 15
Malatesta, Carlo, signore di Rimini ... 46; 47;
51; 84; 121
Malatesta, Galeotto I ................................... 30
Malatesta, Pandolfo .... 43; 54; 59; 69; 86; 92
Malatesta, Sigismondo Pandolfo .... 132; 133
Malcorpo da Cremona ................................. 48
Malnepoti, famiglia ....................................... 72
Malvezzi, Ludovico .................................... 146
Malvicino, Giovanni ....... 108; 109; 111; 117
Mandello, Ottolino da .................... 33; 36; 37
Manfredi, Astorgio, o Astorre ............ 50; 51
Manfredi, Astorre II................................... 146
Manfredi, Giovanni ............................... 51; 92
Mangiarotto, Ugo ......................................... 21
Marazzani Visconti, Antonio .......... 156; 174
Marazzani Visconti, Francesco ............... 156
Marocella dalla Porta, Beatrice................. 102
Martelli, Domenico .................................... 135
Martinengo, Cesare .................................... 132
Marzano, Giovanni ...................................... 72
Mazza, Giovanni ........................................... 78
Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico ... 45
Meraviglia, Gabriele ................................... 140
Merlino ........................................................... 73
Michelotti, Biordo ........................................ 50
Michelotti, Ceccolino ............................ 47; 49
Mirandola, Princivalle della ................. 38; 55
Montagnana, Cecco da .............................. 120
Montanari, Montino dei .............................. 81
Montefeltro, Antonio da ............................. 55
Morosini, Bernardo .................................... 100
Mostarda da Forlì .................................. 50; 59
Musacchi, Gervaso ....................................... 81
N
Neviano, Andrea da ................................... 151
Noce, Giovanni della ................................. 132
Nogarola, Girolamo di .............................. 155
Nogarola, Isotta di............................. 155; 173
O
Obertenghi, famiglia ...................................... 9
Obizzo, vescovo ........................................... 23
Olderico, messo imperiale .......................... 12
Omodei, Giovanni ..................................... 140
Onorio II (Pietro Cadalo), antipapa.......... 11
Orsina, moglie di Ottobono . 61; 79; 81; 101
Orsini, famiglia ............................................ 159
Orsini, Paolo.............................. 47; 49; 59; 72
Ottone IV di Brunswick.............................. 23
P
Paccaroni, Lodovica de’ ............................ 159
Paleologo, Margherita, marchesa del
Monferrato ............................................ 161
Pallavicino
Antonio .................................................. 119
Chiara............................................. 154; 172
Giovanna Terzi vedova ..... 106; 151; 153
Guglielmo ............................ 106; 151; 153
Orlando ............................ 92; 93; 114; 152
Pietro ........................................................ 88
Rolando .................................................... 88
Uguccio ............................................. 38; 39
Pallavicino di Varano, Lanzario ................. 72
Pallavicino di Varano, Vinciguerra ............ 72
Pallavicino, famiglia.... 10; 21; 43; 55; 59; 66;
67; 71; 72; 78; 82; 84; 89
Paolo Uccello, (Paolo di Dono), pittore .. 45
Parma, Orlando da, podestà ....................... 35
Pavia, Antonio Simone da ........................ 123
Pazzi, Gasparo de’ ........................................ 65
Pedrignacola, Antonio da............................ 81
Pellegrino, marchesi di, famiglia ................ 36
Perugia, Ruggiero da .................................. 100
Pesaro, Antonio da .................................... 137
Petrucci, Antonio ....................................... 127
Pezzali, Giovanni dei ................................... 99
Piazza, Cristoforo ....................................... 154
185
Piccinino, famiglia .................... 118; 137; 138
Piccinino, Francesco ........ 133-140; 145; 157
Piccinino, Jacopo ............................... 134; 137
Piccinino, Niccolò .... 47; 118; 122-125; 130133; 152
Piccolomini, Enea Silvio (Pio II, papa) ... 46;
162
Pico della Mirandola, Alberto Pio .. 140; 141
Pico della Mirandola, famiglia ........... 94; 102
Pio VII, (Barnaba Chiaramonti), papa ... 156
Pisa, Filippo da.............................................. 49
Pizzo, Opicino del ........................................ 19
Pizzo, Uldefredo da ..................................... 18
Porro, Antonio .............................................. 33
Porta, Beatrice Marocella dalla................. 102
Pusterla, Baldassarre della ........................... 41
Pusterla, Balzarino della .............................. 40
Pusterla, Pietro da ...................................... 137
R
Rangoni, Bonifacio ............................ 156; 174
Rangoni, Gerardo ......................................... 18
Rangoni, Giacomino .................................. 111
Regna, Lanzarotto della ................ 81; 85; 115
Rho, Francesco conte di ........................... 176
Ricci, Martino, notaio ................................ 154
Rivola, famiglia.............................................. 41
Roberti, Taddea dei ........................... 155; 173
Roberto III del Palatinato ........................... 51
Rocca, Dino dalla ......................................... 41
Rocca, Marcardo della ................................. 86
Romano Giulio, ......................................... 162
Rossi
Antonio ............................................. 70; 93
Bertrando ................................................. 30
Giacomo (o Jacopo), vescovo .... 43; 67;
70; 72; 75; 83; 84; 92; 96
Giovanna dei ........................................... 70
Leonardo dei .................................... 76; 83
Pietro .... 41; 61; 62; 64; 66-68; 72; 91; 92
Pietro Maria .......... 98; 131; 138; 141; 146
Rolando .................................................... 27
Troilo dei ............................................... 155
Rossi, famiglia 20; 21; 44; 57-62; 71; 72; 74;
81; 89-93; 98; 111
Rota, famiglia................................................. 41
Rusca, Luterio, podestà ............................... 36
S
San Bonifacio
Bernardo di ............................................ 104
Isotta ....................................................... 104
Ludovico di .................................... 56; 102
Marugolà di................................... 103; 169
Rizzardo di............................................. 104
186
Silvio di ................................................... 104
San Bonifacio, famiglia .............................. 103
San Felice, Ferro da.................................... 112
San Severino, Cecco da ............................... 77
Sanseverino, Luigi ...................................... 130
Santa Vittoria, Mazzarino di ....................... 48
Sanvitale
Anna Maria ................................... 156; 174
Giberto ............. 69; 75; 77; 109; 110; 152
Ludovico ................................................ 156
Sanvitale, famiglia . 20; 21; 57; 64; 67-73; 78;
110; 120; 139
Sassuolo, Francesco da ......................... 44; 94
Savelli, Paolo.................................................. 40
Savoia, Amedeo VIII, duca di........... 95; 123
Savoia, Maria di (figlia di Amedeo VIII);
................................................................. 123
Savoia-Acaia di ............................................ 95
Scala, Brunoro della (o Scaligero) ............ 100
Scoffoni, Lucrezia.............................. 156; 173
Scoffoni, Marc’Antonio ............................ 156
Scotti
Alberto ................................................... 113
Caterina ................................ 106; 113; 169
Francesco ............................... 72; 106; 113
Giovanni ................................ 72; 113; 114
Lodovico .................................................. 68
Manfredo ................................................. 68
Scotti, famiglia ................................68; 77; 113
Scrovegni, Pietro........................................... 50
Serra, Bernardo della ..........49; 51; 54; 55; 61
Sforza
Alessandro ..........134; 146; 147; 154; 157
Francesco I ........103; 118; 123; 132-138;
143-148; 153; 154
Galeazzo Maria ..................................... 154
Ludovico, detto il Moro ...................... 155
Muzio Attendolo, detto lo ..... 44-47; 54;
55; 91; 94; 95; 97
Sigefredo II, vescovo ..................................... 9
Sigismondo di Lussemburgo ....... 117; 124126,129; 142
Simonetta, Cicco, .............................. 154; 172
Simonetta, Gentile ...................................... 154
Soardi, Francesca ........................................ 161
Soardi, Giacomo ......................................... 161
Sole, Giovanni dal ...................................... 100
Somaglia, Orazio della ...................... 156; 173
Sparapane, capitano detto lo ...................... 83
Spoleto, Nicolò da ...................................... 109
Stefano III, duca di Baviera ........................ 38
Steno, Michele, doge .................................. 108
Strozzi, Agnese, di Uberto ........................ 147
Strozzi, Uberto ............................................ 147
Suardi, famiglia .............................................. 41
T
Tanagli, Guglielmo ..................................... 140
Tardeleri, Lancellotto................................. 141
Tartaglia, Angelo.................................... 72; 74
Tavernieri, Auda .................................. 20; 166
Tavernieri, Bartolo ................................ 20; 28
Tavernieri, Elena .......................................... 20
Teodoro II Paleologo ......................... 41; 109
Terzi
Antonio ..................... 57; 75; 85; 111; 151
Antonio Maria, .................................... 156
Barbara .................................................. 168
Beltramino ............................................. 147
Caterina, figlia di Ottobono ..... 101; 103;
124; 142; 169
Elena ....................................................... 147
Francesco I, caduto a Fornovo ......... 155
Francesco Maria ................................... 156
Gaspare ......................................... 140; 145
Gherardino (II) ................... 139; 147; 152
Gherardo (I), o Ghirardino ......... 29; 151
Giacomo (o Jacopo) .................. 105; 157
Giberto (I) ....27-30; 33-35; 57; 168; 171
Giberto (II) ............................................ 111
Giberto (III) .......................................... 152
Ginevra ................................................... 168
Giorgio ................................... 91; 100; 147
Giovan Filippo, poi Guerrieri .. 114; 134;
157
Giovanni ............................................... 105
Guido I, o Guidone ............................... 28
Guido II ................................................. 152
Jacopino ................................................. 147
Lazzarino ............................................... 172
Ludovica, moglie di Niccolò il Guerriero
................................ 138; 140; 147; 168
Margarita, moglie di Niccolò Terzi il
Vecchio .................................. 42; 79; 168
Margherita, figlia d’Ottobono .. 101; 103;
169
Niccolò Carlo ............. 44; 84; 97; 99; 101
Niccolò, il Guerriero ................ 115; 157
Niccolò, il Vecchio ............................. 33
Ottobono, o Ottobuono ...................... 43
Ottobuono, di Sissa ........... 154; 155; 172
Primo ......................................... 26; 27; 170
Secondo ..................................... 26; 27; 170
Terzo............................ 24; 25; 26; 27; 170
Terzi di Fermo .......................................... 157
Terzi di Parma ............................................ 26
Terzi di Sissa ............................................. 151
Teutmario, o Dietmar ........................... 11; 12
Tizzano, Simone da ...................................... 88
Tolentino, Niccolò da................................ 129
Tomacelli, Giannello .................................... 59
Torelli, Guido ......... 44; 97; 98; 118-123; 130
Tornielli, Antonio, podestà......................... 41
Treviso, Niccolò da (notaio) .................... 103
Trivulzio, Giacomello ................................ 140
Tutino, arcidiacono ...................................... 19
U
Ubaldini, Bernardino ................................. 126
Uberti, Ludovico ............................... 147; 167
Uella, Cristoforo da .................................... 130
Urbano VI (Bartolomeo Prignano), papa 48
V
Valdimania, famiglia ..................................... 41
Vale di San Martino, famiglia ..................... 41
Vallisnieri, Antonio ...................................... 61
Vallisnieri, Lorenzo ............................. 99; 107
Vasari, Giorgio .............................................. 45
Venceslao IV, re di Boemia .... 30-34; 40; 52;
96
Venosa, Grasso da...................................... 100
Verrieri, Andreana dei ............................... 158
Vianino, Pietro da ............................ 75; 77; 87
Vignate, Giovanni da ................................... 83
Visconti
Antonio .................................................... 85
Astorre ...................................................... 88
Bernabò ............................................. 24; 29
Bianca Maria .......................................... 154
Carlo ............................................ 37; 38; 52
Caterina ................................ 39; 56; 60; 71
Filippo Maria . 83; 95; 100; 103; 117-130;
134-143; 148;-153
Francesco .......................................... 49; 77
Gabriele Maria ................................. 61; 85
Gaspare .................................................. 125
Gherardo ........................................... 30; 34
Gian Galeazzo ...... 30-35; 40; 48; 50-59;
102; 151
Giovanni Maria ....... 43; 68; 83-85; 92; 95
Isotta ................................................ 82; 168
Mastino ..................................................... 52
Matteo....................................................... 40
Niccolò .............................................. 30; 34
Viridis, o Verde ....................................... 52
Visdomini, Manuccio ........................ 156; 173
Visdomini, Zanardo dei .............................. 38
Vittore IV (Ottaviano dei Crescenzi),
antipapa .................................................... 17
Z
Zeno, Pietro ................................................. 131
Zrini, Pietro, bano di Croazia .................. 128
187
188
Indice
MARCO GENTILE, Prefazione
pag.
5
Introduzione
»
7
1.
Dai Cornazzano ai Terzi
»
9
2.
I Terzi di Parma, podestà e condottieri
»
26
3.
Niccolò Terzi, il Vecchio
»
33
4.
Ottobono Terzi
»
43
4.1 Francesca da Fogliano
»
100
4.2 Giacomo e Giovanni Terzi
»
105
5.
Niccolò Terzi, il Guerriero
»
115
6.
I Terzi di Sissa
»
151
7.
I Terzi di Fermo, poi Guerrieri
»
157
TAVOLE GENEALOGICHE
»
163
MAPPA DEI LUOGHI
INDICE dei nomi
179
»
181
189
190
Finito di stampare dalle
PARMA
nel mese di giugno 2019