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PREFAZIONE I caratteri del Parmense in età bassomedievale sono fortemente connotati dalla presenza capillare di robusti nuclei di potere signorile e dalla costante capacità da parte di questi ultimi di istituire rapporti organici con il centro urbano. Da questo punto di vista, la storia di Parma e del vasto territorio che su di essa gravitava e gravita costituisce uno dei casi di studio più significativi per intendere la complessità del rapporto fra città e campagne nell’Italia di tradizione comunale, irriducibile all’unità astratta (o ideale, per riprendere una famosa espressione di Carlo Cattaneo) del principio della centralità urbana. La pianura, la collina e la montagna parmensi serbano a tutt’oggi tracce rilevantissime di un passato signorile e feudale la cui comprensione è imprescindibile chiave di accesso alla conoscenza della storia cittadina. Il libro di Paolo Cont sulla famiglia Terzi rappresenta, in questa prospettiva, un’opera benvenuta e necessaria. Attraverso un lavoro di notevole impegno, l’Autore è infatti riuscito nella non facile impresa di mettere ordine nelle vicende di un casato signorile tra i più illustri fra quelli radicati tra il Po e l’Appennino, e tuttavia meno studiato rispetto ad altri protagonisti coevi e contermini delle vicende politiche emiliane e lombarde dalla nascita del Comune alle Guerre d’Italia quali Pallavicino, Sanvitale e Rossi. La storia dei Terzi e dei Cornazzano loro antenati è ripercorsa da Cont a partire dall’XI secolo, attraverso le età dello sviluppo, della maturità e della crisi delle istituzioni comunali fino all’epoca dei regimi signorili e degli stati rinascimentali. Si tratta di un arco temporale amplissimo, nel corso del quale i Cornazzano ed in seguito i Terzi impiegarono con efficace flessibilità il capitale economico, sociale e simbolico via via accumulato per adattarsi a un contesto in continuo mutamento. La storia di questo lignaggio e della capacità dei suoi esponenti di acquisire e di mantenere posizioni di eminenza sociale e politica nella lunga durata assume un significato che travalica l’interesse locale: il lavoro di Paolo Cont, condotto nel solco di quell’illustre tradizione erudita che a tutt’oggi è la spina dorsale della nostra storiografia, si inserisce infatti in un campo di studi fra i più vivaci degli ultimi decenni, contribuendo a gettare luce ulteriore sul lungo cammino percorso dalle aristocrazie dell’Italia centro-settentrionale dalla signoria rurale al patriziato. MARCO GENTILE Università degli Studi di Parma 5 6 Introduzione Le pagine che seguono non sono opera di storico, o biografo, ma il rendiconto di un lettore severo di antiche carte. La ricognizione è il frutto di fatica spesa nel tentare di conferire ordine alle notizie sparse che, nel corso di dieci secoli, sono state depositate nella memoria degli archivi o sono rintracciabili presso più o meno vetusti storiografi - non di rado con lacune, imprecisioni e, nei primi tempi almeno, partigianerie estensi - sull’importante casata dei Terzi di Parma. Una vicenda, quella dei Terzi, la cui narrazione sistematica si trova spesso invocata dagli storici più eminenti, primo tra questi Eugenio Manni, ma della quale in realtà, col trascorrere dei lustri, nessuno si è mai occupato, salvo produrre l’ennesimo racconto monografico, che vede protagonista il famigerato Ottobono dei Terzi. L’indagine sulla casata di Parma, di Sissa e di Fermo, ora consegnata alla stampa, riordinata e spurgata da troppe leggende, accompagnata dalla ricostruzione radicale delle genealogie, ha permesso di focalizzare aspetti che meriterebbero, forse, da parte degli storici specialisti, ricorrendo ai loro sperimentati e raffinati strumenti, qualche approfondimento. Esemplificando, si potrebbe citare il ruolo complesso svolto da Niccolò Terzi “il Guerriero” negli ambiti della corte viscontea e i rapporti stretti, indubbiamente significativi, che questi mantenne, fino all’avvento di Francesco Sforza, con il consorte della sua sorellastra Caterina, figlia legittima di Ottobono: il diplomatico e consigliere ducale Franchino Castiglioni. Ma non è certamente l’unico suggerimento che potrebbe raccogliere chi avesse la pazienza di affrontare questa lettura. L’autore deve esprimere la propria sentita riconoscenza principalmente a Marco Gentile per l’attenzione e i puntuali, preziosi, consigli prodigatigli. Un grazie particolare, inoltre, per la generosa collaborazione nelle ricerche, va a Federica Dallasta di Parma; e quindi a Paola Meschini con Luciana Bonilauri dell’Archivio di Stato di Reggio Emilia, a Lia Corna della “Fondazione Bergamo nella Storia” e alla marchesa Maria Gemma Guerrieri Gonzaga, la cui squisita cortesia ha permesso la consultazione dell’archivio di famiglia. 7 Anonimo, Pianta di Parma e suo territorio con parte del Borghigiano e Reggiano e Reggiano, 1460-1465. Archivio di Anonimo, Pianta di Parma e suo territorio erritorio parte del Borghigiano e Reggiano, Reggiano 1460-1465. Archivio di Stato di Parma, Raccolta Mappe e Disegni, vol.con2 n. 85 (particolare). Stato di Parma, Raccolta olta Mappe e Disegni, Disegni vol. 2 n. 85 (particolare). 8 8 1. Dai Cornazzano ai Terzi Le radici La vicenda dei Terzi, una famiglia parmigiana che trovò il fondamento della sua distinzione e ascese ai ranghi alti della gerarchia sociale durante il basso Medioevo, nei secoli XII e XIII, esercitando il governo podestarile nei comuni della valle Padana ma soprattutto l’arte della guerra, ponendo in campo i suoi milites e condottieri, offre sovente una lettura malsicura e lacunosa per quanto concerne le origini e la genealogia della stirpe. I riferimenti che la concernono emergono dalle antiche carte molto intervallati nel tempo, sparsi e malcerti rispetto a narrazioni incentrate su altri lignaggi, peraltro più cospicui. Per arrivare ai Terzi è indispensabile percorrere la storia di un’altra casata, quella ben più antica dei Cornazzano, donde quelli uscirono nella prima metà del 1200, per affermarsi ben presto come un autonomo gruppo familiare dotato di un proprio cognomen, ramificando due linee genealogiche distinte. È dai Cornazzano che deve prendere l’avvio il tentativo, senz’altro temerario, di disegnare almeno un abbozzo scheletrico, minimamente convincente, per quanto possibile ordinato della turbolenta saga di quella combattiva e intraprendente famiglia padana dei Terzi: una ricerca che porta ai primi lustri dell’XI secolo, all’alba del millennio, ove si trovano le radici documentate della loro casata progenitrice. Anche sui primordi dei Cornazzano, avi dei Terzi, i documenti ci offrono notizie rare e solo episodicamente di sicura importanza che s’infoltiscono tuttavia col trascorrere dei decenni fornendo un significato più preciso all’evolversi successivo della storia della stirpe. I Cornazzano appartenevano alla piccola nobiltà rurale emiliana, discendente da proprietari terrieri stanziati agli inizi del secolo XI sull’Appennino parmense e piacentino.1 Possedevano estesi patrimoni allodiali e feudali nel Nord Ovest del contado parmense, lungo tutta la valle del Taro fino alla sua foce, uno dei tratti economicamente più rigogliosi e strategicamente importanti della via Francigena. Furono vassalli fedeli ai Canossa e contemporaneamente episcopali subordinati, per quanto sovente in conflitto, alla Diocesi di Parma. Alcuni studiosi suppongono che l’insediamento dei Cornazzano nell’area settentrionale di Parma sia avvenuto ai tempi del vescovo Sigefredo II (981-1115), parente dei Canossa, spiegando con ciò la contemporanea subordinazione vassallatica a 1 «La famiglia de’ Cornazzani di Parma è antichissima. Reputata di origine francese»: F. CHERBI, Le grandi epoche sacre, diplomatiche, cronologiche, critiche della chiesa vescovile di Parma, Parma 1837, p. 304. L’origine della famiglia trova sempre gli storici in disaccordo: qualcuno scrive di origini toscane, trovandole nell’aretino o in Val di Pesa; altri l’hanno associata alla casata comitale degli Obertingi o a quella marchionale degli Obertenghi. La stessa località da cui prende il nome la casata è variamente individuata tra l’Emilia e la Toscana. 9 questi e alla Chiesa di Parma.2 Un’ipotesi che potrebbe essere suffragata dalla presenza, in due atti coevi che Ireneo Affò data attorno al 1015, con cui il vescovo Enrico di Parma riconfermava in tutte le sue proprietà il convento di San Paolo.3 In entrambi questi documenti compare la sequenza dei nomi d’appartenenza salica Gerardus filius Oddonis (Oddone I e Gerardo I) secondo una struttura parentale riproducente nelle filiazioni i nomi propri ereditati dagli avi, in questo caso tipica dei Cornazzano.4 La concatenazione dei nomi di Gerardo e Oddone, assieme a quello di Gandolfo, peculiare in quella famiglia, si ritrova, tradotta in gergo notarile, negli altri atti ufficiali rogati nel secolo XI che raccolgono le loro testimonianze. Il legame con i Canossa, vivo e ben testimoniato al tempo di Bonifacio III, si mantenne anche dopo l’assassinio di questo, nel 1052, e fino alla morte della contessa Matilde, nel 1115.5 Secondo Ireneo Affò, una delle ragioni che spinsero il parmigiano Oddone (II) e il nipote Gherardo da Cornazzano a legarsi al duca e marchese di Toscana «cui forse anche prima aderivano» fu l’esigenza di trovare riparo e difesa dalla persecuzione insolente dei Pallavicino, o Pelavicino. «Questa gran turba cominciò dunque a scorrer qua e là, danneggiando il paese. Una delle prime cose, cred’io, che fosse quella di scacciare dal nostro Contado la famiglia da Cornazzano […] onde poi detto Oddone, e il suo nipote Gherardo si rifugiarono presso la Contessa».6 Cfr. R. SCHUMANN, Istituzioni e società a Parma dall’età carolingia alla nascita del comune, Parma 2004, pp. 105 e segg. 3 Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi dei sec. X-XI, II, Dall’anno 1001 all’anno 1100, Parma 1928, www.yumpu.com/la/document/view/13992403/d-drei-vol-ii-itinerari-medievali, nn. XVIII, XIX, pp. 30-35. 4 «Quarta pars de hereditate Asprandi de Medasiano quam dedit Ingeza iam dicti filia, in Bibiano mansus I, quem dedit Gerardus filius Oddonis». Cfr. ivi, n. XIX, p. 34. 5 Un’indagine approfondita sulla formazione della ricchezza e del potere dei Canossa attorno al Mille è stata svolta da Tiziana Lazzeri che conclusivamente osserva come gli incrementi patrimoniali cessarono con la morte di Bonifacio. «Né Beatrice, né la figlia Matilde procedettero più ad ampliare i domini della famiglia, sia dal punto di vista patrimoniale, sia da quello giurisdizionale. La data della morte di Bonifacio, nel maggio del 1052, segna, insieme con la fine della sua esistenza, anche la fine della stagione dell’accumulo patrimoniale e della crescita giurisdizionale della dinastia»: T. LAZZARI, Aziende fortificate, castelli e pievi: le basi patrimoniali dei poteri dei Canossa e le loro giurisdizioni, in A. CALZONA (a cura di), Matilde e il tesoro dei Canossa tra castelli, monasteri e città, Milano 2008, p. 111. 6 «Altri o per parentela, o per genio, o per interesse ingrossaron l’esercito formato delle insegne di più Città, e di più Signori, la cui generale condotta fu presa, giusta Donizone, da un Marchese chiamato Oberto [...] che denominossi Pelavicino. Questa gran turba cominciò dunque a scorrer qua e là, danneggiando il paese. Una delle prime cose, cred’io, che fosse quella di scacciare dal nostro Contado la famiglia da Cornazzano […] onde poi detto Oddone, e il suo nipote Gherardo si rifugiarono presso la Contessa»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, Parma 1793, pp. 100-101. E così Nasalli Rocca: «Matilde aveva anche a Parma i suoi fedeli con qualifiche forse di vassalli, tra i quali sono tipici i Cornazzano, che perseguitati dai Pallavicino si rifugiarono presso la loro signora e fecero parte della sua Corte»: E. NASALLI ROCCA, Parma e la contessa Matilde, «Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le antiche Provincie modenesi», s. IX, III, 1963, p. 6. 2 10 Importante fu il placito tenuto il 21 novembre 1046 nel palazzo vescovile di Parma da Teutmario,7 o Dietmar, giudice imperiale, vescovo di Coira, messo dell’imperatore Enrico III, dal quale si apprende che l’anno precedente, nel 1045, Oddone (II) da Cornazzano aveva ricevuto in feudo da Cadalo, appena eletto vescovo di Parma,8 la corte e il castello di Pizzo e la foresta di Gazzo, beni annessi al castello di Palasone a San Secondo,9 appartenenti al Capitolo della Cattedrale di Santa Maria di Parma.10 Una decisione inaccettabile per i canonici e che suonava tanto più ingiusta e oltraggiosa poiché, dopo essere stati espropriati di quelle medesime possessioni in precedenza da Bonifacio III di Canossa, a beneficio proprio e dei suoi vassi (con i da Cornazzano tra questi), gli ecclesiastici avevano dovuto accettare, il 18 febbraio 1039, un’umiliante transazione imposta dal margravio che prevedeva solo una parziale restituzione delle proprietà in precedenza usurpate.11 Subita la nuova imposizione, il Capitolo si trovò oltretutto costretto a erigere nuove difese per le terre che ancora conservava in quel sito, a costruire fortilizi e un altro castello a Pizzo nel tentativo di contenere le incessanti violenze e le invasioni dei vassalli canossiani e particolarmente quelle perpetrate dai Cornazzano, i medesimi che, in virtù e solo in forza del beneficio loro concesso del vescovo Cadalo, ne avevano acquisito proprietà e possesso. Posti di fronte a quella improvvida decisione episcopale, i canonici recalcitrarono, reagirono infine contro quella che consideravano un’usurpazione: si appellarono all’imperatore e riuscirono a ripristinare mediante la favorevole sentenza di Teutmario i loro antichi diritti. Oddone (II) del placito di Teutmario, al secolo Oddo qui dicitur de Cornazano, è il primo a essere individualmente citato nelle carte della storia accompagnato dal cognomen della famiglia. In altro documento dell’anno precedente, datato Fornovo 24 ottobre 1045, si ricordano Gandolfo (Gandulfus filius quondam Obdoni) assieme ai nipoti Gerardo (II) e Oddone (II), fratelli e orfani di un defunto Gerardo (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi), vassalli di Bonifacio di Canossa.12 Con quell’atto Gandolfo rinunciò a favore di Imilia, più tardi badessa del monastero di San Paolo in Parma, a ogni diritto e pretesa sulle sue proprietà, le terre e le pertinenze del castello di Giarola e similmente sulla cappella dedicata a San Nicomede. La In G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, II, cit., n. LXXXII, pp. 135-137. Con il nome di Onorio II, fu antipapa dal 1061 al 1064. 9 Oggi San Secondo Parmense. Questi luoghi sono situati 10 miglia circa a Nord Ovest di Parma. 10 Cfr. C. MANARESI (a cura di), I placiti del ”Regnum Italiae”, III, I, Roma 1960, n. 370, p. 141. 11 «Palacione cum castro uno quae dicitur Sancto Secundo cum capellis in quorum cumque honore sanctorum consecratas cum omnibus casis et rebus territoriis tam donicatis quamque et masariciis sive reliquis rebus territoriis tam laboratoriis quamque et silvis seu buscariis quae nominatur Gazo seu et in loco quae dicitur Pizo, ubi castrum constructum fuit, cum omnibus rebus territoriis sive paludibus et piscationibus et usibus aquarum aquarumque decursibus et fontaneis molendinis coltis et incultis divisis et indivisis». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. LXXXII, p. 135. 12 Germanis bar[ba], sta per zio, paterno o materno. Usato dal latino vivo medievale, barbane, o barbanus per avunculus è utilizzato anche nell’editto di Rotari, Origo gentis Langobardorum, Leggi di Liutprando (c. 164). 7 8 11 datazione a Fornovo13 di quell’atto di rinuncia ha fatto supporre agli studiosi che anche quel sito accogliesse in quel tempo una residenza dei da Cornazzano.14 Nel frattempo, sprezzanti nei confronti delle decisioni del placito di Teutmario del 1046 che aveva sentenziato a favore e tutela dei beni rimasti intestati alla Cattedrale di Santa Maria di Parma, si perpetuavano le prevaricazioni e le violenze consumate a danno delle proprietà capitolari: soldataglie dei Cornazzano, in combutta con quelle dei Pizzo, erano tornate a invadere e rioccupare, tra costrizioni e violenze, le terre oggetto di quella sentenza, impadronendosi anche del castello di Palasone. S’impose quindi un nuovo pronunciamento giudiziario. Nel febbraio del 1055, Gunterio e Olderico, messi dell’imperatore Enrico III il Nero, affiancati dai conti di Parma e di Piacenza, dal vescovo Cadalo, con i suoi vassalli, e dal vescovo di Reggio, finalmente sentenziarono con un nuovo placito contro Oddone (II), Oddo qui dicitur de Cornazano e Pizzo da Pizzo, a favore dei diritti del Capitolo della cattedrale di Santa Maria.15 Il placito imperiale, considerando gli accadimenti che lo avevano preceduto e lo avevano provocato, fa costatare, tra l’altro, come anche la schiatta dei Cornazzano s’inscriva tra le protagoniste di violenze, saccheggi e misfatti consimili ai danni delle proprietà ecclesiastiche e non solo. Delitti e comportamenti che distinguevano i feudatari d’ogni risma in quei tempi e che stanno all’origine della fortuna di casate delle quali gli archivi conservano e restituiscono memoria quasi solo quando si arriva a sentenze solenni come quelle appena citate.16 Per il resto, le carte antiche si rivelano solitamente meno avare nel fornire dati e informazioni quando registrano eventi edificanti ove importanti membri delle varie schiatte vassallatiche compaiono in veste di testimoni. Questo è altresì il caso dei Cornazzano: alle ricerche sulla storia di questa famiglia porta episodico soccorso una serie di documenti ove suoi esponenti Fornovo di Taro, sulla strada della Cisa, si trova 10 miglia a Sud Ovest di Parma, distante solo altre quattro da Medesano residenza principale della casata dei Cornazzano. 14 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. LXXVI, pp. 125-126; R. SCHUMANN , Istituzioni e società a Parma, cit., p. 69. 15 Cfr. C. MANARESI (a cura di), I placiti, cit., n. 392, p. 210; G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. XCVII, pp. 158-160. 16 La storia inquieta di quelle terre e dei da Cornazzano prosegue in un nuovo documento ove si narra del re Enrico IV che a Parma, il 14 dicembre 1081, riceve dal marchese Alberto la corte e il castello di Pizzo per renderli ancora una volta ai canonici della cattedrale. Il documento ingiunge, nella conclusione, rammentando i precedenti: «Sub ea videlicet condicione ut ipsi neque eorum sucessores non eam dent Oddoni de Cornazano neque Opizoni de Pizo qui iam in anteriore tempore similiter per virtutem et iniuste ipsam cortem detinebant, sei ipsi et fratres eorum faciant quicquid eis fuerit oportunum et qui eos de eadem cortem molestaverit et ad predictam canonicam exinde virtutem vel violenciam fecerit aut ipsam cortem de predicta canonica iniuste tolere voluerit bannum ipsius domni regis idem centum libras argenti obtimi ad partem ipsius canonice restituita». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. CXXXVIII, pp. 219-220. 13 12 sono presenti a donazioni fatte dalla contessa Matilde di Canossa a istituzioni religiose. Documenti che, tra l’altro, confermano la conclusione cui perviene Georges Duby: «les familles dont l’histoire est la moins obscure sont celles qui ont le plus donné, au point de s’appauvrir ou de s’éteindre, en tout cas de disparaître du champ d’observation».17 Se è vero che Matilde offre ben più eclatanti argomenti che la consegnano ai campi d’osservazione della storia, di pregnante interesse, nell’impegno con cui la contessa ha via via devoluto, depauperandolo integralmente, il proprio patrimonio ereditario a favore di istituzioni monastiche, resta altresì la visibilità che, negli atti rogati dai notai, indirettamente assicura a famiglie condannate altrimenti all’oblio. La documentazione dell’età matildica conservata negli archivi è assai significativa al riguardo,18 importante anche per i riferimenti che offre nel coadiuvare la ricostruzione della vicenda medievale, oscura come tante ma complicata come poche, dei Cornazzano, certo mai ammantati dalle vesti di benefattori, quanto in quella di vassalli fedeli ai Canossa, testimoni prima per Bonifacio III e poi della benefattrice Matilde. Così il 18 giugno 1051 Odo, ovvero Oddone (II),19 si trovava a Spilamberto, menzionato con Ubaldo, Vuido, Ato, Borello, Alberto e Vulgarello, tra i vassalli al seguito di Bonifacio di Canossa, duca e marchese di Toscana, che qui presiede un placito a favore di Cadalo vescovo di Parma riguardante i diritti sulla corte, il castello e la cappella di Sala nel Modenese.20 Ancora Odo de Cornazzano rese testimonianza, a Marengo il 18 agosto 1073, per la marchesa Beatrice e la figlia Matilde ad una donazione di terre e della chiesa alla quale queste appartenevano, in Castellonchio sul Mantovano, a favore del monastero di San Paolo di Parma.21 Tre anni più tardi, il 15 maggio del 1076, Gandolfo da Cornazzano, o Gandulfus de Cornazano,22 fu testimone dell’atto di donazione di due masserizie, a Prato Arneri presso Corviaco,23 e a Casale Revani di Poviglio, nel Reggiano, da parte di Giulia, vedova di Arcoino, a favore del Capitolo di Santa. Maria a Parma dove era arcidiacono suo figlio Giovanni.24 Nella medesima cattedrale, «Et comme en revanche les groupes de parenté les plus vigoureux, les plus solidement ancrés sur leur fortune foncière, moins prodigues d’aumônes, apparaissent plus rarement dans les chartriers, on comprendra que la reconstitution des ascendants à laquelle je me suis livré demeure incomplète et incertaine»: G. DUBY, Lignage, noblesse et chevalerie au XIIe siècle dans la région maconnaise: une révision, «Annales: Economies, sociétés, civilisation», XXVII, 1972, p. 806. 18 Cfr. E. e W. GOEZ (a cura di), Die Urkunden und Briefe der Markgräfin Mathilde von Tuszien, Hannover 1998. 19 Così identificato in G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, www.treccani.it/enciclopedia/bernardo-da-cornazzano_(DizionarioBiografico)/. 20 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, cit., n. XC, p. 147. 21 Cfr. ivi, n. CXXVII, pp. 203-205. 22 Cfr. ivi, n. CXXXXI, p. 211. 23 Oggi Cavriago, in provincia di Reggio Emilia. 24 Anche Gandolfo ebbe un figlio, Lanfranco, che faceva parte del Capitolo della cattedrale di Parma allorché, il 2 gennaio 1090. quale canonico, stipulava un contratto di affitto ‘a livello’ di 17 13 tre lustri più tardi, il 2 gennaio 1090, si legge in un atto vergato da Adegerius notarius sacri palacii, si trovava nelle vesti di canonico Lanfrancus, filius Gandulfi de Cornazano.25 I nomi dei Cornazzano, vassalli matildici, emergono da altri documenti e atti di donazioni anche dopo il 1077, l’anno che segnò la memorabile andata a Canossa dell’imperatore Enrico IV. Il 9 dicembre 1081, Oddone (II) da Cornazzano e il suo pronipote Gerardo (III) testimoniarono per la contessa a Reggio circa una donazione fatta al monastero di San Prospero.26 Gerardo fu nuovamente testimone per Matilde nel 1096 a Piadena,27 e nel 1099 a Lucca.28 Dodici anni dopo, il 29 marzo 1101, accanto a Belencio, Lanfrancus e Rozo Gastaldio, egli ricompare quale testimone nell’atto rogato a Guastalla, con cui Matilde, rispondendo all’appello dell’arciprete Giovanni, confermava la sua protezione al locale monastero di San Pietro.29 Nel 1113 Gerardo era nel seguito dei vassalli di rango che accompagnarono nel Mantovano, a Pegognaga, in curte Pigognage, la contessa che qui solennemente remunerò con un manso, bosco e pascolo posti sull’isola di Revere, l’abbazia di San Benedetto a Polirone.30 Defunta Matilde, nel 1115, i da Cornazzano passarono immediatamente fra i fautori della pars domini imperatoris. L’8 aprile 1116, Gerardo (III), Girardus de Cornazano, era tra i principali cives parmenses presenti al placito tenuto dall’imperatore Enrico V a Reggio Emilia con il quale i figli di Gerardo de Herberia furono obbligati a restituire alla Chiesa di Parma la corte di Marzaglia, nel Modenese.31 Il medesimo Gerardo è al seguito di Enrico nel maggio 1116, al castello di Governolo,32 per la cerimonia d’acquisizione, da parte dell’imperatore, dell’eredità della contessa Matilde di Canossa.33 Il 3 agosto 1136, Oddone (III), ovvero Oddo figlio del quondam Gerardi de Cornazzano, con proprio iudicatum, stabilì, secondo la legge salica, che, se alla sua morte fosse mancata la discendenza maschile, metà dei suoi possedimenti nella una casa massaricia o podere posta in San Secondo, appartenente alla prebenda del preposito Adone, a favore di un Uberto, figlio di Anselmo Burgano. Cfr. ivi, n. CXLVII, pp. 233-234. 25 In quel documento il preposito del Capitolo Adone presta «consensum et volumtatem» unitamente a «Lanfranci clerici et canonici predicte sanctae Parmensis aecclesiae et filius Gandulfi de Cornazano». Ivi. 26 Cfr. E. e W. GOEZ (a cura di), Die Urkunden, cit., n. 33, p. 117. 27 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa [1895], traduzione italiana, Roma 1980, n. 50, p. 143. 28 Cfr. ivi, n. 54, p. 145. 29 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, Parma 1950, n. 3, pp. 5-6. 30 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa, cit., n.131, p. 167. L’odierna San Benedetto Po, in provincia di Mantova. 31 «Quam pater eorum iniuste et violenter invaserat». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit, n. 41, p. 38. Si veda anche I. AFFÒ, Storia della città di Parma, III, Parma 1793, pp. 345-346. 32 Frazione dell’odierno comune di Roncoferraro, in provincia di Mantova. 33 Cfr. A. OVERMANN, La contessa Matilde di Canossa, cit., p. 42. 14 Contea di Parma sarebbe passata a beneficio dei propri vassalli.34 Una decisione che rivela come Oddone fosse allora al vertice gerarchico di una teoria di secundi milites, o milites minores.35 I beni di cui disponeva erano situati nelle terre già occupate nel secolo XI, alla foce del Taro, nei territori di Sissa, prossimi alla corte di Palasone e ai castelli di San Secondo e di Pizzo. Nel 1140, il 14 marzo, Gerardo (III) da Cornazzano,36 nei documenti Gerardus de Cornazzano, fu incoraggiato dai Piacentini a stabilirsi nella loro città dove i consoli gli donarono una casa e gli conferirono considerevoli benefici. Il figlio di questo, Gerardo IV ossia Gerardus filius predicti Gerardi, aveva l’obbligo di abitare a Piacenza un mese all’anno in tempo di pace e per tre nel caso che i consoli avessero dichiarato lo stato di guerra. Ireneo Affò osserva a questo proposito: «In tal guisa la famiglia da Cornazzano originaria di Parma restò divisa in due principali rami propagati nelle due Città con molto splendore. E certamente Gerardo non tardò a essere in Piacenza riputato altamente; conciossiaché in un atto al seguente anno spettante vedesi posto al rango stesso che i Marchesi Malaspina, il Marchese Cavalcabò, e il Marchese Pelavicino».37 La militanza sotto l’imperatore Federico I Il rango e il ruolo di Gerardo (IV) e della sua famiglia acquistò ancor più rilevanza dopo l’incoronazione di Federico I di Svevia e le sue successive «A Rogito di Guinizone Notajo in tal guisa: Oddo fil. q. Gerardi de Cornazzano qui me lege Salicha vivere profiteor […] si post meum decessum sine filiis legitimis obiero medietatem totius alodii mei quem habeo in Comitatu Parmenfi deveniat Ecclefie sancte Marie & medietatem Ecclefie sančti Johanmis, preter illud & c »: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota. 35 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 102, p. 88. I milites minores, vassalli dell’alta aristocrazia, primi milites o milites majores, non avevano il diritto di trasferire in eredità le loro terre. In questo caso restavano esclusi dal lascito i beni che Oddone destinava alla cattedrale di Santa Maria e alla chiesa di S. Giovanni e di Santa Maria in Parma Queste proprietà erano situate in terra di Sissa, alla foce del Taro, confinanti con Palasone e le rocche di San Secondo Parmense e Pizzo. Quando, poi, i canonici di Parma, nella seconda metà del secolo XII, instaurarono sui medesimi luoghi una loro signoria territoriale, i rapporti con i da Cornazzano divennero conflittuali. La famiglia uscì soccombente contro il Capitolo di Parma e fu costretta a vendere quei possedimenti. In seguito, tuttavia, i rapporti vassallatici con la chiesa maggiore di Parma furono ripristinati, probabilmente ricorrendo all’influenza di un membro della famiglia, Aicardo, omonimo del vescovo, preposito della cattedrale di Parma. 36 «Forse questo Gherardo era fratello di Oddone, che ai 3 di Agosto del 1136 avea disposto de’ beni suoi»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota. 37 Lo storico aggiunge: «Nel Registro Mezzano della Comunità di Piacenza leggesi l’accordo fatto da Gherardo co’ Piacentini il giorno 14 di Marzo del 1140 alla presenza de’ Consoli, e del Vescovo Arduino, ed è tale: Concordia fuit inter Placentinos nec non & Gerardum de Cornazzano talis quod Placentini debent ei dare braydam Episcopi de ultra fossam auguftam & casam unam in Placentia, & Molendina Communis prope turrem Episcopi aptata ad dispendium Plac. & medietatem Moseri, & debent ei reddere curtem Greci ita quod Rocca Petre gemelle debeat dirui nec ulterius debet rehedificari sine parabula Consulum palam data, & debent ei dare medietatem Turris Scopari cum medietate Castri. Et Gerardus filius predicti Gerardi debet esse habitator Placentie per tre menses per guerram quos Consules voluerint, per pacem per unum mensem & c.» In I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 178-179 nota. 34 15 discese in Italia, quando il legame dei Cornazzano con i sovrani del Sacro Romano Impero tornò a rinsaldarsi. Nel novembre del 1158 Federico I, valicate le Alpi con una potente armata, aveva convocato la seconda dieta di Roncaglia38 dove, ispirandosi ai principi del diritto romano, aveva promulgato la Constitutio de regalibus, orgoglioso strumento concepito a salvaguardia dei diritti e privilegi sovrani. Questa decretazione imperiale fu accettata e riconosciuta dai comuni lombardi, ma rifiutata da Milano. Si scoprì in quelle circostanze politiche e belliche che molti comuni lombardi erano più anti-milanesi che anti-tedeschi, mal sopportando i loro rettori la sperimentata prepotenza dei primi e non avendo ancora misurato la più pervasiva e gravosa arroganza dei secondi. L’aggressività verso il Barbarossa sarebbe lievitata fino a deflagrare nel decennio successivo, solo dopo avere sopportato gli effetti del suo governo, e avrebbe portato ai giuramenti di Pontida fino all’eclatante vittoria sul campo di Legnano nel 1176. Prima di questi eventi e delle rivincite, nel 1161 iniziò e si consumò una guerra ferocissima contro Milano con le milizie comunali lombarde di Pavia, Vercelli, Novara, Cremona, Lodi, Bergamo, Reggio e, non ultima, Parma, schierate col Barbarossa. Alla fine dell’anno le forze in armi parmensi, a piedi e a cavallo, guidate dal capitano Gerardo da Cornazzano, si congiunsero alle imperiali al campo di Lodi per stringere d’assedio Milano fino alla capitolazione di questa città.39 A conclusione di combattimenti asperrimi e di una difesa sempre più disperata, nel 1162 Milano si dovette arrendere alla discrezione del nemico, spietatamente demolita e spianata, fatti salvi solo i luoghi di culto, completamente evacuata dagli abitanti che si salvarono solo con atto di totale subordinazione. A ciascun comune lombardo che aveva partecipato a quella guerra scatenata dal Barbarossa fu affidata la distruzione di una zona della città. Nel marzo Gerardo, condottiero dei milites parmigiani aggregati alle forze imperiali, fu tra i delegati a ricevere la resa dei Milanesi. Scrive Bernardino Corio che Gerardo raccolse il giuramento di sottomissione degli “habitatori” di porta Romana, eseguendo gli ordini spietati del Barbarossa: Quinci comandò che a ciascuna porta di Milano fosse spianata la fossa, & ruinato il muro in modo che l’essercito suo potesse facilmente entrare. Poi elesse sei Lombardi, & sei Tedeschi, i quali havessero a venire a Milano, & pigliare in nome suo dall’universo popolo il giuramento di fede; […] & che sino al sabato durò il giuramento, & […] che a lui con Federico d’Asia Camerieri dell’Imperatore, toccò a ſar giurar gli habitatori della porta Nuova, al Conte Corrado di Bellanoce, & Gerardo da Cornazzano, la porta Romana.40 La località è attualmente una frazione del comune di Piacenza. Cfr. Acerbi Morenae historia, a cura di F. Güterbock, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Germanicarum, n.s., VII, Berolini 1930, pp. 130-176. 40 Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, Venezia 1565, p. 119. 38 39 16 Tre mesi mesi più più tardi, tardi, ilil 24 24 giugno giugno 1162, 1162, Gerardo Gerardo era era convocato convocato tra tra ii Tre testimoni del del placito placito tenuto tenuto da da Guibertus Guibertus Bornado Bornado vicario vicario imperiale imperiale inter inter Castrum Castrum testimoni 41 per Macreti et et castrum castrum Fascoli Fascoli 41 per decidere decidere sui sui conflitti conflitti sorti sorti aa San San Secondo Secondo ee in in altre altre Macreti possessioni che che contrapponevano contrapponevano ii consoli consoli di di Parma Parma al al Capitolo Capitolo della della cattedrale cattedrale possessioni 42 di Santa Santa Maria. Maria.42 di A Parma Parma Federico Federico II aveva aveva nel nel frattempo frattempo ripreso ripreso pacificamente pacificamente possesso possesso A della Corte Corte Regia Regia nella nella quale, quale, profittando profittando dell’inerzia dell’inerzia dei dei suoi suoi predecessori, predecessori, si si della 43 Lo Lo sfratto sfratto non non creò creò tuttavia tuttavia problemi problemi con con ilil potere potere era insediato insediato ilil vescovo. vescovo.43 era episcopale locale, locale, propenso propenso aa parteggiare parteggiare per per l’antipapa l’antipapa Vittore Vittore IV, IV, favorito favorito episcopale dall’imperatore, contro contro ilil papa papa Alessandro Alessandro III. III. dall’imperatore, Questo atteggiamento atteggiamento divenne divenne ben ben più più fermo fermo quando, quando, nel nel 1163, 1163, assurse assurse Questo 44 44 Aicardo da alla cattedra vescovile uno stretto parente di Gerardo (IV), alla cattedra vescovile uno stretto parente di Gerardo (IV), Aicardo da Cornazzano. Fu Fu un un evento evento che che diede diede la la misura misura del del prestigio prestigio ee della della vigorosa vigorosa Cornazzano. influenza conquistata conquistata dai dai Cornazzano Cornazzano durante durante l’età l’età federiciana federiciana in in ambito ambito influenza parmense, ulteriormente ulteriormente confermata confermata l’anno l’anno seguente, seguente, nel nel 1164, 1164, allorché allorché Aicardo Aicardo parmense, cumulò nella nella sua sua persona persona anche anche ilil titolo titolo ee le le funzioni funzioni di di podestà podestà imperiale. imperiale. cumulò Questa confluenza confluenza ee confusione confusione di di istituzioni istituzioni ee poteri poteri fu fu tuttavia tuttavia Questa abbastanza effimera effimera ee sarebbe sarebbe cessata cessata poco poco più più di di un un lustro lustro più più avanti, avanti, verso verso ilil abbastanza 1170, quando quando Aicardo Aicardo da da Cornazzano Cornazzano fu fu deposto deposto quale quale vescovo vescovo scismatico. scismatico. 1170, Con la la cacciata cacciata del del vescovo vescovo di di famiglia famiglia ripresero ripresero virulenti virulenti ii mai mai sopiti sopiti contrasti contrasti ee Con vertenze tra tra ii Cornazzano Cornazzano ee ilil Capitolo Capitolo della della cattedrale, cattedrale, ben ben intenzionato intenzionato aa vertenze recuperare ilil terreno terreno perduto. perduto. Il Il 16 16 ottobre ottobre 1176 1176 si si arrivò arrivò alla alla sentenza sentenza di di recuperare Anonimo, Bassorilievo Bassorilievo di di Porta Porta Romana Romana aa Milano, Milano, ora ora al al Castello Castello Sforzesco Sforzesco (1171 (1171 circa). circa). Commemora Commemora Anonimo, l’epica impresa impresa che che portò portò alla alla rivincita rivincita ee al al ritorno ritorno dei dei Milanesi Milanesi nella nella loro loro città città dopo dopo l’esilio l’esilio ee le le l’epica devastazioni subite subite dall’imperatore dall’imperatore Federico Federico I. I. devastazioni Due castra castra non non esattamente esattamente localizzati. localizzati. Il Il primo primo corrisponde corrisponde probabilmente probabilmente presso presso Macreto, Macreto, nel nel Due modenese. L’imperatore L’imperatore Federico Federico II si si trattenne trattenne in in terra terra emiliana emiliana dal dal giugno giugno al al settembre settembre 1162. 1162. modenese. 42 Cfr. 42 DREI REI,, Le Le carte carte degli degli archivi archivi parmensi, parmensi, III, III, cit., cit., n. n. 280, 280, p. p. 229. 229. Cfr. G. G. D 43 Cfr. 43 cura di), Origini, sviluppi e crisi delincomune, DEM (aIII.I: cura Parma di), Storia di Parma, III,e Cfr. R. R. G GRECI RECI,(aOrigini, sviluppi e crisi del Comune, Storia in di IParma, medievale. Poteri I, Parma 2010, 115-168. istituzioni, a curapp. di Id., Parma 2010, pp. 115-168. 44 Lo 44 Lo storico storico Affò Affò reputa reputa «fors’anche «fors’anche fratelli» fratelli» l’uomo l’uomo d’armi d’armi Gerardo Gerardo ee ilil vescovo vescovo Aicardo Aicardo da da Cornazzano: «Gherardo «Gherardo da da Cornazzano, Cornazzano, ilil quale quale aveva aveva colle colle truppe truppe di di Parma Parma combattuto combattuto per per Cornazzano: l’Imperadore, ee fu fu uno uno de’ de' Capitani Capitani delegati delegati aa ricevere ricevere ilil giuramento giuramento di di sommissione sommissione da da quel quel l’Imperadore, popolo infelice, infelice, divenuto divenuto essendo essendo caro caro al al Monarca, Monarca, giovò giovò sicuramente sicuramente in in que’ que' tempi tempi popolo moltissimo all’onor all'onor di ed al al vantaggio vantaggio del del Preposto Preposto Aicardo Aicardo suo suo parente, parente, ee moltissimo di sua sua Patria, Patria, ed fors'anche fratello, morto già già essendo essendo ilil Vescovo Vescovo Lanfranco, Lanfranco, fosse fosse promosso promosso aa questa questa fors’anche fratello, acciò, acciò, morto Chiesa»: I. I. A AFFÒ FFÒ,, Storia Storia della della città città di di Parma, Parma, II, II, cit., cit., p. p. 216. 216. Aicardo, Aicardo, nominato nominato cardinale cardinale prete prete Chiesa»: dall’antipapa Vittore Vittore IV, IV, fu fu poi poi deposto deposto nel nel 1170 1170 come come scismatico. scismatico. dall’antipapa 41 41 17 17 Albertus Rubeus, assessore del podestà di Parma, il milanese Nigro Grasso, che condannò Gerardo da Cornazzano a restituire ai canonici i beni che erano stati loro donati dagli eredi di Uldefredo da Pizzo dei quali egli si era impossessato.45 Quel verdetto riguardante le terre «de feudo ipsius Gerardi de Cornazano in Pizo» fu contestato, ma nel dicembre 1177 gli assessori podestarili rigettarono il ricorso confermando le ragioni dei canonici di Santa Maria.46 Due anni dopo, poiché evidentemente le invasioni e le devastazioni perpetrate dai feudatari confinanti continuavano, con sentenza del 16 novembre 1179, alla quale era presente Giacomo da Cornazzano, o Iacobus de Cornazano, si concesse ai canonici di erigere un nuovo castello a difesa delle loro proprietà nel territorio di Pizzo.47 Il capitano d’armi Gerardo coltivava nel frattempo con lealtà il suo servizio e l’amicizia con il Barbarossa. Nel diploma, sigillato al castello di Casale Monferrato lunedì 15 maggio 1178, con cui Federico I confermava una transazione stipulata tra il monastero di San Benedetto a Polirone e i vassalli matildici di Pegognaga, nel Mantovano, si indica Gerardus de Cornazano tra i fideles nostri de domo Comitissae Matildis.48 L’anno seguente, il 23 luglio 1179, Gerardo è testimone al placito, 49 emesso da Muxo e Guido, giudici e assessori parmensi, a favore della badessa Fornaria del monastero di San Giovanni di Borgo «ubi corpus S. Donnini humatum quiescit» con assegnazione delle proprietà «de bosco et pratis et terra laboratoria» posti nelle pertinenze del feudo di Castel Aicardo e Pàrola, vicino a San Genesio. Oltre a Gerardo IV, altri esponenti della famiglia da Cornazzano giocarono in quel tempo un ruolo protagonista a Parma. Nel 1179 Giacomo da Cornazzano è indicato dai documenti tra i rectores della Società dei Militi di Parma, deputata a tutelare gli interessi politici delle famiglie vassallatiche. «Condemno enim ipso Gerardum de Cornazano ut quicquid tenet de predicto cambio in Pizo iamdicto Rainerio et canonicis prefate eccl. restituat et eis per hanc sententiam possessionem adiudico». In G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 465, p. 370. 46 Cfr. ivi, n. 487, p. 386. 47 Cfr. ivi, n. 23, p. 696. 48 «Fridericus Romanorum Imperator semper Augustus. Nostre Imperialis celsitudinis decet majestatem, amicorum atque Fidelium nostrorum preces admittere, atque in his, que cum honore nostro possumus, clementer exaudire. Quapropter notum facimus universis nostri Imperii fidelibus tarn futuris quam presentibus apud nos, causa Dei & intercessione beati Benedicti, ad ejus honorem Monasterium nostrum Sanfti Benedicti de Padolirone dedicatum est, nec non etiam precibus atque consilio dilettissimi Principis nostri P. Mantuani Episcopi, atque Gerardi de Carpeneta, & Gerardi Rangoni, Guilelmi de Baese , Gerardi de Camino, & Gerardi de Cornazano [...] Fidelium nostrorum de Domo Comitissæ Matildis, transactione facta inter Monachos Santa Benedicli et Homines de Pigognaga a prefato Episcopo». Concordia inter Monachos Monasterii Mantuani Padolironensis Sancti Benedicti, & quosdam Vassallos Domus Comitissæ Mathildis, confirmata a Friderico 1. Augusto, Anno 1178. Datum est hoc in castro Casalis Sancti Vasii, Anno MCLXXVIII, indictione XI, die lune, XV intrante madio». In L. A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, I, Mediolani 1738, col. 604. 49 Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 500, p. 394. 45 18 Nell’esercizio di queste funzioni, il 15 luglio, con altri rectores, egli raccoglieva il giuramento di Uberto, Ruggero e Opicino del Pizzo,50 impegnati a cessare le loro pervicaci molestie ai canonici, e contemporaneamente infliggeva ai due una pena pecuniaria, condannandoli al risarcimento dei danni arrecati in pregresso. I rapporti dei Cornazzano con la Chiesa di Parma rimasero sempre problematici ogniqualvolta si trattò di regolare i reciproci rapporti patrimoniali, ma con il trascorrere degli anni si manifestò una crescente inclinazione agli accordi, tanto che il 27 aprile 1186 Giacomo e Bernardo da Cornazzano furono investiti dal canonico e arcidiacono Tutino, a titolo di feudo onorifico, di tre quarti del castello e della corte di Tabiano, consentendo che la quarta parte restasse nella disponibilità del Capitolo.51 Contribuì sicuramente a smorzare le conflittualità l’ammissione nel Capitolo di Santa Maria di esponenti della casata: Alberto da Cornazzano (Albertus de Cornazano) figurava tra i canonici nel 1185.52 Lo stesso Alberto, il 6 marzo 1192, presenziò come testimone alla professione dei conversi e nel giugno successivo fu accanto al vescovo Bernardo allorché si deliberò ritualmente la conferma nel numero di sedici dei canonici, sulla base di quanto stabilito dal predecessore Lanfranco.53 Il persistere dell’appartenenza vassallatica dei Cornazzano al Capitolo di Parma, nonostante il perpetuarsi dei contrasti, trova conferma in un documento rogato fra il 1188 e il 1193 che così inizia: «Breve recordationis pro futuris temporibus ad memoriam retinendam qui fuerunt vassalli Parmensis matricis ecclesie qui iuravere fidelitatem d. Guidotto nuper ipsius ecclesie electo et costituto preposito. Hii sunt vassalli: Gerardus de Cornazano, Albertus Rubeus causidicus».54 Gerardo IV ebbe tre figli. Tra questi, grande prestigio meritò Manfredo, nato dopo l’anno 1180,55 ricordato da fra’ Salimbene de Adam come esperto combattente, dotato di profonda e multiforme cultura, religiosa e giuridica Cfr. ivi, nn. 20 e 21, pp. 694-695. Cfr. ivi, n. 61, p. 725. È doveroso aggiungere che, come sovente accade, non tutti i membri della famiglia godevano delle migliori condizioni economiche e il ricorso all’indebitamento si imponeva, anche in quei tempi, quale pratica per sopravvivere. Se poi gli impegni di restituzione non erano onorati, la sanzione calava implacabile. I documenti ci narrano allora, per la cronaca e la storia, oltre che di parrocchie e conventi beneficati, di impietose rivalse sui beni del debitore fedifrago. È quel che avvenne anche con i fratelli Armanno e Uberto da Cornazzano, figli di Gandolfo, quando, il 25 d’aprile 1181, diedero a garanzia di un prestito di quaranta lire imperiali la loro terra in località Prato a Carraria, e per altre ventidue lire tutto il bosco di Corvo. Risultato insolvente alla scadenza, il 29 gennaio 1182, Armanno da Cornazzano, figlio ed erede di Gandolfo nel frattempo deceduto, fu obbligato a trasferire in proprietà alla canonica per 120 lire imperiali tutti i suoi beni siti a Cornazzano, posseduti sive per feudum sive aliquo alio modo. Cfr. ivi, nn. 36 e 43, pp. 706 e 711. 52 Cfr. ivi, nn. 56 e 57, pp. 721 e 722. 53 Cfr. ivi, n. 104, pp 754-755. 54 Tra i vassalli che compaiono in quell’atto del 1192 si trovano Gerardo IV, ovvero Gerardus de Cornazano, e Oddone IV o Oddo de Cornazano, che giurano rispettivamente il 13 luglio 1188 e il 13 dicembre 1192. Cfr. ivi, n. 77a, p. 734. 55 Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Manfredo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, www.treccani.it/enciclopedia/manfredo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/. 50 51 19 innanzitutto, che seppe far valere in successivi incarichi di podestà e nelle missioni diplomatiche che gli furono affidate da Federico II. Compare la prima volta, accanto ai fratelli Oddone IV e Gerardo V, in due documenti rogati nel marzo 1198 ove si registrò la vendita ai loro vassalli di beni fondiari che questi «habebant et tenebant» a Pizzo e a San Secondo.56 Nel 1224 Manfredo da Cornazano era rettore imperiale di Parma; nel 1237 lo fu a Reggio e in anni successivi in altri comuni lombardi e toscani, a Lucca ed Arezzo. Oltre alle funzioni podestarili, quando nacque l’esigenza, seppe mettere in campo al servizio di Federico II anche il suo valore di capitano d’armi, come avvenne nel caso della guerra di Reggio. Nel 1244 egli esercitò la podesteria a Cremona, al termine della quale tornò a Parma, sempre più coinvolta e attanagliata dal conflitto che contrapponeva il Papato all’Impero. Qui Manfredo fu tra i membri della sua famiglia rimasti favorevoli a Federico II, tra gli esponenti della fazione che allora governava la città, guidata da Bartolo Tavernieri, suo cognato.57 L’altra frazione dei Cornazzano, guidata da Bernardo o Bernardino, parteggiava per il nuovo papa Innocenzo IV, assieme ai Lupi, ai da Correggio, ai Sanvitale e ai Rossi costretti a rifugiarsi a Piacenza. Fu alla battaglia di Borghetto del Taro, vicino a Noceto, il 16 giugno 1247, nel corso del vittorioso tentativo dei fuorusciti di riprendersi Parma,58 allora stretta d’assedio dalle truppe imperiali, che Manfredo da Cornazzano trovò la morte.59 Il notaio precisò che «Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et refutationem». Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605. 57 Manfredo ne aveva sposato la sorella, Auda Tavernieri. Bartolo, l’autorevole e risoluto capo del partito imperiale parmense, era marito a sua volta di Elena, una nipote di papa Innocenzo IV, dal quale venne beneficato, come ci informa lo storico contemporaneo: «Lo stesso Fra’ Salimbene parlando di Papa Innocenzo, dice avere egli voluto, quod Dominus Bertholinus Tavernerius iret ad eum, eo quod Dominam Helenam neptem suam haberet uxorem, & quia volebat eum Neapolitane Civitatis facere Potestatem»: I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., p. 89 nota. 58 Scrive nella sua Chronica fra’ Salimbene de Adam che Federico II, lontano sulla strada di Lione per partecipare al Concilio, quando fu informato di quella sconfitta e della perdita di Parma subito ritornò sui suoi passi: «Nel 1247 l’imperatore infiammato d’ira e fuor di sé venne a Parma e nel paese di Grola - nel quale ci sono moltissime vigne ed il vino viene buono - fece sorgere una città con vasti fossati attorno, che per di più, a presagio dei futuri eventi, chiamò Vittoria, e le monete coniatevi si chiamarono vittorini e la chiesa maggiore S. Vittorio». Cfr. R. GRECI, Origini, sviluppi e crisi del Comune, cit., p. 151. 59Affò narra così di quello scontro mortale per Manfredo da Cornazzano: «L’idea de’ nostri Guelfi, usciti da Parma sprovveduti d’ogni cosa, e rifugiatisi in Piacenza era di tentare un colpo, affine di ripatriare. Mentre volgevano tal pensier nella mente, avvenne che il Re Enzo, lasciato dal genitore a custodia del nostro paese, dovette partirsene, onde rinforzare l’assedio al Castel di Quinzano nel Territorio di Brescia. Videro in ciò la circostanza opportuna. Provvedutisi di armi e di soldati si raccolsero i Rossi, i Lupi, i Correggeschi, i Sanvitali, Giberto da Gente, e tutti i banditi in Piacenza, e vennero a Noceto, dove fatta in un gran prato la rivista innanzi ad Ugo Sanvitali, uomo coraggiosissimo, e dotto nel mestier della guerra, eletto lor Capitano, ed animati ad essere forti e coraggiosi nel riacquistare la patria dalle parole di Giberto da Gente, personaggio naturalmente facondo, e bel dicitore, si posero in marcia ordinata correndo il giorno 15 del mese di Giugno. Volata per le sollecite spie la 56 20 I Cornazzano podestà Col trascorrere dei decenni, dalla seconda metà del XII secolo e nel successivo, si affievolì in parte l’interesse di parte dei Cornazziani per le proprietà immobiliari che tenevano nel contado parmense, terre la cui estensione si era peraltro ridotta nel tempo anche per effetto delle liti giudiziarie che vide soccombenti rami di quella estesa famiglia rispetto al Capitolo della cattedrale di Santa Maria. Tuttavia, anche se fiaccata, l’attenzione prestata ai patrimoni terrieri dai Cornazzano, che si erano inurbati, non cessò mai: rimase una risorsa, tutt’altro che esigua, risolutamente difesa e incrementata all’occasione opportuna.60 La casata, o almeno gli appartenenti armati di talento, migliori studi e iniziativa, fecero convergere i loro interessi economici e politici su Parma, si innestarono nella vita delle sue istituzioni comunali, ambiziosamente contendendo, dapprima come Cornazzano e più tardi come Terzi, il potere ai Pallavicino, Correggio, Sanvitale e Rossi. Tutte famiglie signorili cittadine che, come i da Cornazzano, conserveranno un fortissimo radicamento feudale nel contado parmense. Appare indicativo dello stato del Comune, della sua vigoria economica, ma anche della sua attrattiva, come proprio sul finire del XII secolo, nel 1196, iniziasse la costruzione di quello che rimarrà per sempre il suo simbolo monumentale più prestigioso: il battistero. Il cantiere progredì così gagliardamente nelle strutture e nella sua decorazione che pochi lustri dopo, nel 1226, chiusa la cupola, già vi si celebravano i primi battesimi. Ha scritto in proposito Jacques Le Goff: «Il Battistero di Parma è testimonianza dei grandi movimenti storici che hanno animato e agitato questa città padana di un’Emilia quasi lombarda. Il Battistero venne edificato e terminato all’epoca della grande prosperità urbana nell’Italia settentrionale. E in effetti esso è un monumento profondamente urbano, un monumento di cittadini».61 L’inclinazione a confluire verso la città dalle terre del contado si era manifestata come fenomeno, in diversa misura significativo, caratteristico dell’Italia settentrionale e centrale dall’inizio del secolo XI e aveva dato corpo 60 61 nuova di cotal mossa al Podestà di Parma, fece con molta furia suonar all’armi. Si raccolsero sotto il suo stendardo le schiere, che guidate da lui, da Manfredo da Cornazzano, da Ugo Mangiarotto, da Bartolo Tavernieri, e da altri uscirono tosto di Città. Ma questi Signori impigriti già si sentivano da un lauto pranzo, e riscaldati dal vino cioncato alla mensa del Tavernieri, che aveva in quel giorno sposata Maria sua figliuola ad un Cavaliere di Brescia, ed in mal punto vestito avevano il giacco e la maglia. Incontratosi l’uno e l’altro campo al Borghetto del Taro attaccossi la mischia. Furono tosto prostrati e morti il Podestà, il Cornazzano, e il Mangiarotto». Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, III, cit., pp. 196-197. La casata dei Cornazzano mantenne comunque estese proprietà fondiarie, oltre che nel Parmense, anche nel Piacentino e nel Cremonese, proprietà che in seguito pervennero ai Terzi di Sissa. Il contributo dello storico è stato pubblicato, a cura della Cassa di Risparmio di Parma & Piacenza, da Franco Maria Ricci. Cfr. J. LE GOFF, Lo spazio della fede, in Battistero di Parma: la decorazione pittorica, II, Milano 1993, p. 12. 21 entro la cerchia delle mura cittadine, come a Parma, all’istituzione comunale. I comuni, ciascuno dei quali ebbe strutture dotate di peculiare autonomia, coinvolsero nel governo della città tutte le famiglie signorili o magnatizie di origine cittadina e quelle di più recente insediamento, titolari di feudalità rurali. In generale la piccola nobiltà terriera, alla quale i da Cornazzano appartenevano, mentre da un lato doveva constatare l’inadeguatezza dei redditi forniti dalla proprietà fondiaria vassallatica per soddisfare tanto il naturale proliferare delle famiglie e degli aderenti, quanto il conseguente moltiplicarsi di esigenze e ambizioni, subì la crescente attrazione delle opportunità, reali o immaginate, offerte dagli ambiti cittadini. Si manifestò allora una singolare sincronia, così generalmente semplificabile: da una parte, nella tendenza della borghesia cittadina, quella che aveva saputo accumulare proventi con i commerci e l’artigianato, a investire il capitale improduttivo nell’acquisizione di pascoli e terre da coltivare; dall’altra, in direzione affatto opposta, l’aristocrazia rurale dirottava i propri capitali dalle periferie rurali, s’imborghesiva, vendeva in varia misura le proprietà fuori le mura per far convergere le proprie energie e talenti verso gli ambiti cittadini dove trovava le opportunità per dedicarsi alla politica, al governo del Comune. Le città che stavano consolidando le loro istituzioni dalla Lombardia alla Toscana trovarono allora le loro autonomie fondate sull’associazione, non sempre pacifica, sovente fieramente conflittuale, nel governo di ricchi mercanti, artigiani, professionisti che innervavano la borghesia. Così i piccoli nobili, di varia e mutevole importanza, si insediarono e si radicarono entro la cerchia delle mura comunali alzate a difesa di ogni prevaricazione esterna: «gente nova» sempre a caccia di «subiti guadagni», come lamentava Dante Alighieri nel caso di Firenze. Il Comune come istituzione pubblica, vide dapprima ai suoi vertici gerarchici la figura del console, selezionato tra i membri dell’aristocrazia più antica e influente, la cui opera di reggitore venne spesso e ovunque ostacolata dalle lotte tra le varie fazioni. Il console come figura istituzionale nell’ambito del Comune fu presto sostituito (imposto dall’esperienza e per proteggerne le funzioni dalla collusione o collisione con le varie faide intestine) da un magistrato monocratico straniero imparziale, dotato di idonea cultura ed esperienza giuridica ed amministrativa, capace di governare il Comune nel rispetto degli statuti: il podestà. Proprio nell’assunzione, in età federiciana, degli uffici di capitani del popolo o podestà seppero distinguersi i da Cornazzano, acquisendo in quel ruolo i primi grandi meriti e fama politico-amministrativa, valorizzando le personali esperienze, tanto amministrative quanto militari, maturate quali vassalli dei Canossa e della Diocesi di Parma e nei servizi prestati all’Impero. Evidentemente, le capacità personali e l’intraprendenza sposate all’esperienza dei Cornazzano che ambivano a inserirsi nel prestigioso circuito podestarile esigevano il possesso di un’adeguata cultura fondata sull’indispensabile studio e pratica del diritto civile e canonico. 22 Era essenziale saper dominare e calare nelle quotidiane guerriglie della prassi le discipline dell’utroque jure che Dante, nel Convivio, quasi con fastidio vedrà più tardi utilizzato strumentalmente da «colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti […] che non per sapere studiano ma per acquistare moneta e dignitade».62 Ora, per l’appunto, moneta e dignitade era quello che i più intraprendenti dei Cornazzano cercavano e accanitamente si impegnarono a conquistare, milites valorosi nell’arte delle armi, ovvero cives inseriti nelle istituzioni municipali fino a conseguire l’esercizio del rango podestarile. Figure emblematiche di quella famiglia che si trovarono per primi a reggere con prestigio l’istituzione podestarile furono il già menzionato Manfredo, figlio di Gerardo IV, e con lui, quale maestro precursore, il suo stretto parente Bernardo da Cornazzano, nato un ventennio prima, tra il 1160 e il 1170.63 I documenti indicano Bernardo come de Medesano, dal borgo fortificato64 posto al centro delle possessioni di quel ramo della famiglia, situato sulla via Francigena presso la foce del Taro. Fu podestà di Parma per il 1192, una carica che gli sarebbe stata inibita se cittadino di quel Comune. Durante quello stesso anno il palazzo vescovile andò a fuoco e venne completamente devastato. Il podestà Bernardo fu colpito da scomunica, ma non a causa dell’incendio della dimora del presule, bensì per aver osato, laicamente, porre sotto la giurisdizione dei tribunali del Comune tutti gli abitanti della città e del contado che l’imperatore aveva assegnato alla Chiesa. Alla condanna ecclesiastica si aggiunse un appello vescovile al sovrano con la richiesta di vietare al podestà qualsiasi intromissione nella gestione della città, finché non fosse stata revocata quella scomunica. Ne seguirono un’inchiesta e un processo istituito nel 1218 di fronte a un delegato papale, dove un testimone di parte episcopale accusò il Comune (era trascorso un quarto di secolo dal deplorato evento) d’essere responsabile dell’incendio: “estruxit pallacium episcopi”.65 Nel lustro precedente, l’anno 1213, Bernardo da Cornazzano comparve come testimone, assieme ai podestà di Parma e di Modena e al vescovo di Reggio, alla pace sottoscritta fra il Salinguerra, capo della fazione imperiale nella città di Ferrara, e Aldrovandino, marchese d’Este. Quell’anno è documentata un’altra testimonianza resa a Imola per il giuramento di fedeltà all’imperatore Ottone IV di Brunswick del vescovo Obizzo. Tre anni dopo, nel 1216, Bernardo era podestà a Reggio. Nell’agosto di quell’anno i Reggiani, alleati dei «E chi desse loro quello che acquistare, non sovrasterebbero a lo studio»: DANTE ALIGHIERI, Convivio, III, XI, § 10. 63 G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, cit. 64 In provincia di Parma, a cinque miglia dal capoluogo; il sito ha conservato il nome antico. 65 Il Libellus è l’istruttoria documentale di quel processo, inviata dal vescovo Obizzo Fieschi al papa contro il Comune di Parma, il 20 dicembre 1218. Il testo è steso su di un rotolo formato da 27 fogli di pergamena, cuciti insieme di seguito, che si conserva presso l’Archivio Segreto Vaticano, Arm. I-XVIII, 3913. 62 23 Felsinei, parteciparono all’assedio di Rimini, finito a settembre con la firma della pace tra Rimini e Bologna e la liberazione di oltre mille prigionieri. Sotto la podesteria di Bernardo venne edificata a Reggio la torre del palazzo comunale. Nel 1218 egli assunse la carica podestarile a Cremona, dove si segnalò, oltre che per le capacità militari, anche per risolutive virtù diplomatiche, che mise al servizio dell’imperatore Federico II. L’impegno politico-amministrativo di Bernardo da Cornazzano proseguì poi con cadenza annuale: nel 1224 egli era podestà di Pavia; il 10 marzo 1225 era a Brescia iudex o testimone nell’atto di rinuncia di Matteo da Correggio alla podestaria in quel Comune; nel 1226 tornò a Reggio come podestà. La medesima carica ricoprì l’anno successivo a Modena, dove alzò nuove fortificazioni e diede inizio alla guerra contro Bologna per il dominio delle terre del Frignano, assumendo contestualmente il comando delle milizie. Quella guerra lascia l’ultima documentazione dell’attività di Bernardo da Cornazzano: il 28 settembre 1229 egli sottoscrisse, in rappresentanza della città di Parma, l’atto con cui il vescovo di Reggio Niccolò fissava le condizioni per una tregua fra Modena e Bologna. Bernardo da Cornazzano e la stirpe dei Terzi Il podestà Bernardo da Cornazzano è stato identificato da antichi storici con altri nomi: Gherardo, o Gherardo Trino, Gherardo Terzo, o ancora Gerardo Terzo Cornazano figlio di Terzo terzogenito di Pietro da Cornazzano. Questo si legge, non senza avvertire doverose perplessità, nelle ricostruzioni fatte dal Contile, l’Angeli, il Campo, tutti cronisti che hanno mutuato queste notizie genealogiche, infarcite talora da intrepide fantasie, presso Edoari Da Erba.66 L’Affò, di fronte a questa ridondanza anagrafica per uno stesso soggetto, non aveva mancato, nella Storia della città di Parma, di esprimere il suo disagio: «Era desiderabile che stati fossero costanti gli Storici loro nel tramandarcene il nome; giacché il Cronista antico lo dice Gherardo Trino, chiamalo il Campo Gherardo Terzo da Cornazzano (Storia di Cremona, 1, II, p. 46), e il Cavitello 66 «Fu nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii de Cornazzani figliuolo di un nomato Guidone»: L. CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli academici affidati et con le interpretationi et croniche, Pavia 1574, p. 109. Di lui scrivono: «Fu chiamato Terzo, e fu condottiero de le genti d’arme di Papa Innocentio 4.°, et da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre Famiglia di Terzi di Parma». I. AFFÒ, A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e continuate da Angelo Pezzana, VI, II, Parma 1827, p. 330. E Angeli: «Fu egli padre di Gerardo Terzo Cornazano, che secondo il Campo, fu podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese Guido, che fu Capitano dello ‘mperatore, e da lui Nicolò che condottiere di gente servì Bernabò nella guerra ch’egli ebbe contra Genovesi. Fu fatto conte di Tizzano, militò sotto Giovan Galeazzo Duca di Milano»: B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462. 24 imbrogliandoci Terzo imbrogliandoci ancor ancor più, più, lo lo appella appella Gherardo Gherardo Terzo, Terzo, ovvero ovvero Bernardo Bernardo da da 67 67 Cornazzano Cornazzano (Annal. (Annal. Crem., Crem.,., cart. cart. 80)». 80)». Tuttavia, disordine trovato trovato tra tra le le Tuttavia, espressso espressso ilil dovuto dovuto rammarico rammarico per per ilil disordine carte, con lui lui Pezzana, carte, alla alla fine, fine, anche anche Affò, Affò, ee con Pezzana, si si rassegna rassegna ee conclude: conclude: «Se «Se tal tal fu fu ilil suo forza suo cognome, cognome, quale quale ce ce lo lo annunzia annunzia ilil Campo, Campo, ecco ecco acquistar acquistar molta molta forza l’opinione di Angeli, che pparlare, sia l’opinione dell’Angeli, chelalafamiglia famigliaTerzi Terzididi cui cui altrove altrove accaderà accaderà di di parlare, sia 68 un un ramo ramo de’ de’ Cornazzani». Cornazzani».68 Una Una conclusione conclusione alla alla quale quale bisogna bisogna arrendersi arrendersi perché, perché, nel nel ricostruire ricostruire la la transizione transizione dalla dalla più più vetusta vetusta stirpe stirpe dei dei Cornazzano Cornazzano ai ai Terzi, Terzi, sono sono notevoli notevoli le le lacune inciam Ci sono sono lacune ee le le imperterrite imperterrite opinioni opinioni dei dei cronisti cronisti che che fanno fanno da da inciampo. inciampo. Ci Con troppi meglio, ignorati ignorati dai troppi padri padri ignoti ignoti o, o, per per dir dir forse forse meglio, dai documenti. documenti. Congetturare Congetturare di di più più su su queste queste genealogie genealogie dal dal percorso percorso «carsico» “carsico” non non sisi può. può. Agostino Agostino di di Duccio, Duccio, Militi, Militi,, bassorilievo bassorilievo (1442). (1442). Duomo Duomo di di Modena, Modena, fianco fianco meridionale. meridionale. 67 67 68 68 I. 117 I. A AFFÒ FFÒ,, Storia Storia della della città città di di Parma, Parma,, II, II, cit., cit., pp. pp. 117-118. 117-118. I. I. A AFFÒ FFÒ,, Storia Storia della della città città di di Parma, Parma, III, III, cit., cit., p. p. 117. 117. 25 25 2. 2. Terzi di Parma podestà ee condottieri condottieri II Terzi di Parma, Parma, podestà Il castello castello di di Vigoleno, Vigoleno, eretto eretto nel nel sec. sec. X, X più X, più volte volte distrutto ricostruito passando passando in in Il distrutto ee ricostruito proprietà dai dai Cornazzani Cornazzani agli agli Scotti, Scotti, ai ai Pallavicino Pallavicino ee ai ai Farnese. Farnese. Nel Nel 1248 1248 apparteneva apparteneva aa proprietà Lanfranco da da Cornazzano. Cornazzano. Lanfranco «Essere Cornazzani èè cosa cosa presso presso ii nostri Terzi un un ramo ramo de’ de’ Cornazzani nostri Storici Storici «Esseree ii Terzi fuori dubbio». Pezzana, avvalendosi soprattutto fuori di di ogni ogni dubbio». Pezzana avvalendosi soprattutto ». Così Così concludono concludono Affò Affò ee Pezzana, delle delle ricerche ricerche genealogiche genealogiche curate curate per per incarico incarico dei dei discendenti, discendenti, attorno attorno al al 1572, 1572, da Edoari Edoari Da Daa Erba. Erba. Questi, Questi, prendendo prendendo le le mosse dal conflitto che, tra da mosse dal conflitto che, tra ilil 1247 1247 ee ilil 1248 ai suoi suoi 1248 contrappose contrappose ii filopapali filopapali di di Parma Parma all’imperatore all’imperatore Federico Federico II II ee ai partigiani, «così «così dà dà conto conto del del come come rampollasse rampollasse ilil Ramo Ramo de’ de’ Terzi partigiani, Terzi dal dal grand’Albero de’ de’ Comazzani»: Comazzani»: grand’Albero assediando assediando Federico Federico Imperatore Imperatore Parma, Parma, et et prendendo prendendo ciascuna ciascuna fortezza fortezza del del suo suo territorio, territorio, solo solo Lanfranco Lanfranco di di Cornazani Cornazani tra tra molti molti citadini citadini aa favore favore della della patria si si tenne tenne co’ co’ Vigoleno suo Castello, Castello, et et Pietro Pietro di di Cornazzani Cornazzani similmente patria Vigoleno suo similmente valorosissimo milit de valorosissimo Cavagliero, Cavagliero, essendo essendo in in questi questi tempi tempi capitanio capitanio della della militia militia de la la Città, Città, et et con con Bernardo Bernardo et et Rolando Rolando di di Rossi Rossi menando menando vettovaglie vettovaglie da da Fornovo Fornovo Collecchio da da gli gli estrinseci estrinseci conflitta conflitta la la militia militia intrinseca; intrinseca; portò portò per per forma forma aa Collecchio salvo che che no’ no’ gli gli fosse fosse tolto tolto fuora, fuora, de de nemici nemici combattendo combattendo ilil stendardo stendardo salvo havuto da da la la comunità, comunità,, e, e, lo lo tornò tornò in in Parma; Parma; et et da da questo questo generosissimo generosissimo havuto Capitanio Pietro Pietro n’uscì n’uscì con con felicissimo felicissimo successo successo un un primo primo figliuolo figliuolo qual qual fu fu Capitanio chiamato Primo Primo ee fu fu Capitanio Capitanio strenuo strenuo dopo dopo ilil padre padre delle delle genti genti d’arme d’arme di di chiamato qual fu Federico 2° 2° Imperatore; Imperatore; et et un un secondo ssecondo qual Federico fu chiamato chiamato Secondo, Secondo, et et fu fu per per sua virtù virtù elletto elletto dal dal Popolo Popolo Capitanio Capitanio de de la la militia militia de de la la Città; Città; et et un un terzo terzo sua qual fu fu chiamato chiamato Terzo, Terzo,, ee fu fu condottiero condottiero de de le le genti genti d’arme d’arme di di Papa Papa qual Innocentio 4.°, 4.°, et et da da lui lui n’uscì n’uscì la la Preclarissima, Preclarissima, honoratissima, honoratissima, et et illustre illustre Innocentio 69 Famiglia di di Terzi Terzi di di Parma. Parma.69 Famiglia 69 69InInI. I.AA FFÒ , A. EZZANA , ,Memorie FFÒ , A.PP EZZANA Memoriedegli degli scrittori scrittori ee letterati letterati parmigiani, parmigiani, cit, Da-Erba cit, p. p. 330 330 («il («il Da-Erba nell’Antichità et et Nobiltà Nobiltà di di Cornazani Cornazani di di Parma P Parma citata citata da da me me aa f. f. 74, 74, ee da da Affò Affò qui qui sotto sotto aa f. f. 34 34 nell’Antichità 26 26 Questa narrazione appare convincente quando scrive di Lanfranco da Cornazzano, signore del castello di Vigoleno, e di Bernardo con Rolando Rossi, nomi che nei documenti trovano precisi riscontri. Lascia dubbiosi, invece, quando descrive con tanta approssimazione l’origine della famiglia dei Tertii de Cornazzano. Bonaventura Angeli, per parte sua, ma sempre attingendo a Da Erba, scrive di: «Pietro che fiorì intorno l’anno 1140. Egli hebbe tre figliuoli, che dal numero loro volle, che nominati fussero Primo, Secondo, e Terzo questi ordinò, che la famiglia del suo ramo sì chiamasse dal nome suo e mutando il nome della gentilità, diversificò l’arma anchora, levando dall’antico i corni».70 Luca Contile, sui tre figli di Pietro, fornisce altri particolari: «Conciosia che Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figliuolo e chiamollo Primo che fu capitano invitto di Federigo Imperadore, hebbe anco un’altro figliuolo e lo fece nominare Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia nella sua città. El fratello di questo fu nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani». 71 Dalla convergenza di queste notizie emerge un unico indizio utile per tentare almeno di verificarne l’attendibilità, riguardante il terzogenito di Pietro Cornazzano, Terzo per l’appunto, che sarebbe stato condottiero di Innocenzo IV Fieschi, un papa molto legato a Parma,72 salito al soglio pontificio nel giugno e nell’Articolo di esso Da-Erba, così dà conto del come rampollasse il Ramo de’ Terzi dal grand’Albero de’ Cornazzani»). 70 B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 463. 71 Prima di Affò e Pezzana, Luca Contile, nel 1574, così si era cimentato nel ricostruire la genesi della stirpe dei Terzi da quella: «della antica e nobil famiglia de Cornazzani i quali hanno sempre havuti honorati gradi e stimati fra i primi della lor patria, et a’ servigi degli lmperadori et altri Prencipi hanno militato con honorevoli condotte e da piedi e da cavallo, con Governi de’ luoghi, e titoli di Signorie, e per non ragionare de gli antichi, de quali ci sarebbe troppo che dire, verremo però a questo cognome de Tertii, e da un terzo de Cornazzani, conciosia che Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figluolo e chiamollo Primo che fu capitano invitto di Federigo lmperadore, hebbe anco un’altro figliuolo e lo fece nominare Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia nella sua città. el fratello di questo fu nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii de Cornazzani figliuolo di un nomato Guidone, il quale per la fedele servitù fatta all’Imperio, ſu molto grato all’Imperador Vinceslao Re de Romani e di Boemia, onde gli fece donatione con uno amplissimo privilegio d’alcuni castelli, e luoghi nel territorio Piacentino, con titolo di conte, cioè di Castel nuovo e di Casal Albino e d’altri luoghi. la qual degnità e signoria ſu conceduta al detto Nicolo nel 1377. co ‘l dominio libero & assoluto, e Sua Ces. Ma. ordinò e comandò che Giovan Galeazzo Visconte Duca di Milano e suo Vicario Imperiale di Piacenza, approvasse la detta donatione, e la mantenesse, e conservasse nel possesso di quella non solamente Nicolo e suoi ſigliuoli, mà ancora il cavalier Giberto Fratello di detto Nicolo». L. CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese, cit., p. 109. 72 Era stato canonico della cattedrale, e a Parma aveva maritato tre sorelle e una nipote imparentandosi con i Rossi, i Sanvitale, i Tavernieri. Scrive Affò «perché innalzato poscia lo stesso Sinibaldo al Sommo Pontificato col nome d’Innocenzo IV pregi sommi e vantaggi ne 27 1243 per trovarsi subito allo scontro e in guerra asperrima con Federico II. Un conflitto che esasperò l’ostilità dell’imperatore e del figlio Enzo verso Parma e che portò al lungo assedio del 1247-1248 inflitto alla città. Tutti eventi che si verificarono oltre un secolo dopo quel 1140 in cui «fiorì» Pietro. Ora, anche superando l’intralcio dell’anno 1140, probabilmente un lapsus calami (si dovrebbe leggere 1240, così da rendere verosimile l’età conseguente dei singoli protagonisti), rimane a intrigare la collocazione dei personaggi sugli opposti fronti di quella guerra locale fra fazioni parmigiane, ma altresì teatro dell’estremo tentativo di Federico II d’imporre la sua egemonia unificante sull’Italia settentrionale. Se, stando ad Angeli e agli altri storici che cavano quelle notizie dall’imprescindibile ma talora inaccurato Da Erba, mentre il primogenito di Piero, Primo, combatteva dalla parte dell’imperatore («Primo che fu capitano invitto di Federigo Imperadore»), contemporaneamente il terzogenito, ovvero Terzo, lo affrontava guerreggiando per il papa («Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto»). Una guerra di fratelli contro fratelli che porta alla constatazione di quanto anche i da Cornazzano, al pari di altre casate padane, fossero stati trascinati, in quelle congiunture storiche, nei conflitti intrafamiliari: bipartite fra i filopapali, fuoriusciti verso Piacenza al seguito di Bernardo o Bernardino, e i fedeli alla pars domini imperatoris, rimasti a Parma guidati dal fredericiano Manfredo. Questi era la mano armata del cognato Bartolo Tavernieri che, pur imparentato col regnante pontefice, capeggiava il partito filoimperiale al governo della città. Preso atto che gli interrogativi suggeriti dal racconto di Da Erba, se letto in relazione a quella temperie, rimangono senza risposta, è necessario riprendere il filo della ricerca per approdare al punto in cui le carte cessano di essere mute. Per quanto concerne la genesi e la genealogia dei Terzi è da dire che l’unico elemento non ambiguo e asseverato si trova nel fatto che in un preciso momento della storia essi compaiono, dotati di personalità fisica e giuridica, in un documento, portando quel cognomen. Evento che si registra il 7 dicembre 1329 allorquando da Norimberga, con suo diploma munito del sigillo imperiale, Ludovico IV il Bavaro concede benefici ed esenzioni a Guido I e ai suoi figli Filippo e Guido II, della famiglia Terzi, cittadini di Parma: 73 Nobilibus viris Guidoni, & Filippono fratribus de Tertiis Civibus Civitatis Parme & Imperii fidelibus dilecti 74 avvennero a’ suoi nipoti, che vedremo essere stati da lui favoriti moltissimo, e a dignità grandi innalzati». Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, cit., p. 89. 73 Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, Parma 1795, pp. 370. 74 Il documento è stato trascritto ivi, pp. 370-371. La patente imperiale concessa alla famiglia dei Tertiis poneva in essere un tipico istituto feudale del XIV finalizzato al ripristino della signoria di banno. Questa si concretava in un rapporto giuridico ove il vassallo accettava, con gli onori e i privilegi della piena giurisdizione, ogni onere conseguente e gravante sul governo e la gestione delle terre sottoposte al suo dominio. La diffusione della signoria di banno favorì il proliferare di nuovi centri di potere analoghi a quello sorti nel Parmigiano, nell’Italia settentrionale e centrale. 28 Terzi acquisirono II Terzi acquisirono con con ciò ciò piena piena dignità dignità ee poteri poteri signorili, signorili, entrando entrando nella nella storia quali de Tertiis, storia quali de Tertiis, come come esplicitamente esplicitamente lili chiama chiama ilil diploma. diploma. In In virtù virtù di di questo decreto decreto imperiale, imperiale, ii Terzi Terzi poterono poterono confermare confermare ee istituzionalizzare istituzionalizzare ilil loro loro questo 75 Torricella, insediamento nel nel contado contado parmense parmense alla insediamento alla foce foce del del Taro, Taro, fra fra Sissa Sissa75 ee Torricella, che doveva presumibilmente passando dal rapporto di possesso patrimoniale, passando dal rapporto di possesso patrimoniale, che doveva presumibilmente rapporto di di già essere essere stato stato in di fatto fatto dalla dalla famiglia, famiglia, aa un un rapporto già in precedenza precedenza goduto goduto di 76 dipendenza vassallatica. 76 dipendenza vassallatica. Maturata la la propria Maturata propria autonomia autonomia giuridica giuridica ee patrimoniale patrimoniale rispetto rispetto al al ramo ramo originario e alle proprietà dei da Cornazzano, grazie anche al riconoscimento originario e alle proprietà dei da Cornazzano, grazie anche al riconoscimento imperiale giunto giunto con con ilil diploma diploma di di Ludovico Ludovico ilil Bavaro, Bavaro, la la famiglia famiglia dei dei Terzi Terzi si si imperiale dedicherà aa nuovi nuovi acquisti, dedicherà acquisti, in in una una successione successione di di vicende vicende segnate segnate da da alternanza alternanza di successi successi ee brucianti, brucianti, sanguinose sanguinose sconfitte, di sconfitte, militari militari ee politiche. politiche. II Terzi Terzi dispiegarono ogni strategia per consolidare e ampliare il dominio della dispiegarono ogni strategia per consolidare e ampliare il dominio signorile signorile della famiglia, dilatando i loro domini famiglia, dilatando i loro domini terrieri dal dal Parmense Parmense al al Reggiano Reggiano fino terrieri fino al Piacentino. Essi legarono al Piacentino. Essi legarono ii loro loro destiniaaquello quellodei deisignori signorididiMilano, Milano,i destini iVisconti, Visconti, ai quali seppero offrire, ai quali seppero offrire, con con qualche effimera eclisse, al qualche effimera eclisse, sino sino al loro loro tramonto, validi servizi nellee tramonto, validi servizi nelle armi armi magistrature. e nelle magistrature. nelle Di questi questi rapporti rapporti sisi trova trova una una Di prima traccia già l’8 luglio 1362, prima traccia già l’8 luglio 1362, quando un un Ghirardino Ghirardino (o (o Gherardo) Gherardo) quando ) , presentò istanza a Terzi Bernabò Terzi), presentò istanza a Bernabò Visconti per per poter poter riedificare riedificare la la rocca rocca Visconti di Torricella, posta a guardia del di Torricella, posta a guardia del porto porto Po, feudo legato quello di sul Po,sul feudo legato a aquello di Due anni anni dopo, dopo, nel nel 1364, 1364, ii Sissa.7777 Due Sissa. fratelli Niccolò Niccolò ilil Vecchio Vecchio ee Giberto, Giberto, fratelli figli di Guido I, prestarono figli di Guido I, prestarono giuramento di di fedeltà fedeltà ancora ancora aa giuramento Bernabò per i castelli di Belvedere Bernabò per i castelli di Belvedere ee Barnabò Barnabò Visconti Visconti (1323-1385). (1323-1385). Incisione Incisione in in P. P. 78 Tizzano.78 Giovio, Le vite de i dodeci visconti, Milano 1645. Giovio, Le vite de i dodeci visconti, Milano 1645. Tizzano. Il sito di Sissa Il sito corrisponde corrisponde all’attuale all’attuale comune comune di Sissa Trecasali, Trecasali, in in provincia provincia di di Parma, Parma, otto otto miglia miglia aa Nord del porto fluviale Nord del capoluogo. capoluogo. L’antico L’antico porto fluviale di di Torricella Torricella sul sul Po Po èè una una sua sua frazione. frazione. 76 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato: Ottobuono Terzi, conte di Reggio e signore 76 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato: Ottobuono Terzi, conte di Reggio e signore di Parma Parma ee Piacenza, in G. G. B BADINI ADINI,, A. A. G GAMBERINI AMBERINI (a (a cura cura di), di), Medioevo Medioevo reggiano: reggiano: studi studi in in memoria memoria di di di Piacenza, in Odoardo Rombaldi, Milano 2007, Odoardo Rombaldi, Milano 2007, p. p. 286. 286. 77 «Gherardo abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli 77 «Gherardo abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli concedesse una concedesse una torre torre in in gran gran parte parte caduta caduta in in rovina, rovina, ee disabitata disabitata che che ivi ivi sorgeva sorgeva in in riva riva al al Po»: Po»: A. P EZZANA , Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105, n. 126. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105, n. 126. 78 Cfr. G. CHITTOLINI, Infeudazioni e politica feudale nel ducato visconteo-sforzesco (1972), nella raccolta di 78 Cfr. G. CHITTOLINI, Infeudazioni e politica feudale nel ducato visconteo-sforzesco (1972), nella raccolta di studi dello La formazione formazione dello studi dello stesso stesso autore autore La dello Stato Stato regionale regionale ee lele istituzioni istituzioni del del contado: contado: secoli secoli XIV XIV ee XV (1979), (1979), Milano Milano 2005, XV 2005, p. p. 63. 63. 75 75 29 29 I Terzi erano al suo stipendio allorché questi, attizzando la guerra con gli Estensi, signori di Ferrara e Modena, ne occupò le terre recando un grave vulnus ai diritti e alle proprietà della Chiesa suscitando perciò le ire di papa Gregorio XI. La Lega Pontificia che si formò allora portò, nel 1373, sotto l’impeto delle armi di Galeotto I Malatesta, capitano generale della Chiesa, negli scontri consumati a Montichiari, presso Brescia, alla sconfitta dei milanesi. Tra i prigionieri che contarono le truppe viscontee si trovò anche un Guido Terzi, parmigiano.79 Bernabò, e in seguito Gian Galeazzo, premiarono la fedeltà della sua famiglia con l’assegnazione di capitanati nelle città padane, e tra queste Bergamo, Brescia, Reggio, Verona. Le ambizioni dei Terzi saranno affidate tuttavia soprattutto alle virtù militari dei loro maggiori esponenti, capitani e condottieri scesi in armi agli stipendi della Contea e poi del Ducato di Milano, finché questo fu dominio dei Visconti. Il biennio 1386-1387 segnò sul piano politico una tappa oltremodo significativa per i Terzi, che i documenti consegnano alla storia tra i lignaggi protagonisti della feudalità padana. Il 15 agosto 1386, con una solenne cerimonia celebrata nella cattedrale di Pavia, Niccolò Terzi il Vecchio fu investito dell’ordine equestre per mano di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù. Oltre agli onori furono confermati ai Terzi in quel tempo i loro diritti sulle terre di Castelnuovo80 e Casale Albino nel Piacentino, loro donate verso il 1377 da Gherardo Visconti ma rivendicate da Niccolò Visconti. Gian Galeazzo investi di quei castelli non solo Niccolò, ma i suoi eredi diretti, ovvero, in mancanza di questi, i figli di quondam Giberto suo fratello». Le investiture feudali vennero sancite l’anno seguente dall’imperatore Venceslao mediante il diploma, intestato a Nicholao filio quondam nobilis Guidonis capitanei de Terciis de Cornazzano, sigillato il 19 agosto 1387 a Norimberga, verosimilmente su proposta di Gian Galeazzo, vicario imperiale. Le giurisdizioni dei Terzi nel Parmense, a Stornello, Alzano, Casola, Carobbio, Reno, Beduzzo, Bellone, Montebello, Nirone, con Tizzano e Sissa, furono erette in Contea; nel Piacentino si concesse l’investitura dei feudi di Castelnuovo, di Casale Albino, della pieve di S. Pietro del Campo Cervaro, dello Stirone con le ghiaie e condotti di questo; nel Reggiano furono attribuiti i centri minori di Gombio, Gottano e Cola. L’investitura imperiale comprendeva il diritto di trasmettere il titolo comitale a ciascuno dei figli e ai loro eredi. Nell’incipit del diploma si fa l’encomio della lealtà degli avi dei Terzi e del loro servizio prestato al Sacro Romano Impero: Capitanei et Gubernatores partis Imperii et potentes in Civitate Parmensi ipsiusque Dioecesi et partibus illis, pro defensione jurium Sacri Rom. Imperii «Tra i prigionieri fatti in sul Bresciano nel mese di maggio non solo fu Bertrando Rossi, ma anche Guido Terzi»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 104. 80 Oggi Castelnuovo Fogliani, in provincia di Piacenza. 79 30 maxime tempore D. Praedecessoris nostri q. Federici Imperatoris, Hierusalem ac Siciliae Regis, non metuerunt sese periculis mortis exponere, et in bonis et rebus eorum maxima damna et in quam pluribus castris ruinas 81 inexorabiles sustulerunt, nec tamen unquam a recto tramite deviavere.81 Il documento del 1387 esplicita, come il precedente di Ludovico il Bavaro del 1329, il forte legame con l’Impero l'Impero della nuova famiglia dei Terzi radicata nella storia dei Cornazzano, il cui cognomen cognomen più antico tornerà ancora per accompagnare quello della nuova schiatta: Terciis, Terciis, o Tertiis Tertiis de de Cornazzano. Cornazzano. L’inscriptio del diploma di Venceslao è esattamente intestata al nobile Nicholao Nicholao filio filio quondam quondam nobilis nobilis Guidonis Guidonis capitanei capitanei de de Terciis Terciis de de Cornazzano. Cornazzano. Più oltre, nel testo, i tre figli di Nicholao de Terciis Terciis de Nicholao sono individuati quali eredi del nobile de de Cornazzano. Cornazzano. Quindici anni più tardi, sempre marcando questa continuità di stirpe, a prescindere dal cambio di cognome, Gian Galeazzo Visconti investirà con patente del 29 luglio 1402 i fratelli Terzi, quali Comites Comites Tizzani, Tizzani, & & Castrinovi Castrinovi Tertiorum, Tertiorum, dei feudi già posseduti da Giberto da Correggio, e questi saranno ricordati esattamente come figli ed eredi dello «spectabilis Miles Dominus 82 Nicolaus de Tertiis de Cornazzano de Parma».82 I Terzi si erano affermati nella seconda metà del secolo XIII esercitando le funzioni di podestà nell’ambito delle istituzioni comunali e impegnandosi sul campo come capitani nelle condotte militari. Essi riverberarono il prestigio individuale acquisito sulla propria famiglia che, munita di autonoma personalità feudale, titolare di una nobiltà ereditaria consacrata da diplomi imperiali, dotata di beni immobiliari e di estese proprietà fondiarie, sparse a macchia di leopardo da Parma fino a Reggio, Piacenza e Cremona, divenne influente al punto da potersi confrontare, agli inizi del secolo successivo, con le altre casate magnatizie e signorili sino ad allora predominanti. È da notare che proprio in Gian Galeazzo Visconti (1351-1402). Incisione in Gian Galeazzo Visconti (1351-1402). Incisione in P. Giovio, Giovio, Le Le vite vite de de ii dodeci dodeci visconti, visconti, Milano Milano 1645. 1645. P. quanto proprietari di considerevoli «Questo diploma è in data di Norimberga, 1387, e sta in copia semplice nell’Archivio dello Stato»: A. PEZZANA EZZANA, Storia Storia della della città città di di Parma, Parma, I, cit., p. 171. 82 82 Il diploma è integralmente trascritto da I. AFFÒ FFÒ, Istoria della città, e ducato di Guastalla, I, Guastalla 1785, pp. 379-387. 81 81 31 beni terrieri e urbani che dalle rive del Parma si addentravano entro i confini di altri comuni padani, i Terzi, oltre che della cittadinanza parmigiana, erano titolari di quella cremonese. Inoltre, nell’ultimo decennio del secolo XIV, grazie alla deroga agli statuti comunali loro concessa da Gian Galeazzo, goderono anche della cittadinanza reggiana.83 La forza del casato si espresse sempre più ora nell’impegno sul campo dei suoi esponenti quali milites, capitani d’armi e condottieri, al servizio dei signori di Milano, i Visconti, mai trascurando tuttavia le proprie convenienze e interessi. Fra questi condottieri si distinsero, oltre a Niccolo il Vecchio, i di lui figli Ottobono, Giacomo e Giovanni, fino al nipote Niccolò il Guerriero. 83 Cfr. A. GAMBERINI, La forza della comunità. Leggi e decreti a Reggio in età viscontea, in R. DONDARINI, G.M. VARANINI, M. VENTICELLI (a cura di), Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo: VII Convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative, Ferrara, 5-7 ottobre 2000, Bologna 2003, ora in IDEM, Lo Stato visconteo: linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, pp. 137-152, in particolare p. 150. 32 3. 3. Niccolò il Vecchio Vecchio Niccolò Terzi, Terzi, il L’anno L’anno 1386, 1386, aa Pavia, Pavia, nell’antica nell’antica basilica basilica di di San San Michele Michele Maggiore Maggiore ove ove erano d’Italia, erano stati stati incoronati incoronati ii primi primi re re d’Italia d’Italia, da da Berengario Berengario II al al Barbarossa, Barbarossa, Gian Gian Galeazzo Galeazzo Visconti, Visconti,, vicario vicario imperiale, imperiale, creò creò cavaliere cavaliere ilil nobile nobile parmigiano parmigiano Niccolò Giberto Niccolò dei dei Terzi, Terzi, figlio figlio di di Guido Guido oo Guidone, Guidone, fratello fratello di di Giberto. Giberto. d’agosto, ed la festività festività dell’Ascensione, dell’Ascensione, fu fatto ee creato creato Il 15 d’agosto, Il mercoldì mercoldì 15 ed era era la fu fatto Cavaliere nella Chiesa Chiesa maggiore maggiore di di Pavia, Pavia, in in fronte fronte all’altare, all’altare, l’eccellente Cavaliere nella l’eccellente dominus Tertiis de de Parma, Parma, dall’illustre d. d. d. dominus Nicolao Nicolao de de Tertiis dall’illustre Principe Principe ee magnifico magnifico d. la spada spada al al fianco. fianco. Gli Gli fece fece Conte nostro che che cingendogli c cingendogli Conte di di Virtù Virtù signor signor nostro la quindi lo speron speron destro destro dall’illustre dall’illustre Antonio Porro quindi calzare calzare lo Antonio Porro, Porro, ee ilil sinistro sinistro da da Ottolino mezza pezza pezza di di stoffa stoffa Ottolino da da Mandello. Mandello.. Furono Furono donati donati al al cavaliere cavaliere mezza scarlatta, di drappo drappo dorato, dorato, una una pezza pezza di di velluto velluto di di grana, grana, alquante alquante scarlatta, una una di pellicce una spada spada con con fodero fodero di di velluto velluto rosso rosso guarnito guarnito d’argento d’argento pellicce di di vajo, vajo, una dorato, di candida candida cera, cera, quattro quattro scrigni confetti, un un bacile, bacile, una una dorato, sei sei torchi torchi di scrigni di di confetti, 84 brocca coppe tutte tutte d’argento d’argento rgento dorato. brocca ee due due coppe dorato.84 84 84 «13. xv augusti, augusti, et et erat erat festum festum Ascenssionis Ascenssionis Virginis Virginis Marie, Marie, factus factus et et creatus creatus fuit fuit «13. Die Die mercurii mercurii xv milles vir dominus dominus [...] [...] in in civitate civitate Papie Papie in in ecclesia ecclesia maiori maiori domicilii domicilii dicte dicte civitatis civitatis milles egregius egregius vir Papie principem ac ac magnificum magnificum d. d. d. d. Comitem Comitem Virtutum Virtutum dominum dominum nostrum nostrum Papiee per per illustrem illustrem principem ante ecclesie, et et cinxit cinxit sibi sibi spatam spatam et et fecit fecit sibi sibi calciari calciari calcaria, calcaria, videlicet: ante altare altare maioris maioris diete diete ecclesie, videlicet: de dextrum egregium militem militem d. d. Antonium Antonium Porrum, Porrum, et et sinistrum sinistrum per per d. d. Ottolinum Ottoli Ottolinum de dextrum per per egregium Mandello Et item item fecit fecit sibi sibi largiri largiri ipsi ipsi [...] [...] infrascripta, infrascripta, videlicet: videlicet: petiam petiam mediam mediam Mandello militem. militem. 14. 14. Et panni unam drappi drappi dorati, dorati, petiam petiam unam unam veluti veluti de panni scarlate, scarlate, petiam petiam unam de grana, grana, pancias pancias md md pelarum pelarum 33 33 L’investitura a cavaliere, momento di gloria per il cinquantenne Niccolò, premiava la lealtà e il valore di una lunga e strenua militanza. La sua biografia, per quel che dicono e fanno intuire le carte, è marcata dal vincolo stretto che legò nel tempo, fin dalla gioventù, il capitano d’armi, il podestà rettore di comuni padani e il feudatario, alle vicende della casata dei Visconti. In quel giorno dell’Ascensione, sotto le volte della cattedrale di Pavia, la riconoscenza icasticamente si manifestò per mano di Gian Galeazzo mediante l’addobbamento: il rituale maestoso con il conte di Virtù che cinse la spada, arma simbolo della cavalleria, al fianco del suo condottiero Niccolò Terzi, per la storia Nicolao de Tertiis de Parma. La gratitudine viscontea non si esaurì tuttavia nei fasti formali di quella liturgia cavalleresca. Annota Pezzana nella sua Storia della città di Parma: «Non si limitarono i favori di Giangaleazzo verso Niccolò a tale onorificenza, ed a sì ricchi donativi. Intorno a questi tempi, riconosciute giuste le ragioni del Terzi sopra le castella ed i luoghi di Castelnovo e Casale Albino, de’ quali aveagli fatto donazione verso il 1377 il Piacentino Gherardo Visconti,85 e cui con lungo litigio aveagli contrastati indarno Niccolò Visconti, il Signor nostro investi di quelle terre lui non solo, ma i suoi figli, e in difetto di questi i figli di quondam Giberto suo fratello».86 Un anno dopo, il 19 agosto 1387, l’imperatore Venceslao di Boemia, con diploma steso a Norimberga, confermò ai Terzi, accordando loro ogni immunità e franchigia, le investiture nel Parmense concesse dal Visconti, aggiungendone altre nella Diocesi di Piacenza, ordinando che queste fossero separate dalla città: «Oltre l’investitura de’ predetti luoghi Venceslao concesse in feudo a Niccolò nello stesso Diploma tutta la pieve di S. Pietro del Campo Cervaro nella Diocesi Piacentina, lo Stirone colle ghiaje e coi condotti di questo e le terre di Tizzano87, di Stornello, di Alzano, di Casola, di vayri, spatam unam cum fodro veluti rubei et fulcita de argento dorato, torticia vi, scatollas IIII confectionis, unum bacille, unum broncinum seu bocalle et coppas duas, que omnia erant argenti dorata. 15. Idem fecit domino Nicolao de Tertiis de Parma suprascripto die»: Chronicon bergomense guelpho-ghibellinum ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCCVII, a cura di C. Capasso, in Rerum italicarum scriptores: raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, XVI, II, Bologna 1928, p. 28, nn. 13-15. 85 Verso il 1377, Niccolò aveva acquistato dal piacentino Gherardo Visconti le terre di Casale Albino e Belmonte, dove, due anni dopo, egli ricostruì la grande torre che tutt’oggi si erge ben salda, mutandone il nome in Castelnuovo e conosciuto in seguito come Castelnuovo de’ Terzi (è l’odierno Castelnuovo Fogliani). Concorda anche Poggiali: «Un altro Niccolò Terzo da Parma (nato di Guido de Tertiis de Cornazano, padre del soprammentovato Ottobono, ed Avo di questo Niccolò Guerriero, e, secondo il citato Angeli, ammesso alla Piacentina Cittadinanza nel dì 3 di Dicembre dell’Anno 1374) acquistato avea il sopraddetto Luogo di Castelnuovo, la Terra di Casale Albino, ed altre Ville e Castella del distretto di Piacenza da Gherardo Visconte Piacentino verso l’Anno 1377»: C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, VII, Piacenza 1759, p. 309. 86 «Tale investitura gli fu confermata poi dall’Imperatore Venceslao [...] accordandogli ogni immunità e franchigia, e approvando che fossero que’ luoghi separati dalla Città di Piacenza. Volle cosi Venceslao rimeritare i servigi prestati dal Terzi e da’ suoi avi al S. Romano Impero»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 171. 87 Tizzano Val Parma, a Sud Est del capoluogo. 34 Carobbio, di Reno, di Berluzzo, di Ballone, di Montebello e di Nirone, delle quali il dichiarò Conte». Niccolò fu investito di quelle terre per sé ed eredi, «pro e, & liberis suis, & ipsis deficientibus, pro filiis quondam Giberti Militis, fratris sui», «con mero e misto imperio, podestà di coltello,88 separazion di distretto, e più altri specialissimi onori, e privilegi».89 Sulla scena della cattedrale di Pavia, il rito cavalleresco fu celebrato da Gian Galeazzo Visconti quale nuovo signore di Milano, succeduto allo zio Bernabò, spodestato l’anno precedente. Il condottiero Niccolò Terzi era rimasto agli stipendi di Bernabò per oltre quattro lustri, passando a quelli del conte di Virtù solo pochi mesi prima che costui, tolto di mezzo lo zio, si impadronisse di Milano. «Dice il Da Erba che Niccolò Terzi, Conte di Tizzano, era stato capitano de’ cavalli leggieri di Bernabò, che di lui faceva gran capitale, contro i Genovesi, e poi fu condottiere d’uomini d’arme e d’altre soldatesche contro i Fiorentini per Giangaleazzo».90 Nel 1364 Niccolò aveva prestato assieme al fratello Giberto giuramento di fedeltà a Bernabò, vedendosi quindi confermate le investiture e il titolo comitale per i castelli di Belvedere e Tizzano. Cinque anni più tardi, nel 1369, comandato da Bernabò, egli era capitano del popolo a Bergamo,91 nel 1372 a Brescia e, dal 1375, a Reggio.92 Nell’aprile 1380, allorché i Visconti formarono una lega con Venezia contro i Genovesi, intromettendosi nel perpetuo conflitto che opponeva le due repubbliche marinare, Bernabò inviò Niccolò Terzi suo capitano verso la Liguria alla testa di mille lance.93 Altre 400 ne aggiunse Gian Galeazzo il giorno La podestà di coltello, con il mero e misto imperio, conferiva il diritto d’infliggere, mediante giudice di legge, anche le massime pene della mutilazione corporale e della morte. 89 C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 309. 90 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 201. 91 Cfr. P. MAINONI, A. SALA (a cura di), I registri litterarum di Bergamo (1363-1410): il carteggio dei signori di Bergamo, Milano 2003, indice. 92 Così Pezzana: «Nel seguente mese un Messer Orlando da Parma sedea Podestà in Siena, mentre il nostro Niccolò Terzi, padrone di Castelnovo de’ Visconti, ora Castelnovo Fogliani nel Piacentino, era Capitano del Popolo in Reggio»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 112. 93 «E del mese d’Aprile con mezo dì Bernabò, Giovan Galeazzo entrò nella lega con lui, & Veneziani contra Genovesi, e sopra del suo ambedue i Visconti mandarono le sue genti. Capitano di Bernabò fu fatto Nicolao Terzo, e per il Conte di Virtù Ottolino Mandello, huomo di grand’animo, e di somma prudenza nell’arte della guerra, quantunque il profitto di tal impresa non succedesse secondo il pensar di molti; ma la cagione in gran parte si attribui à Bernabò, il quale prolungando egli quella guerra pareva guadagnare: perciò che di continuo a’ sudditi richiedeva genti, o denari». Così B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 604. Pietro Cornaro, ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la corte viscontea, in una lettera inviata il 3 aprile 1380 al doge Andrea Contarini aveva riferito circa le forze messe in campo dai Visconti contro Genova: «Dicitur quod dicte gentes erant lanze .IIIJ.c vel circa, ungari .C. et pedites quantitas quorum adhuc ignorant, sed bene scio quod non erant in quantitate debita; ut aliqui dicunt erunt forte .VJ. vel circa». E subito di seguito Cornaro informa il doge con ammirazione circa il coraggio, esperienza, sapienza e virtù e militari (non scordando 88 35 26, inviandole da Pavia sotto il comando di Ottolino da Mandello con l’ordine di calare su Genova. Ai primi di maggio Niccolò aveva dato inizio all’invasione del territorio genovese, ma a metà del mese dovette sospenderla. Mandello indugiava passivo a Tortona, lamentando l’inadeguatezza delle sue forze. Terzi fu d’accordo con lui nel chiedere rinforzi.94 Solo nelle settimane fra il luglio e settembre i due capitani viscontei ripresero l’iniziativa, premiata ai primi di ottobre con la conquista di Novi. La soddisfazione dei Visconti per gli obiettivi conseguiti dai loro capitani si manifestò pochi mesi più tardi solo nei confronti di Ottolino da Mandello, il fedelissimo di Gian Galeazzo. Questi, il 19 agosto 1382, diede ordine di cassare due ingenti debiti del suo condottiero e l’anno seguente lo investì del feudo di Caorso. Alquanto diverso fu il trattamento riservato a Niccolò Terzi, che «capitanava le genti di Bernabò». Reduce vittorioso dalla guerra di Liguria, nel novembre 1382 si scoprì incolpato,95 peraltro in buona compagnia, di avere fornito ricetto ad assassini, grassatori, banditi da Piacenza, e pertanto sotto minaccia delle sanzioni comminate dai decreti emessi da Gian Galeazzo: Approvò Gian Galeazzo Visconte nel Novembre di quest’Anno alquanti provvedimenti, e decreti […] con minacciar pene gravissime a’ Marchesi di Pellegrino, a Niccolò de’ Terzi, al Conte Ubertino Landi, a Bernabò di lui figliuolo, e a qualunque altra persona favorisse, o ricettasse di lì innanzi que’ nemici, e perturbatori della pubblica quiete.96 Superato o scordato che fosse questo infortunio giudiziario, meno di tre anni dopo, agli inizi del 1385, Niccolò passò al servizio di Gian Galeazzo, raggiungendo l’altro valoroso condottiero parmigiano, Jacopo Dal Verme, che quelle opportunamente politiche!) che davano lustro al nobile parmense Niccolò il Vecchio: «Capitaneus dictarum gentium est quidam nobilis vir nomine Nicolaus Tercius de Parma, quem fama valde commendat et predicat eum animosum, expertum et doctum in armis, ac etiam singularem amatorem dominationis vestre cui notanter optat servire et insigniter conplacere». Un giudizio superlativo, che propiziò senz’altro rapporti sempre più fecondi di Niccolò (e quindi dei figli Giacomo, Giovanni e Ottobono, nonché del nipote Niccolò il Guerriero) con la Serenissima, culminati con la loro aggregazione al patriziato veneto, (iscrizione nel Libro d’Oro e ingresso nel Maggior Consiglio). Cfr. Dispacci di Pietro Cornaro ambasciatore a Milano durante la guerra di Chioggia, a cura di V. Lazzarini, Venezia 1939, p. 32. 94 Le truppe d’invasione furono in qualche modo rafforzate aggregando carcerati liberati a Parma alla tassativa condizione di «prestar servizio» nel Genovese. Ce ne informa Cherbi: «Nicolò Terzi Parmense, Capitano di Lancia, di ordine di Bernabò faceva cavalcata sul territorio Genovese. Tutti li banditi, previo servigio di due mesi, tornavano in grazia del Principe. Il servizio però dovea essere prestato sul territorio Genovese»: F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, Parma 1837, p. 191. 95 «Dal 1. di gennajo del 1382 [...] fu Podestà il Milite Luterio Rusca, [...] per cui vien tolto a’ ribaldi l’appoggio e l’asilo ch’aveano presso i Marchesi di Pellegrino, Niccolò Terzi, i Conti Ubertino e Bernabò Landi, padre e figlio, ed altri che li ricettavano.»: G. V. BOSELLI, Delle storie Piacentine, II, Piacenza 1804, p. 61. 96 «Stampate leggonsi cotali saggie, ed opportune ordinazioni nel Volume degli antichi Statuti della nostra Città»: C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 8. 36 dal 1379 stava a Pavia, consigliere comitale che non si peritava di nascondere la sua ostilità verso Bernabò. Questo trasferimento del Terzi agli ordini di Gian Galeazzo si rivelò assai tempestivo e fortunato alla luce degli eventi drammatici che si consumarono poche settimane dopo: esso portò Niccolò Terzi sotto la protezione del conte di Virtù prima del giorno fatale in cui questi, con algida, accorta perfidia, seppe togliere a Bernabò la signoria di Milano. Gian Galeazzo, governando a Pavia e dissimulando i propri reali talenti e intenti, era sempre riuscito a fuorviare il giudizio sulla sua personalità, persuadendo Bernabò di possedere un carattere fiacco e pusillanime, mediocre intelligenza e scarsa ambizione politica. Il 6 maggio 1385, fingendo di viaggiare come devoto pellegrino verso il Sacro Monte sopra Varese, fece tappa alle porte di Milano, fuori Sant’Ambrogio, dove chiese di potere rendere omaggio e abbracciare lo zio e suocero. Si scusò Gian Galeazzo se non entrava fin dentro la città, e lo attese con il suo corteggio alla postierla. Bernabò, solitamente guardingo, interpretò indulgentemente questo desiderio, trovandolo ispirato da schietti sentimenti familiari, e il luogo periferico, scelto per l’incontro suggerito dalla preoccupazione di evitare i fastidi o le insidie che lo potevano attendere oltre le mura. Anche il numero spropositato di armigeri che facevano da scorta al nipote, ben cinquecento lance, lo commisurò alla nota pavidità di questi, all’esigenza di sentirsi protetto dalla sua guardia «senza la quale in nessun luogo andava», come osservò il Corio. E dunque Bernabò andò incontro al nipote, nonostante gli avvisi contrari dei suoi consiglieri, accompagnato soltanto dai figli ed eredi: finì catturato assieme a loro, subito spodestato quale signore di Milano, imprigionato, e infine spento. Gian Galeazzo in quella spietata circostanza strappò ogni velo sotto cui aveva saputo mascherare la sua autentica personalità.97 La caduta dell’odiato Bernabò fu accolta con lieto favore, se non con entusiasmo, in tutte le terre viscontee che, in brevissimo volger di giorni, una dopo l’altra, si sottomisero al dominio del conte di Virtù. Così fu anche per Parma, soggetta a Carlo Visconti, uno dei tanti figli di Bernabò. Narra la Cronica di Giovanni del Giudice che «a’ dì 14 maggio, essendo partito da Parma Carlo Visconte, il popolo semplicemente corse all’armi in piazza, e finalmente d’accordo insieme si governarono per tre giorni in libertà».98 Il 16 maggio, solo dieci giorni dopo la deposizione di Bernabò, Parma fu occupata dalle milizie viscontee agli ordini di Jacopo Dal Verme e di Niccolò Terzi, qui verosimilmente inviati da Gian Galeazzo per i loro stretti legami con la città. La Cronica scrive: «Entrarono in Parma i due Capitani il dì 16 con grandissima quantità di genti da cavallo, e pochi giorni dopo ebbe Jacopo anche il Castello di Brescello,99 che allora apparteneva ai Parmigiani».100 La cattura di Bernabò fu attuata, oltre che da Jacopo Dal Verme, da Ottolino da Mandello, lo stesso che, durante la cerimonia di Pavia, ebbe l’onore di calzare lo sperone sinistro al neo cavaliere Niccolò Terzi. 98 Citata da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 150. 99 Borgo e piazzaforte strategica, lungo ill Po, sul confine della Bassa reggiana e parmense, circa 10 miglia a Nord Est di Parma. 97 37 Sorpreso dalla tragica nuova della cattura del padre mentre si trovava a Crema, Carlo Visconti tornò a spron battuto verso Parma per asserragliarsi nella Rocca di Porta Nuova, disperato tentativo di conservare i suoi possessi. Ricacciato dai cittadini, già pronti ad aggredirlo memori del suo greve dominio, fu forzato a fuggire in esilio, verso la rovina e la miseria, abbandonato da tutti. Il castello di Parma, ove si era ridotta la soldatesca di Bernabò, stretto dall’assedio del Terzi, capitolò presto con l’onore delle armi. Il 15 febbraio 1386, Niccolò ottenne da Gian Galeazzo la cittadinanza originaria di Milano, come attesta il rogito della stessa data steso dal notaio Ubertino de’ Bozzoli.101 Nel 1387 si estingueva a Verona la dinastia dei Della Scala. La città era da tempo entrata sotto l’influenza dei Visconti che, non appagati, estesero le loro mire verso Padova, contro i Carraresi. Nell’autunno 1388 Gian Galeazzo lanciò un’offensiva in quella direzione inviando le sue milizie comandate da Jacopo Dal Verme e dal maresciallo Ugolotto Biancardo. Verso la fine di novembre le forze viscontee, conquistato il baluardo di Piove di Sacco, ebbero libero accesso a Padova che occuparono per puntare poi su Treviso.102 Quando nel 1390 si riaccese il conflitto contro i Carraresi di Francesco Novello, Niccolò Terzi si trovò ingaggiato in quella guerra con le truppe di Gian Galeazzo portate all’attacco delle bolognesi e delle fiorentine. Nel giugno di quell’anno, Niccolò, con Uguccio Pallavicino, comandava le forze, comprendenti molti Parmigiani, che si erano dovute riparare nelle due fortezze cittadine. Queste erano state poste sotto assedio da Francesco Novello, supportato militarmente da Stefano III duca di Baviera. Il Carrarese stava tentando la riconquista di Padova dopo che la città, il 21 giugno 1390, era insorta contro i viscontei. In agosto gli assediati, ridotti ormai alla fame, furono costretti a capitolare. Niccolò Terzi venne imprigionato e tenuto in ostaggio assieme a Princivalle della Mirandola e Zanardo dei Visdomini. Liberato, passò prima a Venezia per tornare tre mesi dopo, a settembre, in Lombardia.103 100 101 102 103 38 «Corio, narratore di buona parte delle cose predette, aggiunge che in esso mese di maggio la folgore colpi il culmine della Torre del Comune, e gittò a terra un capitello che sosteneva la vipera Viscontea»: ivi, p. 152. Cfr. G. e B. GATARI, Cronaca Carrarese, confrontata con la redazione di A. Gatari [aa. 13181407], a cura di A. Medin, G. Tolomei, I, in Rerum italicarum scriptores: raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori, XVII, I, Città di Castello 1909, p. 417 nota. E Pezzana, citando il Muratori che dal canto suo fissa la data dell’episodio a venerdì 13 novembre, ci informa che «nella fazione di Pieve di Sacco trovossi il Parmigiano Guido Terzi, e convien dire ch’ei pugnasse con somma prodezza, poichè ivi fu creato Cavaliere». Si trattava probabilmente del Guido, del ramo di Sissa, figlio di Giberto, nipote di Niccolò il Vecchio, padre di Costanza»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 186. Corio ne aveva riferito così: «Onde del mese d’Agosto, procurante Florentini, & anche fu havuto per fermo, che i Venetiani gli tenessero mano. Stefano Duca di Baviera si condusse a Padoa al soccorso del Carraresc cón [...] ove dimorando tre mesi, con atrocissima battaglia mantenne l’assedio al castello, con la Cittadella, che in nome di Gioan Galeazzo, con le genti, Allorché la notizia della sollevazione di Padova e del ritorno vittorioso dei Carraresi giunse a Gian Galeazzo, questi ordinò al suo maresciallo Ugolotto Biancardo, ingaggiato contro Bolognesi e Fiorentini in Romagna, di spostare immediatamente le sue milizie nel Veneto. Qui, nel frattempo, contro il Visconti si era sollevata anche Verona, costringendo Biancardo e le sue 800 lance, che avevano passato il Po a Ostiglia, nel Mantovano, anch’essa ribelle e subito sottomessa, a tornare sui propri passi per occuparsi prioritariamente di questa città. Comparve improvvisamente in riva all’Adige sotto le mura veronesi accolto dai suoi che, costretti dalla ribellione a riparare nella cittadella, gli aprirono subito le porte. Il giorno seguente Biancardo lanciava le sue truppe contro Verona, conquistandola con «grande prodezza» secondo il cronista Matteo Griffoni. Dove la grande prodezza starebbe anche nell’inganno messo in campo da Ugolotto per penetrare le mura: «innalzando il vessillo de’ Padovani e facendo le finte di venire in ajuto de’ Veronesi». Vinti i rivoltosi, Ugolotto Biancardo si macchiò poi del sangue di tutta Verona: permise che le sue soldatesche ne massacrassero con inaudita ferocia gli abitanti, ribelli o innocenti che fossero, di ogni età e sesso: Più di 300 Veronesi furono uccisi in quella miserevole fazione senza numerare i molti della plebe. Tutta la Città fu posta a ruba. Gran parte di quel popolo ritirossi al di là dell’Adige e favorita dalle tenebre fuggi dall’insolente vincitore che la incalzava da ogni lato. La Cronaca Estense narra che i Viscontei cacciarono da Verona tutti gli uomini rimastivi, e solo ritennervi le donne. Gir. dalla Corte non dice questo: dice bensì che sarebbero continuate le nefandità commesse da coloro, se Caterina moglie di Giangaleazzo non avesse mandato ordini di cessare il saccheggio e le uccisioni. Orrendo spettacolo era divenuta fra que’ dì la nobilissima Verona. Appesi o trucidati cittadini da una banda, venerande matrone, candide vergini vituperate dall’altra, fanciulli abbandonati e piangenti, bambini, strappati dalle poppe materne, bestialmente trucidati.104 Niccolò Terzi il Vecchio nel 1391 s’insediò quale capitano del popolo in quella tragica Verona, ancora intrisa del sangue dei suoi cittadini e attonita per i massacri perpetrati dalle milizie viscontee. Nell’ottobre, da Pavia gli furono inviati alcuni «navaroli» indispensabili per armare due galeoni destinati alla navigazione fluviale.105 ch’erano dentro si difendeano, oltra di questo ancora il Bavaro sopra del Vicentino inferivano grandissimo danno. E finalmente agli assediati nelle fortezze in Padoa mancando le vittuaglie, e disperati d’alcun soccorso non potendosi più mantenere, si resero a Francesco da Carrara, col salvo delle robbe, e persone. poi partendosi andarono a Venetia e d’indi vennero in Lombardia. tra questi gl’interveniva molti Parmegiani dei quali era Capitano Niccolo Terzo, & Uguccio Pallavicino. Doppo le genti del Bavaro, e Francesco da Carrara, cavalcarono nel Ferrarese, e passando l’Adice, entrarono nel Polesine». B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 627. 104 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 199-200 nota. 105 Cfr. G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V, parte II, Pavia 1834, p. 35. 39 L’anno 1392, ancora a Verona, era consigliere, capitano del podestà Balzarino Pusterla, genero di Matteo Visconti e membro di una potente e ricca famiglia milanese. Nell’aprile Niccolò divenne reggente del Consiglio visconteo di Verona per le Partes de ultra Mincium,106 un’istituzione che inglobò le competenze e le funzioni del Consiglio cittadino.107 In quel tempo Niccolò, a compenso dei servigi resi, ricevette in feudo dal Visconti, attraverso il vescovo veronese, le terre di Villa Bartolomea, a venti leghe da Verona, poste a guardia di un guado sull’Adige nei pressi di Legnago.108 Anche la Serenissima gli manifestò gratitudine. Per «devozione a Venezia» con bolla del 10 agosto 1393 al «nobilis vir egregius miles dominus Nicolaus de Terciis», venne concesso il privilegio della cittadinanza e il diritto di trasmetterlo agli eredi. E a Venezia, quel giorno, Niccolò prestò il giuramento di fedeltà alla Repubblica.109 Il 5 settembre 1395, sul sagrato di Sant’Ambrogio, Gian Galeazzo Visconti veniva maestosamente consacrato duca di Milano: aveva finalmente ottenuto l’ambita promozione e investitura imperiale da Venceslao di Boemia. Era un titolo che dava piena legittimità al suo potere, gli consentiva di sovrastare nella gerarchia tutti gli altri feudatari della sua signoria. Presente il commissario imperiale, l’arcivescovo di Milano impose a Gian Galeazzo il berretto ducale. Il conte Ugolotto Biancardo insieme con il principe romano Paolo Savelli stavano a destra del trono, con un imponente schieramento di cinquecento lance, tenendo le veci del gran connestabile Alberico da Barbiano, che era infermo. Così rievoca l’evento il Pezzana, mentre sulla scena dei fastosi festeggiamenti di quella consacrazione ducale irrompeva a cavallo Niccolò Terzi: «Dugento mila fiorini vuolsi che costasse l’ingemmato cingolo ducale […]. Piacevole è il racconto che fa il Corio delle pubbliche imbandigioni fatte fare dal novello Duca in quella solennità». E continua: «Nelle partes ultra Mincium, come la terminologia viscontea chiama i tre distretti della Marca Trevigiana soggetti al dominio milanese, sono attestati specifici interventi per la definizione di mansioni e competenze dei rappresentanti dei comuni cittadini». G. M. VARANINI, L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana dei secoli XIII-XIV, in G. CHITTOLINI, D. WILLOWEIT (a cura di), L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII - XIV, Bologna 1994, p. 225. 107 Cfr. G. SEREGNI, Il Consiglio Visconteo di Verona per le «Partes de ultra Mincium», in Atti e memorie del Secondo congresso storico lombardo: Bergamo, 18-19-20 Maggio 1937-XV, Milano 1938, pp. 277281. 108 Quella proprietà fu poi confermata nel maggio 1405 dalla Repubblica di Venezia per donazione al figlio Ottobono con diritto di trasmetterla ai suoi eredi e successori. Cfr. Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli) emessa dal Tribunale di Venezia il 26 luglio 1873, in Giurisprudenza Italiana, raccolta generale progressiva, Decisioni delle varie corti del Regno, Sentenze del 1873, XXV, Parte II, Torino 1873, pp. 559-569. 109 Si veda la scheda Nicolaus de Terciis, Cives Veneciarum, http://www.civesveneciarum.net/ dettaglio.php?id=2656,versione 48/2016-05-24. 106 40 Ne’ successivi giorni si fece nobilissima giostra. Era premio un fermaglio del valore di mille fiorini d’oro. Si segnalò tra’ principali giostratori il vecchio, ma ancor rubizzo, Niccolò Terzi. Comparve, dicono gli storici, il Parmigiano campione sul campo colla faccia coperta di un cappello di campagna, con una piccola cornetta al di sopra, mostrando benché vecchio la forza di un giovane.110 Angeli scrive che Niccolò aveva allora sessantotto anni, e questo ci consente di risalire per la sua nascita al 1327: «Nella creatione che poi fu fatta di Giovan Galeazzo Visconti in Duca di Milano fu fatta una nobilissima giostra da otto cavallieri eletti, tra quali dice il Corio vi fu Nicolò, che si trovava all’hora di sessant’otto anni».111 Curiosa appare l’esibizione della piccola cornetta che, come racconta il cronista, innalzava sopra il cappello l’anziano e vigoroso capitano Niccolò Terzi, combattente in quella giostra poi vinta dal marchese Teodoro II del Monferrato contro Baldassarre Pusterla. Pare l’insegna che rievoca lo stemma parlante dell’originario antico casato dei Terzi, i da Cornazzano, che sullo scudo recava una triplice cornetta, come ancor oggi si può vedere in un affresco parietale del castello di San Secondo. Niccolò il Vecchio restava dunque ancor sempre, fino al tramonto, un de Tertiis scaturito dalla stirpe dei de Cornazzano. Ritroviamo Niccolò martedì 7 dicembre dello stesso 1395 a Prezzate, nel Bergamasco, in località Albarita, quando fu firmata la pace tra i seguaci delle casate ghibelline dei Suardi, degli Arrigoni di Taleggio e dei Brembilla, da una parte, e i partigiani guelfi dei Rivola, dei Bongi (o Bonghi), i Vale di San Martino di Valdimania, dei Rota e dei Locatelli di Valle Imagna, dall’altra. Accanto al condottiero Terzi, testimoni di quel patto, c’erano Dino dalla Rocca, podestà di Bergamo, Antonio Tornielli, allora capitano generale visconteo a Bergamo e Pagano Aliprandi, consigliere del duca.112 Nell’estate del 1397 il settantenne Niccolò era tra i capitani delle milizie viscontee contro l’esercito della Lega. Alla battaglia del 28 agosto a Governolo si trovava con il figlio Ottobono al comando della quinta schiera viscontea, forte di mille cavalli. Finì catturato assieme ai parmigiani Pietro Rossi e Ludovico Cantelli.113 La sua vicenda di capitano d’armi si concluse qui. Morì a Bergamo, cinque mesi dopo, nel gennaio 1398.114 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p 239. B. ANGELI, La historia della città di Parma, cit., p. 463. 112 «Et hoc presente spectabilli militi domino Nicolao de Tertiis; Antonio de Torniellis, capitaneo generali in Pergamo; et dominis Pagano de Aliprandis, consciliario illustrissimi ducis et Comitis Virtutum domini nostri; et Dino de la Rocha, potestate Pergami, Et predicta pax facta fuit super territorio de Prezate, ubi dicitur in Albarita»: Chronicon bergomense guelphoghibellinum, cit., p. 61, n. 40. 113 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 257 nota. 114 «Quanto a Niccolò Terzi, leggesi nel Chron. Bergomense (in Mur., 16, 895) ch’egli morì pochi mesi dopo improvvisamente, cioè in gennajo del 1398, a Bergamo»: ivi. 110 111 41 Sulla Sulla sua sua sepoltura sepoltura ci ci informa informa accuratamente accuratamente ilil Chronicon Chronicon bergomense bergomense guelpho-ghibellinum: guelpho-ghibellinum: Morì in questo questo gennaio gennaio Morì improvvisamente improvvisamente in l’illustre dominus Nicolaus Nicolaus l’illustre condottiero condottiero ee dominus de venne sepolto sepolto nella nella chiesa chiesa di di de Tertiis, Tertiis, ee venne San presso la la colonna colonna della della San Francesco, Francesco, presso cappella dei Bonghi Bonghi verso verso ilil cappella maggiore maggiore dei monastero, la cappella cappella di di San San monastero, presso presso la 115 obili Bonghi. Pietro dei Nobili Nobili Bonghi.115 Pietro Apostolo Apostolo dei Lasciava Margarita Lasciava vedova vedova Margarita, Margarita, che che gli gli aveva figli: Ottobono Ottobono o o Ottobuono, Ottobuono, aveva dato dato tre tre figli: anch’egli anch’egli condottiero condottiero tanto tanto celebre celebre quanto quanto famigerato, famigerato, ilil dottore dottore in in utroque utroque iure iure Giacomo, Giacomo, 116 o o Jacopo, Jacopo, ee ilil meno meno noto noto Giovanni. Giovanni.116 conventochiostro di San Francesco, delle Arche. Bergamo, conventoBergamo, di San Francesco, delle Arche.chiostro In fondo si apre l’ingresso alla cappella In fondo si apreBonghi l’ingresso dove1398, fu sepolto, nelTerzi gennaio 1398, Niccolò Terzi il dovealla fucappella sepolto, Bonghi nel gennaio Niccolò il Vecchio. Vecchio. «Nota mense januarii januarii predicti predicti decessit decessit spectabillis spectabillis milles milles dominus dominus Nicolaus Nicolaus de de Tertiis Tertiis «Nota quod quod de de mense subito, ecclesia sancti sancti Francisci Francisci Bergomi Bergomi juxta juxta pilastrum pilastrum de de Bongis Bongis capelle capelle subito, et et sepultus sepultus fuit fuit in in ecclesia Bongorum no magne monasterium apud apud capellam capellam Sancti Sancti Petri Petri apostoli apostoli nobilium nobilium magne versus versus monasterium Bongorum (Cappella Bongis ad ad Sanctum Sanctum Franciscum)»: Franciscum)»: Chronicon (Cappella dominorum dominorum de de Bongis Chronicon bergomense bergomense guelphoguelphoghibellinum, 67, n. n. 9. 9. ghibellinum, cit., cit., p. p. 67, 116 116 Margarita la sepoltura, sepoltura, compiuta compiuta anche anche per per lei lei in in una una chiesa chiesa dedicata dedicata al al santo santo Margarita morì morì nel nel 1405, 1405, ee la assisiate, Parma, come come scrive scrive crive esattamente esattamente Cherbi: Cherbi: «Morte «Morte alli alli 10 10 agosto agosto di di Madonna Madonna assisiate aa Parma, Margarita, madre di di Otto. Otto. Sepolta Sepolta alle alle tre tre di di notte notte in in casa casa de’ de’ Frati Frati Minori». Minori».F. HERBI,, Le Le Margarita, madre F. C CHERBI grandi grandi epoche epoche sacre sacre diplomatiche, diplomatiche, II, II, cit., cit., p. p. 219. 219. 115 115 42 42 4. 4. Ottobono Ottobono Terzi Terzi Ottobono Ottobono Terzi. Terzi.. Incisione Incisione in in G. G. Roscio, Roscio, Ritratti Ritratti et et elogii elogii di di capitani capitani illustri, illustri, Roma Roma 1646. 1646. All’alba Terzi All’alba del del 27 27 maggio maggio 1409, 1409, lunedì lunedì di di Pasqua, Pasqua, Ottobono Ottobono Terzi, Terzi, «di «di Reggio », figlio Reggio ee di di Parma Parma aspro aspro tiranno», tiranno», figlio di di Niccolò Niccolò ilil Vecchio, Vecchio, raggiungeva raggiungeva con con la la sua sua scorta scorta ilil ponte ponte della della Vallisella Vallisella sulla sulla strada strada che che attraversa attraversa la la Via Via Emilia, Emilia, tra tra Modena Modena ee Reggio, Reggio, nelle nelle campagne campagne di di Valverde Valverde sopra sopra Rubiera. Rubiera. In In quel quel luogo luogo era era stato stato stabilito stabilito un un suo suo incontro incontro con con Niccolò Niccolò d’Este d’Este per per tentare tentare una una tregua tregua nella nella guerra guerra che che lili opponeva. opponeva. Accerchiato Accerchiato da da alleanze alleanze ostili ostili mirate mirate al al suo suo disfacimento disfacimento politico milizie, politico ee fisico, fisico, isolato isolato ee disperando disperando di di prevalere prevalere con con le le proprie proprie milizie, acco Ottobono un accordo. accordo. Contro di di lui, lui, infatti, infatti, Ottobono si si era era infine infine rassegnato rassegnato aa inseguire inseguire un Contro alleato agli inizi inizi di di quell’anno quell’anno un alleato del del marchese marchese di di Ferrara, Ferrara, si si era era armato armato agli un formidabile formidabile schieramento schieramento bellico bellico che che comprendeva comprendeva le le forze forze del del duca duca di di Milano, Milano, Giovanni ddi Mantova, Giovanni Maria Maria Visconti, Visconti,, dei dei signori signori di Mantova, Gianfrancesco Gianfrancesco Gonzaga, Gonzaga, di di Bergamo Malatesta Bergamo ee Brescia, Brescia, Pandolfo Pandolfo Malatesta, Malatesta, di di Cremona, Cremona, Gabrino Gabrino Fondulo, Fondulo, del del vescovo vescovo Giacomo Giacomo Rossi, Rossi,, la la famiglia famiglia di di questi questi ee dei dei Pallavicino Pallavicino con con la la loro loro vasta vasta sequela sequela di di collegati collegati ee aderenti. aderenti. 43 43 Un cappuccio calato in testa al posto del cimiero, montando un’umile cavalcatura addobbata con un lungo strascico di coda, Ottobono giunse al convegno di Rubiera accompagnato dal figlio fanciullo Niccolò Carlo, recato in sella dallo zio Giacomo, e dal suocero Carlo da Fogliano. Lo seguivano pochi amici, tra i quali il più devoto, Guido Torelli, signore di Guastalla e di Montechiarugolo, Francesco da Sassuolo con Antoniuccio dall’Aquila, difesi da un centinaio di cavalieri sotto i cui mantelli le prime luci di quella tragica giornata scoprivano in brevi bagliori le armature pettorali. Pari scorta cavalcava con Niccolò III d’Este che era seguito da Uguccione dei Contrari, signore di Vignola, e dai cugini Micheletto Attendolo e Muzio Attendolo, detto lo Sforza, capitani di ventura. Mentre i due signori di Parma e di Ferrara, senza armi oltre la spada al fianco, rispettosi degli accordi preliminari, accompagnati ciascuno da un solo uomo a cavallo, avvicinatisi e scambiati i convenevoli di rito, iniziavano a trattare la pace, lo Sforza, che stava occultato in agguato con i suoi militi a cavallo in una vicina boscaglia, scattò caracollando all’improvviso come forsennato verso le spalle indifese di Ottobono, lo colpì a tradimento alla schiena, trapassandolo con uno stocco. Il Panciroli descrive così quel che avvenne: «Già proferivansi le condizioni della pace, quando lo Sforza […] stretta la spada e spronato il cavallo, s’avventò con tanto impeto contra Ottobono che trapassollo e trabalzollo co ‘l cavallo per terra. Allora Michele dielli un grosso colpo, e gli spaccò la testa».117 Il cadavere, narrano concordi le cronache,118 fu trasportato su «un vil carro» a Modena. La testa, infilzata a trofeo su una picca, fu issata davanti al duomo e più tardi portata al castello di Felino, allodio dei Rossi. Quel che rimase delle spoglie di Ottobono venne letteralmente fatto a brani dalla furia belluina della plebaglia, mangiato in parte in lugubri festini, inchiodati i pezzi dilaniati come macelleria nelle contrade della città. Un altro storico così descrisse l’accaduto: Più avanti aggiunge: «I villani modenesi accesi d’implacabil odio per li danni ricevuti in quella guerra trassero le viscere dell’occiso Ottobono, e con famelica rabbia ne mangiarono il cuore fritto in una padella. Squartato e tagliuzzato il cadavere, altri, secondo è fama, ne divorarono disumanamente le carni. Il capo fitto in una lancia lo portarono i Rossi a maniera di trionfo a Felina castello di loro giurisdizione»: G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, Reggio 1848, pp. 34-36. 118 Amos Manni ha incentrato il suo accuratissimo studio, basilare per ogni ricerca relativa al lignaggio dei Terzi, soprattutto sulla tormentata biografia di Ottobono. Alla sua morte dedica un intero capitolo che così introduce: «Dopo aver esposto gli avvenimenti che condussero all’uccisione di Ottobuono Terzi, ed avere tratteggiati i caratteri dei due principali personaggi di questo mio lavoro, cercherò di determinare, vagliando le varie testimonianze che esistono, con logica conclusione il modo in cui venne ucciso il Venturiero e le responsabilità gravanti sul Signore di Ferrara». Nel dettaglio descrive: «La Morte del Terzi nelle narrazioni dei cronisti e degli Storici - Lo scempio del cadavere - Le vere responsabilità di Niccolò III d’Este». Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (1402-1421), «Atti e Memorie della Deputazione Ferrarese di Storia Patria», XXV, II, 1924, pp. 87-98. 117 44 «Parve, che con questo fatto venisse violato il diritto delle genti, ma era tanto l’odio universale contra Ottobono, per le sue crudeltà ed infamiazioni, che ognuno benedisse la mano di chi avea tolto di vita quel mostro, senza far caso della maniera, colla quale s’ebbe ottenuto questo gran bene; e trasportato a Modena il cadavere dell’estinto Terzi, dal popolo in furia fu messo a brani. Dopo la morte di lui, gli Alleati ad un tratto occuparono le Terre e Luoghi per esso tenuti; e la sua potente, ma odiata famiglia fu in poco tempo ridotta quasi ad intero sterminio co’ suoi aderenti, fra i quali Corrado de’ nobili da Fogliano di lui suocero».119 Al tramonto di quel lunedì pasquale del 1409 erano trascorsi solo poco più di due lustri dalla morte di Niccolò il Vecchio, patriarca della casata dei Terzi, ed ora questa, con l’assassinio del primogenito Ottobono, si trovava decapitata del suo più ardimentoso esponente, annientata, ridotta alla fuga, i possedimenti invasi da nemici antichi e nuovi. Un subitaneo declino che tuttavia era stato preceduto dal dilatare di una eclatante fortuna, conquistata sul campo delle armi dal protagonista di spietato pregio militare, ma di esiguo talento politico, incarnato in Ottobono: un tipico condottiero del Quattrocento, dalla rude psicologia imperscrutabile, la cui storia personale, nella sua terribilità singolare ma non inconsueta, si svolge, quanto mai densa di accadimenti, in un quadro storico composito, tanto frazionato quanto percorso da dinamiche tumultuose. Il condottiero parmense è stato tratteggiato nel suo aspetto fisico da Giulio Roscio nei Ritratti et Elogii di Capitani illustri ove scrive che: «Fu Otho di volto pieno, e di quadrata statura», un’affermazione che corredava con l’incisione, ricavata da fonte ignota, raffigurante il volto marziale ed enigmatico di capitano in armi, marcato dall’espressione che nei tratti sprigiona intensa ma sorvegliata energia, fierezza, esperta astuzia e quant’altro ciascuno a suo modo preferisca leggervi.120 Ma, prima di Roscio, si scopre che l’informatissimo Giorgio Vasari, nelle sue Vite, narra di Paolo Uccello, celeberrimo pittore di straordinarie battaglie e «di storie piene di guerre», nella prima metà del Quattocento aveva a suo modo rappresentato e dipinto, in Firenze, il parmigiano Ottobono Terzi, con tre altri strenui condottieri, «uomini armati con portature di que’ tempi bellissime»: In molte case di Firenze sono assai quadri in prospettiva […] ed in Gualfonda particolarmente,121 nell’orto che era de’ Bartolini e in un terrazzo, di sua mano quattro storie in legname piene di guerre, cioè cavalli e uomini armati con portature di que’ tempi bellissime: e fra gli uomini è ritratto Paolo A. D. ROSSI, Ristretto di storia patria ad uso de’ piacentini, II, Piacenza 1830, p. 238. Cfr. G. ROSCIO, Ritratti ed elogii di capitani illustri, Roma 1646, pp 75-77. 121 Gualfonda, oggi Valfonda, contrada retrostante l’abside di Santa Maria Novella, nella villa ove la famiglia Bartolini Salimbeni, al tempo del Vasari, aveva portato quelle tavole che originariamente ornavano il loro palazzo di Porta Rossa, presso Santa Trinità. Paolo Uccello aveva eseguito per la stessa famiglia altre opere, tra le quali, com’è stato di recente appurato, il trittico della Battaglia di San Romano. Questo, nel 1479, fu ceduto dai Bartolini Salimbeni a Lorenzo de’ Medici per arricchire la collezione medicea nel palazzo di via Larga. 119 120 45 Orsino, Ottobuono da Parma, Luca da Canale, e Carlo Malatesti signor di Rimini, tutti Capitani generali di quei tempi. E i detti quadri furono a’ nostri tempi, perchè erano guasti ed avevano patito, fatti racconciare da Giuliano Bagiardini, che piuttosto ha loro nociuto che giovato.122 È da dire, tuttavia, che Paolo Uccello aveva solo dodici anni quando, nel 1409, lo Sforza uccise Ottobono. Nel porre mano ai pennelli per le tavole di Gualfonda si deve supporre che quello straordinario artista abbia fatto ricorso per dipingervi quei “capitani generali” a qualche memoria, forse ispirando anche le incisioni pubblicate da Roscio.123 Se un ritratto fisico del Terzi rimane celato sotto i veli del tempo, la dimensione morale (andando oltre le constatazioni concernenti l’indiscussa eccellenza del suo profilo militare e di gestore strategico e tattico di imprese belliche) è stata descritta e notomizzata da una cospicua schiera di storici e letterati diversamente partigiani. Ottobono meritò l’ammirata stima dell’umanista Enea Silvio Piccolomini, che scrisse della magnificentia, della potentia e della prudentia del condottiero in due passi della sua opera De viris illustribus.124 Ma quella di Piccolomini rimane espressione singolare di lode e di misericordioso giudizio. Quando il condottiero fu rievocato da Ludovico Ariosto nel canto III del suo Orlando Furioso, questi, da poeta organico alla corte di Ferrara quale era, pose «il terzo Oto» a confronto, ovviamente perdente, con Niccolò d’Este: 125 Ve’ Nicolò, che tenero fanciullo il popul crea signor de la sua terra, [...] Farà de’ suoi ribelli uscire a voto ogni disegno, e lor tornare in danno; ed ogni stratagema avrà sì noto, che sarà duro il potergli fare inganno, Tardi di questo s’avedrà il terzo Oto, e di Reggio e di Parma aspro tiranno che da costui spogliato a un tempo fia e del dominio e de la vita ria.126 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori, e architettori, I - II, Fiorenza 1568, pp. 272-273. Angeli, dopo avere scritto del Terzi, versando nel suo inchiostro molta indulgenza, sostiene che «egli fu buono, e perciò chiamato Otto buono, e buon Otto». Sul suo aspetto aggiunge un particolare di colore: «Fu di pelo rossigno, e rufo per questo fu detto. Et fu de’ più aventurosi capitani, e di maggior nome, che havesse l’età sua. Fu Signore di Parma insieme con Pietro Rosso, un mese, et vent’otto dì, solo poi cinque anni, et cinque dì»: B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., pp. 466-467. 124 Cfr. ENEE SILVII PICCOLOMINEI POSTEA PII PP. II, De viris illustribus, Città del Vaticano 1991, pp. 12 e 21. 125 Non sembra credibile che Niccolò III ignorasse le intenzioni dei due Attendolo, presenti armati contravvenendo alle modalità concordate per l’incontro. Goffo fu anche il tentativo dell’Estense di scusare lo Sforza quando Ottobono si avvide dei bagliori della sua corazza e della presenza di soldatesche celate in agguato nella vicina boscaglia. 126 L. ARIOSTO, Orlando furioso, canto III, 43. 122 123 46 L’apprendistato nelle armi con Giovanni Acuto Le prime esperienze militari Ottobono Terzi, che l’Ariosto evoca come «terzo Oto», e altri quale Otho, oppure Otto Buonterzo, le maturò verosimilmente alla scuola del padre, Niccolò il Vecchio, e più oltre sotto le insegne del condottiero inglese John Hawkwood, o Giovanni Acuto, come preferirà chiamarlo Machiavelli. Lo conferma Giulio Roscio: «s’introdusse nella militia e sotto la disciplina di Giovanni Aucuto: e con sì buon maestro divenne in breve egli ancora celebre Capitano».127 Il servizio in armi del giovane Ottobono con Hawkwood si svolse necessariamente prima del 1377, nel tempo breve in cui il capitano inglese fu agli stipendi dei Visconti, i signori di Milano ai quali i Terzi si mantennero abitualmente fedeli. Quell’anno, infatti, l’Acuto, sempre pronto a cogliere nuove opportunità e a cambiare padrone al mutare delle convenienze, com’era precipua vocazione dei mercenari, preferì ricondursi agli stipendi di Firenze. Solo pochi mesi prima aveva sposato Donnina, una delle tante figlie illegittime di Bernabò, ma era presto entrato in rotta con il suocero e quindi, voltategli le spalle, tornò con le sue lance e arcieri in riva all’Arno, contro i Visconti. Il giovanissimo Ottobono, che non era dei suoi, rimase assieme al padre Niccolò al soldo del duca di Milano. Alla scuola di Alberico da Barbiano nella «Compagnia di San Giorgio» Ottobono trovò presto un’altra scuola per arricchire, oltre alla tasca, la sua esperienza nell’arte bellica. Nel 1377, il trentenne condottiero Alberico da Barbiano, dopo aver combattuto, al comando di duecento lance, al seguito di John Hawkwood e avere infierito con le sue soldatesche bretoni nel sacco delle terre di Romagna e nella cruenta repressione di Cesena, ripudiò l’inglese. Deciso a contrastare, oltre all’Acuto e alla sua temibile Compagnia Bianca, gli altri mercenari stranieri che da quarant’anni imperversavano sul suolo italiano, Alberico nel 1378 formò una sua compagnia ove si «rivendicavano l’onore della milizia italiana e ravvivano lo spirito guerriero di questa nazione».128 Era quella che divenne celebre come Compagnia di San Giorgio, un fecondo vivaio di capitani, un’accademia d’armi ove maturarono la loro esperienza i migliori condottieri d’Italia: Carmagnola, Gattamelata, Braccio da Montone, Bartolomeo Colleoni, Facino Cane, Jacopo Dal Verme, Ceccolino de’ Michelotti di Perugia, lo Sforza, Cecchino Broglia di Chieri in Piemonte, Luca da Canale e, non ultimo, «Ottobon Terzo di Parma», che Alberico da Barbiano annoverò tra i suoi principali luogotenenti.129 G. ROSCIO, Ritratti ed elogii di capitani illustri, cit., p. 75. Cfr. S. SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo, II, Prato 1863, p. 243. 129 Molti altri capitani illustri, oltre a quelli citati, si formarono militarmente nella Compagnia di San Giorgio. Si possono ricordare tra questi Ugolotto Biancardo, Niccolò Piccinino, il Malatesta, l’Orsini, il Colonna. Cfr. ibidem. 127 128 47 Si formò allora sotto la guida e ispirazione di Barbiano un’autentica aristocrazia delle armi, tutta ‘nazionale’, consapevole del proprio valore, ove i cavalieri combattenti erano legati da alta stima e rispetto per il comandante, in simbiosi con un gagliardo spirito di corpo irrobustito tra vittorie e sconfitte, difficoltà e rischi, affrontati insieme spalla a spalla e superati sul campo. Sotto il profilo della tecnica bellica furono considerevoli le innovazioni introdotte da Barbiano. Organizzò nuove tattiche più efficaci per le cariche della cavalleria. Incrementò la protezione dei cavalieri ai cui elmi fece applicare la ventaglia, o visiera, e il collare. Quanto alla cavalcatura, ne fece modificare le barde, o pezze di difesa, ampliando il mantello metallico fino alle ginocchia, e le rese offensive munendone il muso di un cuneo lanceolato. Nell’estate del 1378, appena fondata la sua compagnia, fu assoldato da Bernabò Visconti. A Milano, tra i primi militi a disposizione, trovò anche Ottobono Terzi che tuttavia figurerà sotto il suo comando solo tre lustri più tardi perché quella condotta di Alberico presso Bernabò durò pochi mesi, fino alla primavera dell’anno successivo. Nel marzo 1379, mentre stava combattendo per il Visconti sul Po contro gli Scaligeri, Alberico fu costretto ad abbandonare precipitosamente quel fronte per rispondere alle invocazioni di soccorso, reiterate in una lettera di Caterina da Siena che intercedeva a favore del nuovo pontefice Urbano VI, minacciato di deposizione dai mercenari bretoni dell’antipapa Clemente VII.130 Alberico da Barbiano tornò agli stipendi dei Visconti tredici anni dopo. Sconfitto il 24 aprile 1392 dagli Angioini a conclusione di una lotta accanita con cui gli vennero tolte le signorie di Giovinazzo e Trani nelle Puglie, costituite per sé e i suoi veterani, il condottiero era stato catturato e condannato a una dura prigionia. Non appena ne fu informato, intervenne Gian Galeazzo Visconti e lo fece liberare. Il signore di Milano pagò un riscatto di 30 mila scudi e si assicurò il servizio del grande condottiero per dieci anni, sino al 31 gennaio 1403. Il Visconti stava in quel tempo cercando di arruolare sotto i propri stendardi i più provetti capitani d’armi italiani. In quella squadra agguerrita Alberico ritrovò il peritissimo Jacopo Dal Verme e i valenti amici di questi: Niccolò Terzi il Vecchio con il suo primogenito. Nel 1394 Ottobono era a Offida, nelle Marche, agli stipendi di Antonio Acquaviva. Il 26 marzo Antonio Aceti lo chiamò a Fermo, con Malcorpo da Cremona e Mazzarino di Santa Vittoria, per combattere i fuoriusciti al seguito di Luca da Canale. Il Terzi raggiunse Montegranaro per affrontarli, ma questi sfuggirono allo scontro.131 A maggio unì le proprie forze a quelle di Cecchino Broglia portandosi in Romagna alla difesa di Bertinoro contro gli Ordelaffi. 130 131 48 Questi furono poi sconfitti da Alberico da Barbiano il 29 aprile nella battaglia di Marino. «Eodem anno, fuit ordinatum inter dominos Priores et illos bonos viros destatu qui tunc erant, inter alios dominus Antonius Aceti, quod gentes domini Otti Bontertii Mazzarini de Sancta Victoria et Malcorpi, qui erant in Offida ad stipendium Antonii de Acquaviva, venirent in auxilium nostrum […] et de mandato, et voluntate domini Antonii venerunt et intraverunt civitatem die xxvi martii, hora tertiarum: et hoc fuit pro offendendo dominum Lucam de Canali: predictique fecerunt cavalcatam super territorium Montis Granarii, credentes quod homines armigeri et Lucas de Canali et alii terrigeni Montis Granarii exirent Due anni dopo, nel 1396, il Terzi, «già divenuto famoso alla scuola del Conte Alberigo», guerreggiava come «condottiero di lance» in Toscana con Paolo Orsini e Giovanni da Barbiano, sostenendo Giacomo Appiani, signore di Pisa e alleato dei Visconti, contro Lucca e Firenze. La Repubblica non disponeva più ormai da tre anni dell’Acuto, sostituito dall’inadeguato capitano guascone Bernardo della Serra. Ottobono si spinse con altri capitani fino a Siena, dove i combattimenti si alternarono alle depredazioni per due mesi. I Fiorentini risposero alle devastazioni subite assoldando il condottiero Ludovico Cantelli che per rappresaglia, in squadra con altri capitani, andò a saccheggiare il Parmense. Agli inizi del 1397 Ottobono combatteva ancora in Toscana con Guido d’Asciano, Paolo Orsini, il perugino Ceccolino Michelotti, fratello minore di Biordo, e Giovanni da Barbiano sotto il comando di Alberico, che simulava d’agire di propria iniziativa conducendo seimila cavalieri.132 Comandato dalla Repubblica di Firenze, Bernardo della Serra alla testa della Compagnia della Rosa si era attestato sotto Pescia, in Lucchesia. Il Barbiano si diresse verso il Valdarno inferiore, nella speranza che San Miniato si ribellasse ai Fiorentini. Visto fallire il tentativo dei fuorusciti, si spostò nel Senese per tornare presto contro i borghi del Valdarno, ripetendo incursioni e vasti saccheggi in terra di Lucca. Bloccato a San Quirico di Moriano sul Serchio, costretto alla ritirata assieme a Cecchino Broglia, egli si rifece razziando e devastando fin sotto le mura di Firenze. La situazione cambiò quando, poco dopo, i Fiorentini riuscirono a portare al proprio soldo Paolo Orsini e Ceccolino Michelotti, mentre Giovanni da Barbiano, al comando di mille cavalli, defezionava passando ai Bolognesi. A queste pessime notizie se ne aggiunse un’altra che costrinse Alberico a rientrare senza indugi in Lombardia: durante un’assenza di Jacopo Dal Verme, le forze viscontee erano state sconfitte a Governolo, subendo gravi perdite. La battaglia di Governolo Nel corso dell’estate del 1397, Ottobono aveva già lasciato la Toscana, dove combatteva con il Barbiano, andando a supporto delle truppe viscontee nel Mantovano. Unite le sue milizie a quelle del padre Niccolò, il 28 agosto partecipò alla battaglia di Governolo. Egli ebbe il comando della quinta schiera, forte di mille cavalieri. Nel corso dei combattimenti, il conte da Carrara riuscì a disarcionarlo con un colpo di lancia. Ottobono continuò il combattimento a piedi, menando furiosi colpi d’ascia finché Francesco Visconti e Filippo da Pisa 132 foras et caperent ipsos; qui sciverunt, et noluerunt exire». Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, in Documenti di Storia italiana, Firenze 1870, p. 19. «Il conte Alberico da Barbiano toccava le paghe da Giovanni Galeazzo, ed era venuto a Lucca per suo ordine; con tutto ciò egli volea dar a credere di essere entrato in Toscana come condottiere, non come capitano del duca di Milano»: S. SISMONDI, Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo, cit., p. 252. 49 non lo aiutarono a rimettersi in sella. Niccolò il Vecchio finì catturato.133 Risollevate le sorti con il rientro del Barbiano e dei suoi capitani, le truppe viscontee riuscirono a spingersi fin sulle rive dei laghi del Mincio, di faccia alle fortificazioni di Mantova, dove essi posero i loro quartieri d’inverno. Ai primi di gennaio 1398 morì improvvisamente a Bergamo il padre di Ottobono, Niccolò, all’età di settantuno anni. Il 26 maggio fu stipulata una tregua decennale fra il Gonzaga e il Visconti. Ottobono, che a Governolo aveva fornito una notevole prova del suo valore militare, si vide rinnovata la sua condotta dal duca di Milano. Gian Galeazzo Visconti, signore di Perugia Tornato con le sue milizie in Italia centrale, nel febbraio 1399 Ottobono combatteva per Gherardo d’Appiano, signore di Piombino. A maggio egli era nelle Marche, con Frizzolino di Golem, Mostarda da Forlì e Astorgio Manfredi, in appoggio ai Malatesta e ai pontifici. Comandava 800 cavalieri e 1200 fanti, armati dai Bolognesi, con cui assalì le milizie del Carraresi e del Broglia a Cingoli. La battaglia durò nove ore e si concluse con la sconfitta del Terzi. Allorché i Priori di Perugia proposero di deliberare la dedizione della città ai Visconti, chiedendone la protezione contro i Fiorentini e il pontefice, il Consiglio Generale della città, allora dominato dai Raspanti,134 ossia dalle corporazioni e dal «popolo grasso», subito approvò. Fu inviata a Milano un’ambasceria di dieci per presentare l’atto formale di dedizione volontaria e di vassallaggio.135 Gian Galeazzo accettò la signoria e inviò immediatamente in Umbria il suo commissario Pietro Scrovegni, scortato dal condottiero ducale Ottobono Terzi, al comando di ottocento cavalieri. Ottobono arrivò sotto Perugia all’inizio del gennaio 1400 e pose il proprio quartiere lungo la riva destra del Tevere, a Ponte San Giovanni, in attesa del momento propizio per salire e varcare le porte della città. Il 21 gennaio 1400, nel tempo esattamente stabilito dagli astrologi, un’ora prima del tramonto del sole, Gian Galeazzo Visconti fu proclamato signore di Perugia e la bandiera con il biscione, stemma del duca di Milano, fu innalzata sul palazzo pretorio, nella piazza, e quindi portata in processione attorno alle mura. Ad aprile, dopo aver conquistato e occupato, per conto del Visconti, Gualdo, Nocera Umbra e Spoleto, pose sotto assedio Assisi, della quale era signore Venne liberato poco dopo per tornare al servizio dei Visconti, a Bergamo. Cinque mesi più tardi arriverà ad Ottobono la notizia della sua morte improvvisa. 134 I Raspanti erano antagonisti a Perugia dei Beccherini (il popolo minuto parteggiante per il ceto nobiliare). La denominazione Raspanti richiamava gli artigli dei felini all’attacco; i Beccherini si identificavano, parte per il tutto, nel becco del falcone da caccia utilizzato dal ceto aristocratico. 135 Questa decisione era maturata in seguito all’uccisione, nel 1398, di Biordo Michelotti, capo dei Raspanti, e su incitamento del fratello di questi, il condottiero Ceccolino. Quando il Visconti spirò, il 3 ottobre 1402, vantava ancora tra i suoi titoli quello di «Signore di Perugia». 133 50 Cecchino Broglia.136 Non appena il Terzi s’impadronì del formidabile castello di Bastia,137 che ergeva allora 17 torrioni nella piana a tre leghe sotto Assisi, anche questa città si arrese. Broglia rimaneva asserragliato più in alto, verso il Subasio, nella Rocca Maggiore, ma ancora per poco poiché, a maggio, non disponendo di forze sufficienti per decidere una sortita e affrontare in campo aperto gli assedianti, e nemmeno potendo attingere a risorse sufficienti per sopportare l’assedio, scese a patti: si vendette all’ex commilitone Ottobono per 4000 fiorini, e sgomberò l’acropoli assisiate. Morì di peste quattro mesi dopo a Empoli. La guerra di Faenza Il 27 settembre 1399 Giovanni da Barbiano, immischiato nelle faide cittadine di Bologna, incriminato per razzia e stragi, era stato giustiziato assieme ai figli e altri parenti su istigazione di Giovanni Manfredi, signore di Faenza. Alberico seppe dell’impiccagione del fratello mentre combatteva nel Regno di Napoli, e, reclamando vendetta, ottenne da Gian Galeazzo Visconti il consenso di ingaggiare altri condottieri per assalire il Manfredi. Fra quelli che stavano con Alberico quando questi, nella primavera del 1400, marciò contro Faenza, contando tra gli alleati l’infido Giovanni Bentivoglio, c’erano Ottobono Terzi e Jacopo Dal Verme. Quella guerra, un susseguirsi di lunghe e difficili battaglie senza esiti risolutivi, doveva durare fino alla primavera del 1401, quando il Bentivoglio, impadronitosi di Bologna, iniziò trattative segrete con Astorgio Manfredi fino a ottenere la pace nel luglio 1401. Il Barbiano, prima ignaro e poi sorpreso da quella conclusione, si vide costretto a togliere l’assedio a Faenza. Sentendosi ingannato dal Bentivoglio, per ritorsione gli rivolse contro le armi e iniziò a depredarne le terre. Ottobono, che con Carlo Malatesta si era già portato all’attacco, fu costretto ad adeguarsi e desistere, allorché i padovani Jacopo e Francesco da Carrara e Bernardo della Serra, per i Fiorentini, intervennero in difesa del Bentivoglio, nuovo signore di Bologna. Seguì a questi interventi un’interminabile, confusa guerriglia. Il Terzi infine decise di abbandonare quel campo e spostò le sue truppe a Lucca in appoggio a Paolo Guinigi, che tentava di stabilire la sua signoria sulla città. La vittoria a Brescia contro l’esercito di Roberto III del Palatinato Ottobono tornò poi in Lombardia per unire le sue truppe con il nerbo delle viscontee scese in campo sotto il comando di Jacopo Dal Verme e affrontare l’armata di Roberto III del Palatinato, re dei Romani, calato con 136 137 Cecchino, detto Broglia da Trino, piemontese di Chieri, era stato compagno d’armi di Ottobono nel 1393 e nel 1396. Nell’ottobre 1398 si era fatto acclamare dal popolo signore di Assisi con il titolo di dominus generalis e gonfaloniere, cariche che manteneva ancora al tempo dell’assedio. Bastia Umbra. La rocca si ergeva nella piana, tre miglia sotto Assisi, in riva al Chiascio. 51 un’armata di quindicimila cavalli dalla Baviera e da Trento su Brescia agli inizi d’autunno del 1401. Il tedesco poteva contare allora sull’appoggio delle truppe dell’arcivescovo di Colonia e del duca Leopoldo IV d’Asburgo, figlio di Viridis Visconti, alle quali si aggiunsero quelle dei Carraresi con i loro collegati. Il 21 ottobre Roberto III aveva posto in vicinanza delle mura bresciane il quartiere delle sue truppe. Mentre queste attendevano gli ordini operativi, convocò in consiglio di guerra i suoi capitani per decidere sul miglior proseguimento delle operazioni belliche che, oltre a essere dirette nell’immediato alla conquista di Brescia, avevano l’obiettivo più ambizioso di spodestare Gian Galeazzo. A questi aveva già intimato, incalzato anche da Carlo Visconti e Mastino Visconti, orfani di Bernabò e pretendenti l’eredità usurpata dal cugino, di lasciare ogni dominio dell’Impero illegittimamente occupato. Il duca di Milano gli aveva risposto di non riconoscere altro re che Venceslao. Ottobono e Facino Cane, attestati in Brescia, mandarono dapprima delle pattuglie di esploratori a testare il nemico e dopo i primi scontri tattici con i Tedeschi, tutti vinti, decisero un’iniziativa più aggressiva. Il 24 ottobre, alla testa di 8oo cavalieri, essi andarono alla carica assalendo furiosamente gli imperiali usciti dal campo in cerca di foraggi e vettovaglie. I Tedeschi non ressero a quell’attacco fulmineo e micidiale. Dopo essersi spesi in disperati tentativi di reazione, furono messi in una rotta indecorosa. Inseguiti fin dentro il loro campo dalle milizie ducali, abbandonarono un bottino di mille cavalli, due stendardi, oltre a gran quantità di prigionieri. Tra questi si trovò anche il duca Leopoldo IV d’Asburgo, liberato dopo tre giorni perché disponibile ad avviare trattative segrete. La vittoria di Brescia, conquistata anche grazie alla celere e poderosa efficienza bellica delle compagini militari di Ottobono e del Cane, ebbe immediate conseguenze politiche perché il duca Leopoldo, l’arcivescovo di Colonia e il Carrarese, percossi e delusi dal pessimo inizio della campagna militare, abbandonarono il re dei romani ai suoi evanescenti progetti e tornarono nelle loro sedi d’oltralpe o padovane. Roberto III del Palatinato, rimasto privo di ogni supporto e di alleati, covando i suoi rancori per pretesi tradimenti, dopo soli quattro giorni di campagna, tornò a Trento. Licenziate quindi gran parte delle sue sconfitte milizie tedesche, trascorse tra gli ozi l’inverno a Venezia, congiurando stancamente contro il Visconti, finché, nell’aprile del 1402, decise di ritornare, ingloriosamente, nelle terre che ancora conservava in Germania. Dopo avere contribuito valorosamente alla vittoria di Brescia, e meritata perciò nuova gratitudine dal duca Gian Galeazzo Visconti, Ottobono si trasferì con le sue truppe a Verona, accolto e acquartierato a spese della città. Si spostò poi presumibilmente nella sua rocca di Villa Bartolomea, feudo ereditato dal padre Niccolò il Vecchio, toltogli dai Carraresi e poi restituitogli dalla Repubblica 52 di Venezia, che si affacciava, a mezza strada fra Legnago e Carpi, tre leghe distante da entrambe le città, sull’Adige a guardia di un guado.138 Tre mesi dopo, nel gennaio 1402, Ottobono e Alberico da Barbiano, con le loro soldatesche, si trovarono a depredare il Bolognese, pagando in tangenti la complicità di Antonio da Camerino, infido capitano di Giovanni Bentivoglio, signore di quelle terre. Scrive lo storico Gherardacci, attento indagatore di archivi, che in quel tempo «nacque nuovo disturbo, e tradimento contra il Bentivoglio, e fu che Antonio da Camarino Capitano delle genti d’Arme de’ Bolognesi si accordò col Conte Alberigo, e con Othobuonterzi Capitani del Duca di Milano, lasciandogli scorrere, e saccheggiare il Territorio tutto di Bologna, si come per lo avanti anche era stato consentiente, dandogli li due Capitani una parte della preda, che facevano, e per quella cagione gl’inimici senza alcun timore d’intoppo, scorrevano a lor voglia le contrade del Bolognese».139 In marzo scoppiarono dissapori fra Ottobono e Ugolotto Biancardo, che degenerarono fino a condurre le rispettive milizie al confronto armato e allo spargimento di sangue. La battaglia lasciò sul terreno quasi 200 vittime per ciascuna delle due compagnie, e alla fine anche il Terzi si trovò ferito. Intervenne a quel punto nelle vesti di mediatore il saggio Jacopo Dal Verme, che riuscì a placare gli animi. La battaglia di Casalecchio In quelle settimane del 1402 il nerbo dell’armata ducale viscontea si stava concentrando sopra Bologna, schierando i migliori capitani in attesa di scatenare l’offensiva finale contro Giovanni Bentivoglio. Era l’obiettivo principale da assicurare, base di lancio per il successivo assalto alla conquista di Firenze, previsto dai programmi decisi da Gian Galeazzo, inseguendo le ambizioni di espansione territoriale del Ducato. Le forze del Visconti erano supportate da quelle degli alleati, il signore di Mantova Francesco Gonzaga e La meticolosa ricostruzione della vicenda ereditaria si legge in una sentenza ottocentesca del Tribunale di Venezia: «Nel secolo XIV dappoichè Giovanni Galeazzo Visconti duca di Milano ebbe tolta Verona agli Scaligeri, e con essa anche il possesso di Villabartolomea, di cui pare fossero investiti come di feudo dal vescovo di Verona, la concesse a Nicolò de’ Terzi, il quale n’ebbe dal vescovo la investitura: senonchè esso Nicolò od il figlio di lui Ottobono e fratelli vennero privati di quel feudale possesso in forza della occupazione di Verona fatta dal Carraresi e conseguente confisca. Ma poiché la Repubblica di Venezia, deliberando di togliere la città e marca di Verona al Carrarese, nel romper in guerra, assoldava ai propri servigi l’Ottobono de’ Terzi, riputato capitano, con mano di lancie e di fanti, fece al medesimo promessa (oltre del pattuito corrispettivo in danaro) di restituirgli in caso di buon esito della guerra il possesso di Villabartolomea. E quando la Repubblica poté insignorirsi di Verona e del veronese, mantenendo il patto stipulato, volle e fece che Ottobono de’ Terzi si riavesse Villabartolomea con tutte le immunità, libertà, esenzioni e giurisdizioni per sè e fratelli, e suoi eredi e successori, siccome si legge nelle ducali 25 agosto 1404 e 4 novembre 1405»: Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli), cit., pp. 559-569. 139 C. GHIRARDACCI, Della historia di Bologna, II, Bologna 1657, p. 525. 138 53 quello di Rimini, Pandolfo Malatesta. L’esercito bolognese di Giovanni Bentivoglio era agli ordini di Bernardo della Serra, inviato dai Fiorentini in soccorso dei Felsinei con quattromila cavalli e «molta fantaria da piè». Lo Sforza e Fuzzolino Tedesco lo affiancavano con le loro truppe alle quali si aggiunsero il 12 maggio, altri rinforzi inviati da Padova dai Carraresi. Gian Galeazzo Visconti fin dal 16 aprile aveva scelto quale capitano generale del suo esercito Francesco I Gonzaga: un incarico onorifico, perché il comando supremo effettivo restava affidato ai tecnici militari, il gran connestabile Alberico da Barbiano e l’esperto Jacopo Dal Verme. L’armata viscontea, forte di 12 mila cavalli e 5 mila fanti,140 si concentrò attorno a Mirandola. Ottobono era al comando di 450 lance.141 Quando lo schieramento fu completato, il Capitano generale, convocato il Consiglio dei signori e dei capitani, propose che per l’ossequio dovuto alle antiche buone usanze si portasse la rituale disfida al signore di Bologna. Per recare con bel garbo la medesima, che incartava comunque una dichiarazione di guerra a Giovanni Bentivoglio, furono designati i capitani Ottobono Terzi e Ludovico Cantelli. Adempiuta quell’ambasciata in omaggio all’antica liturgia bellica, nei giorni seguenti il gran connestabile Alberico e Ottobono Terzi cavalcarono con le loro truppe verso Casalecchio per impadronirsi dello strategico ponte sul Reno che controllava l’accesso a Bologna, distante tre miglia. Il varco era presidiato dalla Compagnia della Rosa e col sopraggiungere delle truppe guidate dai due Capitani viscontei si accese «crudelissima zuffa nella quale molti si giacquero estinti da ambo i lati». Non durò troppo quello spargimento di sangue, perché le truppe fiorentine, contati presto i primi caduti, demoralizzate a quella vista, abbandonarono quel caposaldo vitale al nemico per cercare rifugio, in rotta sempre più disordinata, a Bologna lasciando così sul campo di battaglia altre vittime e la reputazione militare. Il gran connestabile Alberico da Barbiano, affidato il ponte conquistato al presidio delle milizie di Ottobono, manovrò l’esercito visconteo contro quello bolognese per chiudere ogni via di scampo e impedire la ritirata. Alle prime luci dell’alba, il 26 giugno, tutta l’armata era raccolta sotto le bandiere ducali e Jacopo Dal Verme pregò il gran connestabile di ordinare la formazione Secondo la Cronaca Carrarese dei Gatari, quell’esercito era ancora più forte: 16 mila cavalli e 5 mila pedoni, ma li dimezza Gino Capponi: «Giovan Galeazzo facea radunare sotto Bologna il maggior nerbo delle forze sue con otto mila cavalli dov’erano molti dei più reputati italiani condottieri, e a capo di tutti Alberico da Barbiano»: G. CAPPONI, Storia delle Repubblica di Firenze, I, Firenze, 1875, p. 406. 141 La struttura funzionale della «lance» era il risultato dell’evoluzione nell’impiego della cavalleria pesante medievale diretta a massimizzare il risultato offensivo del cavaliere assaltatore, tutelandone nel contempo la difesa. Utilizzava un nucleo operativo autonomo costituito da un numero variabile di combattenti, generalmente tre, ma poteva schierarne fino a sei, o nove, con armamento specializzato (spade, lance lunghe, picche, archi, balestre) per armigeri a cavallo e pedoni. 140 54 delle distinte schiere. Alberico da Barbiano accettò l’invito, ma restituì subito la cortesia, esortando Jacopo stesso a provvedere. Si assegnò così la prima schiera a Facino Cane e a Ludovico Cantelli con due mila cavalieri; Francesco Gonzaga ebbe il comando della seconda con il conte Ludovico da Barbiano, o da Zagonara, presunto figlio di Alberico; la terza fu data ad Antonio da Montefeltro, conte di Urbino e a Pandolfo Malatesta; la quarta la ebbero Ottobono Terzi e Princivalle della Mirandola, al comando di duemila cavalli. La quinta se la riservò il gran connestabile Alberico. La sesta e ultima con quattromila cavalli la sostenne Jacopo Dal Verme a guardia dei vessilli viscontei. Stabilite che furono le schiere anche sul versante dei Bolognesi, le truppe con i loro capitani in testa si precipitarono all’assalto e la pugna divampò feroce. Lo Sforza, che stava creando molti danni tra i viscontei, fu assalito dal Gonzaga, quindi disarcionato, ferito e fatto prigioniero. Quando Ottobono partì alla carica, Lancellotto Beccaria di Robecco lo intercettò d’impeto e nello scontro entrambi rovinarono a terra; furono subito raccolti e riportati in sella dai loro serventi. La battaglia non tardò a risolversi in favore dell’armata ducale la cui forza era soverchiante rispetto a quella dei Bolognesi. Resisi conto di non poter sostenere più oltre gli scontri, i Felsinei si lanciarono in un veloce ripiegamento, presto degenerato nell’onta di una rotta che li disperse completamente. I caduti e i prigionieri furono innumerevoli. Fra i più illustri che finirono catturati si contarono i fratelli Carraresi, Luca da Lione e persino il comandante in capo dell’armata bolognese, nonché capitano della Compagnia della Rosa, Bernardo della Serra. Tre giorni dopo i ducali avevano occupato tutta la città. Alberico vi era entrato da trionfatore, offrendone il governo a Nanne Gozzadini. Questi convocò immediatamente le magistrature, sospinto dal velleitario intento di rianimare le antiche istituzioni comunali. Ma Gian Galeazzo Visconti, che aveva atteso l’esito degli scontri nelle retrovie, al tramonto del 30 giugno irruppe entro le mura e si proclamò signore di Bologna. La strada per arrivare a impadronirsi di Firenze, ormai circondata, e attestarsi risolutamente in Italia centrale gli era stata aperta.142 Ottobono, 142 La battaglia è stata accuratamente narrata da Cherubino Ghirardacci nella sua Historia di Bologna. Quanto a Giovanni Bentivoglio, questi, dopo avere tentato una difesa della mura di Bologna, si trovò bloccato dalla sommossa del popolo inferocito nei suoi confronti. Per sfuggire a questa minaccia, ricorse al travestimento nascondendosi presso la sua vecchia nutrice. Di qui lo tolse un conte Alberico da Barbiano assetato di vendetta, come scrive Ghirardacci: «Non era per anco sodisfatto il Conte Alberigo della vendetta contra Giovanni, per la morte del fratello ucciso da Giovanni, se bene il vedeva privo della Signoria di Bologna, se anco non lo vedeva privo di vita. E però raccordandosi ch’egli era per anco distenuto in Palazzo in una Camara appartata [...] il Conte d’indi lo trasse, e lo condusse in Piazza, dove à guisa di mansueto Agnello, senza formar parola, fu crudelmente da’ Soldati, e da’ suoi nemici ucciso, e tagliato a pezzi minutissìmí, e posto il Corpo lacerato dentro un Mastello, e portato alla Chiesa di S. Giacomo de gli Eremitani senza pompa funerale ſu sepolto». Cfr. C. GHIRARDACCI, Della historia di Bologna, cit., p. 535. 55 coadiuvato in armi dai fratelli Giovanni e Giacomo, tornò quindi a combattere in Toscana agli ordini di Alberico da Barbiano, che, alla testa di un esercito di 18 mila fanti e 12 mila cavalieri, stava portando una guerra senza quartiere contro Firenze. Lo sguardo retrospettivo della storia ci consente di scoprire sul teatro della battaglia di Casalecchio la singolare vicenda, frutto dell’ironico, e tragico, intrecciarsi dei destini umani, vissuta da due inconsapevoli protagonisti: i capitani in armi Ottobono Terzi e Ludovico di San Bonifacio, o Sambonifacio, l’uno contro l’altro armati. Il conte Ludovico si trovò allora a combattere nell’armata del Carrarese contro Ottobono del quale, quindici anni dopo quella battaglia, che lo vide sconfitto e fatto prigioniero, avrebbe sposato la vedova, Francesca da Fogliano.143 I Terzi investiti dei feudi di Giberto da Correggio Gian Galeazzo Visconti, con proprio diploma, formato il 29 luglio 1402,144 investì, i fratelli Ottobono, Giacomo e Giovanni Terzi, eredi di Niccolò, dei feudi e castelli di Guardasone, Traversetolo, Montecchio Emilia, Scalochia, Bazzano, Rossena, Sassatello, Gombio, Brescello, Boretto, Gualtieri, Cavriago e Colorno, già intestati a Giberto da Correggio, morto senza lasciare eredi: «Castrum Guardaxoni, et Terram de Traversetulo, Castrum Montisluguli, Castrum Scalochie, Castrum Bazani, Rocham de Colurnio, et Rocham de Cruviacho Episcopatus Parme, et Castrum Rosene, Castrum Sassadelle, et Castrum Gombie Episcopatus Regij». Contestualmente, su quelle terre, ai Terzi venne conferito anche il mero et mixto imperio, omni modo jurisdictione, et plena gladij potestate, ossia la capacità di esercitarvi la giustizia civile e criminale. Nei diplomi, mentre si elargivano benefici ai figli di Niccolò (il miles Ottone, il doctor legis Giacomo e poi Giovanni) spectabiles dilecti nostri domini, si rammentava e onorava il loro defunto padre, già suddito leale di Gian Galeazzo: «Grata et laudabilia considerans servitia, que fideliter et indefesse eidem actenus exhibuerunt quondam spectabilis Miles et dilectus Consiliarius suus dominus Niccolaus de Tercijs Comes Tizani ac Castrinovi Terciorum». Le concessioni stabilite in questo diploma furono confermate a tutti gli effetti, dopo la morte del duca, dai Reggenti con un secondo atto, rogato il 18 novembre 1402.145 «El conte Lodovigo de Sancto Bonifacio» era allora capitano agli ordini dei Carraresi, intervenuti in aiuto del Bentivoglio. Cfr. G. e B. GATARI, Cronaca Carrarese, cit., p. 482. 144 Integralmente trascritto dall’Affò, ripreso e corretto dal Tiraboschi, il diploma precisa anche la concessione ai Terzi degli «edifitiis, Curte, & hortis, & pertinentiis suis omnibus» che Giberto possedeva a Parma, tra i quali la casa «in Vicinia Sancti Martini sopolanorum». Cfr. I. AFFÒ, Istoria della città, e ducato di Guastalla, I, Guastalla 1785, pp. 379-387. 145 «Catarina Ducissa et Johannes Maria Anglus dux Mediolani &c. Papie Anglerieque Comitissa et Comes Anglerie, ac Bononie, Pisarum, Senarum, et Perusij Domini. Habentes veram et indubiam noticiam, quod felicis et semper recolende memorie quondam Illustrissimus Princeps et excellentissimus Dominus Johannes Galeaz Dux Mediolani &c. Consors et 143 56 Morte di Gian Galeazzo Visconti Il 3 settembre 1402 Gian Galeazzo morì di peste nel castello di Melegnano, dove si era rifugiato per sfuggire al contagio. Avuta la notizia del decesso, Ottobono tolse le sue truppe dall’assedio di Firenze per raggiungere a marce forzate Milano e partecipare con gli altri condottieri ducali alle solenni esequie. I solenni funerali, celebrati il 20 ottobre, sono stati descritti dalle cronache in tutta la loro superba magnificenza. Stupì la gran parata di vescovi e prelati, di ambasciatori, legati di tutti i principi e comuni dell’alta e media Italia, con le rappresentanze di tutte le sue città seguite da «cinquemila tra cacciatori e cortigiani, dodicimila di popolo d’ogni città, femmine milanesi abbrunate e piangenti».146 Formidabile apparve lo schieramento dei suoi capitani e armigeri più illustri, con Ottobono in prima fila. Altri della famiglia dei Terzi figuravano al posto d’onore in quel memorabile evento: il cugino Antonio, figlio di Giberto e valoroso capitano d’armi, recava assieme ad altri 36 patrizi e condottieri il feretro, mentre a reggere le aste del baldacchino di panno d’oro che lo sovrastava era stato chiamato il fratello minore d’Ottobono, Giacomo, il giureconsulto, privilegio che questi condivise con i Rossi, i Pallavicino di 146 genitor noster honorandissimus, grata et laudabilia considerans servitia, que fideliter et indefesse eidem actenus exhibuerunt quondam spectabilis Miles et dilectus Consiliarius suus dominus Niccolaus de Tercijs Comes Tizani ac Castrinovi Terciorum &tc. Et subsequenter spectabiles dilecti nostri domini Otto miles, et Jacobus Legum Doctor ac Johannes fratres comes Tizani ac Castrinovi Terciorum &tc. et filij ejusdem quondam Domini Nicolai ipsorumque fidelitatem expertam, concessit, ac per spectabilem Franciscum de Barbavarijs primum Camerarium suum dilectum, quem suum ad hec procuratorio nomine suo, liberorum, et successorum suorum in Ducatu Mediolani &tc. Procuratorem constituit, concedi fecit in feudum honorificum, ita quod sapiat naturam feudi nobilis et antiqui dictis dominis Ottoni, Jacobo et Johanni fratibus de Tercijs, Comitibus Tizani recipientibus pro se et successoribus suis omna et singula castra, fortilicia, villas, possessiones et bona cum ipsorum regalijs, ac jura, jurisdictiones, honorantias, vassallos, et honores quae fuerunt quondam Giberti de Corrigia de Guardazono filij quondani Domini Azonis de Corigia, et seu per ipsum Gibertum tenebantur et exercebantur immunia et exempta, prout dictus quondam Gibertus habebat, ac cum illis immunitatibus et praeheminentiis acque regaliis que predicto quondam Giberto, et seu prenominatis Dominis Ottoni, Jacobo, et Johanni competebant, et seu competierunt, et nominatim et specialiter infrascripta omnia castra, terras, Rochas, et loca, et ipsorum curias, villas, terrena, et territoria que dictus quondam Gibertus habebat exempta cum hominibus habitatoribus et habitaturis in eis libere immunia et exempta, et liberas immunes et exemptas ac etiam cum omnibus et singulis ipsorum et ipsarum regalijs presentibus et futuris ac cum mero et mixto imperio, omni modo jurisdictione, et plena gladij potestate, videlicet Castrum Guardaxoni, et Terram de Traversetulo, Castrum Montisluguli, Castrum Scalochie, Castrum Bazani, Rocham de Colurnio, et Rocham de Cruviacho Episcopatus Parme, et Castrum Rosene, Castrum Sassadelle, et Castrum Gombie Episcopatus Regij prout constat publico Instrumento rogato per Johannem de Cavenzassio publicum Apostolicum et imperialem Notarium Anno Domini MCCCCII. Indictione decima die vigesimo nono mensis Julij proxime preteriti». In G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi col codice diplomatico illustrato con note, V, Modena 1794, pp. 145-147. Nell’introduzione al documento, Tiraboschi scrive distrattamente: «Il duca di Modena investe Otto e i suoi fratelli Terzi di molti Castelli posseduti già da Giberto di Correggio. Originale nell’archivio della famiglia Terzi». L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, Piacenza 1858 (stampa 1846), p. 221. 57 Scipione, i Sanvitale e i Correggio, rappresentanti le eminenti casate di Parma, e con i signori delle maggiori città del ducato. La scomparsa di Gian Galeazzo sconvolse gli equilibri stabiliti e scatenò l’anarchia.147 Si visse allora entro i confini di quello che era stato il suo vastissimo Ducato una situazione ribollente di dinamiche intrecciate e complesse: «Fu grave crollo che ruppe gran corpo: sorsero i feudatari […] e ciascuno procacciò d’insignorirsi di qualche parte; i più forti presero le città, i meno forti le castella. Presto anche i tutori de’ Visconti furono in discordia; e i nemici si rallegrarono, specialmente il Papa che subito armò».148 Considerando il marasma nelle istituzioni del Ducato, molti capitani viscontei, e Alberico da Barbiano primo fra questi, non tardarono a cambiare schieramento, passando al soldo di Firenze.149 Ottobono seppe offrire e ostentare una lealtà quantomeno formale nel servire in armi i nuovi reggenti di Milano. Un atteggiamento che gli meritò la nomina a capitano generale e che gli consentì, mettendo in campo il suo personale talento militare e un certo fiuto politico, di ripristinare il governo nel Bergamasco e nel Bresciano, senza trascurare il Perugino.150 Fermo nella difesa delle proprie possessioni e feudi familiari in terra lombarda, sempre in agguato per dilatarli e carpirne di nuovi, Ottobono fu spregiudicato e aggressivo nel profittare a proprio vantaggio di quella situazione politicamente terremotata: occupò Parma, dovendola però subito difendere soprattutto dagli attacchi dei Rossi e dei Correggio.151 Sconfitte temporaneamente entrambe le casate, il Terzi le mise al bando; si impadronì dei loro possedimenti e, di fatto, divenne il Significativa la vicenda di cui fu vittima Ottobono che, tornato in Lombardia in seguito alla morte di Gian Galeazzo, trovò che i da Correggio avevano subitamente approfittato del momento per riprendersi le terre dei loro avi, assegnate dal Visconti in feudo ai Terzi poche settimane prima, il 29 luglio. Cfr. E. PASTORELLO, Il Copialettere marciano della cancelleria carrarese (gennaio 1402 - gennaio 1403), Venezia 1915, pp. 388-390. 148 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 222. 149 Per quanto riguarda Alberico da Barbiano, è da osservare che a fine gennaio 1403 era scaduto il suo obbligo decennale di condotta esclusiva con il Visconti. Era quindi libero di cambiare schieramento. Passò dalla parte della lega anti-viscontea; e da Cremona, partecipò a una martellante guerra di devastazione. 150 In generale per la situazione creatasi in quel tempo nel Ducato visconteo Cfr. G. C. ZIMOLO, Il ducato di Giovanni Maria Visconti, in Scritti storici e giuridici in memoria di Alessandro Visconti, Milano 1955, pp. 389-440. 151 I Terzi erano considerati alla stregua di parvenu dalle più antiche e antagoniste famiglie aristocratiche di Parma. Fa osservare in merito Gentile: «Come è noto, a Parma le squadre sono quattro, e fanno capo ai Pallavicini, ai Sanvitale, ai Correggio e per l’appunto ai Rossi, cioè alle casate signorili che si erano definitivamente affermate come egemoni intorno alla metà del Trecento, e che già negli anni Ottanta del secolo (ben prima, quindi, che Biondo Flavio non trovasse di meglio come ornamento della città) erano considerate le “quattuor domus parmenses” per antonomasia. All’interno di questo club esclusivo, già all’epoca di Gian Galeazzo era evidente come i Rossi disponessero di una clientela nettamente più numerosa rispetto alle casate rivali.» Cfr. M. GENTILE, La formazione del dominio dei Rossi, in L. ARCANGELI, M. GENTILE (a cura di), Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, Firenze 2007, pp. 36-37. 147 58 signore della città, mantenendovi il suo potere, implacabilmente contrastato dalla più influente e diffusa potenza dei Rossi, fino alla sua uccisione. Per altri aspetti, Ottobono operava con le sue milizie come braccio armato dei reggenti del Ducato visconteo. Nel novembre 1402 si diresse a Perugia per toglierla agli occupanti pontifici. Prima di raggiungerla passò con le sue truppe attraverso le terre bolognesi, razziando e arrecando incalcolabili danni. Sceso in val Tiberina, si accampò a Ponte Pattoli, sul primo guado del Tevere, a Nord di Perugia. Comandava 1300 cavalieri e 400 fanti152 portati all’assalto degli armati di Giannello Tomacelli, il capitano generale pontificio che stringeva d’assedio la città. Papa Bonifacio IX, fatta lega con i Fiorentini, aveva chiamato il fratello, coadiuvato da Paolo Orsini, per avvantaggiarsi della scomparsa di Gian Galeazzo Visconti. Il Tomacelli, messo sotto attacco dal Terzi, volse le terga e fuggì, cercando asilo a Todi. Così lo ricorda Scipione Ammirato: «Il marchese alla dappocaggine di non aver stretto Perugia quando aveva il tempo, aggiunse il peccato della viltà, imperocchè senza aspettare di vedere in viso Otto Buonterzo, senza sapere di che numero di genti con se menasse […] si partì con tutte le sue genti da campo, e andossene a Todi, abbandonando tutte le castella, che a lui particolarmente s’erano rendute».153 Ottobono riconquistò una seconda volta Assisi dopo avere sbaragliato le milizie di Paolo Orsini, del Mostarda da Forlì, del Carrara e di Braccio da Montone che lasciarono sul campo decine di caduti. Fatte confluire poi le sue soldatesche con quelle di Pandolfo Malatesta e di Giovanni Colonna, rispettivamente al comando di 600 e 300 lance, tutti si diedero a infestare e saccheggiare il territorio perugino fino alla piana spoletina. Riconquistate per il Ducato visconteo Perugia e Assisi, Ottobono risalì quindi con le sue truppe i passi dell’Appennino e il 12 giugno 1403, nottetempo, rientrò a Parma. Il mattino seguente, all’alba, ne era già uscito con trecento cavalli da porta San Michele per sorprendere con un’improvvisa carica l’accampamento dei Guelfi che insidiavano la città. Messi in fuga, questi furono braccati fino a Sassuolo e Reggio, dove Ottobono devastò le loro terre, facendo bottino di cavalli e altro bestiame. Il 21 di quel mese il Terzi mentre accorreva per dar manforte ai Pallavicino a Costamezzana di Noceto, uscì male da «aspra zuffa» con i Rossi incrociati presso la rocca di Varano dei Melegari, sempre nel Parmense. Quel medesimo giorno il fratello Giacomo era con gli Avogari, alleati dei Terzi, che occuparono e incendiarono la fortezza di Scurano ai confini del Parmense. Con gli stessi Avogari imperversava Ottobono quando egli inviò le sue soldatesche a depredare i territori di Correggio e di Carpi, trasferendo poi il bottino a Reggio. Poche settimane dopo saranno i Rossi e i Correggio, insieme in quest’occasione ai da Fogliano, che per ritorsione invaderanno i possedimenti dei Terzi, incitati dai Fiorentini. 152 153 Cfr. P. BONINSEGNI, Historie fiorentine, Fiorenza 1580, p. 774. Cfr. S. AMMIRATO, Istorie Fiorentine, II, Firenze 1647, p. 896. 59 Ottobono e Giacomo Terzi commissari ducali per Parma e Reggio La duchessa reggente Caterina Visconti, vedova di Gian Galeazzo, il 27 luglio 1403 nominò Ottobono e il fratello Giacomo commissari ducali per Parma e Reggio, domini che i Terzi conserveranno sino alla primavera del 1409. A queste signorie si aggiungeranno più avanti quelle di Piacenza, Fiorenzuola, Borgo Val di Taro, Pontremoli e Castell’Arquato, Borgo San Donnino e altre minori.154 La reazione a quell’investitura ducale da parte degli accaniti rivali dei Terzi, i bellicosi Rossi con le loro squadre, non si fece attendere. Già il giorno seguente Ottobono fu avvertito che la fazione a lui avversa si stava infiltrando nascostamente a Parma con i suoi villici e aderenti, pronti ad accendervi un’insurrezione. Così egli li prevenne, assalendo e sbaragliando prontamente la guarnigione guelfa asserragliata nella cittadella. Condannò pertanto all’immediato esilio decennale i Rossi, accordando loro un tempo esiguo per lasciare Parma, tassativamente misurato dallo smorzarsi d’una candela di dodici denari posta accesa sopra la campana civica. Una forca fu minacciosamente eretta sulla pubblica piazza, pronta alla bisogna per togliere la vita, oltre ai beni, a tutti i trasgressori. Nel frattempo le soldatesche dei Terzi correvano le strade di Parma urlando Morte a’ traditori! Eseguito quanto decretato, nel corso di un intero mese mille fanti e altrettanti cavalieri si dedicarono al saccheggio metodico delle proprietà dei Rossi e dei loro partigiani. I cittadini di Parma, d’ogni colore, furono obbligati a versare per le spese d’acquartieramento di quelle truppe una contribuzione di 10 mila fiorini. I Rossi, espulsi dalle patrie mura con la loro sequela di oltre duemila partigiani, perpetuarono comunque il loro conflitto con i Terzi, partendo dalle altre basi che in gran numero possedevano nei feudi parmigiani, arruolandosi tra le fila degli eserciti pontificio o fiorentino, accasandosi di volta in volta presso i loro più insidiosi antagonisti. Nel frattempo la reazione di Ottobono contro quanti fossero anche solo sospettati di voler porre remore all’affermarsi del suo potere sulla città e sul contado di Parma non si arrestava. Nell’agosto espulse da Parma per la porta di Santa Croce altri 660 abitanti di malsicura lealtà. In soccorso di Brescia Il primo settembre 1403 Ottobono lanciò da Parma un’offensiva contro San Secondo e Viarolo: trecento cavalieri e duecento fanti devastarono e incendiarono quei castelli, oltre mille contadini e pastori con seicento capi di bestiame furono catturati e portati a Parma. Sospese le spedizioni punitive contro le squadre dei Rossi solo quando fu chiamato a Milano, ove lo esigevano 154 60 Cfr. A. GAMBERINI, La territorialità nel Basso Medioevo: un problema chiuso? Osservazioni a margine della vicenda di Reggio, in F. CENGARLE, G. CHITTOLINI, G. M. VARANINI (a cura di), Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di leggitimità e forme di esercizio: Atti del Convegno di studi, Milano, 11-12 aprile 2003, Firenze 2005, p. 69. per urgenze politico-militari. Al comando di cinquecento lance e cinquecento fanti, il Terzi fu inviato in appoggio di Brescia, che soffriva l’assedio imposto da Niccolò III d’Este e da Francesco Novello da Carrara. A Casalmaggiore egli si incontrò con dei fuorusciti ghibellini e fu avvisato che i difensori della cittadella erano stremati e prossimi alla resa. Ottobono coordinò le proprie schiere con quelle di Jacopo Dal Verme e di Galeazzo Cattaneo da Mantova, portandosi sotto Brescia. Dopo avere tentato inutilmente l’attacco da porta di San Giovanni, egli si volse con successo a porta Pile, che cadde, consentendo di rifornire il presidio della fortezza. Dopo due giorni gli Estensi e i Carraresi furono costretti ad abbandonare l’assedio e si dileguarono con le loro truppe col favore delle tenebre. A fine estate Ottobono rientrò a Parma. Lo storico Cherbi registra che il 12 settembre 1403 era in corso la vendemmia tutt’intorno alla città e che le uve raccolte venivano portate al Terzi. Il medesimo giorno, annotano fugacemente i cronisti, arrivò a Parma e scese in vescovato madonna Orsina, sua prima moglie.155 Il giorno 27 fu avvisato che il condottiero parmigiano Gherardo degli Aldighieri,156 un temibile alleato dei Rossi, stava salendo alla testa di 150 lance da Castelfranco Emilia. Ottobono, corso all’assalto, lo sorprese e lo vinse nei pressi di Montecchio. Catturato che l’ebbe, lo fece accompagnare e rinchiudere nelle segrete della rocca di Guardasone da Simone da Canossa e Antonio Vallisnieri e ne mandò tutti i cavalli a Parma. La casa del prigioniero e quella del fratello Antonio furono saccheggiate dalla soldataglia. L’armistizio con Pietro Rossi Canossa e Vallisnieri, tornando dalla rocca di Guardasone, dopo avervi imprigionato Aldighieri, ebbero la ventura di incrociare Pietro, il duce dei Rossi, scortato da 17 cavalieri, reduce da un incontro e da negoziati intessuti con il «Vendemmia attorno alla città per un miglio. 12 settembre. Tutte le uve condotte a messer Otto. Madonna Orsina, moglie di messer Otto, in Parma. Smontava in Vescovato». Cfr. F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 211. Il palazzo del vescovado, prospiciente la facciata di Santa Maria Assunta, era allora dimora e sede di governo di Ottobono. Il vescovo era accolto in un edificio più modesto, non lontano dalla cattedrale. 156 Formato dal Barbiano nella sua Compagnia di San Giorgio, poi con il guascone Bernardo della Serra, fu anche questo un condottiero visconteo, capitano per Gian Galeazzo a Bassano nel 1392. Cinque anni dopo lo si trova infeudato in molte proprietà del Veronese. Di nuovo capitano e podestà a Bassano nel 1401, agli inizi del 1402 si trovava a Pisa al servizio di Gabriele Maria Visconti. Nel luglio del 1403 era nel Parmense con la sua compagnia di ventura formata da 150 lance a fianco dei Rossi e contro i Terzi. Antonio da Cornazzano lo elenca nel suo poema Arte della Guerra tra i cinque più valorosi capitani di Parma: «Tra’ Capitan Parma ha, l’un messer Otto,/ Antonio l’avolo mio, il Balestraccio,/ Rardo Aldighieri, e Biancardo Ugolotto». Nella sua versione in prosa del poema, quell’autore mette ancora il prode Aldighieri accanto all’altro prode parmigiano: Messer Octo de’ Terzi Cornazzani. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 173. 155 61 cardinale Baldassarre Cossa, legato pontificio per Bologna e la Romagna.157 In quella circostanza, dando prova di tempestività e astuta intraprendenza, i due riuscirono a catturare anche Pietro Rossi, imprigionandolo nella rocca di Montevetro, uno dei quattro castelli del Canossa. Il 29 settembre 1403, Ottobono, non appena ricevuta quella straordinaria buona nuova a Castiglione, accorse a Montevetro, scortato da 60 cavalieri, prelevò il suo coriaceo avversario ridotto in prigionia, e lo condusse con sé a Montecchio Emilia, passando però prima da Parma, dove lasciò intendere che lo stava portando a Milano, dal duca. In realtà, Ottobono aveva già scelto di tentare un accordo con il capo dell’irriducibile fazione rivale, risoluto a trovare un modus vivendi che consentisse a entrambi di tutelare convenientemente i reciproci interessi di casata nell’ambito della città di Parma e del suo contado. Sembrava insomma al Terzi che, raggiunta una posizione di forza prevalente, fossero maturate le condizioni per depotenziare la spirale perversa delle reciproche faide: s’imponeva una riconciliazione tattica, se non strategica, che fosse soddisfacente per le attese di entrambe le parti. Ha scritto a questo proposito Pezzana: «Così importante cattura fece parere ad Otto di essere ormai padrone non solo della campagna, ma delle castella dei Rossi. E nel colmo della sua gioja rattemperò le asprezze contro la parte rossa, concedendo grazia di rientrare in Città a coloro che nel supplicavano. Molti ne furono ammessi di fatto il dì quarto del mese seguente. E indubitato che questo ammansire del fiero Ottobuono procedesse da’ concerti già avuti col suo prigioniere Pietro Rossi di dividere tra loro l’ingorda preda della Città di Parma, spartimento che non istette guari ad essere posto in effetto. E così si credette sin d’allora. Ed anche Fulvio Azzari racconta che fu per certissimo tenuto da ognuno che tra loro non più come nemici, ma come amici maneggiassero d’usurparsi comunemente il dominio della patria, e quello che sigillò questa opinione fu il vedere il 3 di novembre ad esser posto Pietro in libertà. Uscito questi di prigionia ritornossi a S. Secondo».158 Manifestamente quell’accordo tra Terzi e Rossi fu imposto dal primo al suo prigioniero. Chi lo subì, fu costretto a esercitare tutto il suo spirito pragmatico per cogliere il meglio che quella scomoda posizione consentiva. La dinamica degli avvenimenti successivi gli avrebbe poi offerto, doveva sperare, altre occasioni di rivalsa. Il mestiere delle armi e del condottiero Il 17 ottobre 1403 i fratelli Terzi, figli ed eredi di Niccolò il Vecchio, si accordarono per suddividere le loro terre, borghi e castelli. L’intraprendente cardinale Cossa, discendente dai signori di Ischia e Procida, sarebbe stato eletto sette anni dopo papa nel concilio, o conciliabolo (in quanto giudicato illegittimo) di Pisa con il nome di Giovanni XXIII, l’antipapa. 158 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 43. 157 62 Ottobono preferì installarsi temporaneamente alla Colomba, in terra piacentina, nei pressi dell’abbazia cistercense fondata nel 1135 da Bernardo di Chiaravalle. Comandò ai suoi militi di raggiungerlo nella nuova dimora, lasciando a Parma qualunque cosa potesse appartenere alla città. Oltre che delle terre e del patrimonio doveva senza tregua preoccuparsi della gestione assai gravosa delle condotte militari, intuibilmente complessa per la consistenza e la diversa qualità del personale, nonché delle strutture di supporto sottoposte al suo comando: le lance, i cavalieri e i fanti, e quindi il patrimonio preziosissimo dei cavalli da guerra. Il tutto doveva essere coordinato con le strutture logistiche e di servizio, armi e armamenti. Era un’impresa dalle dimensioni imponenti, da governare investendovi un fiume di denaro ed ogni sapienza, anche amministrativa, in modo da renderla quotidianamente idonea a competere tanto sul piano offensivo quanto su quello difensivo. Come un moderno capitano d’industria, il condottiero del Quattrocento doveva combattere e vincere l’eterna battaglia delle problematiche gestionali, reprimere i costi e le spese sempre incombenti per acquisire risorse umane e strumenti bellici, col fine di conquistare mete e obiettivi, guerreschi ovvero politici, o anche solo di prestigio, prescelti dal condottiero, o a lui contrattualmente richiesti e imposti. Bisogna considerare l’onere altissimo da sostenere per armare tutta la Compagnia, e quindi corazzare le difese di ciascun pedone, di tutti i cavalieri o lance, con le rispettive cavalcature, da capo a piedi (e zampe). Ai costi d’impianto si sommavano poi quelli, parimenti gravosi e assillanti, che esigeva il normale funzionamento di quella struttura guerresca, per mantenerla e foraggiarla, collettivamente e individualmente, mirando al massimo della sua efficienza durante tutte le stagioni dell’anno, nessuna esclusa, curandone la manutenzione in itinere e la reintegrazione dopo ogni conflitto.159 Sono eloquenti al riguardo le notizie che descrivono il condottiero Ottobono Terzi impegnato durante un crudo inverno, agli inizi del 1408, nell’addestramento metodico delle sue truppe, preoccupato di mantenerne sempre elevata, anche durante la pausa delle stagioni morte, la reattività offensiva: ripulite da ghiaccio, neve e fango le strade di Parma, le aveva trasformate in palestra d’armi. Il giorno 5 gennaio 1408 giostrava con i suoi cavalieri sulla piazza maggiore. 159 Per governare questa galattica massa di problemi gestionali, economici e finanziarie oltre che organizzativi, il capitano d’armi, un signore della guerra come Ottobono Terzi, doveva possedere indubbiamente anche i superiori talenti di un moderno capitano d’industria. Un’impresa che, oltre alle complicazioni normali, straordinarie e critiche, presentava quella di essere per sua natura mobile, sempre in movimento verso nuovi quartieri e battaglie, parzialmente stanziale solo nel corso degli assedi; un’azienda che esplicava quindi la sua efficacia militare muovendosi su territori vasti, inseguendo tattiche e strategie basate soprattutto sul movimento, anche nel corso degli assedi. Infine, particolare tutt’altro che ignorabile: la massa armata dei numerosi ‘dipendenti’ assoldati da questa tipologia d’azienda era una raccolta di caratteri alquanto esigenti circa la misura e la scadenza di quanto loro dovuto. Il peculiare aspetto aziendale della condotta è stato descritto anche da M. MALLETT, Signori e mercenari: la guerra nell’Italia del Rinascimento, Bologna 1983. 63 Il perseguire e preservare un’alta efficienza bellica caratterizzava nel XV secolo l’operatività delle nuove compagnie di ventura, guidate da capitani d’armi, dei quali Ottobono costituiva una significativa incarnazione, usciti tutti dalla scuola di Alberico da Barbiano, autentici professionisti e signori della guerra. Stabilmente organizzate e costantemente operative, è difficile paragonare le nuove compagnie a quelle raccogliticce di ventura medievali, perpetuamente sofferenti per carenze di rifornimenti, comunque utilizzate episodicamente, pronte a sciogliersi con il calare degli incentivi. Le esigenze peculiari dei nuovi condottieri quattrocenteschi, qui appena accennate ed esemplificate, sono state del tutto trascurate nelle narrazioni degli storici antichi, che per contro abbondano in valutazioni moralistiche sull’esosità degli irascibili capitani d’armi. Accuse scagliate soprattutto contro il Terzi, al quale s’imputò, spesso non a torto peraltro, la veemenza truculenta delle recriminazioni per i ritardi nei pagamenti che egli doveva sopportare. Spezzando una lancia a favore del sulfureo Ottobono, è parso giusto qui rammentare come quel condottiero avesse delle urgenze meritevoli di considerazione. Una sopra tutte: l’entità delle sue spettanze, stabilite nel vincolante e dettagliato contratto di condotta che regolava i rapporti fra capitano d’armi e signore, comprendeva anche la parte da ridistribuire, come soldo, ai singoli combattenti, numerosi e tutti altrettanto impazienti di passare alla cassa per riscuotere quanto loro dovuto, a fronte dei rischi mortali sfidati e sangue versato, e tutti dotati di pessimo carattere, atto più ad aggredire che a sopportare. Si è calcolato che il credito vantato dal Terzi presso i Visconti nel 1403 avesse raggiunto l’imponenza di 50 mila ducati, ed era fatalmente destinato ad aumentare. Il primo novembre, causa la persistente scarsezza di aureo contante nelle proprie casse, il duca decise di assegnargli, a titolo di acconto e compensazione per stipendi di condotta pregressi, il castello e la villa di Montecchio, i borghi di Brescello, Boretto, Castelgualtiero, Borgo S. Donnino e Fiorenzuola d’Arda, aggiungendo «l’acqua del Po», ovvero i diritti di riscossione delle regalie per pedaggi al guado, installazione di mulini e utilizzi nell’irrigazione. Signore di Parma con Pietro Rossi Avuta notizia che i Sanvitale stavano fortificando la torre di Gajone e che altrettanto stavano facendo i Rossi con la torre della chiesa di Porporano,160 dubitando che questo preludesse all’accendersi di nuove ostilità da parte di quelle famiglie alleate contro i Terzi, in dispregio dei patti concordati, Ottobono persuase Pietro Rossi a intervenire, tutelando entrambi e la pacifica convivenza. 160 64 Località che oggi sono frazioni del comune di Parma. Proseguivano in questo tempo i mercanteggiamenti di Ottobono con la Repubblica di Firenze, che intendeva assoldarlo per sostituire Alberico da Barbiano.161 Nel mentre Parma era attanagliata dai rigori di un inverno straordinariamente ostile, livida e stretta in una morsa di ghiaccio, 162 sul fronte politico, all’opposto, si infiammavano sempre più gli scontri tra le fazioni l’una contro l’altra armate entro le mura cittadine e nelle terre circostanti, concordi solo, talora, all’occasione propizia o conveniente, nel rivolgersi contro il Ducato milanese. Reggevano, almeno provvisoriamente, gli accordi conclusi fra i Rossi e i Terzi, ma la loro stipula aveva suscitato la rabbiosa reazione dei Correggio, esclusi ed emarginati dalle trattative. Peraltro, anche la concordia siglata fra i primi non escludeva gli scoppi di nuove ostilità quando si passava a calare sul campo pratico la virtuale spartizione di spoglie, beni e terre e influenze, disegnata negli accordi stretti da Ottobono e Pietro Rossi. Le cose presero ad andare male proprio all’inizio del nuovo anno, con il primo di gennaio 1404, quando, per l’inquietante fermento guerresco che sembrava percorrere la città, si dovette rimandare la convocazione del consiglio dedicato alla rituale elezione degli Anziani. Il giorno seguente, i partigiani dei Rossi devastarono le terre attorno a Fontanellato, catturando molti prigionieri allo scopo di guadagnarne un riscatto. I Correggio, per parte loro, guidati da Pietro, tre giorni dopo, intravvista la possibilità d’impadronirsi di Montechiarugolo, a quel tempo inadeguatamente difeso, ne andarono all’assalto e tolsero il castello e i relativi beni al duca. Incitato alla rappresaglia, il giorno seguente Ottobono, forte di trecento lance, ottocento fanti, sessanta guastatori, un buon numero di palle di ferro con munizioni e bombarde per scagliarle, mise sotto vigoroso assedio i correggeschi entro le mura che essi avevano appena conquistato. Il castello fu rapidamente espugnato, senza danni per beni e persone, e i da Correggio catturati. La riconquista di Montechiarugolo da parte di Ottobono rese fieri i Parmigiani. E piacque anche il suo ordine, stabilito il 12 febbraio, di aprire porta San Barnaba, la più importante della città, dove passavano tutti i traffici che utilizzavano la navigazione fluviale fino al Po e ben oltre. Il 5 marzo un certo Martino da Faenza e un Gasparo de’ Pazzi, di guarnigione a Borgo S. Donnino, si ammutinarono e, dopo aver fatto prigionieri gli ufficiali di Ottobono, riuscirono a impadronirsi della rocca. Pochi giorni dopo, quell’avventura si concludeva con i protagonisti, Gasparo, Martino e altri nove loro complici, penzolanti da una forca, impiccati per i piedi come Questo mercanteggiare concomitante alle trattative aperte presso i Visconti per il rinnovo della condotta fu probabilmente strumentalizzato dal Terzi per far ingrossare i suoi compensi. Cfr. R. NENCI (a cura di), Consulte e pratiche della repubblica di Firenze (1404), Roma 1994. 162 Il ghiaccio sulle strade era spesso oltre un palmo, così che a ciascun capo di famiglia fu ordinato d’armarsi di pertiche per spezzarne una porzione assegnata. 161 65 traditori. I Rossi furono sospettati dai cronisti e così pure dallo storico Angeli di avere istigato quella sollevazione; ma non c’erano prove a convalidare le illazioni. Né era verosimile che, appena concluso l’accordo con Ottobono, proprio alla vigilia della sua attuazione, l’avveduto Pietro Rossi lo trasgredisse così maldestramente. E i fatti nel loro svolgersi successivo non avvalorarono i sospetti. La notte del 7 marzo, il Rossi, che, dopo la sua cattura e la liberazione pattuita con Ottobono, non aveva più messo piede in Parma, vi rientrò. Una dozzina dei suoi militi scalò col favore delle tenebre le mura della Città presso porta Capelluta e raggiunse, passando per i camminamenti di ronda e lungo le ‘chioldare’, dove si usava stendere i panni ad asciugare, porta S. Barnaba, che prese dopo avere catturato il gastaldo incaricato della sua custodia. Quel manipolo di armati si rinforzò con l’arrivo di altri partigiani dei Rossi rimasti fino ad allora in attesa. La porta fu aperta e di qui fece ingresso Pietro Rossi scortato da 34 cavalieri e 200 fanti tra le urla di giubilo di «Viva la parte guelfa!» della folla accorsa nel frattempo. Lo sprovveduto che si lasciò scappare un «Viva la ghibellina!» fu subito linciato sul posto. Nessuno provò più a intralciare Pietro, che cavalcò verso la piazza con i suoi, accompagnato da una folla crescente di cittadini e popolani. Le donne affacciate dalle case illuminarono con torce il suo passaggio. In concomitanza con il crescere dei festeggiamenti si scatenarono nuove vendette contro le famiglie antagoniste: si lamentarono nel corso della notte molti ammazzamenti tra i seguaci dei Pallavicino e molte case furono spogliate di tutto e incendiate. Il giorno seguente contro gli autori di questi misfatti si pubblicò, significativamente concordato a nome sia del Rossi che del Terzi, un bando di morte. Il medesimo giorno, subito dopo il tramonto, dal suo feudo di Castelnuovo nel piacentino, passando per Porta S. Barbara, giunse Ottobono con seicento cavalieri inneggianti tutti alla parte guelfa. Venne accolto in gran concordia da Pietro Rossi che l’aveva preceduto, quale collega partecipante al comune dominio su Parma. Il popolo, tumultuando in festa, tolse e ruppe le insegne dei ghibellini e bruciò i legni dipinti con il biscione, blasone dei Visconti, sulla piazza, davanti al palazzo del Capitano. Quell’insegna del potere su Parma fu poi sostituita, il 2 di aprile, con le armi affiancate in rilievo delle famiglie Terzi e Rossi. Il giorno seguente, si arresero i fortilizi d’ambo i lati dei ponti di Galleria e Donna Zilia, ove rimasero uccisi solo due dei difensori. Irreparabilmente più gravi per la memoria storica furono i guasti provocati quel 9 di marzo: spalancate le prigioni, mandati a fuoco tutti gli usci del Palazzo del Podestà, finirono completamente arrostiti gli archivi e le scritture che vi si conservavano. Nel frattempo proseguivano le operazioni per la conquista, palmo a palmo, della città e del suo territorio. Furono occupati il castello e le rocche di Porta Nova e di Santa Croce, le cui guarnigioni, disperando nei soccorsi ducali, 66 si arresero. La città fu quindi sgomberata da tutti i villani non aderenti ai Terzi e ai Rossi, mentre i restanti, tra i quali i Sanvitale e i Pallavicino, si acconciarono giocoforza alla situazione, piegandosi. La parte guelfa giurò fedeltà ai due nuovi signori di Parma, che lanciarono le loro truppe all’occupazione dei feudi del contado, dove i beni degli avversari estranei al loro patto finirono depredati senza tregua.163 Il 14 marzo fu convocato il Consiglio Generale della città per legittimare in forma solenne il dominio su Parma da parte di Ottobono dei Terzi e di Pietro Rossi. Ogni Porta mandò due sindaci come deputati per questa investitura. Il dì successivo, nella cattedrale, si consegnarono ai signori, con grande solennità, il bastone del comando, gli stendardi del Comune, le chiavi della città e delle rocche, in una cornice di popolo, anche in quest’occasione, esagitato e in gran tripudio.164 Ottobono e Pietro si giurarono l’un l’altro eterna fratellanza e quindi, mischiando sacro e profano, si comunicarono all’altare della cattedrale accanto al pulpito, allora ornato con la magnifica deposizione scolpita da Benedetto Antelami, dividendosi la stessa particola. Quel medesimo giorno fecero eleggere sedici Signori di Balìa, delegandoli al governo del Comune. Altri bandi emessi da Ottobono e Pietro riguardarono l’alloggio inibito entro le mura ai forestieri non amici; la proibizione ai cittadini di accettare senza loro espressa licenza qualsivoglia beneficio, chiericato, abbazia. Ulteriori decisioni furono prese per assicurare alla città adeguate difese in caso di assedio. Si munì di 200 fanti la cittadella. Ciascuna porta fu assegnata a due capitani, ognuno dei quali disponeva di vari connestabili al comando di squadre di 25 cittadini armati. Per rendere più efficace la loro difesa, i due signori decisero di ripartire le porte assegnando S. Barnaba, S. Croce e S. Francesco al Rossi; la Nuova, la Bologna e S. Michele, o Cristina, al Terzi. In seguito a questa assegnazione, a Ottobono toccò la vecchia Città, ovvero quasi due terzi delle porte con le tre fortezze maggiori: una posizione che gli garantiva la netta supremazia strategica nel caso in cui egli fosse entrato in conflitto con Pietro in ambito cittadino, ove quest’ultimo - lo doveva sapere il Terzi - era ben voluto e apprezzato per il migliore carattere, più mite, amabile e generoso. 163 164 Ottobono e Pietro ebbero allora anche l’appoggio di Bartolomeo Malaspina marchese da Fivizzano, che inviò 200 armati tra balestrieri e pedoni, mentre i Fiorentini finanziavano generosamente il Rossi. Il marchese Niccolò III d’Este mandò da Ferrara ambasciatori a rendere omaggio a Ottobono Terzi e a Pietro Rossi, accompagnandoli con l’invio di cento militi che essi assegnarono alla propria guardia personale. Il 17 arrivò a Parma, per partecipare ai festeggiamenti con il fratello, montando una mula bianca, ammantato di scarlatto foderato di ermellino bianco, con gran seguito, Giacomo Rossi, in quel tempo ancora vescovo di Verona. Egli sarà costretto a dimettersi da quella cattedra l’anno seguente dai Veneziani che avevano occupato la città scaligera e lo considervano «inimicus nostri dominii». Era sgradito anche ai veronesi, reputato «episcopus tamquam insufficiens et indignus». Cfr. P. BRUGNOLI, Il primo vescovo veneziano sulla cattedra di S. Zeno (Angelo Barbarigo), estr. da «Atti e Memorie dell’Accademia di agricoltura, scienze e lettere di Verona», s. VI, XX, 1968-69, pp. 1-3. 67 L’occupazione di Piacenza A marzo Piacenza si era ribellata al duca di Milano. Simulando di voler tutelare i diritti del duca Giovanni Maria, Ottobono, che rimaneva pur sempre un capitano ai suoi stipendi, entrò nella città, occupandola. Nelle Storie piacentine, Boselli scrive: «Molti Storici asseriscono, che nel marzo di quest’anno Piacenza si ribellò al Duca. Sembra adunque che uno o più caporioni di Piacenza, coll’ajuto d’Ottone e de’ suoi compagni, se ne facessero Signori. Di questi, due principali sembra che fossero Manfredo Scoto e Lodovico Scoti. Ma sia che i Piacentini fossero malcontenti del Dominio usurpato dagli Scoti, o piuttosto che Ottone con promesse e minaccie si proccurasse il loro favore: fatto è che Ottone poco prima del 2 aprile fu fatto Signore di Piacenza, rimaste tutt’ora le Fortezze in mano del Duca».165 Il tempo e i modi con cui fu attuata l’occupazione di Piacenza trova discordi gli storici. Poggiali è incerto se considerare il Terzi alleato degli Scotti o non piuttosto pronto a profittare dell’elemento sorpresa e dall’inadeguatezza delle difese piacentine; altri, come Boselli, ritengono che Ottobono sia stato addirittura sollecitato e coadiuvato in quella fulminea impresa dai cittadini di Piacenza, che poi lo portarono quasi trionfalmente a spalle sino al Palazzo pubblico per proclamarlo loro signore. Azzari, citato da Boselli, indica la data di quell’evento: «Nel giorno 15 di marzo, il Signor Ottone Terzo di Parma, Capitano d’arme e molto potente, entrò in Piacenza ed acremente la saccomannò».166 Pezzana per parte sua posticipa quell’ingresso agli inizi di aprile: «Sotto specie di sostenere i diritti del Duca Giammaria del quale era uno de’ Capitani, e seguendo l’esempio d’altri di questi che fìngevano di avere occupate altre città e terre a nome de’ Visconti, cavalcò in sul finire di marzo colle sue genti verso quella città e vi entrò il dì primo, od il secondo di aprile».167 In ogni caso, poiché permaneva la vigorosa resistenza di forze ribelli dentro le fortezze di città, con il podestà e il capitano asserragliati nel vescovado, Ottobono si trovò costretto a stringerle d’assedio. Fece ripulire tutti i fossati sotto le difese e costruire un vallo tutt’intorno alla Cittadella e al Castello di S. Antonino, inoltre fortificò il convento di S. Sisto per impedire ogni sortita agli assediati. Il Terzi era tuttavia consapevole di non avere forze sufficienti per mantenere contemporaneamente un duplice controllo su Parma e Piacenza, dove l’assedio delle fortezze lo stava logorando. Incombeva inoltre l’inquietudine che Pietro Rossi, con le mani libere a Parma, potesse divenirne padrone esclusivo. Fatta conclusivamente di necessità virtù, il 18 di maggio G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., p. 92. Cfr. ivi, p. 91. Ma si deve qui osservare che quel medesimo giorno, secondo il Pezzana, Ottobono celebrava nella cattedrale di Parma il suo insediamento come signore della città accanto a Pietro Rossi. Come si può constatare, la narrazione e le cronologie seguite dagli storici antichi sono, talvolta, alquanto confuse. 167 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 57. 165 166 68 riconsegnò la città occupata al suo duca, proprio quando si profilavano sull’orizzonte le truppe di Facino Cane, reduce dalla guerra con Padova, rinforzate da quelle di Pandolfo Malatesta e di Luca Cantelli, tutte dirette a ‘soccorrere’ a loro volta Piacenza.168 Ottobono unico signore di Parma Il Terzi, abbandonata Piacenza, entrò in Parma da porta Nuova, il 22 maggio, dopo il tramonto, alla testa delle proprie milizie a cavallo e appiedate. Al suo arrivo corrispose simmetricamente la fuga a cavallo per la porta opposta di Pietro Rossi, che cercò rifugio nella sua rocca di Felino. Le ragioni di questa precipitosa ritirata del Rossi sono state variamente spiegate: o con l’intimo timore del fuggitivo di trovarsi privato con violenza dal Terzi della gestione del potere che solo poche settimane prima gli era stato così solennemente conferito nel rispetto di tutti i crismi civili e religiosi; o altrimenti con la cattiva coscienza del medesimo Rossi, che lo sospinse alla fuga verso Felino, avendo egli effettivamente congiurato per togliere al Terzi la sua parte di signoria su Parma. Insomma, l’improvviso e improvvido ritorno di quest’ultimo lo trovò tanto impreparato ad attuare i suoi disegni quanto ad impedire che i medesimi fossero scoperti. Ne venne che per il Rossi in quella temperie la miglior soluzione era la ritirata nei propri feudi: se fuggì aveva certo delle ottime ragioni e lui le conosceva bene. Qualcosa di quello che Pietro Rossi gli stava apparecchiando sapeva certamente anche Ottobono e, infatti, nel prendere possesso della parte di sovranità parmigiana abbandonata dal Rossi, mostrò a quanti volessero leggerle e capire, certe lettere in cui si spiegava come Pietro lo volesse spogliare del suo potere. Lo storico Angeli crede che il Rossi si fosse dato alla fuga anche perché aveva saputo di una nuova alleanza consolidata dal Terzi con la potente famiglia dei Sanvitale a lui ostile, patti che cambiavano gli equilibri di potere sul campo. La conferma anche qui si ebbe quando Ottobono, entrato a Parma, poco dopo era già in piazza con Giberto Sanvitale, entrambi seguiti da una fitta schiera di cavalieri e da una turba di 600 militi a piedi e di villani partigiani accorsi dal contado. Le squadre vincenti, come sempre, si precipitarono a profittare delle nuove circostanze, dandosi al saccheggio indiscriminato delle case, con predilezione per quelle dei Rossi. Il Consiglio Generale, considerata la realtà effettuale, decretò subito che Ottobono restava il solo signore di Parma. Questi occupò immediatamente la 168 «Ma avendo Ottone compreso, soggiungono gli Annali Piacentini, di non potere conservare la Signoria di Piacenza, volle far cosa grata al Duca, e gliela restituì, dopo avervi dimorato due mesi, o per dirlo più precisamente, fino al 17 maggio, come scrive l’Agazzari nel qual giorno Piacenza fu restituita al Duca di Milano. Coll’Agazzari concorda la Cronaca di Cremona che asserisce: nel 18. Maggio essersi saputo che Ottone accordatosi colla Duchessa, le rese Piacenza; la qual cosa riuscì tanto gradita a lei ed al Duca, che ne fecero far feste nel 20, 21 e 22 dello stesso mese a Milano ed altrove»: G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., p. 92. 69 cittadella, i fortilizi a capo dei ponti e di tutte le porte di città, meno quella di S. Croce in cui si era rifugiata la moglie di Pietro Rossi, Giovanna Cavalcabò. Il 23 maggio ordinò a ai cittadini partigiani dei Rossi di consegnare tutte le armi da offesa e da difesa. Cavalcò poi attorno alla città, marcando il suo possesso, facendo prigionieri e bottino. Il giorno 26 armò le artiglierie, cinque bombarde di grosso calibro, ponendo sotto assedio il fortilizio di porta Santa Croce ove resistevano, con Giovanna Cavalcabò, Antonio Rossi e altri loro partigiani. Si consentì l’uscita di otto di questi per facilitare un negoziato con Pietro, che però recisamente rifiutò ogni approccio. Ebbe maggior successo la trattativa propiziata dal duca di Milano, che prevedeva una tregua di due mesi. Ma il vescovo Giacomo Rossi non la accettò, fidando negli aiuti promessi dai Priori e dai Dieci di Balia della Repubblica di Firenze al fratello Pietro per la riconquista di Parma. Questi in effetti tornò dalla Toscana portando con sé 160 lance e la promessa di altre 300. Il 29 maggio a Giovanna Rossi, moglie di Pietro, venne concesso di uscire dal forte assediato, libera di tornare a Felino recandovi i propri beni. Il giorno seguente si arrese anche il forte e un bando severo impose le condizioni ai Rossi che ancora vivevano entro le mura di Parma: a tutti i contadini veniva imposto di partirsene entro due ore e mantenersi a una distanza di 4 miglia dalle mura. Poiché, tuttavia, restava ancora un numero preoccupante di gente in grado di alimentare sommosse, il primo di giugno Ottobono comandò che sgomberassero tutti i maschi della fazione rossa maggiori di dieci anni, imponendo loro di uscire da Porta S. Michele dove sarebbe stato tolto loro quanto, oro o argento, o danaro, recassero con sé. Appena usciti tutti questi in osservanza al bando, la soldataglia di Ottobono non conobbe più freno e si lanciò alla razzia nelle dimore degli esiliati. Peggio ancora: insoddisfatte della preda, cominciarono il saccheggio anche dei luoghi sacri di Parma, terrorizzando i religiosi che cessarono ogni cerimonia, sbarrarono le porte dei templi, cercando ricoveri sicuri. Anche le botteghe furono costrette a chiudere, rimanendo aperte solo quelle ormai prive di ogni mercanzia, perché rubata o nascosta in casa dai mercanti. In tanta desolazione Ottobono scoprì la propria solitudine, sommersa dall’ostilità universale. Reagì emanando gride che avrebbero dovuto servire a contenere gli eccessi delle sue soldataglie, minacciò pene orrende per i predoni, impiccò qualche capoccia. In quel montare di disordine e violenza incontrollata, tutte le parti diedero il peggio di sé. Le porte cittadine furono chiuse, salvo quelle di San Francesco e San Michele. Oltre le mura, Ottobono correva il contado saccheggiando le proprietà dei Rossi, massacrando o catturando gli ostaggi di pregio. I Rossi, incoraggiati anche dall’arrivo a Felino di altre lance fiorentine, replicarono ruberie, guasti e uccisioni nei feudi degli avversari. Il 31 luglio essi spianarono le bocche degli acquedotti comune e maggiore, tagliando l’acqua a Parma 70 La casata dei Rossi Il conflitto acceso tra Terzi e Rossi, a leggere le cronache parmigiane del primo decennio di quel secolo, appare come un fenomeno inestinguibile.169 Espulsi da Parma, perseguitati e depredati nei loro feudi, ricompaiono subitamente più virulenti, vendicativi e numerosi, se possibile, di prima. Ottobono doveva essere conscio, reagendo con tanta spietata determinazione, alternata a offerte di fragili ed effimeri accordi, d’aver a fronte una casata prolifica profondamente radicata a Parma e in tutte le circostanti terre e castellanie. Qui i Rossi avevano saputo coltivare nei trascorsi decenni, precedendo il manifestarsi del potere militare dei Terzi, una rete estesa di aderenti, consorterie, clientele o semplicemente solide amicizie che avevano già dato molto filo da torcere, in forza della loro prevalenza numerica e supremazia nelle istituzioni, alle altre tre grandi famiglie parmigiane: quelle dei Pallavicino, dei Sanvitale e dei da Correggio. Ottobono favorì indirettamente di suo i Rossi, tra il 1403 e sino alla sua eliminazione nel 1409, con i propri comportamenti dissennati, gratuitamente violenti e rozzamente autolesionistici.170 Egli dovette temere, alla fine, pervenuto a una parziale consapevolezza dei pericoli incombenti, che persino il Ducato di Milano, oltre alla Repubblica di Firenze, sarebbe potuto intervenire a fianco dei Rossi. Decise allora, riuscendovi, di rendere più saldo il suo accordo con la duchessa Caterina e il Consiglio di reggenza. Era un dato di fatto che egli, dopo aver conquistata Piacenza, l’avesse lealmente restituitata al duca, liberando il campo. Molto verosimilmente aveva lasciato credere che pure la conquista di Parma era destinata a risolversi nella restituzione della città al signore di Milano. Annota Pezzana nella sua Storia della Città di Parma: «Io penso anzi che sin da quando Ottobuono, restituita Piacenza, ritornò a Parma per cacciarne Pietro egli avesse fatto credere al Duca di restituirgli anche Parma. A sodarmi in questo pensiere mi spigne il leggere nelle Cronache di Bergamo che il dì ultimo di maggio si pubblicarono colà lettere del Duca e della Duchessa Sulle vicende della eminente casata dei Rossi e in generale sui conflitti che si consumarono nel XIV secolo, e oltre, tra le fazioni parmensi è indispensabile rimandare ogni approfondimento agli studi fondamentali di Marco Gentile. In particolare sono da ricordare, oltre a Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, cit, anche Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001; Fazioni al governo. Politica e società a Parma nel Quattrocento, Roma 2009. 170 Ben più accorta e lungimirante, all’opposto, la gestione politica dei rapporti assiduamente curata dagli antagonisti dei Terzi. Annota in proposito ancora Gentile: «Ma ciò che definisce il peso dei Rossi e di altri casati aristocratici radicati nella zona come Sanvitale, Correggio e Pallavicini in rapporto ai poteri signorili concorrenti, sono in realtà le relazioni con la società urbana: direi anzi che il principale fattore che determina la gerarchia dei poteri signorili nel Parmense (e non solo nel Parmense) è proprio la capacità di lungo periodo di stabilire e di mantenere legami forti con la città attraverso una clientela, la cui principale manifestazione sul piano politico è una forma di aggregazione che genericamente si può ricomprendere nella vasta categoria della fazione». Cfr. M. GENTILE, La formazione del dominio dei Rossi, cit., p. 36. 169 71 ordinanti le solite allegrezze per la ricuperazione delle città di Parma e di Reggio».171 Il 4 giugno Pietro Rossi, con la regia del fratello Giacomo, già vescovo di Verona, trasferito poi nella Lunigiana, promosse una lega avente come scopo la «distruzione e totale consunzione di Ottobuono Terzi e de’ suoi aderenti e difensori».172 Di questa fecero parte molti dei nemici che via via si era guadagnato il Terzi, quali Vinciguerra e Lanzario Pallavicino di Varano, i Pallavicino di Scipione, Giberto degli Aldighieri, Giovanni Marzano comandante la Società degli Armigeri di Borgo S. Donnino, i Malnepoti di Cortemaggiore, Francesco e Giovanni Scotti. Nel frattempo, il condannato alla «distruzione e totale consunzione» rimaneva vigile e combattivo. Quando Ottobono fu informato che dai passi appenninici e da Rossena stava calando, al comando del valoroso capitano Angelo Tartaglia, un gran numero di lance inviate dai Fiorentini in appoggio ai Rossi e ai loro alleati, egli si lanciò immediatamente alla loro caccia, tese un agguato alla stretta di Selvapiana, presso il castello di Canossa, annientandoli e catturandone 360. Il 14 arrivò a Parma Pietro da Corte, vicario del Visconti, inviato per tentare un accordo fra Ottobono e Pietro Rossi. Ma l’odio reciproco, ormai profondamente esacerbato dagli eventi, e la conseguente diffidenza che albergava presso entrambe le parti rendeva improponibile la riconciliazione. Una conferma delle difficoltà insormontabili, il vicario ducale la ebbe il giorno 21, quando si trovava a Borgo San Donnino per convincere i Rossi a restituire le terre qui tolte ai Terzi: le sue esortazioni ebbero in risposta l’ennesimo rifiuto convincendolo dell’inanità dei suoi sforzi e del fallimento della sua opera di persuasione. Ottobomo, nel frattempo, si rafforzava militarmente e politicamente. Il 22 giugno si aprirono le porte di Parma per accogliere 400 cavalieri al seguito del capitano Paolo Orsini, inviato da papa Innocenzo VII, sostenitore dei Terzi contro i Rossi. L’entusiasmo destato dal’arrivo della cavalleria pontificia coinvolse nei festeggiamenti tutta la città.173 Due giorni dopo un bando dei Signori di Balìa ingiunse l’espulsione di tutte le donne e dei figli di partigiani e amici dei Rossi.174 171 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 63. G. V. BOSELLI, Delle storie piacentine, II, cit., pp. 94-95. 173 Furono disturbati alla fine dall’incendio appiccato dai fuochi della festa al lanternone sulla torre del Comune, dove arsero le travi facendo rovinare la campana. 174 La persecuzione contro i Rossi e le loro squadre si consumava giorno dopo giorno moltiplicando gli episodi efferati. Il 21 luglio 1403 Ottobono «li fece proclamare ribelli sulla pubblica via, con facoltà a chi si fosse di offendere negli averi e nella persona il Vescovo Giacomo, suo fratello Pietro e tutti i loro partigiani». Il 23, durante una scorreria nei feudi dei Rossi, fece far prigionieri persino i bimbi di 18 mesi. I bandi d’espulsione dai castelli e dalle ville dei Rossi colpivano anche i loro alleati Correggesi. Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (14021421), cit., p. 16. 172 72 Ottobono signore di Reggio Il 24 di giugno 1404, il duca concesse a Ottobono la proprietà della città di Reggio e del suo castello. Il Visconti intendeva così remunerarlo dei grandi servigi che questi gli rendeva. Da Erba scrive nel suo Estratto che quella concessione in proprietà assoluta di città e castello era dovuta a compensazione delle paghe arretrate che Ottobono vantava nei confronti del duca, ammontanti a 50 mila fiorini.175 Pezzana precisa: « a’ 25 di quest’ esso mese il Duca gli concesse in premio de’ suoi servigi la città ed il castello di Reggio [...] perciocché Otto incominciò tosto ad assumere il titolo di Signore di Reggio. Pose Ottobuono nella città le insegne Viscontee, e fece riscuotere alcuni dazj in nome del Duca nel modo stesso che soleasi da’ suoi ministri, e per rimovere ogni sospetto delle due squadre Sanvitale e Pallavicina a queste si collegò il dì 9 sotto colore di opporsi ai nemici del Duca».176 A Reggio il Terzi esercitò e sviluppò il suo dominio che fu militare, innanzitutto, ma altrettanto intensamente politico e giurisdizionale e quindi microstatuale come forma e sostanza caratteristica. Dilatò i propri poteri personali in ambito legislativo, arrogandosi il diritto di modificare, ovvero abrogare gli statuti comunali. Le norme in civilibus furono integralmente rielaborate nel corso nel 1404, salvo che Ottobono si riservò personalmente in seguito ampio potere di deroga. In ambito giudiziario egli si attribuì il sovrano potere di grazia, massima ed emblematica manifestazione di possanza del dominus. Le attività del potere esecutivo si avvalsero delle strutture amministrative e funzionali del perdurante apparato ducale visconteo, a partire dalle cariche di podestà e di capitano per arrivare a quella, più prosaica ma essenziale, di maestro generale delle finanze, cui competeva l’onere di inseguire la riscossione delle gabelle, entrate ordinarie e straordinarie. Una struttura che si organizzò in forme di vigilanza e difesa, estendendola nelle terre del contado ove si ramificava, dal monte al piano, la rete delle castellanie e dei borghi con i loro vicari. L’assassinio di Merlino e l’infuriare delle faide Nell’aspra guerra che continuava a consumarsi fra le anonime genti dei Terzi e dei Rossi, si è conservata memoria di un episodio e di una vittima che disvelano sentimenti d’insospettabile, tenera umanità e gentilezza di costumi in Ottobono, feriti i quali tuttavia, emerge e si scatena l’inumana, belluina reattività delle sue vendette. È la vicenda del giovane Merlino, legato al condottiero da un rapporto che, nella descrizione commossa che ne fa il Pezzana, sembra rievocare l’affetto riservato dall’imperatore Adriano ad Antinoo: Se conteggiato in fiorini d’oro, ciascuno coniato di norma con bontà di 24 carati e un peso di 3,54 grammi, quella somma corrisponde a ben 177 kg di metallo aureo fino. 176 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 63. 175 73 Un famiglio di Ottobuono, giovine di leggiadro aspetto, di laudabile e gentil costume, e più d’ogn’altro istrutto ne’ cavallereschi diporti della danza e del suono, fu preso il dì 14 luglio da’ villani Rossi nelle vicinanze del castello degli Alberi. A quelle amabilità congiugneva una piacevolezza nel parlare, la quale condiva di sì arguti e festivi motti, che il suo Signore soventi volte a ricreamento dell’animo e del corpo affaticati solea con esso lui intrattenersi. Merlino era il suo nome. Questo amabile giovinetto fu ucciso il dì sedici da que’ barbari e mandatone il cadavere a Parma come per beffa all’afflitto padrone. Da tanta rabbia, da tanto dolore fu concitato 1’animo di Otto che orrenda fu la vendetta da lui presane. Fece tagliare in pezzi censettanta tra cittadini e villani della parte Rossa che erano prigioni in Parma, e così macellati mandolli sopra 14 carra fuor di porta S. Michele a Porporano ove campeggiava il nemico. Fece spianare sette case de’ Rossi, […] Duranti le esequie di Merlino, fatte in S. Francesco del Prato per volere di Otto con tanta pompa quanta ne sarebbe stata per lui medesimo, fu visto quel feroce tiranno piangere di continuo a calde lacrime. 177 Il giorno sei di agosto, Ottobono era all’assalto di Felino, rocca dei Rossi, dove si era rifugiato il capitano Angelo Tartaglia con i suoi cavalieri, reduci dalla disfatta di Rossena. Sotto l’attacco furioso del Terzi, nonostante il valore e il coraggio del condottiero e delle lance fiorentine, queste furono un’altra volta sconfitte, lasciando numerosi prigionieri tra i Rossi, le cui case furono, com’era consuetudine, depredate e incendiate. Sul finire del mese arrivò quindi, com’era inevitabile, la risposta dei Rossi che, partiti dal loro castello di Felino, portarono la devastazione nelle terre dei Terzi: a Sissa, Trecasali, Palasone e San Nazzaro. Replicò con maggior profitto da par suo Ottobono, il quale per rappresaglia, a Parma, penetrò le sacre mura del monastero femminile di San Paolo, rubò a man bassa ori, argenti, panni finissimi e un tesoro di seimila fiorini ivi lasciati in deposito dai Rossi, distribuiti poi tra i suoi a compenso dei loro servigi. Sempre ai Rossi furono tolti tutti i benefici ecclesiastici o secolari, le proprietà in case o di fondi, legati al convento. Il diluviare di notizie di tanti delitti, ladrocini, eccidi, che devastarono e insanguinarono Parma e le sue terre trasformandole in un inferno, non potevano lasciare indifferenti i governanti delle altre signorie. Il 2 di settembre erano giunti in città tre ambasciatori da Venezia, Bologna e Firenze per avviare con sforzo congiunto trattative atte a sopire i contrasti delle fazioni, rompere il ciclo perverso e l’effetto cumulativo delle vendette, spegnere ogni lotta e concludere se non una pace, almeno una tregua salutifera. Il giorno sette Ottobono rispose a quelle preoccupazioni promulgando un bando con il quale si comminava la pena di morte, unitamente alla sanzione della perdita di ogni avere, contro chiunque tenesse in casa bambini imparentati con i Rossi e non presentasse immediatamente denuncia di ciò a un suo 177 74 Ivi, p. 66. ufficiale, il famigerato e spietato Pietro Vianino. Contemporaneamente, si ordinò che i fanciulli d’età superiore ai cinque anni fossero imprigionati e che per ciascun minore dei Rossi, denunciato a norma del suddetto bando, si dovesse dare cauzione di 200 fiorini d’oro da presentarsi contestualmente a ogni richiesta. Parma data nuovamente in pegno a Ottobono Il giorno otto di settembre 1404 il duca di Milano stabilì che la città di Parma fosse data in pegno a Ottobono a risarcimento dei 78 mila fiorini che il Visconti doveva al suo condottiero per stipendi arretrati. Il duca si riservò la facoltà di recuperare la città, improrogabilmente entro un anno, trascorso il quale Ottobono sarebbe rimasto libero padrone di Parma. L’undici di settembre si stabilì (o, per meglio dire, fu imposta) e resa pubblica una nuova tregua fra i Terzi e i Rossi che sanciva, però, l’emarginazione di questi ultimi dalla vita comunale. Essa prevedeva la cessazione di tutti gli atti ostili fra le due fazioni entro i giorni restanti del mese. La medesima tregua si poteva prolungare fino al marzo successivo con il beneplacito di Ottobono. Nessuno della parte rossa doveva avvicinarsi alla città di Parma o ai castelli dei Terzi superando la distanza di due miglia, pena la vita dei contravventori. Nessuno dei Rossi poteva abitare case, né proprie, né altrui, nella città e nelle pertinenze del Vescovado di Parma. Due giorni dopo, il tredici, quelle disposizioni furono aggravate: tutte le femmine della parte rossa dovevano uscire dalla città e restarne lontane mille passi sotto pena del fuoco; chi avesse dato loro ospitalità sarebbe stato impiccato e messo a ruba ogni suo avere. Ottobono, dopo avere emanato queste ordinanze perentorie, rivolse le sue attenzioni ai Manfredi di Faenza, colpevoli di avergli fatto perdere sue giurisdizioni a beneficio degli Estensi. Il giorno venti andò ad assediare con le bombarde il loro fortilizio di Mozzadella, o Muziatella, antico maniero eretto dai Templari, sito nel Reggiano, che si arrese, scendendo a patti, otto giorni più tardi. Alla guerra di Padova e nel Veronese Il 21 ottobre 1404 Ottobono, alla testa di 400 fanti e 200 lance, avendo accettato di porsi agli stipendi della Serenissima, partì per la guerra che la Repubblica aveva iniziata contro i Carraresi, signori di Padova. Lasciò il governo di Parma sotto il presidio del fratello Giacomo, del cugino Antonio Terzi e di Giberto Sanvitale. Questi seppero far buona guardia e risposero adeguatamente quando le squadre dei Rossi, pochi giorni dopo la partenza di Ottobono, tentarono di sottrarsi alle imposizioni della tregua e rientrare nella signoria di Parma. Nella notte del 10 novembre, Giacomo Rossi, il fratello vescovo di Pietro, arrivò con 50 cavalli e 1200 fanti. Tentò di aprirsi un varco nelle mura presso Porta Cappellina, trovandole tuttavia così ben difese che fu costretto a ritirarsi. 75 Riprovò l’impresa dieci giorni dopo con maggiori forze, di pomeriggio e sotto la pioggia battente, inviò Leonardo Rossi che si portò all’assalto delle mura presso Sant’Agnese alla testa di 500 cavalli e più di 1500 fanti. Anche costui fu sconfitto, costretto a fuggire, ottenendo solo d’eccitare le inevitabili rappresaglie e vendette dei Terzi che, infatti, ripresero martellanti. Circa la partecipazione di Ottobono agli eventi della guerra scoppiata tra Venezia e i Carraresi, Tiraboschi premette che «all’improvviso nel mese di ottobre [...] il Terzi entrato a mano armata nel territorio di Modena, lo scorse con tal furore, e sì copiosa preda ne trasportò, che il danno si credette che giugnesse a cento mila ducati».178 Il fiorentino Buoninsegni afferma che questo accadde perché Venezia volle punire l’Estense per la perdita di Rovigo e del Polesine: «In questi tempi il Marchese di Ferrara tolse a’ Viniziani tutto il Pulesine e Rovico, & per quello i Viniziani presono a soldo messer Otto Buonterzo, & mandarono a’ danni del Marchese, & in sul Veronese».179 Ottobono, conclusa quella spedizione punitiva nel Modenese, raggiunse, passando per il Mantovano, l’esercito di Venezia concentrato nel Veronese, ove militavano altri due capitani parmigiani e viscontei, Jacopo Dal Verme e Ugolotto Biancardo. Domenica 2 novembre l’esercito veneto era attendato a Bussolengo e quel giorno stesso partirono mille lance circa verso la Valpolicella, ove rimasero per più di un mese, bloccando tutti i passi e impedendo i rifornimenti di vettovaglie per il Carrarese, accerchiato a Verona. Sei giorni dopo Ottobono e Jacopo dal Derme andarono all’assalto delle fortificazioni della Chiusa, stretta fra Rivoli e l’Adige, le conquistarono e chiusero quindi tutti i valichi per il Trentino e verso il Tirolo. Scrive a questo punto Verci che «allora fu fatta una fortissima bastia tra Gussolengo e Pescantina, ed una a Castelrotto, e fu gettato il terrore e lo spavento fin dentro alla Città, correndo il popolo a romore, dicendo che i nemici volevano passar l’Adige, ed assaltare Verona».180 Sempre Verci riferisce un altro episodio bellico in cui si distinse il Terzi, combattuto gli ultimi giorni del 1404, «motivo di grandissimo dispiacere» per il signore di Padova: «Imperciocché uscito di Verona Giacomo da Carrara con ottocento cavalli, e mille pedoni per venire a Montagnana, e far colà una bastia, e chiudere il passo a Jacopo dal Verme, e Ottobon Terzo, questi due bravi generali, che se n’accorsero, se gli fecero incontro con numero assai superiore di genti, ed assalitolo lo mise in fuga, facendo prigioni trecento cavalli de’ Veronesi, e tutti i carriaggi».181 Il 7 gennaio 1405 Ottobono con Jacopo Dal Verme era sotto le mura di Verona, in Lungadige San Zeno, presso porta Calzolari, di scorta a Francesco I Gonzaga. Questi era sopraggiunto dal suo campo posto a Cavaion dopo avere comperato delle sentinelle veronesi, come narra il Verchi: G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi, III, cit., p. 77. P. BONINSEGNI, Historie fiorentine, cit., p. 785. 180 G. VERCI, Storia della marca trivigiana e veronese, XVIII, Venezia 1790, p. 162. 181 Ivi, p. 170. 178 179 76 Egli avea segretamente trattato con certe guardie che custodivano il muro di San Zeno [...] I traditori aveano promesso di far tacitamente un’apertura presso alla porta de’ calzolaj, e mantennero la loro promessa. Il Signor di Mantova si portò personalmente con tutto l’esercito, ed erano con lui Jacopo dal Verme ed Ottobon Terzo. Niuno senti la venuta di queste genti, se non que’ traditori, che gli aspettavano al buco della muraglia rotta, per cui i Veneziani incominciarono ad entrare audacemente e già n’erano entrati più di trecento, ed avean preso tre torricelle piantate sopra la porta de’ calzolaj. Giacomo da Carrara avvisato del grande pericolo in cui si trovava la Città, poiché udito il rumore dalle sentinelle erasi incominciata fierissima zuffa, si vestì frettolosamente le armi, e montato a cavallo corse animoso a quel luogo. Al primo colpo di lancia passò dall’una parte all’altra Francesco Gonzaga fatto nuovo Cavaliere, e messa mano alla spada gettossi fra quei ch’erano entrati come un feroce leone. Arrivò di rinforzo Cecco da San Severino e Paolo da Lione, e il popolo Veronese, gridando muojano i traditori, i quali dopo fìerissimo contrasto ripresero il luogo rotto. 182 A Piacenza Ottobono, il 7 marzo, abbandonato il campo e la sua condotta al servizio della Repubblica di Venezia, tornò al Visconti, scortato da 1200 cavalli e duecento fanti. Il Da Erba scrive che fece tappa a Piacenza da dove partì il dì 7 aprile per incontrare il duca a Milano, e che il Visconti gli andò incontro sino a Binasco con più di 2000 cittadini «e gli fece molte carezze». Il 9 maggio il Terzi ordinò a Pietro da Vianino, delegato all’esecuzione dei bandi punitivi e spietato nemico dei Rossi, di mettere a sacco le loro terre. Lo stesso giorno, con un seguito di plebaglia a piedi e di altri a cavallo, il da Vianino si accanì contro Lesignano facendo demolire persino la chiesa; il 25 e il 31 si rivolgeva contro i castelli di Mamiano, Porporano e Alberi, nei dintorni di Parma. E questo nonostante pochi giorni innanzi, il 20 maggio, fosse stato pubblicato un nuovo bando per dar corso a un’altra tregua con i Rossi che doveva durare fino a metà giugno. Il 30 ci fu un altro bando che impose ai partigiani di quella famiglia, già cacciati dalla città, ma che, impuniti, erano subito rientrati, di uscirne prontamente per non essere catturati e sottoposti a taglia. Mentre Ottobono si trovava a Piacenza, reduce dalla guerra con i Carraresi, gli fu chiesto di portarsi in aiuto, alla testa di mille lance e mille pedoni, a Francesco Visconti impegnato nell’assedio di Lodi in rivolta. L’8 giugno 1405, Giberto Sanvitale, un alleato parmigiano dei Terzi, nominato podestà di Piacenza, si presentò per esercitare le sue funzioni. L’accoglienza del ceto magnatizio, sobillato dagli Scotti, fu ostile e un’insurrezione ispirata dagli stessi costrinse Giberto a trovare scampo nella cittadella. I rivoltosi consegnarono il controllo del Comune a Gabrino Fondulo. Due giorni più tardi, Ottobono con Francesco Visconti accorse da Lodi, 182 Ivi, pp. 170-171. 77 smorzò prontamente ogni disordine a Piacenza e reintegrò nei suoi pieni poteri il podestà Sanvitale. L’assedio di Lodi, ove Ottobono era intervenuto a fine maggio, proseguiva frattanto infruttuosamente e stancamente. Scoppiarono ruvidissimi contrasti circa le soluzioni tattiche e strategiche da decidere fra i capitani viscontei, così che il Terzi esasperato preferì abbandonare il campo e ritornare con le sue truppe a Piacenza. Confermato signore di Parma con Borgo San Donnino Era arrivato nel frattempo a scadenza il termine annuale stabilito con il duca di Milano per la restituzione di Parma sotto condizione del pagamento integrale degli stipendi arretrati spettanti per le condotte di Ottobono. Le casse ducali non furono però in grado di onorare l’impegno, sborsando l’ingente somma pattuita, e dunque Parma rimase possesso del Terzi. Anzi, quel patto fu integrato da una nuova convenzione con la quale Ottobono ottenne anche Borgo San Donnino con l’impegno dell’intervento ducale a tutela di quella proprietà contro ogni molestia. Era una promessa formale, poiché la difesa del Borgo rimase sempre affidata alle autonome iniziative belliche del Terzi che si trovò da subito impantanato in un estenuante conflitto. L’11 luglio, infatti, appena ottenuta dal duca quella terra, Ottobono scoprì che gli era impedito di prenderne possesso: due terrazzani, certi Giacomino Guarnazza e Giovanni Mazza, agevolati da tre complici, dopo avere assassinato il castellano, si erano impadroniti del fortilizio e lo stavano governando a loro proprio nome. Iniziò con quell’usurpazione un’estenuante guerra locale che intrigò lungamente Ottobono. Il 14 luglio egli accampò sotto la rocca sue truppe, rinforzate il giorno seguente da 234 cittadini armati inviati da Parma sotto il comando di sei connestabili, inalberando lo stendardo comunale, provvisti di molte bombarde di grosso calibro e gran quantità di munizioni. Una settimana dopo, il giorno 21, erano radunati davanti al castello di Borgo San Donnino più di diecimila armati parmigiani. Eppure i terrazzani seppero opporsi con successo: oltretutto non erano isolati nella loro resistenza, trovando conforto negli aiuti che clandestinamente venivano assicurati dai Pallavicino. Scoperta questa sotterranea complicità, il 28 luglio Ottobono ordinò di saccheggiare le terre dei colpevoli, o sospettati di esserlo, e di traslocare il bottino requisito nelle proprie. Conseguentemente, nel contado molti adepti dei Pallavicino mutarono campo: sostituirono sulle loro porte le insegne della famiglia caduta in disgrazia con quelle, più protettive in quel momento, dei Terzi. L’otto di agosto arrivarono da Parma abbondanti scorte di vettovaglie e munizioni per gli assedianti di Borgo San Donnino, ma il prolungarsi della testarda resistenza della rocca convinse Ottobono a trovare in qualche modo 78 un’intesa con i Rossi. Riuscì a patteggiare una tregua per l’agosto, che poi si prolungò sino a novembre.183 Morte della madre e della prima moglie Orsina Il 10 agosto era morta a Parma la madre di Ottobono, Margarita. Fu sepolta alle tre di notte nella chiesa di San Francesco del Prato dei frati minori a Parma. Il giorno 28, sempre di quell’agosto 1405, si spense a Castelnuovo anche Orsina, di ignota famiglia, prima moglie di Ottobono.184 Le esequie di entrambe si celebrarono il 31 ottobre, con grande solennità e un’unica cerimonia, sempre in San Francesco, tra luci di ceri, sfavillio di croci, gran concorso di popolo chiamato dal suono delle campane.185 Erano presenti a onorare quelle esequie Carlo da Fogliano, e il conte Guido Boiardo di Rubiera. L’11 settembre il castellano di Colorno s’impadronì in nome di Ottobono della fortezza di Casalmaggiore, facendo quattordici prigionieri. Continuava nei medesimi giorni, senza esito, il guerreggiare sotto Borgo San Donnino. Il Terzi fece costruire due bastie distanti tre miglia dalla rocca e quindi, dopo aver acquartierate qui delle truppe con munizioni e scorte sufficienti per sostenere l’assedio, l’ultimo del mese tornò con il resto del suo esercito a Parma. 183 184 185 Ma, come sempre, quelle tregue ressero male, tanto che dopo altri contrasti le figure dei due maggiori esponenti dei Rossi, il vescovo Giacomo e Pietro, finirono dipinte impiccate per i piedi quali traditori sul palazzo pubblico di Parma. L’ordine di cancellarle arrivò solo il primo di novembre, dopo un intervento di Carlo da Fogliano. Cfr. F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 219. Le cronache del 1456, raccontando la conclusione di una singolare vertenza architettonica ed ecclesiastica, ci forniscono dei ragguagli circa il luogo sacro riservato alle sepolture dei nobili Terzi a Parma. Le vicende di quell’imponente tempio, l’intervento per demolire finalmente il cappellone degli Aldighieri tirato su proprio nel bel mezzo della maestosa navata centrale, ci informano che quella massa deturpante nascondeva, pietosamente situata dietro al pulpito, la cappella dei Terzi eretta accanto a quella dei Sanvitale. Il Pezzana così riferisce di quella lontana vicenda di deturpazione architettonica: «Venendo ora alle cose ecclesiastiche della nostra città, e de’ luoghi dependenti dalla Diocesi Parmense, importa il sapere che nel bel mezzo della vasta chiesa di S. Francesco del Prato sorgeva una cappella intitolata alla Madre del divin Verbo. Gherardo ed Antonio Aldighieri da Parma aveanla dotata ne’ passati tempi. Erasi di recente restaurato questo suntuoso tempio, e di laudabili opere di tarsia abbellito. Parve a’ Frati Minori sconvenevol cosa il lasciar sussistere tale cappella che, scemando luce al resto della chiesa, nuocendo al simmetrico diletto, e rappiccolando la gran navata di mezzo, facea minore la magnificenza di uno de’ principalissimi edifizi nostri. Era il vivente patrono di essa cappella il nobile Baldassarre Aldighieri di q. Antonio, il quale, piegatosi alle istanze de’ frati e del loro superiore Sebastiano da Bagnacavallo Ministro della Provincia Bolognese, ne concesse la demolizione, ricevutone in cambio un’ altra» E lo storico aggiunge poi, in nota: «Rog. Zangrandi del dì 12 genn. Ivi leggesi di questa cappella che era sita et edificata in medio Ecclesiae, et ipsam Ecclesiam totaliter deornans et destruens omnem pulcram faciem et apparentiam ipsius Ecclesiae noviter reparatae et tarssatae (sic). I frati cedettero all’Aldighieri (chiamato ivi sempre Adighieri) le colonne, i ferramenti, i mattoni, e i cementi di essa cappella, in cambio della quale diedergli la intitolata a S. Giov. Vang., che stava tra quelle de’ Sanvitali e dei Terzi, che il popolo chiamava di Maria moglie di q. Masotto Enzola, e che era situata precisamente presso il pulpito». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, Parma 1847, p. 151. 79 I fratelli Terzi aggregati al patriziato della Repubblica di Venezia In data 29 settembre 1405 i fratelli Ottobono e Giovanni Terzi, ovvero i «magnifici domini Otto et Iohannes fratres, de Tercis qd. Magn. Dom. Nicolai», conti di Tizzano e Castelnuovo, per la loro provata devozione, con bolla aurea, furono cooptati nel Maggior Consiglio di Venezia, privilegio trasmissibile ai loro eredi. Il giuramento di fedeltà alla Serenissima fu prestato mediante procuratore.186 Il medesimo giorno anche l’altro fratello, il giureconsulto Giacomo, «magnificus dominus Iacobus de Tercis qd Nicolai», parimenti conte di Tizzano e Castelnuovo, con altra bolla d’oro, ottenne quel privilegio e giurò fedeltà alla Repubblica di Venezia.187 Si deve osservare che, nel momento in cui i Terzi accedevano al Maggior Consiglio, già erano formalmente cittadini di Venezia, iscritti nel Libro d’Oro della nobiltà, in virtù del privilegio ereditario188 riconosciuto al padre Niccolò sin dal 1393. 189 Ottobono legittima il figlio naturale Niccolò Il 25 novembre 1405,190 la settimana precedente le nozze con Francesca da Fogliano, Ottobono legittimò il figlio naturale Niccolò, celebre in seguito come «il Guerriero» che ebbe per madre Cecilia Della Pergola. L’atto ufficiale è conservato presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia.191 186 187 188 189 190 191 80 Si veda la scheda, Otto et Iohannes fratres, de Tercis qd magn. Dom. Nicolai, Cives Veneciarum, http://www.civesveneciarum.net/dettaglio.php?id=2799, versione 48/2016-05-24. Si veda la scheda dedicata online a Iacobus de Tercis qd Nicolai, Cives Veneciarum, http://www.civesveneciarum.net/dettaglio. php?id=1625, versione 48/2016-05-24. Al padre Niccolò il Vecchio, l’8 ottobre 1393.riconoscendo la sua devozione alla Serenissima, era stato concesso il privilegio della cittadinanza di Venezia, estesa agli eredi.Cfr. la scheda in http://www.civesveneciarum.net/dettaglio.php?id=2656, versione 48/2016-05-24, Nicolaus de Terciis, Cives Veneciarum. Cfr. D. Raines, Cooptazione, aggregazione e presenza al Maggior Consiglio: le casate del patriziato veneziano, 1297-1797, «Storia di Venezia - Rivista», I, 2003, p. 62. Il primo di novembre Ottobono e i fratelli, accompagnati da Carlo da Fogliano, avevano cavalcato nelle terre di Fiorenzuola per ripartire fra loro terre e castelli proprietà della famiglia Nell’ottobre 1403 si erano già accordati per un’altra ripartizione dell’eredità ricevuta dal padre Niccolò. Cfr. F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 221. Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e carte della famiglia Canossa di Montalto, 1256-1796, Legittimazione di Niccolò Terzi, Parma 25 novembre 1405. La famiglia di domina Cecilia rimane imprecisata: di lei sappiamo solo che era «non soluta». Si potrebbe forse azzardare l’ipotesi di una parentela, più o meno stretta, con Angelo Della Pergola, il condottiero che affiancò Niccolò il Guerriero, al soldo dei Visconti, nelle battaglie di Zagonara in Liguria e ancora a Maclodio. Un sia pur vago indizio che potrebbe avvalorare questa congettura è la comparsa, sulla scena di Parma, nell’agosto 1424, del giovanissimo vescovo Delfino Della Pergola, figlio di Angelo, pressoché coetaneo di Niccolò Terzi, prescelto dal duca di Milano. Ora, il Guerriero era al tempo consigliere di Filippo Maria Visconti «al quale fu sempre molto caro», e si sa che Angelo Della Pergola caldeggiò presso la corte la promozione del figlio Delfino, trovando conveniente ascolto. È da aggiungere che il vescovo Della Pergola, durante i quasi otto lustri in cui occupò la cattedra parmense, diede prova di una personalità vigorosa e indipendente, integerrimo e accanito nell’azione di recupero dei diritti, nonché dei doveri, episcopali. Per questo agì a tutto campo e soprattutto Il rito della legittimazione fu celebrato coram populo, con grande apparato, sotto le arcate del Palazzo pubblico di Parma. Ottobono non era presente alla cerimonia: aveva dato piena procura a Cabrino dei Cernitori, uno dei cittadini più insigni.192 L’atto fu rogato dal notaio milanese, a quel tempo podestà di Parma, Lanzarotto o Lancillotto della Regna. L’elenco dei testimoni presenti comprende gli esponenti delle più cospicue famiglie parmigiane, quelle evidentemente considerate da Ottobono a lui più devote, tra le quali aveva prescelto i Signori di Balia o i membri del Consiglio Generale: Antonio da Pedrignacola, Adone Aliotti,193 Martino e Bartolomeo dei Cantelli, Tomaso Buralli, Montino dei Montanari, Gervaso Musacchi. Tutti personaggi molto attivi sulla scena politica che si ritrovano, elencati tra gli Anziani o i Cento, negli Atti del dicembre 1407 dei consigli dei comuni di Parma e di Reggio.194 Il secondo matrimonio di Ottobono Scrive Da Erba nell’Estratto: «A’ 2 dicembre (1405) Otto menò a marito in Parma la Francesca figliuola di Carlo Foiano da Reggio e gli (fu) fatto grande honore da tutto il popolo […] E furono 3 dì serrate le Botteghe e 8 dì si tenne corte bandita nel vescovato».195 Giambattista Venturi, nella sua Storia di «ingaggiò una battaglia ostinata contro i Rossi che avevano depredato la mensa al tempo del vescovo Ugolino» (G. BATTIONI, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa nei secoli XIV e XV, in Storia di Parma, III.I, cit., pp. 329-330). Ma Delfino non transigette nemmeno sugli abusi consumati da chi avrebbe potuto essergli molto caro, come Niccolò il Guerriero, che all’inizio del 1445 venne colpito dall’interdetto, assieme al popolo del suo feudo di Colorno, per essersi impadronito di proprietà boschive ecclesiastiche. Pezzana precisa: «Cessò Delfino da questa lite addì 9 febbrajo […] il Terzi lasciò al Vescovo l’arbitrio di deciderla». Ed è notevole che, nel pronunciare la sua sentenza, il successivo 8 maggio, mentre condannava gli abitanti di Colorno a rifondere i danni e spese alla mensa vescovile, il vescovo Delfino dichiarasse «ad un tempo di voler procedere in modo amichevole e fraterno verso il Terzi, quanto gliel permetteva Iddio». Da rilevare inoltre che alla sentenza fraterna era presente anche un congiunto del vescovo, il conte Leonoro Della Pergola. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 500 nota. 192 Pezzana scriverà più tardi: «Come la famiglia de’ Cernitori fosse fra le cittadinesche di Parma, meritato avesse privilegi considerevoli poco dopo il cominciare del secolo XV, vantasse tre famigliari e Marescialli Ducali»: Cfr. ivi, p. 461. 193 Adone Aliotti era tra i 16 Signori di Balia, creati il 14 aprile 1404 per il governo di Parma da Ottobono e Pietro Rossi. Cfr. ivi, p. 127. 194 Fu quella una fedeltà a tempo, legata alla tenuta della presa di potere del Terzi su Parma. Una fedeltà interessata che si dissolse poche ore dopo l’assassinio di Ottobono e la fuga della sua famiglia. Proprio colui che, avendo ricevuto la procura per rappresentare il padre alla legittimazione di Niccolò, Cabrino de’ Cernitori, parrebbe essergli stato più legato, il 28 giugno 1409, dopo l’insediamento del marchese Niccolò III d’Este a Parma, fu uno dei tre sindaci eletti dal Consiglio Generale incaricati di presentare al conquistatore di Parma le chiavi, la bacchetta della signoria e il gonfalone del popolo. Cfr. ivi, pp. 124-127. 195 Cfr. ivi, p. 82 nota. Altri, trascurando l’evidente errore di chi ha anticipato al 1403 la data di quel matrimonio, scrivono che questo fu celebrato o in settembre o ai primi dell’ottobre 1405 a Dinazzano, nel castello dei da Fogliano, poche settimane quindi dopo la dipartita di Orsina, la prima moglie di Ottobono. Se questa vicinanza dei due eventi può sorprendere, andrà 81 Scandiano, suppone che Francesca fosse nata dal primo matrimonio di Carlo da Fogliano, celebrato nel 1374, con Isotta Visconti, figlia naturale di Bernabò.196 Firenze stipendia Ottobono purché non combatta per Pisa Alla fine del 1405 e agli inizi dell’anno seguente il Terzi non ebbe condotte. Scrive Gino Capponi nei suoi Commentari: «L’altro dubbio era, ch’essendo messer Otto Buonterzo a Parma e Reggio sanza soldo di persona, che egli non lo pigliasse da’ Pisani; e perchè ciò non facesse, si gli dette buona somma di danari, ed egli promise ed obbligossi non andare a Pisa, e non vi andò».197 Questo conveniente negozio stipulato dalla Repubblica di Firenze con Ottobono per impegnarlo all’otium, ossia per distoglierlo dall’intervenire in soccorso di Pisa, ha la singolarità di confermare in quanto pregio fosse tenuto allora, e quanto fosse perciò temuto, il vigore e l’intelligenza del condottiero parmigiano. I compensi che Ottobono incassò dai Fiorentini non erano peraltro bastanti a consentirgli di aprire nuove ostilità contro i suoi nemici ormai tradizionali. Per questa ragione, soprattutto, essendo giunti al termine i tempi fissati per la tregua con i Rossi e i Pallavicino, decise di rinnovarla con entrambe le fazioni e tutti i loro aderenti. La nuova intesa, che ottimisticamente sarebbe dovuta proseguire per altri due anni e due mesi, fu proclamata il 4 febbraio a Parma e nei venti giorni successivi. Trattative con Gabrino Fondulo per Cremona Nello stesso mese di febbraio 1405 corsero trattative a Reggio con Gabrino Fondulo, intenzionato a strappare ai Cavalcabò la città di Cremona, ferma l’intesa che questa sarebbe poi stata consegnata al Terzi. Il 26 luglio arrivò a Parma la notizia che il Fondulo era riuscito a impadronirsi di Cremona e del castello di Pizzighettone, catturando Carlo e Marsilio Cavalcabò. 196 197 82 rammentato quanto osserva Scarabelli a proposito di usi e costumanze, e quindi dei funerali, celebrati in quei luoghi e in quei tempi: «Sul Piacentino il pasto del morto tuttavia dura [...] ed è spesso a quel pasto che al vedovo si propone la novella consorte»: L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 187. G. VENTURI, Storia di Scandiano, Modena 1822, pp. 67 e 73. Carlo da Fogliano aveva sposato Isotta, figlia di Bernabò Visconti nel 1374, o forse nel 1373, e ricevette perciò in dono "li sui castelli con molti capitoli utili et notabili" (come si legge nel manoscritto Storia della nobile famiglia Fogliani, p. 221, citato da P. Golinelli). Nel 1382, dopo la nascita di un Taliano e forse di Francesca, seguì il ripudio di Isotta, e conseguentemente i rapporti con Bernabò si guastarono. Carlo nato verso la metà del secolo XIV da Guido Savina (II) e Camilla di Canossa, fratello di Jacopo e Beltramo, fu personalità autorevole di Reggio, città ove rivesti ruoli importanti, impegnato nelle contese che qui coinvolsero i Visconti e gli Estensi. Affermò costantemente la sua autonomia politica e, a differenza del resto della sua parentela, fu l’unico a contrastare le mire di dominio degli Este ed a sostenere i Terzi. G. CAPPONI, Tumulto dei Ciompi, Commentari dell’acquisto di Pisa, in D. M. MANNI (a cura di), Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della Lingua Toscana, Milano 1844, p. 346. Così descrive Pezzana l’accaduto: «Narra Pompeo Litta ne’ suoi Cavalcabò che Carlo Signore di Cremona invitato dal Fondulo a lauto convito nel suo palazzo in Macastorna [...] fu nella notte del 24 al 25 luglio a tradimento trucidato co’ suoi parenti nel sonno per ordine del perfido Gabrino il quale volò tosto dopo a Cremona e se ne impadronì coll’ajuto delle genti del Terzi condotte dallo Sparapane, le quali sommavano a tremila pedoni e 600 cavalli; indi fatto uscir dalla città questo Condottiero sotto colore di andare con lui ad alcun solazzo, chiuse le porte, e il licenziò insieme colle sue soldatesche. Costretto lo Sparapane a ritornarsene a Parma «vi fu poi in pena di sua dappocaggine decapitato».198 Ottobono, a supporto dell’iniziativa del Fondulo, andò con più di 8oo Parmigiani e Reggiani, passando per Casalmaggiore, all’assedio di Viadana ove «il 10 agosto arse molte case e ville [...] e castello». L’11 agosto si patteggiò una tregua di quattro mesi fra Giovanni Maria, duca di Milano, e il fratello Filippo Maria, allora conte di Pavia, da una parte, e Giovanni Vignate con Giorgio Benzone dall’altra, alle quali avevano contribuito principalmente Francesco Gonzaga e Ottobono. Questa partecipazione diede misura del prestigio e dell’amicizia di cui godeva il Terzi in quel tempo presso il duca. Il 22 Leonardo Rossi, fratello naturale del vescovo Giacomo e di Pietro Rossi, invase i possedimenti di questi ultimi a San Secondo. Avuta quella pessima notizia, gli stretti parenti usurpati accorsero in armi per assediare quei luoghi. Ottobono, caso singolare, intervenne nella bega di famiglia comandando l’invio di rinforzi ai due Rossi assedianti. Ottobono signore di Parma, infeudato conte di Reggio Agli inizi di ottobre era giunto a scadenza il secondo anno della cessione in pegno della città di Parma a Ottobono decretata da Giovanni Maria Visconti, e il duca si trovò ancora una volta impedito a saldare il debito delle condotte, cresciuto ormai fino a 78 mila fiorini d’oro da 32 soldi imperiali cadauno. Con le casse del tesoro ducale sofferenti e prosciugate di contante, s’impose dunque il rinnovo del dominio del Terzi su Parma, pegno che fu integrato con l’infeudazione di Reggio, Brescello, Gualtieri e Castelnuovo oltr’Enza, erette ora in Contea «con tutte le rendite e i diritti ad essa connessi, colla giurisdizione del mero e misto impero, e con tutta in somma l’autorità di Sovrano, e ciò finattanto che il Duca sia in istato di soddisfare al debito con lui contratto». L’investitura di Reggio in Contea a beneficio di Ottobono Terzi fu formalizzata con diploma datato Milano, 2 ottobre 1406.199 Il 9 ottobre Ottobono informò il reggimento di Reggio di quanto statuito dal duca di Milano, comandando che venisse dipinto sul palazzo pubblico il suo stemma con inquartata la vipera viscontea.200 Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 87. Cfr. G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi, III, cit., p. 77. 200 G. BADINI, A. GAMBERINI (a cura di), Medioevo reggiano: studi in memoria di Odoardo Rombaldi, cit., p. 290, n. 36. 198 199 83 Nasce Niccolò Carlo Il giorno 6 dicembre Ottobono Terzi ebbe un figlio dal matrimonio con Francesca da Fogliano. Il rito lustrale per il neonato fu celebrato a Natale, nel marmoreo fasto del battistero parmense, alla presenza di un corteggio di compadri particolarmente illustri: il principe vescovo di Trento, Giorgio di Liechtenstein;201 Baldassarre Cossa, cardinale di Bologna; il fratello di Pietro, Giacomo Rossi, già vescovo di Verona e in quel tempo di Luni; il rappresentante della Serenissima; i capitani viscontei Jacopo Dal Verme e Ugolotto Biancardo; il signore di Rimini, Carlo Malatesta; quello di Mantova, Francesco Gonzaga; Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara. La cronaca del Cherbi annota così quell’evento: Nascita ad Otto di un figlio. 6 Dicembre. Detto Nicolò-Carlo. Grandi feste e suono di campane. La Comune col gonfalone ed arti a San Nicolò. Libertà ai prigioni di Parma, Reggio, e sue Castella. Battesimo nel Natale. Invito di vari compadri di messer Otto. Vescovo di Trento, Duca di Milano, Ugolotto, ed il Vescovo Rossi, Marchese di Ferrara, Signore di Mantova, Carlo Malatesta da Rimini, Comune di Venezia, Messer Giacomo del Verme, e Cardinale di Bologna.202 Si scelse per l’infante il duplice nome di Niccolò Carlo: il primo ispirato al santo onomastico festeggiato il 6 dicembre, giorno della nascita, oltre che al defunto nonno paterno; il secondo nome rammentava invece il vivente e pugnace nonno materno, Carlo da Fogliano.203 Il giorno dodici di quel memorabile dicembre, Ottobono accolse il giuramento di fedeltà a lui recato dai ghibellini parmigiani tra i quali si segnalava Jacopo Bechigni, presunto autore della Cronaca cittadina. Un altro giuramento di fedeltà arrivò a Ottobono dai villici della fazione pallavicina dimoranti in Parma, che passarono a quella dei Terzi. Queste promesse solenni, rese nelle Giorgio I di Liechtenstein, principe vescovo di Trento dal 1390 al 1419, era politicamente legato al duca d’Austria Alberto III e al pontefice Bonifacio IX. Allorchè, pochi mesi dopo il battesimo di Niccolò Carlo Terzi, nel febbraio 1407, tornato a Trento, si trovò ad affrontare una rivolta cittadina estesa pericolosamente sino alle valli di Non e di Sole, il Liechtenstein si rassegnò a concessioni che portarono allo stabilirsi di un autonomo governo comunale. Egli reagì in seguito tradendo i patti sottoscritti e, nel tentativo di riprendere il controllo su Trento, chiamò nascostamente in suo aiuto il condottiero Ottobono Terzi. Il tentativo fu scoperto e per questo il Liechtenstein venne dapprima incarcerato, nell’aprile 1407, e quindi esiliato. Tornò a Trento un paio di anni dopo, subendo tuttavia la privazione di qualsiasi potestà o diritto nella sfera temporale e un pesante condizionamento in quella spirituale con l’imposizione di un vicario fedele al duca d’Austria. Insofferente, alla fine il Liechtenstein preferì riprendere la via dell’esilio. Cfr. G. CRACCO, Belenzani, Rodolfo, in Dizionario Biografico degli Italiani, VII, Roma 1970, www.treccani.it/enciclopedia/rodolfo-belenzani_(DizionarioBiografico)/. 202 F. CHERBI, Le grandi epoche sacre diplomatiche, II, cit., p. 223-224. 203 Il piccolo Niccolò Carlo sarà vicino al padre allorché, il 27 maggio 1409, questi verrà ucciso. Starà in sella con lo zio Jacopo, accompagnato dal nonno Carlo da Fogliano che gli cavalcava accanto, portato a incontrare il suo padrino di battesimo, il marchese Niccolò III d’Este. 201 84 mani del podestà Lancillotto Regna, dei quali fu testimone, tra gli altri, il cugino di Ottobono, Antonio Cornazzano de’ Terzi, furono festeggiate con grande entusiasmo, mentre tutte le campane di Parma suonavano a distesa sopra il garrire dei gonfaloni portati in corsa attraverso le vie cittadine affollate dal popolo esultante, verso la chiesa di San Niccolò, con i trombetti vestiti a festa. Per l’occasione si liberarono i prigionieri a Parma e a Reggio, e i festeggiamenti si estesero nel contado coinvolgendo i castelli fino sui poggi più alti dell’Appennino. Ottobono raggiungeva alla fine del 1406 il culmine del suo successo militare, politico e familiare, incarnato e simboleggiato icasticamente dalla presenza al battesimo dell’ultimogenito di una corona così rappresentativa di principi e signori italiani. Il concorso dei giuramenti di fedeltà assicurati alla sua persona a conclusione di quell’anno dalle squadre già nemiche ma ora, convertite alla sua amicizia, accorrenti sotto lo stendardo dei Terzi, lo rappresentavano come rispettato governante di sudditi. Egli vide allora riconosciuta concretamente, in tutte le implicanze, la propria signoria su Parma e Reggio. La sua personale autorevolezza, quale governante, e la sua personale fortuna parvero trovare, in quel sorridente passaggio tra il 1406 e il 1407, ripetute conferme tanto nel consenso che si elevava dai sudditi quanto in quello, quantomeno cerimoniosamente dissimulato, dei potentati confinanti. Quella sua signoria poteva poggiare sul potere militare che egli era in grado di dispiegare sulle città e sui territori parmigiani e reggiani, dai passi appenninici alla bassa, fertile pianura, supportato dalle strutture amministrative, giudiziarie, giurisdizionali mutuate dall’organizzazione viscontea. Si poté constatare, allora, nella transizione dal 1406 al 1407, come Ottobono fosse riuscito a costruire un dominio considerevolmente vasto e coeso, fornito di quelle caratteristiche statuali e funzionali che, in quell’ambito specifico, Giorgio Chittolini ha individuato e descritto come la «piccola statualità».204 Proprio a quel punto, tuttavia, iniziò la fase discendente della parabola, che finirà, solo due anni più tardi, nel disastro più completo, nell’annichilimento politico e umano del Terzi. In difesa del duca di Milano Agli inizi del febbraio 1407 il duca Giovanni Maria ebbe notizia che Gabriele, suo fratello naturale, assieme a Francesco e Antonio Visconti, tutti ostili e tutti in rivolta, aveva assoldato Facino Cane. La sua reazione immediata fu quella di prevenire gli avversari ordinando al suo capitano Jacopo Dal Verme di predisporre forze militari adeguate per assicurare la difesa più efficace contro i rivoltosi e, nel contempo, di assumere contatti utili a Mantova, a Venezia e 204 Cfr. G. CHITTOLINI, Il particolarismo signorile e feudale in Emilia tra Quattro e Cinquecento (1977), in La formazione dello Stato regionale, cit., pp. 266-276. 85 presso il legato pontificio di Bologna. Alle truppe di Dal Verme si aggiunsero presto quelle degli altri capitani d’arma viscontei. Il 9 febbraio Ottobono partì da Parma con le sue truppe per unirsi a quelle di Pandolfo Malatesta e raggiungere il Bresciano, ove si era radunato il forte esercito che avrebbe marciato verso la difesa di Milano. Facino Cane aveva già iniziato la sua offensiva impossessandosi della Certosa di Garegnano, a sole tre miglia dalla città. Atterrito in faccia allo stuolo degli armati qui condotti dal Facino, il duca accolse ben volentieri la mediazione che gli fu offerta dai ghibellini. Aperte le trattative, accettò subito di concedere la grazia ai parenti in rivolta. Pavido e fragile com’era, andò ben oltre: capitolando ignominiosamente, non solo aprì le porte di Milano ai ribelli, ma nemmeno si peritò di nominare il comandante nemico, Facino Cane, suo capitano generale. Il giorno 14 febbraio emanò degli editti severissimi con cui intimava alle sue città di negare ogni appoggio ai capitani del Dal Verme e alle proprie truppe, le ducali, le medesime che avevano obbedito ai suoi ordini di predisporsi alla guerra. Presso i capitani viscontei quegli editti trovarono la considerazione che meritavano: il 15 febbraio, giorno che seguiva la loro pubblicazione, Dal Verme con il Terzi e gli altri comandanti portarono d’impeto le loro milizie nel Bergamasco, riuscendo cinque giorni dopo a penetrare in profondità nel Milanese. Il Cane, in testa ai suoi, uscì allora dalle mura di Milano per affrontare le avanguardie avversarie che avanzavano minacciose con alla testa Ottobono. Il giorno 21 si arrivò allo scontro presso Binasco. La battaglia si accese subito feroce e s’interruppe solo a notte tarda, lasciando sul campo gran numero di vittime, tra caduti, feriti e militi catturati dal nemico. Ottobono fu quello che dovette contarne di più, e su queste perdite stava ancora rabbiosamente imprecando quando inattese, mentre ancora la notte non era finita, sopraggiunsero nuove truppe fresche inviate da Jacopo Dal Verme. Si erano spenti a quel punto nel campo avversario tutti i fuochi che avevano illuminato i prematuri festeggiamenti e i combattenti, esausti, riposavano imbelli, e Facino Cane giaceva sotto il suo padiglione godendo in pace, con il trionfo, il ben meritato riposo. Entrambi, trionfo e riposo, furono irrimediabilmente guastati dal furibondo assalto che, all’improvviso, prima dell’alba, fu scatenato da Ottobono. Il Cane fuggì immediatamente cavalcando ventre a terra verso Binasco. Le sue soldatesche, orfane del comandante, furono messe in rotta disperata e lasciarono nelle mani di Ottobono oltre mille prigionieri. Tra questi si contò anche Marcardo della Rocca. Ottobono si rivolse a lui per conoscere dove fosse finito Facino Cane. Marcardo da prode, o impudente, gli rispose che egli lo ignorava affatto ma che, quand’anche lo avesse saputo, non glielo avrebbe detto. Al che il Terzi, piuttosto contrariato, gli trapassò la gola con la spada. Facino Cane aveva nel frattempo trovato asilo in terra di Alessandria della Paglia. Nei primi giorni di marzo Ottobono lo ritrovò e si scontrò con lui nel Pavese, a Rosate, e nuovamente lo vinse. Pezzana, citando Da Erba, 86 riferisce, con lieve sarcasmo: «La nostra Cronaca narra di questa foggia così strepitoso avvenimento: A tre marzo venne nova che Otto Terzo avea rotto Facino Cane a Rosate sul Pavese; e ritornò il conte di Pavia in la sua signoria e fece prigioni 1800 cavalli; e 140 capi di compagnie, e furono vestiti tre cavallari di panno rosso, uno di Otto, uno di Cremona, uno del Duca e ne (fu) fatto grande allegrezza et a dì 6 di marzo fu fatto in piazza appresso alla campana una forca piccola alla quale fu condotto a suono di trombe di commissione di Pietro da Vianino un cane e impichato per la golla; dopo fu arso con fuoco e paglia in vilipendio di Facino Cane che diceva di volere arrostire un Parmigiano».205 Nelle settimane fra il febbraio e l’aprile a Ottobono pervennero incalzanti richieste di soccorso dal principe vescovo di Trento Giorgio di Liechtenstein, che era stato suo compare al battesimo del figlio Niccolò Carlo, il precedente Natale, nella cattedrale di Parma. Tornato nella sua sede episcopale, il principe aveva dovuto affrontare, soccombendo, la rivolta di Trento e delle valli di Non e di Sole capeggiate da Rodolfo Belenzani. Le trattative d’ingaggio del condottiero e delle sue milizie, severamente impegnati sul fronte lombardo, non andarono tuttavia a buon fine.206 Il 3 di aprile, Ottobono Terzi entrò a Milano alla testa delle sue truppe, chiamato dal duca e dal conte di Pavia. Guido Panciroli così descrive quel giorno: «Finalmente famoso per la celebrità del nome, insignito del titolo di patrizio e dell’armi della vipera, fu dichiarato protettore di Giammaria e del fratello.» E lo storico reggiano aggiunge: «Nel qual fare di cose divenuto più forte avrebbe tolto via tutti quelli del partito ghibellino, se dal consiglio di Jacopo Dal Verme aborrente da tanta sceleratezza non ne fosse stato distolto».207 E infatti a quella proposta di Ottobono di sterminare tutti i ghibellini milanesi il saggio Jacopo, che era appena stato nominato governatore di Milano, non solo si oppose fieramente, ma si affrettò ad avviare e concludere con successo un armistizio tra le faide. Il 19 maggio 1407 si firmò così la pace, universalmente approvata. Mentre questa notizia veniva festeggiata con gioia dirompente da tutti i cittadini, forse l’unico che si sottrasse al giubilo, covando intimamente i suoi rancori, fu Ottobono Terzi, contro la terribilità del quale Panciroli scocca uno dei più memorabili giudizi: «E siccome sitiva di sangue umano, così era anche insaziabile del denaro». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 92. «Il vescovo Giorgio, nel tentativo di riacquistare il predominio sulla città (Trento), tradiva i patti giurati il 28 febbraio, cercando l’appoggio del condottiero Ottobono da Parma»: G. CRACCO, Belenzani, Rodolfo. Si deve dubitare tuttavia che le problematiche disponibilità finanziarie del Liechtenstein consentissero di affrontare la spesa di un condottiero del rango di Ottobono Terzi. 207 G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., p. 30. 205 206 87 Contro il duca di Milano insolvente I malumori del Terzi, per molti versi comprensibili, erano venalmente originati dalla perenne incapacità del duca di onorare i propri impegni e pagare puntualmente i servigi resi dal suo condottiero e dalle sue truppe. Ottobono si rifiutò di licenziare le sue genti in armi fino a che non gli fosse stata consegnata l’intera somma pattuita. Il 27 di maggio gli fu dato un generoso acconto: centomila fiorini e 400 buoi, scrive il Corio, che tuttavia non bastarono a placare le sue ire. Minacciò di mettere a sacco Milano, se non gli si pagava anche la parte restante del credito vantato, sollevando con ciò l’indignazione dei cittadini che si dichiararono pronti ad affrontare armati il Terzi. Questi, adontatissimo in faccia a questa reazione, sul finire del maggio abbandonò il capoluogo del Ducato alla testa delle sue milizie e della mandria di bovini ricevuta in conto anticipi. Il tre di giugno egli era a Monza per trattative con Astorre Visconti, uno dei tanti figli naturali lasciati da Bernabò, che progettava insurrezioni contro il duca. Il Corio annota che poco appresso Ottobono tornò con le sue soldatesche nel Parmigiano. Il 14 giugno strinse d’assedio il Castello d’Orlando, presso un guado del Taro, sulla strada che da Parma porta a Borgo San Donnino, allora feudo di Rolando Pallavicino. La rocca si arrese sei giorni dopo, il 20 giugno. La gente di Parma festeggiò quella conquista. Ottobono ordinò poi di restaurare il castello ricostruendo interamente la cerchia delle mura, spianata dalle bombarde. Sopra le merlature fece dipingere i gigli sostituendoli alle aquile. Cambiò poi il nome di Torre dei Marchesi in quello di Castelguelfo, che ancora oggi quel borgo mantiene, un nome che emblematicamente indicava, allora, la parte per cui Ottobono preferiva combattere, pur restando leale ai Visconti. Il 22 giugno Ottobono notificava al podestà di Reggio d’avere nominato Simone da Tizzano custode della torre nunc nominata castrum guelfum.208 Marchese di Borgo San Donnino Il 17 luglio, il Terzi conquistò anche il castello di Scipione, che egli teneva sotto assedio dal 30 giugno, togliendolo a Pietro Pallavicino. Ripeté l’assedio alla Castellina, appartenente a Orlando, con il quale trovò presto un accordo: gli cedeva Cortemaggiore, restituiva a Pietro la rocca di Scipione, e otteneva in cambio Borgo San Donnino, dove finalmente egli poté entrare il giorno 28 dandone comunicazione al podestà di Reggio.209 In seguito a quell’acquisto, Ottobono aggiunse ai suoi titoli quello di marchese: comes Regii et marchio Burgi Sancti Donnini, ostentato nella 208 209 88 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 302. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 95. corrispondenza privata e in quella ufficiale con Jacopo Dal Verme, che in quei mesi custodiva le fortezze di Piacenza per conto del duca.210 Il Terzi fu informato nel corso del mese di agosto 1407 che stavano arrivando lungo il Po, provenienti da Milano e dirette a Venezia, delle navi cariche di mercanzia pregiata. Pur avendo preventivamente concesso il salvacondotto, egli catturò quel naviglio con il relativo carico, del valore di circa 150 mila ducati, e imprigionò, risorsa ulteriore da spendere in probabili riscatti, i mercanti e marinai che si trovavano a bordo. A giustificare questo piratesco agguato fluviale, Ottobono mise nuovamente in campo il pretesto del soldo arretrato che ancora gli doveva il duca di Milano. Malgrado l’episodio di pirateria fosse di considerevole gravità, si arrivò per certo a qualche pacifico accomodamento perché non c’è riscontro di conseguenze e i rapporti intrattenuti dal Terzi, tanto sul versante del Ducato di Milano quanto su quello assai permaloso della Repubblica di Venezia, non sembrano essersi guastati. Il 17 agosto Ottobono, alla testa di duemila cavalieri, invase le terre di Mirandola e di Modena, mettendole a sacco per tutto un mese, contrastato solo dai difensori di Spilamberto e di Vignola. Riprende Piacenza a Facino Cane Il 19 settembre, per incarico del Visconti, che gli aveva promesso un considerevole compenso in oro, Ottobono si portò sotto Piacenza per sottrarla al redivivo Facino Cane. Qui egli entrava il giorno 20 per fare bottino e quindi riconsegnare la città al duca. In quello stesso mese il Terzi riuscì a concludere nuovi accordi con i Rossi, con soddisfazione dei cittadini di Parma, liberati dall’onere dei turni di guardia alle porte della città, che vennero restituite alla competenza dei capitani il giorno 5 settembre. 210 Il 24 dicembre, in una missiva diretta a Dal Verme, egli tornò a intitolarsi Otto Comes Regii et Marchio Sancti Donini. Scrive Poggiali: «Restavano tuttavia le Cittadelle di Piacenza nelle mani, e in deposito di Jacopo dal Verme, il quale, venir dovendo a non so quale accordo con uno de’ Castellani di esse, ne volle prima il consenso di Ottobon Terzo, che glie lo diede con la seguente lettera, data di Parma sotto il dì 24. del corrente Dicembre. Otto Comes Regii, et Marcbio Sancti Donini etc. Tenore praesentium, et sub mea fidei obligatione promitto, contra capitola, at promissiones, quae, seu quas Magnificus Miles, seu Pater meus honorandus D. Jacobus de Verme cum Capitaneo Cittadella Civitatis Placentiie contraxerit, atque firmaverit, non contravenire firmiter quoquo modo». Poco oltre, lo storico piacentino commenta: «Non tutti intenderanno come sia che Ottobono, il quale per l’addietro Conte di Tizzano solamente appellavasi, si dia fra gli altri titoli in questa lettera quello di Marchese di Borgo S. Donnino ma bastano per mettere in chiaro la cosa le seguenti parole della poc’anzi citata Cronichetta Cremonese che fornisce notizia d’uno scambio concordato con i Pallavicino: Anchora in 1407, adì 27, de Lujo Orlando Palavesino de’ Borgo San Dognino a Ser Otto de Tercii per la gran guerra ch’el ge fiva, e così el signor de Cremona ge fiva guerra a Poliseno; de che vedendo che no podeva riparar a tutti duoi, si de’ Borgo a Ser Otto e subito havé laccordio seco quel de Cremona». Cfr. C. POGGIALI, Memorie storiche di Piacenza, cit., p. 102. 89 Le cittadinanze reciproche di Parma e Reggio Ottobono, proteso in questi tempi ad acquisire meriti e crediti di benevolenza nelle città sottoposte al suo dominio signorile, promosse e fece ufficializzare il reciproco scambio a tutti gli effetti delle cittadinanze tra cittadini di Parma e cittadini di Reggio. Il 30 novembre furono nominati i procuratori di Parma per ottenere la cittadinanza di Reggio. Il 9 di dicembre si presentarono in Consiglio Generale di quella città presieduto dal podestà Giovanni Lalatta e videro accolta la loro domanda di cittadinanza «siccome legale, e comoda, non meno che onorevole a quella città, fu esaudita ad unanimità di suffragi qual base principale e salda di desiderate unione e benevolenza tra i due popoli, e fu allargata a tutti i figli e discendenti loro in perpetuo. Ed a tanto generoso fondamento di colleganza volendo aggiugnere vincoli ancora più indissolubili, fu statuito che tutti i cittadini Parmigiani presenti e futuri potessero per lo avvenire comperare, o, sotto qual si fosse titolo, acquistare a perpetuità beni, diritti ed azioni nella città e nel territorio di Reggio, e goderne i frutti alla pari de’ cittadini originarii di essa Città».211 Con decisione analoga e speculare «allora tutti gli altri membri del Consiglio, annuendo alla proposta, crearono cittadini di Parma novanta Reggiani [...] statuirono ad un tempo, que’ novanta insieme co’ loro discendenti potessero in futuro esercitare in Parma, quantunque ne fossero cittadini, anche gli ufficii che non venivano conferiti se non a’ forestieri. Deliberò contemporaneamente il nostro Consiglio a somiglianza del Reggiano che, oltre i 90, tutti gli altri cittadini di Reggio presenti e futuri potessero per lo avvenire acquistare ogni sorta di beni, ecc. nella Città e territorio nostri, non altrimenti che i veri ed originarii cittadini di Parma».212 Mentre venivano istituzionalizzati i rapporti di amicizia tra i cittadini parmigiani e reggiani, posti reciprocamente sullo stesso piano nei diritti e nei doveri, Ottobono aveva di suo conclusa una nuova tregua con i Rossi, dando libero accesso al ritorno di questi dentro le mura di Parma con le loro famiglie e beni. Questo avveniva sul finire del 1407 e agli inizi del nuovo anno. Ma il rimpatrio del quale beneficiarono i Rossi, già esuli forzati, non cancellava affatto il cumulo dei rancori e i propositi di vendetta nutriti durante la diaspora. Allorché si ritrovavano fra loro, quelle famiglie esacerbate e ferite sapevano sempre di che parlare e contro chi. Gli incontri e le adunanze dei Rossi e dei cittadini delle squadre avverse si infittivano e questo richiamò la vigile attenzione, per troppe ragioni sospettosa, di Ottobono. Fu quindi posto mano, senza indugi, a ulteriori provvedimenti repressivi e il 30 gennaio si pubblicò un nuovo bando che ricacciava i Rossi dalla città dove erano stati ammessi solo un mese prima e prometteva pena la forca per i renitenti. 211 212 90 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 98. Ivi, p. 99 Il 18 febbraio 1408, nel suo castello di Madregolo, il condottiero parmigiano Ugolotto Biancardo, prossimo a morire, fece testamento a favore di quattro figlie naturali legittimate, una delle quali, Palma, fu promessa in sposa a Giorgio Terzi, figlio naturale di Ottobono. Tra i fedecommissari ed esecutori testamentari vennero indicati il fratello e il suocero di Ottobono: Giacomo, conte di Tizzano e di Castelnuovo, e Carlo da Fogliano di Reggio, presenti e accettanti.213 Il 18 marzo iniziarono i lavori per erigere una bastia a San Quirico, tra San Secondo e Trecasali, in previsione dello scoppio di nuove ostilità con i Rossi che stavano assoldando e radunando uomini armati nei loro luoghi fortificati. Il 27 Ottobono già assediava con azione preventiva il castello di Carona, e se ne impadronì due giorni dopo. Seguì la conquista della bastia di Sant’Andrea oltre Taro, pure questa proprietà dei Rossi. Nuove strategie contro l’Estense Nel 1408 gli obiettivi politici e militari per il piccolo Stato di Parma e Reggio perseguiti da Carlo da Fogliano, l’esperto e fidato consigliere di Ottobono, erano divenuti più ambiziosi e di più largo raggio rispetto a quelli individuati tatticamente nella quotidianità dal genero. Il da Fogliano aveva probabilmente già concepito in quel tempo un ampliamento verso Oriente che necessariamente contemplava l’invasione e la conquista di Modena per toglierla al marchese d’Este. Un simile programma e l’attuazione conseguente delle operazioni militari esigeva l’eliminazione di ogni minaccia nemica alle spalle e prioritariamente imponeva la ricerca di un nuovo patto di tregua con i sempre insidiosi Rossi. Le trattative su quel versante furono intraprese e positivamente concluse il giorno 5 di aprile al castello di San Secondo dallo stesso Carlo da Fogliano. Il giorno seguente questi e Pietro Rossi partirono assieme cavalcando verso Parma per formalizzare personalmente quel patto presso Ottobono. Questi, desideroso di prestare il migliore omaggio al suo accanito avversario, nuovamente rappacificato, gli andò incontro a cavallo. Il giorno quattordici si pubblicò a Parma una pace «chiamata perpetua» con i Rossi. Quel giorno medesimo, o forse il 16, assicurata la protezione delle sue retrovie, Ottobono guidando le sue milizie forti di 400 pedoni e 2500 cavalieri invadeva le terre di Vignola e Spilamberto per arrivare fin sotto le mura di Modena. Queste erano difese da 250 lance dello Sforza e dalla compagnia di Giberto da Correggio, che riuscirono a respingere tutti gli attacchi sferrati dal Terzi. Il giorno 28, nel quadro di quella guerra, divenuta fluviale oltre che campale, Gabrino Fondulo, agli ordini dell’Estense, arrivò con un galeone fino 213 «A Palma, promessa a Giorgio figlio del Conte di Reggio e Marchese di Borgo S. Donnino, Ottone Terzi, lasciò 350 fiorini d’oro per beneficio dell’anima propria e per maritare alcune donzelle povere.» Passi di questo testamento di Ugolotto Biancardo si possono leggere ivi, pp. 101-102, n. 2 e 3. 91 al porto di Torricella sotto Sissa, dove sbarcò soldatesche che si diedero a razzie e incendi, facendo molti prigionieri. Verso la soluzione finale Il 16 maggio Ottobono si impadronì del castello di Montericco, nel Reggiano, e di altre proprietà di Giovanni Manfredi. Nei giorni seguenti mise a sacco le terre estensi di Correggio, Mirandola, Rubiera, Marzaglia. La reazione di Niccolò III fu rabbiosa ma algida, tesa abilmente a strumentalizzare e far montare la massa di rancori che per ogni dove il Terzi aveva eccitato. Era ben chiaro a quel punto che si stava decidendo non l’effimera statica di qualche equilibrio tra le distinte casate in conflitto, ma la loro stessa sopravvivenza. Era maturata la convinzione che si doveva letteralmente disintegrare il nemico universale incarnato dal Terzi in tutte le sue potenzialità. In questo senso va inteso il documento con cui si costituì, il 13 maggio 1408, una lega contro Ottobono nei cui capitoli il signore di Parma e di Reggio veniva descritto quale «perturbator pacis, tranquillitatis [...] dominorum Lombardiae» (e sin qui restava in ottima compagnia, anche fra i ‘pacifici’ sottoscrittori di quella pergamena) per arrivare però alla ben più significante e funesta accusa, per le implicazioni giuridiche e costumanze guerresche vigenti in quel tempo, di essere «hostis publicus» e come tale meritevole del peggiore castigo. I membri della lega si obbligavano, infatti, a conseguire una ‘soluzione finale’ che sterminasse, con il Terzi, tutti i suoi alleati, partigiani, simpatizzanti e persino tutti i suoi sudditi: «ad finale exterminium, consumptionem et depositionem domini Ottonis de Terciis, suorumque subditorum, adherentium, recommendatorum et sequatium».214 Aderirono alla Lega del 13 maggio 1408, accanto al marchese Niccolò III d’Este, Gianfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, il legato di Bologna, Pandolfo Malatesta, Gabrino Fondulo. Si aggiunsero poi, appena informati della pattuizione, altri nemici giurati dei Terzi, quali Orlando Pallavicino e Pietro Rossi con il fratello vescovo Giacomo. Il giorno 18 giugno, Gabrino Fondulo, che continuava la sua guerra sul Po contro Ottobono, approdò con sei galeoni e due barbotte, o traghetti, a Dosolo, sulla riva mantovana opposta a Guastalla, incendiandovi i mulini. Il ventiquattro alla squadra navale si aggiunsero quattro galeoni ferraresi che tentarono sbarchi di combattenti a Brescello e Guastalla, falliti sotto il fuoco delle bombarde. Riuscì invece uno sbarco a Portiolo messa a ferro prima che il naviglio tornasse a Casalmaggiore. Alla fine del mese Niccolò III d’Este entrò a Modena con 600 lance, rafforzando le difese della sua città e provocando la conversione di gran parte del fronte bellico, favorito dal passaggio sotto le sue bandiere di un forte numero di seguaci dei Terzi infeudati di castelli del Reggiano. 214 92 Il documento è stato integralmente trascritto da Muratori. Cfr. L. A. MURATORI, Delle antichità estensi ed italiane, II, Bologna 1740, pp. 174-178. I da Fogliano, tutti tranne Carlo, suocero di Ottobono, passarono in gran fretta, anzi tornarono, all’Estense, della cui casata erano stati peraltro in passato fautori. Per contenere quelle defezioni e quale ammonizione generale, il giorno 8 agosto, scrive Muratori, furono decapitati 65 cittadini parmigiani (ma sul numero esatto dei giustiziati gli antichi storici sono in disaccordo). Nel corso del mese precedente si era saputo di un loro tentativo di sollevare Parma contro Ottobono. Lo stesso giorno fu occupata dalle soldatesche di Gabrino Fondulo e di Orlando Pallavicino la bastia di Castione, eretta pochi mesi prima a difesa di Borgo San Donnino. I possedimenti dei Rossi parmensi si estendevano fino in Toscana, verso la Lunigiana. Il cardinale Ludovico Fieschi, in rapporti amicali con Ottobono, aveva messo ad agosto sotto assedio il loro castello di Grondola, presso Pontremoli. In soccorso della sua rocca partì da Felino il giorno 27 Pietro Rossi con 300 fanti e 400 villani armati, accompagnati da 400 cavalieri del Fondulo. Il Terzi mandò avvisi al cardinale dell’imminente arrivo di quelle soldatesche e questi, atteso al varco il Rossi, lo assalì d’impeto sgominandolo e facendo letteralmente a pezzi Antonio Rossi e 150 della sua gente. Catturò poi Pietro con i nobili del suo corteo: 370 cavalli e 550 fanti che condusse con sé a Pontremoli dopo avere occupato Grondola. Ottobono, informato di quelle catture, colse l’occasione per aggredire la rocca di Felino, spogliandola completamente. Sulla via di ritorno si impadronì anche del forte di Vigatto. Pochi giorni dopo entrò nella rocca di Malandriano, la fece demolire, catturò il castellano e lo imprigionò a Guardasone. Nemico di Jacopo Dal Verme Nel luglio di quel 1408 Ottobono aveva dato nuovi segnali della sua declinante lucidità e dello straordinario impegno con cui stava infittendo la schiera dei suoi acerrimi avversari, riuscendo a inimicarsi persino Jacopo Dal Verme, uno dei più esperti e valorosi condottieri in campo che, amico già del padre Niccolò il Vecchio, aveva saputo affiancarlo assiduamente quale fidato compagno d’armi, prezioso, anche se inascoltato, per prudenza e saggezza del consiglio. Il Da Erba riferisce che il Terzi, il giorno 23, invase e fece spianare il castello di Poviglio e le ville vicine, feudo del Dal Verme, sdegnato perché questi aveva ricusato di fargli pagare gli stipendi promessigli a nome del duca. Jacopo, esasperato per i danni e l’offesa patiti, decise senz’altro di far assassinare il Terzi. A settembre inviò un sicario a Parma con questa missione omicida e con l’altra di corromperne le milizie, ma questo fu però scoperto e sottoposto a tortura. Gli furono cavati gli occhi e mozzate le mani. Il Dal Verme, individuato come mandante del tentato assassinio, fu impiccato in effige per un piede, come si usava per i traditori: dipinto sopra un’asse quadrata alta e larga quattro braccia che fu affissa su una colonna piantata in mezzo alla piazza in Malcantone, verso l’osteria e il postribolo. Qui rimase fino alla morte di Ottobono, il quale, peraltro, non si accontentò di quell’impiccagione virtuale. Ne fece dipingere una seconda, comandando fosse recata a spalle dall’armigero 93 che lo precedeva sempre nei suoi spostamenti, in modo che potesse ricordargli, ad ogni pie’ sospinto, il tradimento che, lui, aveva patito. Questa vicenda avrebbe dovuto far persuaso il Terzi di ben altro: e cioè che la sua fortuna stava inesorabilmente precipitando di pari passo con il proliferare dei suoi nemici. Quanto agli amici, come s’è visto, frutto delle viltà da lui perpetrate ovvero di quelle subite, le diserzioni che doveva sopportare nella sua crescente solitudine si erano moltiplicate a tal punto che, per rompere l’accerchiamento, si era dovuto rassegnare a cercare un nuovo accordo con un suo irriducibile antagonista: il capitano d’armi ghibellino Facino Cane. Abbandonato da molti suoi castellani, Ottobono aveva dovuto ingegnarsi a radunare quanto poté dei suoi beni mobili trasportabili e li inviò a custodia nei luoghi fortificati appartenenti a Carlo da Fogliano. Gli armenti erano custoditi a Valestra, in quel di Carpineti, sull’Appennino reggiano dove, a sorpresa, arrivarono le soldatesche estensi di Francesco da Sassuolo e Atto da Rodeglia, riuscendo a razziare 12 mila capi di bestiame, secondo quello che raccontano le cronache riportate dall’Affò. Gli stessi razziatori passarono poi nel contado parmense per ripetere con buon frutto le loro imprese contro i beni del Terzi. La guerra agli Attendolo e all’Estense All’inizio di novembre 1408, lo Sforza, in attesa dell’occasione favorevole per andare allo scontro frontale, finse di salire l’Appennino diretto a saccheggiare e devastare quel che residuava dei beni dopo la precedente scorreria. Ottobono sulle prime si buttò con la sua cavalleria in quella direzione, ma fu messo sull’avviso dagli esploratori che lo Sforza aveva dissimulato sulle sue reali intenzioni e che si trovava in realtà sulle rive dell’Enza, a Castelnuovo, dove stava depredando forsennatamente quei territori per accumulare poi il bottino nella bastia del Cantone, a Reggiolo, sotto la guardia di Giberto da Correggio e di Giacomo Pico della Mirandola. Qui arrivò come fulmine con i suoi cavalieri l’ingannato Ottobono, calato dall’Appennino, sorprendendo i due e mettendoli tosto in fuga. Quando accorse lo Sforza per recuperare le sue prede, il confronto con il Terzi fu inevitabile e la battaglia ferocissima che si accese lasciò molti caduti su quel campo. Alla fine dello scontro, entrambi si ritirarono: Ottobono verso Reggio e lo Sforza verso i suoi acquartieramenti, nessuno dei due avendo forze adeguate per inseguire e prevalere sull’altro. Per l’Affò, chi ebbe la peggio in quello scontro fu lo Sforza, abbandonato dai suoi due compari, Pico della Mirandola e il da Correggio. Egli provò dapprima a ricoverarsi dentro il castello di Reggiolo, ma fu respinto dalle bombarde della difesa, ritentò poi altrettanto inutilmente a Novi; infine preferì tornare a Modena. Il 10 novembre giunse notizia che i soldati della lega stavano costruendo un ponte nei pressi della Bastia del Cantone, e contemporaneamente mettevano a sacco e catturavano gente a Casalpò, a Poviglio, a Boretto ed a Castelgualtiero. Ottobono li raggiunse con 150 cavalieri, ne ammazzò molti, il resto lo mise in fuga catturando però la loro retroguardia: cento fanti e altrettanti cavalli. 94 Lo Sforza, frattanto, non cessava per parte sua di devastare il Parmense. E così faceva il cugino Micheletto Attendolo, che però ebbe la sventura, mentre guidava quaranta militi, di ncontrare e scontrarsi con Ottobono: finì catturato assieme a trentadue dei suoi, condotto a Parma e messo ai ceppi con i compagni. Ottobono ordinò che ogni giorno di quell’inverno i prigionieri fossero denudati bagnandoli con acqua gelida. Quella prigionia tormentata dal sadismo che sempre più guastava il Terzi doveva durare sino al maggio del seguente anno e non sarebbe rimasta invendicata. Il giorno nove Giacomo, il fratello di Ottobono, aveva conquistato il castello di Corniglio, proprietà dei Rossi. Nei due giorni seguenti assalì e prese anche quello di Pietra Mogolana. Nuova lega contro Ottobono Nel gennaio 1409, provocata dalle notizie di nuove sintonie e concordie che correvano tra i temibili condottieri Ottobono Terzi e Facino Cane, inquietanti singolarmente e ancor più se uniti, insorse contro di loro una nuova lega costituita da Giovanni Maria Visconti, Filippo Maria Visconti, Amedeo VIII di Savoia, Ludovico di Savoia-Acaia e il maresciallo Jean Le Maingre Boucicaut, governatore francese di Genova, diretta come la precedente «ad dispendium et exterminiumdomini Facini Canis […] et etiam ad excidium domini Ottonis». Sempre in quel mese, Ottobono predispose misure per la ripresa, all’arrivo della buona stagione, delle operazioni di guerra. Il diciannove inviò rinforzi a Borgo S. Donnino: 100 uomini idonei alla guerra scelti tra i 300 riservati alla difesa di Parma; altri dieci ne mandò ai castelli di Rossena e di Carona in val di Taro. Concentrandosi su Parma, egli ordinò quindi di scavare e sistemare fossati, muniti di roste e sbarre, da Porta S. Michele fino al Borgo S. Egidio e tutt’intorno a questo. Lo Sforza, non appena scemarono i rigori della stagione, andò all’attacco del castello di Dinazzano, dimora signorile di Carlo da Fogliano, posto in posizione strategica sulla strada per Reggio. Sostenuto dalle soldatesche di Galasso da Correggio si impadronì del maniero e lo bruciò, condannando alla stessa sorte gli altri fortilizi del feudo. Mentre questo accadeva nelle terre dei da Fogliano, il 12 marzo Ottobono devastava le terre di Poviglio, S. Sisto, Meletolo, Boretto e Fontanesio. Avvisato poi delle devastazioni commesse dallo Sforza a Dinazzano, si diresse con le sue milizie verso Reggio per passare quindi nel Modenese, a Formigine. Niccolò III uscì allora da Modena per controllare i movimenti del Terzi, seguito da un centinaio di nobili modenesi, parmigiani e reggiani che avevano trovato rifugio presso casa d’Este. Quei cavalieri, per qualche distrazione, persero i contatti con il marchese e si smarrirono nelle campagne, finché, nei pressi di Magreda, furono sorpresi da un assalto delle milizie di Ottobono e finirono tutti catturati.215 215 Questo episodio è narrato diversamente dal Da Erba nella sua Cronaca. Il primo di maggio, Ottobono era partito da Parma alle ore sei di notte cavalcando verso Reggio, dove Niccolò 95 Edoari Da Erba scrive che il 3 aprile arrivò a Ottobono dalla Repubblica di Firenze un’ambasceria con la proposta di una condotta in una lega contro l’imperatore Venceslao. Quella notizia finisce lì, senza ulteriori riscontri; altre c’informano invece che il 17 di quel mese Ottobono era nella terra di San Secondo con tutte le sue lance allo scopo d’imporre la corvée ai villici di Torricella, Sissa, Palasone, San Quirico e Fontanellato, costretti ad arare per la semina del frumento tutti di campi di quel feudo. L’uccisione L’11 di maggio, Micheletto Attendolo, con gli altri commilitoni catturati nel novembre da Ottobono e imprigionati a Parma, riuscì ad schiudere una breccia nel muro della prigione confinante verso il magazzino del sale. Da quel varco fuggirono tutti, in camicia e seminudi, come si trovavano, passando sopra i tetti, scalando e scavalcando le mura con ogni mezzo di fortuna, traversando campi e risalendo i poggi dell’Appennino per raggiungere Felino, ove furono accolti, confortati e rivestiti dal vescovo Giacomo Rossi.216 Allorché la notizia di quella fuga dell’Attendolo e degli altri prigionieri raggiunse Ottobono, la reazione fu rabbiosa. Il giorno 16 era già dentro il borgo di Felino e sotto il castello guidando l’assalto di oltre quattro mila uomini, contando quelli a piedi e a cavallo, parmensi in parte assieme a gente del cardinale Ludovico Fieschi. La difesa di Felino fu vigorosa e il Terzi fu ferito a un piede durante uno scontro, sicché dovette tornare a Parma.217 La ferita non impedì a Ottobono di recarsi a Reggio il giorno 20 e di essere presente, il 27 di questo stesso mese, al fatale incontro che avrebbe programmato con Nicolò III d’Este, a Rubiera. III d’Este voleva incontrarlo. Il giorno seguente, il Terzi era nascosto in agguato con i suoi armati al ponte di Magreda, quando sopraggiunse da Modena il marchese di Ferrara scortato da Muzio Attendolo Sforza e dai rispettivi seguiti. Ci fu improvviso l’assalto proditorio delle milizie di Ottobono, al quale riuscirono a sfuggire sia il marchese che lo Sforza con gli altri che montavano cavalli, tutti corsi a rifugiarsi dentro il castello di Magreda. Chi non potè fuggire, cittadini e contadini che accompagnavano l’Estense, ma anche molti uomini d’arme, in tutto 400 persone, finì catturato. Per questo esito si fece gran festa nel campo dei Terzi. 216 Da Erba, nella sua Cronaca, racconta più coloritamente quella fuga: «A 11 magio la notte a hore 6 fugirono dalla prigione del Comune 33 prigioni soldati del Marchese di Ferrara che erano stati ivi mesi 5, e havevono para 3 di boge (ceppi) per ciascuno quali se cavorono e ruppono ‘1 muro grosso della camussina ( o camasina, come ha l’Affò, t. 3, 267) contro alla dovana del sale alto più che braccia sei da terra, e poi escirono fuora per il canale del comune e montorono per sopra i pallazzi per diversissimi modi e vie in sul tassello della camera del comune, o indi sopra coppi di detta camera, e poi sopra quelli del palazzo, e sul muro della dovana del sale, e ivi con una scala fatta di fette di lenzoli con peroli di legno ligati con le stringhe comandata a un anelo con un chioldo smontarono dal muto sulla via cbe mai furono uditi e andorono alla Beltresca tra il ponte mozzo e quello della pietra, e ligorono a detta Beltresca i lenzoli e discessono in la Parma et andirono a salvamento a Felino». In A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 111-112, n. 2. 217 Secondo Panciroli, a ferire il Terzi fu l’Attendolo: «Tornato a Parma Ottobono, e intesa la fuga de’ prigionieri, incontinente andò a combattere Felina; dove ferito in un piede da Michele fu costretto di tornar indietro». Cfr. G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., p. 34. 96 All’alba di quel giorno, scortato da poche dozzine di militi a cavallo, da amici e alleati, primo tra i quali Carlo da Fogliano, suo suocero e intimo consigliere, da Guido Torelli e Francesco da Sassuolo, tutti armati di sola spada in ossequio ai patti concordati, Ottobono cavalcava verso il convegno in qualche modo concordato con Niccolò d’Este per patteggiare una pace che ponesse fine all’ennesimo conflitto che li aveva visti contrapposti per il possesso del Modenese. Dei Terzi era presente il fratello Giacomo, che portava accanto a sé, in sella, un fanciullo di appena due anni e mezzo: Niccolò Carlo, il figlio di Ottobono, venuto per l’occasione di incontrare e omaggiare il marchese d’Este che era stato suo padrino, compare quindi di Ottobono, nel battistero di Parma il Natale del 1406. Il Terzi si presentò a quell’incontro disarmato, vestito in modo dimesso e persino umile, cavalcando non un destriero o un palafreno ma un ronzino, il capo coperto da un cappuccio con la punta che, alla moda di quei tempi, arrivava sino ai piedi;218 non portava elmo, né usbergo, né corazza. Nelle staffe un piede era ancora ancor gonfio e dolorante per la ferita infertagli nell’assalto alla rocca di Felino da Micheletto Attendolo, dieci giorni prima. Il corteo raggiunse il ponte della Vallisella, o Valverde, nel contado di Rubiera, ove trovò Niccolò III, scortato dai suoi militi, dagli alleati Uguccione dei Contrari, e Micheletto Attendolo, con il quale iniziò senz’altro a discutere dei patti di pace. La narrazione di come quell’incontro si svolse, del suo degenerare in agguato mortale, nonché dell’efferatezza degli episodi susseguenti è stata mille volte ripetuta, ispirata da intenti diversamente partigiani. Colpisce sempre, nell’essenziale di tanti racconti fatti dagli storici più antichi, che tuttavia si avvalsero di fonti narrative molto tarde, l’irrompere sulla scena pacifica delle trattative di Muzio Attendolo, detto lo Sforza, che colpisce a tradimento, alle spalle, Ottobono Terzi, mentre questi sta dando la mano destra a Niccolò d’Este. È il momento, scrive Da Erba nella sua Cronaca, in cui Ottobono esclama, rivolto a Niccolò che suppone complice e mandante dello Sforza: A me, marchese compare? Son tradito a questo modo! Una scena tragica nella quale si consuma anche la vendetta del cugino dello Sforza, Micheletto Attendolo, fuggito dal carcere di Parma, che maramaldeggia un uomo già morto spezzandogli il capo con un fendente della spada.219 Secondo la moda del tempo, ossia, come scrive Luciano Scarabelli nella sua Istoria: «Cappucci, che i vecchi portavano, ma stretti assai e col becchetto lungo insino a terra». Cfr. L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 144. 219 Muzio Attendolo Sforza, per quell’esecuzione fu poi compensato dall’Este con il feudo di Montecchio, dove tuttavia dimorò pochissimo preferendo traferirsi in Lombardia e più tardi nel Regno di Napoli. Il 4 gennaio 1423, incaricato dalla regina Giovanna II di andare al soccorso della città dell’Aquila, assediata da Braccio da Montone, mentre guadava a cavallo il fiume Pescara, si precipitò a salvare un suo paggio che rischiava di affogare. Le zampe posteriori della cavalcatura sprofondarono però nella melma del fiume e il condottiero, gravato dall’armatura, scivolò di sella, si rovesciò in acqua, sprofondando, mentre il suo cavallo, alleggerito, raggiungeva la riva opposta. Il corpo dello Sforza non fu più ritrovato. 218 97 Quel che ne seguì per i resti mortali di Ottobono è orrenda e belluina cronaca,220 peraltro abbastanza consueta in quei tempi, quando fioriva ancora, canta l’Ariosto, «la gran bontà de’ cavallieri antiqui».221 Una cronaca che consegnò Ottobono Terzi alla leggenda; nera leggenda, in cui tutt’ora vive, prima che nella storia.222 La famiglia dei Rossi sarà la più tenace nel serbare memoria di colui che resterà il loro peggior nemico, quello che fu prossimo ad annientarli politicamente e fisicamente. Si narra che nel 1450 Pietro Maria Rossi, il magnifico, conservasse ancora, nella rocca di Felino, quale macabro trofeo da esibire agli illustri ospiti, la testa mozza di Ottobono.223 Mentre il corpo del Terzi, sempre secondo le malcerte narrazioni più tarde, era consegnato alle cannibalesche vendette di avversari e del basso popolino modenese, avvolto dalle brume mattutine della campagna di Rubiera il dramma continuava a svilupparsi. Guido Torelli, il più fedele e devoto amico d’Ottobono, avrebbe voluto scatenare la reazione della sua scorta armata, ma si trovò circondato dalle più agguerrite e numerose soldatesche dei due Attendolo e dell’Este, uscite in massa allo scoperto dai recessi in cui si erano celate per l’imboscata. Questa, emblematica nella sua truculenza, la versione dello storico reggiano Guido Panciroli: «I villani modenesi accesi d’implacabil odio per li danni ricevuti in quella guerra trassero le viscere dell’occiso Ottobono, e con famelica rabbia ne mangiarono il cuore fritto in una padella. Squartato e tagliuzzato il cadavere, altri, secondo è fama, ne divorarono disumanamente le carni. Il capofitto in una lancia lo portarono i Rossi a maniera di trionfo a Felina castello di loro giurisdizione»: G. PANCIROLI, Storia della città di Reggio, II, cit., 34-36. 221 Tempi che l’Ariosto, poeta agli stipendi degli Estensi, così rievocava e cantava, quasi cent’anni dopo, con equivoca ironia: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!/ Eran rivali, eran di fé diversi,/ e si sentian degli aspri colpi iniqui/per tutta la persona anco dolersi;/ e pur per selve oscure e calli obliqui/insieme van senza sospetto aversi»: L. ARIOSTO, Orlando Furioso, C. I, 22, vv. 1-6. 222 Rilevante, a questo punto, l’affilatissimo giudizio di Andrea Gamberini che scrive a proposito dell’esecuzione di Ottobono: «L’eliminazione con un tranello traduce, in una sorta di nemesi, lo spregio per il «pervicax violator divini juris atque mundani», come lo definisce il Delayto, penna semiufficiale dell’Estense. E tuttavia, anche se presentata come una vendetta divina – e dunque come un supremo atto di giustizia – l’uccisione del Terzi rivela nelle sue stesse modalità i caratteri della ritorsione umana e terrena. Non è un caso che ad assestare il primo colpo sia stato – secondo la narrazione quasi unanime delle fonti – Muzio Attendolo Sforza, cui l’Estense intese offrire la possibilità di vendicare le offese subite durante la dura prigionia impostagli solo pochi mesi prima proprio dal Terzi. Inimicitia (quella covata dallo Sforza) si sommava dunque a inimicizia (quella nutrita dall’Estense), convergendo nel compimento di un disegno che tuttavia non perse mai la sua valenza anche pubblica. Lo scempio rituale del cadavere – condotto a Modena e qui squartato, parzialmente divorato dal popolo, la testa mozzata affissa su un’asse trascinata da fanciulli, le braccia e le gambe esposte sulle porte della città – rispondeva infatti proprio a questa esigenza. Privare la vittima delle sue sembianze, renderla irriconoscibile, profanarne il corpo al punto da precludere la sepoltura. erano tutti gesti attraverso i quali si realizzava la damnatio memoriae, ovvero quella che fin dall’età classica era la pena postuma per l’hostis publicus». Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., pp. 293-294. 223 Cfr. V. CARRARI, Dall’historia di Rossi parmigiani, Ravenna 1583, pp. 130-131. 220 98 Il seguito di Ottobono fu catturato: tra i prigionieri inviati nelle prigioni di Ferrara si contarono, oltre al Torelli, i capitani Giovanni dei Pezzali, Pietro Cantelli di Parma, Rampini da Cittadella, Giovanni da Cremona. Sfuggì alla cattura invece Giacomo Terzi, fratello di Ottobono, che, portando in sella l’ormai orfano Niccolò Carlo, raggiunse cavalcando ventre a terra Parma.224 La città, ignara del tutto degli ultimi accadimenti e senza sospettare la slealtà del marchese d’Este, aveva iniziato a festeggiare gioiosamente fin dalle prime luci di quel lunedì di Pasqua, o dell’Angelo, come lo chiamano i buoni cristiani. Perché proprio per quel giorno i banditori avevano preannunziato la conclusione della pace fra Ottobono e Niccolò III. Giunsero poi le prime notizie dell’agguato perpetrato, confermate dal drammatico precipitarsi entro la difesa delle mura di Giacomo Terzi recante in sella l’orfano di Ottobono, Niccolò Carlo. Giacomo ordinò tamburo battente la convocazione in cattedrale, per il giorno seguente, di tutti i cittadini di Parma. Il 28 maggio l’assemblea si radunò in effetti dapprima nella cattedrale di Santa Maria Assunta, ma si trasferì subito dopo nell’antistante edificio del vescovato, dove aveva la sua residenza di governo Ottobono. Dinanzi all’arengo di cittadini e di milizie, tenendo sulle braccia il piccolo Niccolò Carlo, erede designato di Ottobono, Giacomo chiese e ottenne che gli si prestasse rituale giuramento di fedeltà come nuovo signore di Parma e di Reggio. Il potere effettivo restò nelle mani dello zio e del nonno materno, Carlo da Fogliano, che governarono sinché fu loro concesso, in nome e per conto del nuovo signore fanciullo, ultimo figlio maschio di Ottobono. Il giorno 8 giugno Giacomo Terzi inviò Lorenzo Vallisnieri a Venezia con un’ambasciata per chiedere soccorsi contro l’Estense. Egli poteva pur sempre vantare, come lo spento fratello Ottobono, d’essere patrizio della potente Repubblica e membro del Maggior Consiglio. 224 Resta condivisibile il rammarico che a questo punto esprime lo storico Amos Manni: «Bello sarebbe completare il ritratto di questo Venturiero con notizie relative alla sua morale privata, al suo pensiero religioso, ai suoi affetti famigliari ed erotici ecc. Ma nulla di tutto questo ho trovato nelle cronache e negli studi da me esaminati all’infuori delle notizie riportate nel presente lavoro – notizie che gli sono in generale tutte sfavorevoli - e di un’incerta frase trovata a pag. 120 del Pezzana in cui si parla della desolata vedova di Ottobuono – Desolata per la perdita di un buon marito, o semplicemente per le conseguenze economiche e sociali derivanti da quella morte? Chissà che un qualche fortunato ricercatore rovistando fra i mss della Palatina non possa trovare di più. A me però è stato assicurato da competenti, ed io credo d’aver potuto controllare, che nulla è sfuggito al dotto Pezzana». A. MANNI, Terzi ed Estensi (1402-1421), cit., pp. 28-29 nota. 99 4.1 Francesca da Fogliano I discendenti di Ottobono Il giorno 5 giugno 1409 partirono da Parma, ben scortati e «con molte carra», diretti verso il castello di Guardasone, in terra di Traversetolo, la loro più protetta dimora, Francesca, vedova dell’assassinato Ottobono, accompagnata dai tre bimbi orfani. Era con loro anche la cognata, moglie di Giacomo Terzi. Ottobono, lasciano capire i cronisti, ebbe cinque figli maschi. Il primo fu, probabilmente, Jacopo Terzi che nel 1412 combatté per la Serenissima sotto Feltre contro gli Ungheresi.225 Un Giorgio Terzi compare nel febbraio 1408 come promesso sposo di Palma, figlia del condottiero Ugolotto Biancardo. Il matrimonio fu forse celebrato il 17 settembre di quell’anno, secondo Pezzana.226 Defunta Palma, Giambattista Verci riferisce così quell’episodio bellico: «Dall’altra parte la compagnia di Ruggiero da Perugia, e del Grasso da Venosa composta di mille cavalli, e cinquecento pedoni, penetrata pe’ monti Bellunesi si avvicinò a Feltre sperando di poter conseguir quella Città per trattato. Ma i traditori furono scoperti, e premiato Giovanni dal Sole Tedesco, il quale aveva manifestata la congiura. Allora i Veneziani assaltarono il Castello dalla Scala, luogo fortissimo sul Canal di Brenta, passo che conduce a Feltre, e colla forza l’ottennero. Indi Ruggiero fece una scorreria fino alle porte di Feltre abbruciando i borghi, e mettendo a sacco i luoghi vicini e forse avrebbe presa ancor la Città, se i balestrieri avessero mostrato maggior valore. Non però perdette ogni lusinga di aver la Città; ma ottenuto Castel nuovo per trattato, e rovinato colle bombarde mezzo il Castello di Quero, che avea voluto difendersi, ritornò sotto Feltre a’ 22 di novembre. Trecento cavalli Ungheri uscirono ad affrontarlo, e con essi molti pedoni, e fu appiccata fìerissima zuffa. Per ben due volte i Veneziani li volsero in fuga incalzandoli fin sulle porte di Feltre; ma sopraggiunti gli Ungheri di Serravalle, e degli altri luoghi vicini, e per quanto scrive il Piloni, diretti da Marsilio da Carrara, e dallo stesso Brunoro Scaligero, e formato un corpo di settecento cavalli, e di maggior numero di pedoni, fu ripigliata di nuovo la battaglia, e finalmente i Veneti furono rotti, e messi in fuga con gran perdita di gente. Rimasero prigionieri Bernardo Diedo, Jacopo Terzo, e Bernardo Morosini, con altri molti.» G. VERCI, Storia della marca trivigiana e veronese, XIX, Venezia 1791, pp. 79-80. Di questo Jacopo figlio di Ottobono scrive il Pezzana: «Che poi Jacopo rimasto prigioniero nel 1412 fosse da Parma si ha testimonianza alla col. 838 del t. 79 del Muratori (Rer. It. Scr.), ove il Redusiolo chiama Jacobus Tertio de Parma armiger. Ora potrebbesi ragionevolmente conchiudere che quel Jacopo Terzi che fu fatto prigioniere al tempo dell’assassinio di Otto, e cui alcuni Istorici chiamano suo figlio, fosse appunto questi che liberato probabilmente per intercessione de’ Veneziani passasse poscia a’ servigi loro, e, per loro combattendo, rimanesse prigioniere degli Ungheri nei 1412». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 119 nota. Del medesimo Jacopo, torna a scrivere lo storico nella sua cronaca per l’anno 1438, quando elenca i benefici concessi dal duca Filippo Maria Visconti. «Ai tanti privilegiati è da aggiugnersi in quest’anno Jacopo Terzi, la salda, intera fede, e la devozione del quale verso il Duca gli procacciarono da questo a’ 10. agosto le esenzioni pe’ luoghi di Beduzzo, Albazzano, Isola di pietra ed Enzola eguali a quelle ch’ erano state da lui concesse agli altri nobili Parmigiani». Informazione che accompagna con la nota: «Questo Jacopo Terzi è con ogni verisimiglianza quel desso che fu fatto prigioniere dagli Ungheri nel 1412 e di cui ho parlato nell’anno 1409». Ivi, p. 407. 226 Ivi, p. 102. 225 100 Giorgio sposò in seconde nozze la giovanissima Caterina di Canossa, di Guidone, che gli diede Niccolò e Ginevra.227 Un altro figlio d’Ottobono, certamente diverso dai precedenti, si intravvede ammantato di tonaca cistercense nella ossequiente missiva, vergata il 17 novembre 1406 dall’abate di Fontevivo, quale risposta alle insistenze del potente signore di Reggio e Parma che lo aveva raccomandato per fargli ottenere l’abbazia di Chiaravalle della Colomba.228 Si ignora se questi primi tre figli fossero frutto del matrimonio con Orsina, morta nell’agosto 1405. Niccolò, che divenne celebre come «il Guerriero», figlio naturale, Ottobono lo ebbe per certo da domina Cecilia Della Pergola, e fu legittimato il 25 novembre 1405.229 Dal matrimonio con Francesca da Fogliano nacquero prima Niccolò Carlo, il 6 dicembre 1406, che fu signore di Parma e Reggio per venti giorni, morto in tenera età,230 e quindi, con cadenza annuale, due figlie: Caterina e Margherita. Caduto nel settembre 1409 sotto l’infuriare delle bombarde di Uguccione dei Contrari e occupato dagli Estensi il castello di Guardasone, estremo rifugio dei Terzi, la vedova di Ottobono decise di abbandonare le troppo malsicure terre parmensi. Sul finire dell’anno o nei primi giorni del 1410,231 accompagnata dai suoi tre bimbi, Niccolò Carlo che aveva appena compiuto i tre anni, e le più piccole Caterina e Margherita, abbandonò il Parmense trovando la protezione della Repubblica di Venezia. Francesca raggiunse la rocca di Villa Bartolomea, feudo che Ottobono aveva ereditato dal padre Niccolò e conservato tra Legnago e Carpi.232 Caterina rimase vedova prima del 1447 e sopravvisse lungamente al marito. Il 3 settembre 1485 dispose per testamento di essere sepolta nella cappella della famiglia Terzi posta nella chiesa del convento di San Francesco dei frati minori di Parma. Cfr. G. PLESSI, Guida alla documentazione francescana in Emilia-Romagna: Parma e Piacenza, Bologna 1994, p. 474. 228 Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 297. 229 Atto conservato in Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e carte della famiglia Canossa di Montalto, 1256-1796. 230 Che Niccolò Carlo sia defunto ancora fanciullo lo si apprende dalla già citata sentenza sull’eredità di Ottobono, più sotto ricordata per altro argomento, quando si precisa: «Investito il figlio infante Nicolò: ma estinta ben tosto colla morte di Nicolò la linea mascolina». Cfr. Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli), cit., pp. 559-569. 231 Cfr. A. MANNI, Terzi ed Estensi (1402-1421), cit., pp. 72 e 85 nota. 232 Questo è stabilito nel dispositivo dell’ultima, definitiva, sentenza, emessa nel 1873, riguardante quella proprietà sempre contestata nei secoli: «Siccome si legge nelle ducali 25 agosto 1404 e 4 novembre 1405, e, morto poco appresso Ottobono, venne dal vescovo (cosi volente la Signoria) investito il figlio infante Nicolò: ma estinta ben tosto colla morte di Nicolò la linea mascolina De’ Terzi, e intanto che il vescovo ritentava disporre altrimenti di Villabartolomea, la Repubblica comando che venisse lasciata alla vedova di Ottobono, Francesca da Fojano, ed alle di lui figlie Caterina e Margherita: e per ciò avvenne che, mentre la vedova passando a seconde nozze col conte Lodovico Sanbonifacio e la figlia Margherita divenendo sposa di Marugolà Sanbonifacio figlio del suddetto, portarono in quel casato due terzi del possesso di Villa Bartolomea, la figlia Caterina portò l’altro terzo al marito Franchino Strozzi da Castiglione, segretario del duca di Milano». Cfr. Sentenza (in materia di Feudo improprio, Successione femminina, Rinnovazione d’investitura, Questioni fra vassalli), cit., pp. 559-569. 227 101 La nella nuova nuova dimora, immersa nel La accompagnò accompagnò nella dimora, pacificamente pacificamente immersa nel verde, verde, eretta aiutandola nel nel governo governo della della ancor ancor tenera tenera figliolanza, figliolanza, la la eretta in in riva riva all’Adige, all’Adige, aiutandola 233 233 zia Eleonora, sorella di Carlo da Fogliano, vedova di un Pico della Mirandola. zia Eleonora, sorella di Carlo da Fogliano, Fogliano vedova di un Pico della Mirandola. A A Villa Villa Bartolomea Bartolomea iniziò iniziò per per Francesca Francesca una una nuova nuova esistenza. esistenza. Vedova Vedova ee 234 madre madre ancora ancora giovane giovane ee fiorente, fiorente, conobbe conobbe un un altro altro giovane giovane vedovo vedovo ee padre, padre,234 anche lui reduce reduce fuggitivo fuggitivo dalle dalle desolazioni desolazioni di di guerre guerre ee battaglie, battaglie, ee ii due due decisero decisero anche lui di coniugali. Il Il nuovo nuovo sposo sposo era era Ludovico, Ludovico, conte conte di di unire unire le le loro loro solitudini solitudini coniugali. di San San Bonifacio, Bonifacio,, discendente discendente da da illustri illustri lombi lombi padovani, padovani, ma ma ora ora cittadino cittadino legnaghese, legnaghese, che dieci miglia miglia dal dal feudo feudo di di che aveva aveva scelto scelto come come residenza residenza Lendinara, Lendinara, posta posta aa dieci Villa Bartolomea. Bartolomea. Villa Ludovico di era stato stato avviato avviato prestissimo prestissimo alla alla carriera carriera delle delle armi: armi: all’età all’età di Ludovico era tredici signori di tredici anni, anni, al al sorgere sorgere di di quel quel secolo, secolo, era era già già al al servizio servizio dei dei Carraresi, Carraresi, di Carraresi signori Padova. alla battaglia battaglia di di Casalecchio Casalecchio Padova. Prese Prese parte parte quindi, quindi, finendo finendo catturato, catturato, alla combattuta l’armata di di Gian Gian Galeazzo Galeazzo Visconti, Visconti, con l’armata combattuta ee persa persa nel nel giugno giugno 1402 1402 contro contro 235 Nel Nel sotto sotto le le cui cui bandiere bandiere si si battevano battevano gloriosamente gloriosamente le le lance lance di di Ottobono. Ottobono.235 Eleonora Eleonora ricorderà ricorderà nel nel suo suo testamento testamento (rogato (rogato nel nel settembre settembre 1432) 1432) la la sua sua lunga lunga convivenza convivenza in in casa A. casa della della nipote nipote beneficiando beneficiando ilil pronipote pronipote Bernardo Bernardo di di due due terzi terzi delle delle sue sue proprietà. proprietà. Cfr. Cfr. A. SSEGARIZZI «Nuovo Archivio Archivio Veneto», n.s., XX, EGARIZZI,, Lodovico Lodovico Sambonifacio Sambonifacio ee ilil suo suo epistolario, epistolario, «Nuovo Veneto», n.s., XX, 1910, 1910, p. p. 96, 96, n. n. 3. 3. 234 234 Ludovico contessa di Ludovico aveva aveva impalmato impalmato in in prime prime nozze nozze Beatrice Beatrice Marocella Marocella dalla dalla Porta, Porta contessa Porta, di Riva, Riva, che che he gli gli aveva aveva dato dato due due figli: figli: ilil primo, primo, Marugulato; Marugulato; un un secondo, secondo, Guerra, Guerra, che che a, a, dispetto dispetto del del nome, nome, cambiato cambiato in in religione religione con con quello quello di di Antonio, Antonio, si si sarebbe sarebbe fatto fatto frate, frate, andando andando aa studiare studiare teologia correggere perchè esagera esagera teologia aa Padova Padova ee Ferrara. Ferrara. Scipione Scipione Maffei Maffei èè da da correggere perchè distrattamente dis distrattamente quando quando fa fa sposare sposare per per ben ben due due volte volte Ludovico Ludovico di di San San Bonifacio Bonifacio con con Francesca: Francesca: una una prima prima volta volta indicandola indicandola come come vedova vedova di di Otton Otton Terzi; Terzi; una una seconda seconda sotto sotto le le vesti vesti di di Francesca Francesca da da Fogliano. Maffei: con II, giunte, note Fogliano. Cfr. Cfr. Verona Verona illustrata illustrata di di Scipione Scipione Maffei: con giunte, giu note ee correzioni correzioni inedite inedite dell’autore, dell’autore, II, Milano 1825, Milano 1825, p. p. 184. 184. 235 235 In In seguito seguito aa quella quella sconfitta sconfitta Ludovico Ludovico fu fu fatto fatto prigioniero, prigioniero, riuscendo riuscendo poi poi aa scappare. scappare. Anche Anche ilil Carrarese Carrarese catturato catturato si si era era dato dato alla alla fuga fuga ee per per giustificarsi, giustificarsi, in in una una lettera lettera diretta diretta aa Facino Facino Cane, Cane Cane, 233 233 102 102 giugno 1408 egli era alla guerra di Modena con le truppe di Niccolò III d’Este «qui eo tempore cum Othone Tertio, viro strenuissimo et ductore sagacissimo belligerabat». Insomma, in tutti gli eventi bellici ai quali partecipò quale capitano d’armi, San Bonifacio si trovò sempre a militare nel campo avverso a quello ove si distingueva lo strenuo condottiero del quale avrebbe sposato la vedova. Vedova resa tale dall’assassinio perpetrato con la decisiva complicità del Niccolò III d’Este, al cui servizio il conte Ludovico fu tanto fedele. Tuttavia, Ludovico di San Bonifacio, protagonista di troppe battaglie e disgustato infine dalle medesime, dopo avere impugnata un’ultima volta la spada nell’Italia centrale, affiancando Braccio da Montone, aveva ripudiato la guerra, preferendo i sereni ozii intellettuali e gli studi teologici sulla predestinazione alle esagitazioni delle sanguinarie mattanze belliche. Si dedicò quindi agli studi classici, intessendo fecondi rapporti epistolari con letterati di varia fama ma soprattutto con l’insigne umanista Guarino Guarini, pedagogo di Leonello d’Este. Quando decise di passare a nuove nozze, Ludovico aveva rinunciato da due anni a inseguire la gloria militare. Il matrimonio si celebrò il 30 dicembre 1417, nel palazzo dei San Bonifacio a Legnago. Il conte Ludovico dichiarò di fronte al notaio Niccolò da Treviso «d’aver ricevuto 3000 ducati d’oro quale dote della moglie Francesca da Fogliano, e di bene amministrarli, e nello stesso giorno e luogo Francesca, che nel documento è chiamata contessa della Valle, nominò contestualmente suo procuratore il marito Lodovico».236 Quelle nozze, nell’ambito della casata dei San Bonifacio, non rimasero isolate, perché pochi anni più tardi si celebrò lo sposalizio di Marugolato (o, alla veneta, Marugolà, contrazione di Marco Regolo), primogenito nato dal precedente matrimonio di Ludovico, con Margherita, ultimogenita di Ottobono e Francesca. La sorella di questa, Caterina, si maritò invece con Franchino Castiglioni, che per trent’anni fu ai vertici della diplomazia del Ducato di Milano, guardasigilli maggiore, membro del Consiglio Segreto, impegnato incessantemente in delicate ambascerie e nella stipula dei più importanti accordi e trattati con gli altri potentati italiani per conto di Filippo Maria Visconti. Impegni che proseguirono, dopo la morte del Visconti, con la Repubblica Ambrosiana, alla quale Franchino partecipò come esponente del Consiglio Generale e che cessarono improvvisamente con l’avvento al potere di Francesco Sforza.237 236 237 si avvalse anche della testimonianza del San Bonifacio. Questa notizia, come pure le seguenti informazioni relative ai da Fogliano e ai San Bonifacio, sono state tratte da A. SEGARIZZI, Lodovico Sambonifacio e il suo epistolario, cit., passim. «Il 30 dicembre 1417, nella propria casa di Legnago, il San Bonifacio dichiarava di avere ricevuto 3000 ducati quale dote della moglie Francesca da Fogliano e di bene amministrarli, mentre nello stesso giorno e luogo Francesca nominava suo procuratore il marito Ludovico. Cfr. ivi, p. 76, n. 1. Trattando di Franchino Castiglioni, Franca Petrucci cade in errore quando, a proposito del primo matrimonio, scrive che «sposò Caterina Trechi», anziché «Caterina Terzi», tale essendo esattamente il cognome della prima moglie: Caterina figlia di Ottobono Terzi e di Francesca 103 Dal nuovo matrimonio di Francesca da Fogliano con Ludovico di San Bonifacio nacquero tre figli: Bernardo, Silvio e Rizzardo. A questi si aggiunsero tre figlie: Isotta, Alisia e Violante. Dai figli maschi avuti con Francesca, e specialmente dal primogenito Bernardo e da Silvio, il conte Ludovico ricavò parecchi dispiaceri dei quali si trovano riferimenti esacerbati nella corrispondenza, conservata nell’Archivio di Stato di Modena, ch’egli intrattenne con Borso d’Este amico di Bernardo, il figlio maggiore.238 Ludovico testò due volte, il 26 giugno 1439 e il 27 gennaio 1445, e in entrambe le occasioni figurò come testimone, fugace apparizione, anche la moglie Francesca. Quanto ai figli nati dal suo matrimonio con Ludovico di San Bonifacio, di Silvio e di Isotta si sa che nel medesimo giorno, 14 ottobre 1434, celebrarono le loro nozze rispettivamente con Pantasilea e con Dondadeo, fratelli, della nobile famiglia veronese Cavalli. In precedenza, anche il primogenito Bernardo aveva trovato la propria consorte, una Benedetta o Ludovica, in seno alla stessa casata nella città scaligera. Bernardo, amico e compagno di sollazzi del marchese Borso d’Este, concluse una vita dissoluta condannato e giustiziato per avere assassinato il fratello Rizzardo. La sentenza venne eseguita sotto il governo del duca Ercole I, successore di Borso. 239 Settantaquattro anni prima, consumata un’altra Pasqua, sulla medesima piazza dominata dall’architettura di Lanfranco, era stata portata dalla plebaglia tumultuante un’altra testa decapitata: quella del primo sposo della madre di Bernardo, il condottiero Ottobono Terzi. da Fogliano. Cfr. F. PETRUCCI, Castiglioni, Franchino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma 1979, www.treccani.it/enciclopedia/franchino-castiglioni_(Dizionario-Biografico)/. 238 Cfr. A. SEGARIZZI, Lodovico Sambonifacio e il suo epistolario, cit., pp. 77-78 note. 239 Le cronache del 1473 narrano che il 5 giugno a Modena, sotto l’abside del duomo, accanto alla pietra dell’arringa, «a ore 14, che fu la vigilia de pasqua rosata, fu tagliata la testa al conte Bernardo San Bonifacio da Lendenara e zentilhomo di Ferrara e za compagno del duca Borso; e fu in piaza drito a la rengera del palazo del comune e fu interà piana senza el tribunale. Per ché fece amazzare suo fratello uterino». Ivi, p. 76. 104 4.2 4.2 Giacomo Giacomo ee Giovanni Giovanni Terzi Terzi Il Terzi. escovile di (XI Il Palazzo Palazzo vescovile vescovile di Parma Parma (XI-XII (XI-XII sec.), sec.), sede sede del del governo governo di di Ottobono Ottobono Terzi. ««Fratello quale per per essersi essersi dottorato dottorato nell’una nell’una ee Fratello d’Otto d’Otto fu fu Giacomo, Giacomo, ilil quale nell’altra dottore. Egli Egli fu fu aa nome nome del del Duca Duca Governatore Governatore di di nell’altra legge, legge, si si chiamò chiamò ilil dottore. Casalmaggiore. uno dei dei deputati deputati aa portare portare ilil baldacchino baldacchino di di panno panno d’oro d'oro Casalmaggiore. Fu Fu uno 240 sopra di Giovan Giovan Galeazzo G Galeazzo Duca di di Milano». Milano».240 sopra ilil morto morto corpo corpo di Duca Giacomo Giacomo Terzi Terzi era era presente presente ilil 27 27 maggio maggio 1409 1409 all’agguato all’agguato di di Rubiera Rubiera in in cui cui fu fu proditoriamente proditoriamente assassinato assassinato ilil fratello. fratello. Lo Lo scortava scortava con con ilil suo suo seguito, seguito, cavalcando Fogliano cavalcando accanto accanto aa Carlo Carlo da da Fogliano. Fogliano. In In sella sella recava recava ilil nipote nipote Niccolò Niccolò Carlo, Carlo, figlio figlio di di Ottobono, Ottobono, portato portato con con fidanza fidanza ad ad omaggiare omaggiare ilil marchese marchese d’Este, d’Este, colui colui che che nel nel Natale Natale 1406 1406 era era diventato diventato suo suo padrino padrino all’immersione all’immersione con con l’acqua l’acqua lustrale Parma ee che che, lustrale nel nel battistero battistero di di Parma che, trascorsi trascorsi solo solo due due anni anni ee mezzo, mezzo, ora ora aveva aveva ordito ordito l’imboscata l’imboscata che che avrebbe avrebbe spento spento in in un un bagno bagno di di sangue sangue ilil genitore. genitore. Appena Giacomo riuscì riuscì aa sfuggire sfuggire Appena consumato consumato quel quel tragico tragico evento, evento, Giacomo all’accerchiamento dei loro loro alleati, alleati, all’accerchiamento ee alla alla cattura cattura da da parte parte degli degli armati armati estensi estensi ee dei usciti celavano usciti in in folla folla allo allo scoperto scoperto dalla dalla boscaglia boscaglia ove ove si si celavano. celavano. Cavalcando Cavalcando ventre ventre aa terra, terra, lui lui ee ilil da da Fogliano Fogliano riuscirono riuscirono aa portare portare in in salvo salvo dentro dentro le le mura mura di di Parma Parma ilil piccolo piccolo Niccolò Niccolò Carlo. Carlo. provvediment urgenti per per ilil Giacomo Giacomo assunse assunse tempestivamente tempestivamente ii provvedimenti provvedimenti urgenti governo governo della della città, città, ilil primo primo dei dei quali quali doveva doveva rispondere rispondere all’esigenza all’esigenza immediata, immediata, dopo titolare della della signoria, signoria, di di fornire fornire legittimità legittimità dopo la la scomparsa scomparsa del del fratello fratello titolare 240 240 cit., B. B. A ANGELI NGELI,, Historia Historia della della città città di di Parma, Parma, cit. cit., p. p. 467. 467. 105 105 formale e una base legale al suo potere di supplente. Perciò diede ordine di «convocare a ore», cioè per le ore 21 del 28 maggio, tutti i cittadini di Parma. Radunatasi dapprima in cattedrale, l’assemblea si trasferì subito nell’antistante palazzo del vescovado, che a quel tempo era ancora occupato dal potere civile, sede ufficiale del signore della città e residenza di Ottobono. Dinanzi a quell’arengo, Giacomo innalzò sulle sue braccia l’infante Niccolò Terzi, proclamandolo legittimo erede del dominio di Ottobono. Esortò quindi cittadini e milizie civiche a prestargli rituale giuramento di fedeltà quale nuovo signore di Parma e Reggio. Era una ipocrita finzione giuridica, poiché il potere effettivo durante i venti giorni in cui durò quell’effimera signoria restò sempre nelle mani dello zio, affiancato dal Fogliano. Giacomo, armato di studi e di ben collaudate esperienze in campo giuridico, amministrativo e militare, si dimostrò all’altezza della situazione finché non fu sconfitto da forze e circostanze troppo avverse, finendo annientato e massacrato in quel fatale 1409 come i fratelli Ottobono e Giovanni. Figlio cadetto di Niccolò il Vecchio, si era laureato in utroque iure, ossia in diritto civile e canonico, alla scuola giuridica dell’università di Pavia. Qui studiava certamente nel 1392, quando la zia Giovanna, sorella di Niccolò e sposa di Guglielmo Pallavicino, testò a suo favore.241 Nel 1395 egli saliva in cattedra presso la medesima Università.242 Agli inizi del 1400, «Iacobo de Tertiis comiti Tizani et Castrinovi ac legum doctori peritissimo» fu invitato a tenere scuola a Mantova, precedendo l’arrivo di Vittorino da Feltre.243 Passò poi dall’insegnamento alla corte del duca di Milano, come giurisperito. Nel 1400 egli ebbe la carica di podestà e capitano del popolo a Lodi; l’anno seguente fu podestà a Vicenza. Nell’estate 1402, Giacomo con il fratello maggiore Ottobono e il minore Giovanni244 erano capitani, sotto il comando di Alberico da Barbiano, nell’esercito di 18 mila fanti e 12 mila cavalieri, in Toscana, all’attacco di Firenze. In quei mesi il duca di Milano conferì in feudo ai Terzi le terre di Montecchio Emilia, Brescello, Boretto, Gualtieri, Cavriago e Colorno, tolte ai da Correggio. Quando Gian Galeazzo si spense, il 20 ottobre 1402, Giacomo Il rogito datato 8 agosto 1392 del notaio Cassano de’ Cassani è citato in Archivio di Stato di Parma, Comune, Raccolta Zunti, b. 4350, ENRICO SCARABELLI ZUNTI, Tavole genealogiche della famiglia Terzi, ms., sec. XIX. Quella zia paterna morì poi nel 1401. Del testamento scrive anche Pezzana che individua però Giacomo o Jacopo come fratello di Giovanna. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 134-135 nota. 242 «Bossi, MS, Studio, annotò che nel 1395, I. C. (fu fatto) Lettore ad lecturam Voluminis ma di lui non si trova verun’altra notizia»: G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V, II, Pavia 1836, p. 195. 243 Cfr. R. SABBADINI (a cura di), Epistolario di Guarino Veronese, III: Commento, Venezia 1919, p. 161. 244 Giovanni Terzi, fratello minore di Ottobono e Jacopo, sposò il 16 gennaio 1405 Caterina Scotti di Francesco Scotti, che gli portò in dote mille fiorini d’oro. Cfr. L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 347. 241 106 venne convocato a Milano per le imponenti esequie celebrate in duomo. Quale esponente de «i più nobili militi e meliori di Lombardia», egli fu tra gli otto che ressero il grande palio tessuto di seta e d’oro, foderato d’ermellino, che decorava la bara ducale.245 Negli anni che seguirono la morte del Visconti, nelle vicende tumultuose di scomposizione e ricomposizione delle signorie comunali del Ducato milanese, la biografia di Giacomo Terzi si intrecciò assiduamente e sempre più con quella di Ottobono. Dopo l’uccisione di quest’ultimo era la persona deputata, di fatto se non di diritto, a tentare di succedergli. Prese le redini del governo di Parma, Giacomo assunse le prime vitali decisioni di governo, tra le quali una nuova imposizione per pagare il soldo atteso dalle milizie comunali. Furono emessi nuovi bandi per espellere le squadre dei Rossi, partigiani palesi od occulti dell’Estense. Niccolò III in quei giorni stava dilagando con le sue truppe nel Reggiano e, avanzando, raccoglieva la resa senza condizioni e l’accorrere di nuovi alleati in quasi tutti i feudi, persino tra gli aderenti dei Terzi, lesti a salire sul carro del prevedibile vincitore finale. Non mancò allora la reazione di Giacomo, che il 5 giugno mandò all’assalto del castello di Tiorre, vicino a Felino, le sue soldatesche con dei guastatori, ai quali fu ordinato di bruciare, far saltare e spianare interamente quel ricetto privilegiato dei Rossi. Ma la spedizione punitiva non ebbe successo, perché i guastatori, mal sorvegliati dai soldati, preferirono ricrearsi a modo loro: si dispersero nei boschi a caccia, o si diedero a far bottino nel borgo, lasciando incompiuta la loro opera, con le mura della cerchia e il maschio ancora in piedi, tanto che i Rossi in seguito poterono riutilizzarli. Il marchese d’Este il giorno undici, passato l’Enza, ricoverato il materiale bellico a Montechiarugolo, si era portato nella piana attorno al fortilizio di Panocchia, otto miglia a Sud di Parma, pronto a ingaggiare battaglia in campo aperto con le forze del Terzi, il quale, tuttavia, preferiva rimanere asserragliato dentro Parma. L’attesa del confronto durò sei giorni, poi Niccolò III, considerato l’atteggiamento difensivo assunto da Giacomo e non avendo le forze necessarie per mantenersi all’assedio di Parma, levò le tende e marciò su Reggio. L’8 giugno partì da Parma, diretto a Venezia, Lorenzo Vallisnieri per sollecitare soccorsi e la conferma della protezione della Serenissima già goduta per il passato. Il Terzi, peraltro, aveva già concesso alle milizie venete il presidio dei siti fortificati di Casalmaggiore, Brescello e Colorno. Conseguente all’ambasceria di Vallisnieri fu l’arrivo, l’11 giugno, di una missione affidata a 245 «Sebbene il suo corpo non v’era dentro, si diceva però ch’era sepolto al monasterio della Certosa»: G. M. FINAZZI (a cura di), I Guelfi e i Ghibellini in Bergamo: Cronaca di Castello Castelli delle cose occorse in Bergamo negli anni 1378-1407, Bergamo 1870, p. 132. 107 Giovanni Contarini,246 plenipotenziario della Repubblica di Venezia che consentì l’avvio di conversazioni interlocutorie. Il giorno seguente, si aggiunse un secondo ambasciatore, Francesco Foscari,247 latore di nuove disposizioni. Fu accolto sulla piazza di Parma da un imponente schieramento di truppe appiedate e a cavallo. Riprese le trattative con Giacomo che in quell’occasione era affiancato dal fratello Giovanni, queste proseguirono fino al giorno 17. Il 18 giugno gli ambasciatori Foscari e Contarini raggiunsero gli acquartieramenti di Niccolò III per consegnare nelle mani del marchese le missive del Consiglio dei Pregadi, mediante le quali il Senato veneto informava, e invitava a prendere, atto che la Serenissima manteneva sotto la sua protezione i Terzi. Stava accorta insomma, la Repubblica, a conservare aperti e vivi tutti i rapporti diplomatici che le potessero consentire, conclusi i conflitti, di partecipare alla divisione delle spoglie dei vinti a beneficio dei suoi presidi in terraferma e nelle terre padane. Giacomo, forse incoraggiato dall’allontanarsi dell’Estense dalla frazione di Panocchia, prossima alle mura parmigiane, e forte delle assicurazioni ricevute dai due nobili veneti, risolse di scendere in campo con nuovi attacchi al nemico. Il giorno stesso in cui partivano da Parma il Contarini e il Foscari, cioè il 17 giugno, egli inviava Giovanni Malvicino alla testa di 300 militi a cavallo a Guardasone e altri 100 a Pariano per disturbare le retrovie dell’Estense. Nel contempo Carlo da Fogliano assaltava con 600 lance Montecchio. Rafforzavano quelle truppe, informa il Da Erba, 800 armati tra cittadini e villici, appiedati o a cavallo. Il Malvicino ebbe un primo scontro con lo Sforza e la sua avanguardia presso Traversetolo, sotto la rocca di Guardasone. La sorprese e in una prima fase la sconfisse, ma irruppe poi sul campo di battaglia, guidato dallo Sforza, il grosso delle truppe calato dai poggi sovrastanti. La battaglia si riaccese sanguinosa, durò due ore e si concluse con la rotta delle forze alleate dei Terzi, che contarono molti caduti e la perdita di trecento cavalli. Tra i feriti illustri vi 246 247 Giovanni apparteneva alla famiglia Contarini del ramo dei Santi Apostoli e fu variamente incaricato di tenere rapporti con nobili veneti residenti all’estero. Nel 1392 egli aveva lasciato la laguna per studiare all’Università di Oxford. Soggiornò poi a Londra per raggiungere, nel 1400, l’Università di Parigi. Qui, nel marzo 1409, egli conseguì la laurea in teologia. Quando fu inviato dalla Serenissima a Parma, tre mesi dopo il suo rientro dal suolo francese, Contarini stava recandosi, probabilmente, al Concilio di Pisa dove, appoggiato dal doge Michele Steno, fu eletto pontefice con il nome di Alessandro V il cretese Pietro Filargis. La famiglia Contarini, tuttavia, apparteneva al partito filo-romano molto forte a Venezia, guidato dal beato Giovanni Dominici (al secolo Banchini o Baccini), vescovo e poi cardinale. Per questa ragione il regnante pontefice Gregorio XII premiò la fedeltà dimostratagli dai Contarini nominando Giovanni, nell’autunno 1409, patriarca latino di Costantinopoli. Francesco Foscari (1373-1457) già capo della Quarantia nel 1401, eletto due volte capo del Consiglio dei Dieci, procuratore di S. Marco nel 1416, diverrà doge nel 1423. Propugnatore della politica di espansione sulla Terraferma, si trovò perennemente in aspro conflitto con il Ducato di Milano e in primis con i Visconti. 108 fu il prode Antonuccio Camponeschi dall’Aquila. Giovanni Terzi, avuta notizia della sorte subita da Giovanni Malvicino, tornò rapidamente a Parma. I villici di Cazzola, di Sivizzano, di Rivalla, terre confinanti con Guardasone, cercarono in quei momenti di approfittare delle difficoltà che subissavano i Terzi. Assieme alle milizie estensi, essi tentarono con grandi strepiti di assalire la rocca ove si erano barricati i familiari di Ottobono e di Giacomo. Ma la difesa stava all’erta e costrinse i rivoltosi alla fuga. Ripetendosi poi i tentativi di impadronirsi della cerchia esterna della rocca, il castellano del Borgo, deciso a farla finita con le intrusioni, uscì dalla rocca con un congruo numero di fanti armati, uccise sul posto un buon numero di villici ribelli, altri ne catturò e li fece impiccare. Il Senato della Repubblica di Venezia, dando ulteriore seguito alle pressanti istanze dei Terzi, insisteva nel frattempo presso il marchese d’Este, al quale aveva inviato una nuova ambasciata, perché si arrivasse a una tregua in quella guerra che aveva ormai palesemente privato il nemico del suo vigore. Il Senato confermò nuovamente la sua protezione ai Terzi, dichiarando che per nessuna ragione li avrebbe abbandonati, e nel contempo garantì a Niccolò III i suoi possedimenti nel Modenese. Mentre l’ambasciatore veneto tornava in città, il marchese d’Este ne inviò un altro ai Veneziani, dando a intendere che voleva aprire trattative di pace. Sennonché, nel medesimo tempo, ordinò alle sue truppe di manovrare e portarsi sotto le mura di Parma. A preoccupare i Veneziani in quella guerra c’era anche il fondato timore che i Genovesi potessero approfittarne per compiere nuove conquiste in Lombardia, terra ove la Serenissima intendeva fermamente restare con le sue basi e allargare se possibile le sue zone d’influenza. Confermando allarmi e sospetti veneziani, il marchese d’Este era diventato oggetto delle interessate attenzioni del maresciallo Jean Le Meingre, sire di Boucicaut, 248 che governava Genova per conto del re di Francia. Con l’intento di concretare una trattativa, il 20 giugno arrivarono al quartiere militare dell’Estense, posto nel Reggiano, in veste di plenipotenziari genovesi, i capitani Nicolò da Spoleto e Luca Fieschi. Nel frattempo, però, la situazione per i Terzi e i loro collegati stava sempre più peggiorando irrimediabilmente ed i Parmensi percepirono le difficoltà sempre più stringenti in cui si trovava Giacomo. Il giorno 26 giugno, alle ore 14 narra la cronaca di Da Erba, entrò in città con i suoi armati Giberto Sanvitale. Egli s’incontrò con Giacomo per due lunghe ore, esaminando realisticamente la situazione delle forze in campo, ebbero quello che diplomatici meno antichi avrebbero definito un franco e aperto scambio di idee, al termine 248 Genova era divenuta nel 1396 proprietà del re di Francia, vigorosamente sottoposta dal 1401 al governo del maresciallo Jean Le Meingre, sire di Boucicaut. L’ultima impresa in terra italiana di colui che i Genovesi chiamarono “il Bucicaldo” fu di tentare, nel luglio 1409, l’occupazione di Milano. I fuorusciti genovesi colsero l’occasione della partenza del maresciallo da Genova per occupare la città e consegnarla al marchese Teodoro II Paleologo di Monferrato, togliendola definitivamente al Boucicaut a cacciando i Francesi dalla Liguria. Tornato in patria, il maresciallo partecipò alla battaglia di Azincourt (1415), ove fu catturato dagli inglesi. Morì prigioniero in Inghilterra nel 1421. 109 del quale il Terzi, in ossequio alla cosiddetta volontà popolare, fu congedato da Parma. Ai cittadini in attesa questa novità fu annunciata, urlando, da un esaltato Antonio da Cusino che inneggiava al popolo. Popolo che subito si diede a festeggiare e manifestare tumultuosamente la caduta del dominio dei Terzi. La confusione e le urla erano tali che parve una rivolta, e questo mise in grande allarme le milizie del Malvicino che temevano esserne il bersaglio. Questo costrinse Giberto Sanvitale a intervenire per rassicurare il capitano e consigliarlo a non reagire alle provocazioni. Giacomo, dopo essere stato licenziato, si rifugiò con le sue squadre armate nella cittadella di Porta Nuova, ma, quando vide le altre porte di Parma darsi una dopo l’altra al nemico, preferì trasferirsi nella meglio difesa rocca di Guardasone. I Sanvitale erano nel frattempo molto impegnati a convincere i loro cittadini ad accettare come nuovo signore di Parma Niccolò III. A questi fu infine inviato Galeazzo da Correggio con l’esortazione ad appropriarsi formalmente di quello che era già divenuto, di fatto, militarmente suo. L’Estense entrò a Parma, preceduto da 200 cavalieri comandati da Uguccione dei Contrari, passando per porta san Michele che gli era stata spalancata da un gran tumulto di fanatici partigiani. Egli raggiunse il palazzo del vescovato, già dimora di Giacomo e di Ottobono, tra gli evviva e gli schiamazzi della folla. Il giorno 27 fu convocato il Consiglio Generale del Comune, ove vennero eletti tre sindaci che consegnarono al nuovo padrone di Parma, i simboli della signoria: le chiavi, la bacchetta e il gonfalone del popolo. Le bandiere estensi sventolarono sulle porte di Bologna e di S. Michele. Si decretò che le insegne di casa d’Este sostituissero ovunque quelle dei Terzi. Il popolino, per parte sua, si dedicò all’assalto delle prigioni, liberò quanti vi stavano rinchiusi per qualsiasi ragione, assalì poi con mirato impegno il palazzo comunale, prelevando i registri delle gabelle con i quali si fecero, tra corali entusiasmi, imponenti falò. Il 9 luglio tutte le porte della cerchia cittadina si erano arrese, ma non erano state ancora sconfitte le forti sacche di resistenza delle squadre di Giacomo in diversi fortilizi cittadini. Lo Sforza cominciò quindi a bombardarle. Fra queste vi erano le difese dei ponti che, bersagliate dalle artiglierie, arsero sulla sponda della città. Il primo di luglio si arresero anche la postierla sulla sponda verso Santa Caterina e i due fortini del Ponte di galleria, che fu conquistato su ambo le sponde. Le forze residue dei Terzi resistevano sparse anche nella città di Reggio, che aveva patteggiato la consegna delle armi a fine giugno ma si arrese solo il 22 luglio. Nelle terre del Parmense altri focolai di resistenza armata dei partigiani dei Terzi, disseminati a macchia di leopardo sul territorio e nei borghi fortificati, continuavano a insidiare l’Estense e i suoi alleati. Il 5 luglio Gherardo da Correggio, che aveva tentato di introdursi con l’aiuto dei villici nella cerchia 110 interna di Colorno, dovette fuggirne sotto il fuoco dei razzi incendiari scagliati dai difensori della rocca che arsero le case sotto le mura. Ma se alcune piazzaforti in qualche modo lottavano, ovunque si defezionava dal campo dei Terzi, persino tra le fila del parentado. Antonio e il nipote di questi Giberto II Terzi, persa ogni speranza di rivincita, per salvare il salvabile si umiliarono rassegnati all’Estense. I valenti capitani della fanteria di Ottobono, Giovanni Malvicino, Galcazzino da Langhirano e Maffeo dal Fosio, passarono da bravi mercenari al soldo del marchese d’Este non appena costui entrò in Parma, salvo poi finire tutti imprigionati, perduti dal sospetto di congiurare per una restaurazione dei Terzi. Anche le milizie di quei capitani di ventura passarono compatte in campo estense e già il giorno 10 luglio cominciarono a riscuotere regolarmente i loro stipendi dal nuovo padrone. Quanto ai pragmatici Veneziani, davanti al dilatarsi inarrestabile del dominio del marchese di Ferrara, che giorno dopo giorno acquisiva nuove terre e castelli nel Parmense e nel Reggiano, abbandonarono al loro ineluttabile destino di perdenti Giacomo e Giovanni, e si chiusero a difesa dei loro presidi fortificati sul Po, a Brescello e Casalmaggiore, insediamenti che avevano ottenuto proprio dai Terzi. Dentro Parma continuava a consolidarsi Niccolò III, che il giorno 17 conquistava anche la fortezza di Porta Nuova. Domenica 19 si cancellò il biscione visconteo dal palazzo del governo, per dipingervi l’aquila bianca degli Estensi. Alle ore 14, si celebrò una messa solenne in cattedrale con la partecipazione del marchese Niccolò III, al quale si rinnovò la consegna rituale delle insegne della signoria di Parma: le chiavi della città, il gonfalone e il bastone del comando. Tre giorni dopo, tra gli altri provvedimenti di normalizzazione del Comune, ci fu il bando che consentiva il rientro ai fuoriusciti, reintegrati in tutti i loro averi. Fra questi vi erano i Rossi, ma senza speranza di riacquistare la misura del potere che essi avevano goduto in precedenza. La fine di Giovanni e di Giacomo Terzi Agli inizi del mese di settembre 1409, dopo avere ristabilito nel corso dell’agosto le strutture istituzionali del Comune e la loro funzionalità con la nomina ai vertici di uomini di provata lealtà, primo fra questi il suo luogotenente generale Giacomino Rangoni da Modena, il marchese Niccolò ritornò a Ferrara, la sua capitale. Mentre tutti questi avvenimenti e altri parimenti importanti si svolgevano a Parma, i due fratelli Terzi, Giacomo e Giovanni, conducevano una guerriglia strisciante partendo dalle rocche ben munite in cui essi si erano rifugiati: a Guardasone il primo, dentro Borgo San Donnino l’altro. Il 10 settembre, Giovanni Terzi, partendo da quest’ultimo caposaldo alla testa di 150 cavalli, fece scorrerie verso la Lunigiana, a Codiponte in Val di Magra, razziando sessanta paia di buoi e facendo numerosi prigionieri che trasferì a Castelguelfo. 111 Passò poi a Colorno, dove i Terzi conservavano la rocca dopo aver ceduto ai Veneziani la cerchia esterna, e da qui partiva per nuove intrusioni nelle terre circostanti, spingendosi fino a S. Martino de’ Bocci, in Val Serena, saccheggiando ovunque. In quegli stessi giorni, Giacomo subiva a Guardasone l’assedio di Uguccione dei Contrari. Il castello era gagliardamente difeso, ma le artiglierie lo batterono con tanta furia da costringere gli assediati alla resa il giorno 24. La vicenda dei fratelli Terzi sopravvissuti a Ottobono uscì allora dalla fase preagonica, segnata dalla perdita repentina del dominio su Parma, conquistata dall’Estense, per accelerare verso la soluzione finale e un’atroce eliminazione fisica. Uguccione, preso Guardasone a Giacomo, si scagliò contro Borgo San Secondo per assalire Giovanni, ma scoprì subito che questi lo aveva abbondonato per rifugiarsi nella rocca di Colorno. Cavalcò allora con le sue truppe verso quel sito, ma come lo raggiunse, il 29 settembre, dovette rinunciare all’offensiva perché i Veneziani, insediati fortemente sotto il castello dentro la cerchia delle mura del borgo, dichiararono di essere intenzionati a impadronirsi essi stessi di quella preda. Uguccione si rassegnò allora a tornare con le proprie soldatesche a mani vuote nei suoi quartieri. Non erano trascorsi due giorni che Giovanni, conniventi evidentemente i Veneziani, usciva dal castello di Colorno per depredare con i suoi armati le terre di Sorbolo, Lentesone, Enzano, Bersagna, Frassanara, Ravadese, Pizzolese, Pietra Baldana, Sant’Andrea, catturando inoltre diversi prigionieri per chiederne un riscatto. Il giorno 8 ottobre Ferro da S. Felice, capitano del marchese d’Este, tentò con 200 cavalli e 400 fanti l’assalto a Castelguelfo, rimasto in mano a Giacomo e Giovanni. Ma quando, una settimana dopo, il giorno 15, scoprì che qui si stavano radunando le milizie, provenienti da altri luoghi rimasti ai Terzi, e saputo che i Veneziani di Brescello stavano arrivando in loro soccorso, temendo di rimanere chiuso in una manovra a tenaglia, nel corso della notte preferì tornare a Parma. Incoraggiati dai ripiegamenti di Uguccione dei Contrari e del San Felice, sentendosi forti per l’appoggio indiretto che loro veniva concesso dai Veneziani, le squadre dei Terzi scatenarono dalle loro basi di Castelguelfo e di Colorno nuove offensive e saccheggi nelle campagne circostanti, estendendo le devastazioni fin sotto le mura di Parma. L’esasperazione in città raggiunse l’acme il 25 ottobre, sicché fu inviata un’ambasceria di quattro cittadini al marchese d’Este perché ponesse fine a quelle angherie. Gli ufficiali dell’Estense pubblicarono poco dopo un bando con cui s’imponeva a quanti possedevano beni nelle terre di Colorno di riparare con le loro famiglie a Parma e di rimanervi sino a quando quel castello e quelle terre non fossero stati definitivamente tolti ai Terzi. I due fratelli, peraltro, stavano dando il loro personale contributo nel coadiuvare i nemici e accelerare la propria fine. Cominciò Giovanni a scavarsi la fossa e quindi subito lo seguì Giacomo, stando alla narrazione che ne fa Pezzana sulla scorta di Delaito: 112 «Giovanni, uomo crudele al pari di Otto, ritiratosi nella Rocca di Borgo S. Donnino in sul finir di settembre, chiamò a sé Alberto Scotto suo cognato che risedeva in Castell’Arquato coi suoi Zii Francesco e Giovanni Scotti, il consigliò ad uccidere questi due per unire in sé tutto l’avere e il dominio loro. Non contento a si esecranda proposta gli si offrì di portarsi egli stesso sotto colore di visitarli a Castell’Arquato, e di porla in effetto colle proprie mani. Inorridì Alberto a tanta scelleraggine; pure finse di aderirvi, e, andati insieme colà, il fece porre in ceppi.» 249 E Pezzana continua: «Queste cose raccontate dal Delaito furono inserite nelle Storie di Piacenza anche dal Poggiali La nostra Cronaca dice solamente come il dì 4 ottobre giugnesse qui la nuova della prigionia di Giovanni, se ne facesse gran festa, e addì 5 fosse vestito il messaggio di panno rosso e condotto intorno la piazza a suon di trombe e di pifferi. Il Delaito aggiugne che in quella cattività dopo alcun tempo fosse tolto di vita nece detestabili; cioè di veleno, secondo l’Angeli».250 Giacomo, quando fu informato della prigionia in cui era tenuto il fratello minore, si trovava nella rocca di Castelguelfo. Si portò dunque celermente al comando di molti dei suoi all’attacco del castello di Borgo San Donnino, dal quale scacciò la gente degli Scotti e dei loro aderenti. Affidato quel fortilizio a un adeguato presidio, con la sua scorta cavalcò verso Fiorenzuola d’Arda. Qui era stato preceduto da Alberto Scotti con la sua soldatesca che, trovate porte aperte e coadiuvato dai villici, aveva occupato la cerchia del borgo e sbarrato ogni via d’accesso al soprastante castello. Quando Giacomo arrivò, finì accerchiato e sequestrato assieme a tutti i suoi armigeri e partigiani. Dopo questa cattura, lo Scotti vincitore ordinò che gli si aprissero le porte della rocca, ma il guardiano si rifiutò recisamente. Giacomo, tenuto prigioniero, fu allora condotto sotto le mura affinché ordinasse al suo castellano di calare il ponte levatoio. Tuttavia né gli ordini né le suppliche riuscirono a smuovere quel testardo difensore, giustamente convinto che il padrone venisse forzato a invocare e a ordinare quello che in realtà non voleva. Il popolo dei terrazzani, già passato agli Scotti, esasperato dal prolungarsi di quei dialoghi fra sordi e testardi, smanioso di passare al saccheggio, «sdegnato della fallita speranza, assalì furente il Terzi e il tagliò per pezzi» raccontano, fredde e compunte, le cronache più sopra citate. Divenne a quel punto inesorabile la spoliazione dei beni, terre e castelli dei Terzi avviata in primavera con l’assassinio di Ottobono e proseguita nell’autunno con le uccisioni dei fratelli Giovanni e Giacomo. I Veneziani, loro protettori, nel corso del mese di ottobre si appropriarono per conto proprio di Torricella e di Sissa. In precedenza, altri amici dei Terzi, i Fieschi, non appena Giovanni Terzi tentò di implicare il cognato nell’assassinio del proprio suocero, avendo sposato quattro anni prima, nel 1405, Caterina, una figlia di Francesco Scotti. 250 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 132-133. 249 113 spento Ottobono e tramontato il suo potere, erano divenuti aspri avversari del suo casato, al quale tolsero i feudi di Tizzano e di Ballone. II castello di Belvedere rifiutò alla fine di novembre la soggezione ai Terzi, per darsi all’Estense. Il castellano di Colorno, dopo che furono catturati e uccisi Giacomo e Giovanni, si appropriò prestamente di Castelguelfo, ma dopo il 6 dicembre dovette trasferirne il presidio al più titolato Giovanni Scotti. Due giorni dopo Gabrino Fondulo consegnò a Rolando Pallavicino il castello di Borgo San Donnino. Quando tutti quei sommovimenti conobbero una tregua, ai sopravvissuti del lignaggio dei Terzi rimaneva solo una frazione dei possedimenti che avevano goduto all’apice della loro fortuna. Quel che loro restava non era tuttavia di trascurabile importanza: «Poche terre - osserva Muratori negli Annali - rimasero ai Terzi, tante però che bastarono a mantenerli in isplendore di nobiltà sino ai tempi di lui».251 Mentre di Giovanni Terzi non si conosce discendenza, del fratello Giacomo si sa che ebbe un figlio, Gioan o Giovan Filippo. Questi fu capitano d’armi nel solco della tradizione di famiglia, e affiancò Niccolò il Guerriero, figlio naturale di Ottobono, al servizio dei Visconti. 251 Ivi, p. 122 nota. 114 5. 5. Niccolò il Guerriero Guerriero Niccolò Terzi, Terzi, il Francesco Laurana, Sfilata di militi, , altorilievo a destra dell'arco trionfale di Castel Nuovo di a Francesco Laurana, Sfilata di militi, altorilievo nell’intradosso dell'arco trionfale di Castel Nuovo Napoli. sovrano amico amico di di Niccolò Niccolò ilil Guerriero, Guerriero, volle volle fosse fosse eretto eretto nel nel 1443. 1443. Napoli. Alfonso Alfonso V V d’Aragona, d’Aragona, sovrano Negli n Negli stessi stessi giorni giorni in in cui cui l’ultimo l’ultimo nato nato di di Ottobono, Ottobono, Niccolò Niccolò Carlo, Carlo, trovava nella fortezza trovava asilo asilo con con la la madre madre Francesca Francesca nella fortezza di di Guardasone, Guardasone, un un altro altro figlio figlio del del condottiero, condottiero, anch’egli anch’egli battezzato battezzato come come Niccolò, Niccolò, poco poco più più che che nelle adolescente, scendeva sul campo di battaglia iniziando una lunga carriera ne adolescente, scendeva sul campo di battaglia iniziando una lunga carriera nelle armi emulare le le imprese imprese degli degli strenui strenui capitani capitani della della sua sua casata, casata, armi che che lo lo porterà porterà aa emulare sino Guerriero. sino aa divenire divenire celebre celebre come come ilil Guerriero Guerriero. Niccolò Parmensi, nato nato Niccolò Guerriero Guerriero Terzi, Terzi, ovvero ovvero «Nicolao «Nicolao de de Terciis Terciis Parmensi, magnifici de magnifici et et potentis potentis domini domini domini dominiOttonis», Ottonis»,ebbe ebbeper permadre madredomina dominaCecilia Cecilia Lapergola, non soluta. . Egli Egli nacque verosimilm verosimilmente durante il penultimo lustro del Della Pergola, non soluta. nacque verosimilmente durante il penultimo lustro XIV secolo, per quanto si deduce dal dall’atto dall’atto di legittimazione, decisodeciso dal padre delVXIV secolo, per quanto si deduce di legittimazione, dal Ottobono e rogato dal notaio milanese, a quel Parma, padre Ottobono e rogato dal notaio milanese, a queltempo tempopodestà podestà di di Parma, Lanzarotto o Lancillotto Lancillotto Regna Regna ilil 25 1405. In In quel quel documento, documento, oltre oltre Lanzarotto o 25 novembre novembre 1405. al di Niccolò, Niccolò, si si indica indica la la sua sua età età approssimativa: approssimativa: «considerantes «considerantes al buon buon carattere carattere di 252 in in te te bone bone indolis indolis inditia inditia que que demonstras, demonstras, et et pubertatis pubertatis etate». etate».252 252 252 La presenta diffuse diffuse ferite ferite prodotte prodotte dal dal tempo tempo che che interpongono interpongono lacune lacune nel nel testo. testo. La pergamena pergamena presenta Regna de Di riportano alcuni alcuni passaggi passaggi essenziali: essenziali: «Vancarotus «Vancarotus Regna, Regna, Di seguito seguito si si riportano de Mediolano, Mediolano, filius filius quondam egregii viri viri domini domini Azonis Azonis […] […] comes comes sacri sacri Lataranensis Lataranensis palatii palatii […] […] quondam spectabilis spectabilis et et egregii dilecto viro Nicolao Nicolao de de Terciis Terciis Parmensi, Parmensi, nato nato magnifici magnifici et et potentis potentis domini domini dilecto nobis nobis spectabili spectabili viro domini ac felices felices ad ad vota vota successus successus […] […] Sane Sane cum cum nobilis m in domini Ottonis Ottonis […] […] salutem salutem in Domino, Domino, ac nobilis et et egregius vir Cabrinus Cabrinus de de Cernitoribus, Cernitoribus constitutus, Cernitoribus, civis egregius vir civis Parmensis, Parmensis, in in nostra nostra presentia presentia constitutus, procurator, et procuratorio procuratorio nomine nomine prelibati prelibati magnifici magnifici domini domini Ottonis Ottonis Otton patris patris tui, tui, et et ab ab eo eo procurator, et habens suprascripta et dicenda et et fatienda, fatienda, legiptimum legiptimum et et habens ad ad omnia omnia et et singula singula suprascripta et infrascripta infrascripta dicenda 115 115 Ottobono non era presente a quella solenne cerimonia, presieduta dal podestà, celebrata pubblicamente «in civitate Parme, sub lobia palatii habitationis domini potestatis Parme, sita versus plateam magnam, in vicinea Sancti Georgii». Aveva dato procura a rappresentarlo l’«egregius vir Cabrinus de Cernitoribus, civis Parmensis». Le formule giuridiche riportate assicuravano a Niccolò, figlio di Ottobono e della nubile Cecilia Della Pergola, lo status di figlio legittimo con pienezza di diritti e di doveri, «omnibus et singulis prerogativis, honoribus, utilitatibus, dignitatibus, et capacitatibus». Posto sullo stesso piano degli altri figli del signore di Parma e Reggio, che tale era Ottobono nel novembre 1405, Niccolò diveniva di fatto e di diritto il primogenito, e quindi il suo naturale erede. E tuttavia dopo che il padre fu assassinato, lo zio Giacomo Terzi fece proclamare successore l’ultimogenito: il piccolo Niccolò Carlo, di appena due anni e mezzo, figlio di Francesca e nipote di Carlo da Fogliano. Un’usurpazione forzata e maldestra che comunque sarebbe durata pochi giorni. Niccolò, il futuro Guerriero, apprese dell’assassinio del padre mentre stava a Parma presso Jacopo e Beltramo da Fogliano, fratelli di Carlo ma, diversamente da questi, aderenti agli Estensi. Appena avuta la tragica nuova, Niccolò si precipitò a indossare le armi e cavalcando a spron battuto raggiunse Carlo da Fogliano, suocero e influente consigliere del defunto genitore. Al suo fianco lo si trovò combattere sotto Montecchio. Stavano proseguendo, infatti, le operazioni militari con l’avanzata e il dilagare delle truppe di Niccolò III. Il signore di Ferrara aveva da poco tolto tatticamente il suo campo a Pannocchia, in prossimità di Parma, arretrando di qualche lega verso Reggio, abbastanza da illudere Giacomo e lasciargli intendere che fosse disposto a cedere alle pressioni suffitiens mandatum prout constat instrumento publico ipsius mandati, per eum coram nobis producto, ac rogato et scripto per Jacopinum de Porta n[ota]rium publicum Placentinum anno ab incarnatione Domini millesimo quadringentesimo quinto, indictione quartadecima, die vigesimo primo mensis novembris […] Et etiam tu Nicolaus supradictus, genitus ac natus de ipso d[…] domina Cecilia de Lapergola non soluta, nobis supplicavit, ac […] suprascripto Cabryno attento nomine presente, et tibi ad hec omnia et singula infr[ascripta] […] fatienda et contrahenda, seu celebranda consentiente, ac suam parabolam et consensum dante et prestante, pro te legitimare […] Considerantes in te bone indolis inditia que demonstras, et pubertatis etate […] activus esse conspiceris, et pro es unicum mare filiale solamen patri tuo, te prefatum Nicolaum presentem et acceptante[m] […] legitimum, et in omnibus habilem facimus, producimus, et creamus […] Et generaliter te omnibus et singulis prerogativis, honoribus, utilitatibus, dignitatibus, et capacitatibus […] habilitamus, et imperiali auctoritate qua fungimur communimus […] Et qui Nicolaus coram prefato domino comite flexis genibus constitutus […] iuravit ad sancta Dei evangelia corporaliter tactis scripturis, in manibus prefati domini comitis […] Acta fuerunt hec omnia et singula suprascripta anno a nativitate domini nostri Yhesu Christi milleximo quadringentesimo quinto, indictione tertiadecima, die vigexim[o] [q]uinto novembris, in civitate Parme, sub lobia palatii habitationis domini potestatis Parme, sita versus plateam magnam, in vicinea Sancti Georgii […] Et etiam presente Petro de Sacis, filio quondam domini Guidonis, cive et notario Parme, vicinie Sancte Marie Madalene, porte Chrispine, rogato se huic instrumento publico subscribere debere». Il documento della legittimazione è conservato in Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio privato Riva, Pergamene e carte della famiglia Canossa di Montalto, 1256-1796, Legittimazione di Niccolò Terzi, Parma 25 novembre 1405. 116 degli ambasciatori inviati dalla Repubblica di Venezia che manteneva i Terzi sotto la sua protezione, comunque e contro tutti. Pezzana, nella sua Storia della città di Parma, osserva che Giacomo Terzi, «entrato forse in qualche speranza di raddrizzare le cose, pensò tosto ad inseguire 1’esercito nemico per attaccarlo da più parti. Mandò nello stesso giorno 17 giugno Giovanni Malvicino con trecento cavalli a Guardasone; e Giovanni Terzi, Carlo da Fogliano e il nostro Niccolò Guerriero con 600 lance a Montecchio; ed ordinò ancora che 100 altre si portassero a Pariano per infestare il retroguardo del nemico».253 In quella mischia lo Sforza era al comando delle forze estensi che prevalsero e costrinsero alla rotta quelle dei Terzi. Niccolò Guererio filio Othonis, conosciuta la prima sconfitta, trovò riparo entro la cinta di Porta Nuova di Parma,254 ultimo baluardo ove ancora resistevano i partigiani di Giacomo. Ma anche quel fortilizio si arrese all’avanzata degli Estensi un mese dopo, il 17 luglio, segnando con l’entrata a Parma del marchese Niccolò III d’Este, acclamato dal popolo, il definitivo tramonto della signoria dei Terzi. La militanza al servizio di Filippo Maria Visconti Dopo la battaglia di Montecchio del giugno 1409 non si hanno più notizie del giovanissimo Niccolò Terzi. Lo si ritrova anni più tardi quale capitano in armi al soldo di Filippo Maria Visconti, strenuo combattente agli stipendi del casato milanese nel solco della tradizionale militanza incarnata dal padre Ottobono e dal nonno Niccolò il Vecchio. Ma al duca di Milano egli non si limitò ad assicurare il suo talento militare. Filippo Maria, con il quale entrò presto in confidenza e «al quale fu sempre molto caro», ne apprezzò forse, ben oltre il valore militare, i talenti di consigliere e di diplomatico perspicace. Lo utilizzò in missioni impegnative, ad esempio presso Sigismondo re dei Romani, quando questi discese in Lombardia, tappa del viaggio verso Roma per l’incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero. Lo volle quindi nel suo Consiglio Segreto, nella più esclusiva e riservata cerchia di corte, «perocché egli da pochi e poche volte si lasciava avvicinare».255 A ben guardare, gli esiti militari di Niccolò Terzi che ci consegnano le cronache delle tante battaglie cui partecipò, è ritmato non da vittorie sonore ma piuttosto da secche sconfitte, da catture e imprigionamenti e conseguenti liberazioni. Niccolò non vanta un curriculum militare così glorioso come farebbe supporre il titolo guerresco che lo fregia, mentre per contro appaiono più ragguardevoli i servizi che, negli ambiti della corte e diplomatici, svolse, più maturo in età, presso il Visconti, esponente della fazione braccesca e quindi A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 122. Qui si trovava ancora il 23 di luglio, secondo Ludovico Cavitelli: «Guererio filio Othonis in arce Parmae obsesso»: L. CAVITELLI, Cremonen. Annales. Quibus res vbique gestas memorabiles à patriae suae origine vsque ad annum salutis 1583. breuiter ille complexus est, Cremonae 1588, p. 149. 255 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 264. 253 254 117 anti-sforzesca; poi come delegato dei Reggitori la Repubblica Ambrosiana e infine, in esilio e al tramonto della sua lunga carriera, come camerlengo presso la corte di Ludovico III Gonzaga, marchese di Mantova. Niccolò il Guerriero era un coetaneo di Filippo Maria e ne accompagnò, servendolo, la vicenda storica sin dal tempo in cui questi, salito al potere nel 1412, morti il fratello e l’ingombrante Facino Cane, uscì dall’ombra per divenire signore di Milano. Il Visconti si stava confrontando con un’eredità disastrata, ove imperavano ancora le dinamiche della dissoluzione dello Stato conseguenti alla morte del padre Gian Galeazzo avvenuta dieci anni prima. Filippo Maria seppe reagire con vigore concretizzando presto una politica di riedificazione dei domini paterni. Il suo programma ambizioso di espansione fu però ridimensionato, e in gran parte fallì, proprio per effetto del suo iniziale successo, poiché provocò la reazione inquieta degli altri forti stati regionali nell’Italia settentrionale e centrale. Per contenere l’espansionismo visconteo, le repubbliche di Venezia e di Firenze si allearono ripetutamente, provocando lungo tutta la prima metà del secolo un confronto serrato e una serie di guerre che portarono, tra l’altro, alla decisiva battaglia di Maclodio, combattuta nel 1427, che consentì alla Serenissima di estendere i propri domini di terra fino a Bergamo. Filippo Maria aveva sposato Beatrice di Tenda, vedova di Facino Cane, conte di Pavia, impadronendosi in tal modo dei vasti possessi territoriali che questi aveva accumulato e assicurandosi la lealtà delle sue milizie, essenziali per la difesa del potere e del Ducato. Riorganizzò il proprio esercito affidandone alternativamente il comando supremo ai migliori condottieri: Francesco Bussone, celebre come il Carmagnola, Francesco Sforza, Niccolò Piccinino. Contemporaneamente poteva contare sull’eccellenza di capitani come Guido Torelli e Niccolò il Guerriero, ai quali s’aggiungevano i figli del Piccinino. Il Terzi si distinse certamente, salvo una breve eclisse, per fedeltà e costanza al servizio del duca di Milano, sullo sfondo dell’incessante andirivieni, fra il fronte bellico visconteo e quello nemico, di supremi comandanti mercenari: una disinvolta alternanza e scambi di ruoli che vide per protagonisti soprattutto il Carmagnola e Francesco Sforza. L’ultimo dei Visconti utilizzò a largo raggio la potenza delle sue armate e il valore esperto dei condottieri di volta in volta da lui scelti per guidarle verso l’attuazione dei suoi programmi iniziali e conseguenti: consolidare e difendere il nucleo originale dello Stato visconteo, domare le città lombarde ribelli e le risse nei feudi, tentare di ripristinare la struttura geo-politica e le funzionalità del Ducato.256 256 Seppe coltivare e ottenere, finchè le sue ambizioni si mantennero contenute, la neutralità delle repubbliche di Venezia, Firenze, Genova e dei Savoia, che gli consentì di riprendersi Como, Lodi, Piacenza, Cremona, Bergamo e Brescia e di costringere Niccolò III a cedergli Parma e Reggio (febbraio 1420). Ma quando Milano intraprese una politica espansionistica, anche alla ricerca di sbocchi per i mercati dello Stato, e impegnò i suoi capitani d’armi su tutti i fronti, dall’Ossola a Genova, allora le reazioni militari di Venezia e di Firenze, in lega con altri avversari anti-viscontei, furono pronte, accanite e reiterate. Ogni guerra che si infiammava sul 118 Nella primavera del 1416 le milizie ducali diedero inizio a operazioni militari contro quelle dell’Estense che continuava a imperversare in quelli che erano stati i domini viscontei nel Parmense e nel Reggiano. Niccolò Terzi e Guido Torelli, già stimati quali «capitani egregi», combattevano sotto il comando generale del Carmagnola. 257 Nel 1417 il Guerriero, sempre affiancando il Torelli, era al comando delle truppe di cavalleria accorpate a quelle proprie del duca, alla sua guardia del corpo e alle divisioni delle famose Lance spezzate. Niccolò condusse anche le compagnie a cavallo che si erano battute sotto il comando del padre Ottobono.258 Di lui, Nicolaus Tertius Othonis filius, e di Guido Torelli, condottieri di Filippo Maria Visconti, Giulini scrisse che erano illustri e «tutti peraltro così magnifici, che da alcun altro in Italia non venivano superati».259 Agli inizi del marzo 1420 il Terzi, con Torelli e Antonio Pallavicino, tentarono di riconquistare Parma al duca di Milano, città che sarebbe comunque ritornata al Visconti nel corso di quell’anno, non per virtù delle armi ma per 257 258 259 fronte tosco-veneto si consumò in un arcipelago di scontri o battaglie dai nomi più o meno noti, come Zagonara nel 1424, la decisiva Maclodio nel 1427, Anghiari nel 1440, e fu interrotta da qualche pace precaria come quelle di Ferrara, del 1428 e 1433, e di Cavriana del 1441. «Guido Torelli e Nicolò Guerriero (naturale di Ottone Terzi) capitani egregi uscirono sotto il comando di Francesco Carmagnola generale, e nella primavera presero Sarmato, Corano, la Motta, posero campo su quel degli Arcelli, si prepararono a prendere la città. Dice la cronaca avere avuto 1’ esercito una consistenza di venticinque mila fanti, e di quattrocento cavalli, ma io credo che fossevi errore di cifra e che i fanti si abbiano a tenere per dieci volte meno». Cfr. L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, cit., p. 243. Un’importante caratteristica che si deve rilevare nella nuova condotta sta nell’inquadramento dei combattenti. Mentre per il passato il loro impiego era stagionale e temporaneo, intervallato dal succedersi di guerre, armistizi, paci e conflitti, con il compenso reperito troppo spesso in maniera devastante, ricorrendo sistematicamente alla depredazione dei territori attraversati o occupati, ora a quelle compagnie si assicurava uno stipendio ducale che, se non lo escludeva assolutamente, quantomeno riduceva l’indispensabilità del ricorso ai saccheggi. Questa belligeranza professionalizzata sollevava da uno dei più gravosi problemi di gestione della compagnia, all’origine dei peggiori comportamenti imputati ai condottieri, trasferendo il mantenimento delle truppe prevalentemente a carico delle casse ducali. Citando il cronista milanese Andrea Biglia, Giorgio Giulini così scrive: «Tutte queste erano truppe di Cavalleria proprie e particolari del Duca; le altre erano assoldate co’ loro Generali. Ceteri jam conduċtitii erant, quos tamen ita demum ſibi devinxit, ut nemo pene Ductorum secessise inveniatur. Contraxit ex Apulia Fabricium, qui cum Ladislao ductor fuerat. Accessit Guido Torellus, qui etiam cum Patre quondam acies ductaverat. Nicolaus Tertius Othonis Filius aliquot turmas habens paterni Equitatus, tamquam in perpetuum stipendium successit. Sic alii ignotiores inter alas dispositi, ut nulli in Italia conspectiores essent. Il resto dunque della Cavalleria Ducale era composto di quelle Compagnie, che varj Capitani avevano sotto di sè, e che si assoldavano da Principi belligeranti secondo le occasioni; de quali Capitani, quelli che vennero al servigio di Filippo Maria rare volte da Lui si dipartirono mai più. Tre più illustri ne ha nominati l’ Autore; oltre ad altri ch’erano men noti, tutti peraltro così magnifici, che da alcun altro in Italia non venivano superati. Il Biglia parla de’ tempi, ne’ quali il Carmagnola era generalissimo della nostra armata». Cfr. G. GIULINI, Continuazione delle memorie della città di Milano ne’ secoli bassi, III, Milano 1771, pp. 286-287. 119 denaro.260 Quell’azione militare che, valutata la consistenza delle forze scese in campo, sembra essere stata più che altro un’esibizione dimostrativa, suscitò comunque grande soddisfazione nel duca, che il 13 marzo premiò Torelli investendolo di Guastalla, Montechiarugolo e di tutti i privilegi già goduti nel 1406. A fine agosto, ancora Torelli e Terzi, alla testa di 600 lance, si impadronirono, assieme a Cecco da Montagnana, di Borgo S. Donnino per dilagare poi nel contado lungo lo Stirone sino a Castelnuovo e raggiungere le terre prossime a Parma. L’anno seguente il valore militare del giovane condottiero Niccolò Terzi, comprovato sul campo, incoraggiò la presentazione di nuove istanze affinché egli fosse ricompensato con il conferimento dei feudi tolti alla sua famiglia dopo l’assassinio del padre, il signore di Parma e Reggio. Una delle richieste riguardava la proprietà di Castelguelfo, la Torre dei Marchesi così rinominata da Ottobono: il podestà competente a dirimere la questione fu sollecitato pressantemente a decidere con giustizia ed equità. Il duca, in data 20 gennaio, gli ordinò di convocare le parti in causa, i Terzi e i Sanvitale, di informarsi con diligenza e intelligenza sull’oggetto del contendere. Filippo Maria, nello stesso tempo, comandò di acquisire precauzionalmente il possesso della rocca e delle relative pertinenze, a suo nome, per prevenire qualsiasi incidente in attesa della deliberazione definitiva. Peraltro, quando poi si arrivò a sentenza, il 12 di agosto, il duca decretò che quel fortilizio, con il territorio di pertinenza, gli apparteneva senz’altro. Conseguentemente, intimò che riguardo agli altri beni e fondi allodiali il podestà giudicasse «sommariamente, semplicemente, senza strepito e figura di giudizio, senza ammettere cavilli e frivole eccezioni», ma doveva assolutamente astenersi dal menzionare le terre e le fortificazioni delle quali il duca si era impadronito.261 Alla battaglia di Zagonara Agli inizi dell’estate del 1424, Filippo Maria Visconti, in attesa di calare sull’Italia centrale, stava ammassando un esercito, forte di 4000 cavalieri e di un pari numero di fanti sotto il comando di Angelo Della Pergola, in Romagna. 260 261 Niccolò III d’Este fu ospite di Filippo Maria il 13 novembre a Milano, ove, tra l’altro, patteggiò il versamento differito di qualche mese di 28.000 fiorini. L’Estense cedette in quell’incontro anche parte del Reggiano, mentre conservò la città di Reggio a solo titolo di vassallaggio. Non si conosce quale fu il vantaggio che i Terzi trassero dalla decisione ducale. Tuttavia, fu forse perché istruito da quella defatigante esperienza che Niccolò per un’altra successiva pratica temendo anche qui ritardi, remore o liti, ottenne che si ordinasse perentoriamente di arrivare ad una decisione sollecita. Fu quando, in accordo con il fratello Giorgio, mediante formale ricorso al duca chiese la restituzione di diversi poderi. Il duca dopo aver chiesto il 18 febbraio di indagare le ragioni dei chiedenti, il 10 marzo ordinò al podestà di convocare i contendenti e di chiudere con sentenza entro 20 giorni sommariamente e senza cavillazioni, assegnando il possesso dei poderi ai due fratelli Terzi, se loro fossero appartenuti per diritto. 120 Niccolò, alla testa di 400 cavalli, assieme all’immancabile Guido Torelli che ne guidava altrettanti, partecipò il 28 luglio alla battaglia di Zagonara combattuta dalle truppe viscontee contro quelle della Repubblica di Firenze. La cavalleria fiorentina, forte di ottomila unità agli ordini di Carlo I Malatesta, signore di Rimini, dopo avere preso l’iniziativa dell’attacco subì una pesante sconfitta. Il Malatesta venne catturato con 5000 tra cavalieri e fanti e il castello di Zagonara fu spianato. In Liguria contro Alfonso d’Aragona e i Fiorentini L’anno seguente, nella primavera del 1425, il capitano Niccolò Terzi fu inviato in Liguria al comando di tre mila cavalieri e cinque mila fanti.262 Genova, dominio dei Visconti da quasi un lustro, era in quel tempo minacciata da Alfonso d’Aragona, alleato alla Repubblica di Firenze e del vecchio doge Tommaso di Campofregoso, esiliato nella Lunigiana come signore di Sarzana. Una flotta di ventiquattro galee, sotto il comando di Pietro d’Aragona, il minore dei fratelli di Alfonso, incrociava ostile davanti a Genova il dieci di aprile. Sbarcò lungo la costa uomini armati, cavalieri e fanteria, che occuparono Portofino, Sestri, Moneglia, arruolando rinforzi. Filippo Maria Visconti reagì per mare e per terra. Ordinò ai suoi capitani che dagli acquartieramenti di Parma, Reggio, Alessandria e Tortona portassero rifornimenti a Genova. Fece approntare diciotto galee e altre navi di maggiori dimensioni, servite da galeotti e truppe di sicura fedeltà prelevate in Lombardia,263 messe sotto il comando di Antonio Doria. Niccolò Terzi, già allora conosciuto come «il Guerriero», mosse da Piacenza al comando di forze viscontee raccogliticce, reclutate alla meglio un po’ dovunque, entrò in Liguria per affrontare nella piana di Sestri Levante quelle dei Fiorentini e dei ribelli liguri del Fregoso, che qui si erano concentrate agli ordini di Gian Luigi Fieschi. Mentre il Doria salpava per intervenire in appoggio alle truppe del Terzi, questi le lanciava all’attacco, impegnandole in scontri che si ripeterono senza esito risolutivo sino a notte.264 Il giorno seguente ripresero i combattimenti, nella vana attesa del soccorso della flotta amica. Sull’orizzonte comparvero invece le navi con le insegne di Pietro d’Aragona che, vinta la squadra del Doria, presero d’assalto le forze viscontee con le 262 263 264 Secondo il Corio, i cavalieri erano in numero molto inferiore: «Filippo ordinò l’armata a Genova, contra i Fregosi mandò Niccolò Terzo figliuolo di Otto da Parma, detto il Guerriero con cinque mila pedoni, et trecento cavalli». Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit, p. 754. «E perch’essa si compia con maggior lena, manda a supplire a’ remiganti gli abitatori di lunghesso il Po, bene esperti del fiume»: J. BRACELLI, Della guerra di Spagna, I, versione di F. Alizeri, Genova 1856, p 93. Quale fosse la qualità delle truppe in qualche modo messe a disposizione di Niccolò il Guerriero lo precisa il cronista Bracelli: «Ora avendo il Terzi ordinate a campo aperto le schiere, i nemici non ricusarono il cimento, dacchè i mercenari avvezzi com’ erano al combattere, quantunque di numero assai minori, agevolmente si ridean di quelle truppe spigolate in fretta da diversi paesi, nè al capitano conosciute, ne lui conoscenti». Cfr. ivi, p. 95. 121 proprie artiglierie e balestre. Il cronista coevo sarzanese Jacopo Bracelli, tradotto dal latino, racconta così quel che successe: Come il Terzi mise in campo le sue genti, diedero queste chiari indizi di paura: tantoché potea muoverle appena d’un passo, sebbene quasi fuor di vista al nemico. Quando poi corse nuova che giù per Taro e Pontremoli scendea Giovan Luigi Fieschi con iscelta gioventù, dieder tosto le spalle innanzi di trarre saetta, precipitandosi per luoghi non segnati d’alcun sentiero; per guisa che i nemici temendo non covassero agguati sotto quella strana paura, fermato il passo, sostettero alquanto. Ma tosto chè dileguossi il sospetto, i cavalieri non solo, ma i pedoni e i soldati navali inseguendo i fuggiaschi, e calpestando saette, scudi, e gran numero d’ armi passo passo gittate per via, pochi ne uccisero, molti n’ebber cattivi.265 Gli ammazzati furono più di settecento, oltre mille duecento i prigionieri tra cavalieri e fanti. Niccolò, minacciato di finire nella morsa tra la flotta aragonese e gli armati del Fieschi e dei Fiorentini, raccolse le sue forze migliori e riparò a Genova. Il conflitto fra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia Il Carmagnola, nel corso della nuova guerra che nel 1427 contrappose i Visconti alla Serenissima per il controllo delle rive del Mincio, tra il lago di Garda e la foce sul Po, e delle strade che traversavano quella regione, tentò invano di impadronirsi di Montichiari. Il 29 maggio riposizionò il suo esercito di 30 mila armati per dare l’assalto, nell’indomani, al castello di Gottolengo, che si ergeva a guardia di un incrocio viario strategico tra Mantova, Cremona e Brescia. Ma nel corso della notte Niccolò Piccinino, reduce da una cocente sconfitta a Brescello, riuscì a introdursi in quella rocca, ove si erano via via raccolte le truppe viscontee guidate dai più valorosi capitani. Tra questi, anch’egli giunto senza troppo rumore, c’era Niccolò Terzi il Guerriero, al comando di settecento cavalieri. Il Carmagnola aveva attendato le sue truppe nei paraggi, senza preoccuparsi di trinceramenti o di altre protezioni difensive. All’improvviso, egli si vide invaso il campo dalla cavalleria viscontea, uscita di furia dal castello. La sortita dei ducali mise in rotta rovinosa le truppe venete. In questa fuga si contarono pochi uccisi, eppure ben più di mille e cinquecento nemici furono catturati dal Terzi. Sempre durante quella guerra, esattamente tre mesi dopo, il 29 di agosto, dei galeoni veneti, risalito il Po fino alla foce del Taro, sbarcarono degli armati che si dedicarono pacificamente alla vendemmia nelle terre e nelle ville circostanti caricando poi a bordo del loro naviglio il raccolto. L’armata fluviale veneta, dopo aver sconfitto quella ducale nei giorni precedenti e aver ancorati alcuni galeoni a sentinella della foce del torrente 265 Ivi, p. 97. 122 Parma, era riuscita a prendere il controllo del corso del Po. I Veneziani tentarono anche di prender terra a Cremona, ma il condottiero Cristoforo da Lavello, con le poche forze di cui disponeva, ne aveva fatto strage, specie degli Schiavoni, pochi dei quali si salvarono tornando a bordo del naviglio, malgrado, scrivono le cronache, fossero ben armati di balestre e scoppietti. A quel punto, gli equipaggi veneti sconfitti si rifugiarono precipitosamente, con le loro navi, a Pavia. Quando corsero di nuovo a Cremona, per tentare la rivincita, furono affrontati e vinti dalle armi di Niccolò il Guerriero. Seguì a quelli scontri la battaglia di Maclodio, ben più importante per le vaste e decisive conseguenze politiche. Combattuta il 12 ottobre 1427, vide l’armata ducale milanese guidata dal Piccinino sconfitta dalle forze di Venezia e Firenze sotto il comando tattico del Carmagnola. La memoranda disfatta consigliò il Visconti, isolato e ormai preda degli avversari, di cercare un accordo con il duca di Savoia. Il 2 dicembre si concluse una pace fra Amedeo VIII e Filippo Maria, che s’impegnò a sposarne la figlia, Maria di Savoia, e a cedergli Vercelli. A questa buona nuova per i Milanesi si aggiunse il 28 quella che riferiva come i Genovesi fedeli al duca avessero sconfitto i fuorusciti capitanati da Tommaso di Campofregoso. Una vittoria guastata, tuttavia, dalla sconfitta subita da Francesco Sforza, posto sotto attacco da Abramo, fratello di Tommaso, il quale, informato del sopraggiungere in Val di Scrivia delle forze viscontee, inviate dal duca con l’ordine di eliminare le ultime sacche di resistenza dei ribelli liguri, aveva teso loro un’imboscata, assalendole improvvisamente con l’ausilio di un gran numero di suoi villici e riuscendo a porle in fuga. Questo infortunio bellico fu strumentalizzato dai nemici a corte di Francesco Sforza. Sostiene il Corio che tra coloro che portarono accuse o insinuarono calunnie vi fossero Alberico Novello da Barbiano e Niccolò Terzi, mai dimentico, quest’ultimo, che l’accusato era il figlio del vile assassino del proprio genitore. Messo sotto accusa dal sospettoso Filippo Maria, Francesco Sforza fu quindi relegato nel Castello di Mortara, e corse il rischio di una condanna a morte. Lo salvò, da quella fine immeritata e ingloriosa, l’intervento del prode e leale condottiero Guido Torelli, che solo due anni più tardi riuscirà a riportarlo nell’amicizia e nella grazia del duca Filippo Maria. Luogotenente del capitano generale Niccolò Piccinino A novembre del 1430 il Guerriero era in Toscana con Niccolò Piccinino. Il 2 dicembre, agli ordini di quest’ultimo, egli guidava la prima schiera, forte di 400 cavalieri, nella battaglia del Serchio. Nel gennaio dell’anno successivo il Piccinino, nominato dal duca capitano generale dei Genovesi, avendo come vicario militare il Guerriero, aveva posto i suoi acquartieramenti a Pontremoli. Il 29 gennaio inviò d’urgenza al referendario di Parma, Antonio Simone da Pavia, l’ordine di fornire a mastro 123 Antonio da Felino il materiale (legni, funi, canapi, chiodi) e tutti gli attrezzi indispensabili per costruire due briccole, macchine da assedio per catapultare pietre. La richiesta perentoria era caricata di minacce pesanti al referendario qualora non avesse provveduto alla consegna con tutta la premura che si esigeva. Queste raccomandazioni ebbero evidentemente il loro effetto, perché già il 6 febbraio Niccolò Terzi poteva rassicurare il referendario confermando l’arrivo di quanto imperiosamente richiesto. In aprile il Piccinino e il suo vice Niccolò il Guerriero conquistarono Pontremoli. Il giorno 27 il comandante in campo diede l’ordine al referendario a Parma di consegnare «senza eccezione veruna» al Terzi, che li doveva conservare fino a conclusione della guerra (in attesa di una restituzione promessa a Gian Luigi Fieschi) i castelli di Marzolara, di Calestano e di Vigolone, in val Baganza, con tutte le loro pertinenze, possessioni e rendite. In quell’anno Filippo Maria Visconti, volendo dimostrare la propria riconoscenza per il valore e la fedeltà dimostratagli, remunerò Niccolò Terzi con i feudi di Guardasone e Montelungo. «Di più ancora gli fece dono di Colorno, come si tragge assai chiaramente da Giovanni Simonetta».266 La discesa in Italia di re Sigismondo La venuta di Sigismondo era fervidamente invocata dal duca di Milano, il quale, specie dopo la battaglia di Maclodio, tenuto costantemente sotto minaccia dalla Repubblica di Venezia e da quella di Firenze, anche a motivo dell’annessione di Lucca, avvertiva il proprio isolamento. Filippo Maria Visconti insisteva perché l’imperatore, non ancora incoronato, scendesse in Italia o quantomeno vi mandasse il suo esercito, offrendosi di approntargli navi a Genova e promettendogli ogni aiuto per il suo viaggio.267 Nel 1431 Sigismondo di Lussemburgo rispose finalmente alle attese del duca di Milano. E nel Ducato avrebbe a lungo indugiato, quale ospite sempre meno gradito e anzi mal sopportato, prima di ripartire per Roma, raggiunta nel 1433 dopo un’altra, lunga, permanenza a Siena. Quando, alla fine del 1430, giunsero a Milano gli ambasciatori imperiali per preparare il viaggio del sovrano, venne incaricato di presiedere alla loro accoglienza l’ambasciatore ducale Franchino Castiglioni, eminente funzionario e consigliere che aveva sposato in prime nozze Caterina Terzi, figlia di Ottobono e quindi sorellastra di Niccolò il Guerriero. Peraltro anche Niccolò, allorché Sigismondo con la sua corte approdò in terra lombarda, si trovò sempre più coinvolto, per disposizione del duca, nell’organizzazione del soggiorno reale. Non solo: dalle funzioni di accompagnatore, con ruoli organizzativi e decorativi, passò ben presto a incarichi più delicati: ambascerie presso Sua 266 267 I. AFFÒ, Memorie storiche di Colorno, Parma 1800, pp. 30-31. «Se non puoteste venire se no cum dece cavalli, doveristi voler venire, benché tanto più favore haveresti quando vegnereti più forte»: L. OSIO (a cura di), Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi, III, Milano 1872, n. CCLXXXV, p. 593. 124 Maestà, delle quali fu esplicitamente incaricato dal duca Filippo Maria, pronto a cogliere le opportunità offerte dalla confidenza e stima crescente che il Terzi si sarebbe guadagnata presso il re. Fin dalle fasi preparatorie dell’itinerario, e poi per la permanenza in terra lombarda del sovrano, si presentarono problemi di costi per l’erario che il duca, recalcitrante, monitorava in prima persona, dando disposizioni minute per contenere il più possibile quegli esborsi ingenti. Nel gennaio del 1431 Filippo Maria fece valutare a Franchino Castiglioni, al fratello di questi, Guarniero,268 e a Nicolò Guerrero le richieste ed esigenze di Sigismondo e della corte imperiale, manifestate in vista del viaggio in Italia. Il 28 luglio sempre Franchino, ancora con Niccolò, nell’imminenza dell’arrivo del re, dovette occuparsi per ordine ducale di rinnovare gli accordi organizzativi con il monarca. Il 20 novembre 1431, scrivendo a Niccolò Piccinino a proposito delle risposte da fornire a un memoriale presentato dagli ambasciatori di Sigismondo, il Visconti chiamò a testimone il Terzi: «Per tanto siamo contenti ch’a li dicti ambassiatori respondi per nostra parte in quella forma che dicono le dicte resposte, como etiandio te dirà Nicolò Guerrero che s’è trovato presente, quando ordinassimo queste resposti».269 In data 24 novembre il duca ingiunse al Piccinino, a Gaspare Visconti, al proprio Consiglio, al conte Alberico da Barbiano e a Nicolao Guerrerio di accordarsi con il cardinale piacentino Branda da Castiglione in merito al cerimoniale e agli onori da rendere al re dei Romani.270 Cinque giorni dopo, il 29 novembre, Filippo Maria era già inquieto per il protrarsi della permanenza del re Sigismondo nel suo Ducato e impose al Piccinino di presentarsi al re allo scopo di incitarlo a partire verso Roma.271 La sollecitazione era accompagnata dalla promessa di scortarlo con un buon numero di milizie agli ordini del Piccinino o di Francesco Sforza. Infine, il duca aggiunse: «E de tutte queste cosse volemo ne partecipi principalmente cum monsignore de Piasenza et le Guarniero nel 1426 aveva abbandonato l’insegnamento del diritto per la carriera diplomatica, esercitata prestigiosamente a fianco del fratello Franchino al trentennale servizio del duca di Milano. 269 La missiva continua con il duca che comincia a spazientirsi per le richieste esose degli ambasciatori: «Et ben te avisamo che quando ordinassimo se gli desse quelli tria milia ducati, quali hano ultimamente recevuto, li fecimo dire che per le altre nostre graveze non poressemo più portare questo carico. Et ancora te recordamo che, quantunca li habiamo dati queli denari gli habiamo dati fino a qui, non eravamo tenuti a darli, anci li havemo dati pe’ nostra cortesia, et ancora faressemo el simile de buona vogla, havendo l’abelitate. Concludendo, tu sei su el facto, et poi vedere la possibilità nostra; respondeli como te pare, che nui, siando tanto gravati d’altro spese quanto siamo, non sapiamo che dire. Dat. Abiate, die XX novembris millesimo quadrìngentesimo trigesimo primo. In castro nostro porte Jovis Mediolani, portentur celeriter. Cito Cito Cito ». Ivi, n. XLIX, cit., p. 40. 270 Cfr. ivi, n. XLII, pp. 42-43. 271 È da dire che Filippo Maria Visconti non volle partecipare ad alcuna delle solenni cerimonie previste per il viaggio di Sigismondo, preferendo starsene ritirato nel castello di Abbiategrasso per tutto il tempo in cui il re rimase a Milano. 268 125 drizi cum suo consiglio, et etiandio siamo contenti ne partecipi cum el conte Albrico et cum Nicolò Guerrero».272 Allorché, il 17 dicembre, Sigismondo lasciò la città, il duca dispose che alcune illustri personalità, fra le quali l’arcivescovo, Guarniero Castiglioni e Niccolò Terzi il Guerriero, lo accompagnassero a Piacenza, la tappa successiva. Al Castiglioni, che aveva tentato goffamente di schivare questa incombenza, il duca irritato impose l’immediata partenza assieme agli altri prescelti, in quanto la sua dignità di guardasigilli maggiore gli imponeva la presenza presso il re. Il 25 gennaio 1432 il duca di Milano ingiungeva al conte Alberico e a Niccolao Guerrerio di raccomandarsi al re affinché si degnasse di ricevere un ambasciatore, auspicando che questo in qualche modo inducesse Sua Maestà alla partenza: «E venuto qui uno mandato per lo principe de Salerno […] dicendo che tuti sono grandemente alegrati per la venuta del serenìssimo re de’ Romani e desiderano sopra tuto che vada a Roma et gli stia».273 Il 3 febbraio, di fronte all’inerzia di Sigismondo, si cercò di facilitarne la partenza promuovendo un’iniziativa in grado di propiziargli la simpatia di Siena, ove egli doveva far tappa nel tragitto verso Roma. Filippo Maria scrisse perciò ai suoi rappresentanti diplomatici, Niccolao Guerrerio e il da Barbiano, perché inducessero Sua Maestà a inviare un messaggio ai Senesi con il fine di convincerli dei vantaggi ridondanti che un suo soggiorno avrebbe prodotto per la loro Repubblica. Doveva essere, quello scritto, «una lettera gratiosa per la quale li dia a vedere che il suo andare in Toscana sia per bene et per acressimento dello Stato de quella citate e de la sua republica, e per desfactione de l’inimici suoi, e per la dicta littera confortasse li dicti signori et citadini Senesi «E perché se poria dire: Como poterà andare el re a Roma? volemo dirte el pensero che faceriamo. Pariria a nuy che poteressemo mandare cum luy o ti cum la compagnia toa, o el conte Francisco cum la soa, e fasiamo nostro cuncto che, andendo un de vuy, venereste ad essere una gran gente; prima, siandoli uno de vuy, se porta mettere per MD cavalli, Bernardino per MCC, el conte Alberico per DC, Ludovico Columna per CCCC, le lance spezate per mille; e poriase mandare Arasmino per governarle, el signor Hestor per CCCL, Bartholameo da Gualdo et Cenapello (?) per D. […] Nondimanco, Nicolò, non guardare al dire nostro. Nuy havemo voluto aprirte el pensero nostro, perché ancora ti sapii et possi meglio pensare sopra tute, et avisarne del parere tuo de parte in parte. E parendote che questo nostro pensero o tute o in parte se debia communicare cum la Majestà del re, siamo contenti lo commnnichi in quella forma te parirà; ma che se prenda subito partito a quello sia da fare e senza expectare altro nostro rasonamento se metta ad effecto, et la serenità soa se metta a l’opera, perchè nuy el visiteremo bene puoy inance che se parta da Piasenza. E de tutte queste cosse volemo ne partecipi principalmente cum monsignore de Piasenza et le drizi cum suo consiglio, et etiandio siamo contenti ne partecipi cum el conte Albrico et cum Nicolò Guerrero». Cfr. ivi, n. LIV, pp. 44-47. 273 «Dicendo che, siando già tuti sulevati, molto dubitano che non vada, o che, andendo, poi che loro haverano saltato, la Maiestà. soa non gli abandoni e lassi in mano de l’inimici et per tanto volemo che, venendo a Piasenza el dicto mandato lo quale se chiama Antonello da Sancto Christophoro, gli diati et faciati dare per la Maiestà del re quelle bono parole et speranze che a vui parirà, confortando el dicto principe et li altri a fare de le cosse per la Maiestà del re et per nui, avisandovi chel dicto mandato senza fallo venerà. a trovare el re, ma vole stare secreto et è venuto sconossuto per non dare suspecto al Papa. Mediolani, XXV januarii 1432». Ivi, n. LXV, pp. 55-56. 272 126 a stare de bona vogla et allegri con quelle miglore parole se potesse dire». E qui il duca incise una frase che consente di misurare la sua corrucciata impazienza: «Scrivendoli etiandio quanto anderà presto, perché li emuli dicono non anderà fino a quatro mesi».274 Dopo questa data, Niccolò Terzi sembra essere divenuto il referente preferito e lo strumento ideale per svolgere informali missioni diplomatiche per conto di Filippo Maria presso il re Sigismondo dimorante a Reggio. Il 24 febbraio, ad esempio, il duca incaricò Nicolao Guerrerio di riferire al re che, riguardo alle proposte di pace avanzate dalla Repubblica di Venezia, («nobiscum de pace tractare in civitate Ferrarie per manus et medium illustris marchionis Estensis») egli avrebbe spedito i suoi oratori a Ferrara. 275 La lettera ufficiale di istruzioni, in latino, da esibire al futuro imperatore, era accompagnata da un’altra, esplicativa, riservata al solo Niccolò in cui il duca forniva più dettagliate istruzioni.276 Altro esempio della fiducia e del credito che Niccolò godeva presso Sigismondo è la lettera con cui un preoccupato Filippo Maria, in data 12 marzo, gli chiedeva di rivolgersi al sovrano perché questi, a sua volta, autorevolmente esortasse e convincesse il nobile senese Antonio Petrucci 277 a non lasciare i preziosi servizi che assicurava al Ducato di Milano e a rifiutare quelli del pontefice.278 E ancora, solo due giorni dopo, il 14 marzo, il duca di Milano Ivi, n. LXVII, p. 57. «Scrivemo in questa forma che tu vedi perchè possi monstrare a la Maestà del re le littere cum dire che hai gran piacere se accordamo in quella propria opinione che ha la Serenità sua: Che Venetiani cercano pratica cum lui et cum nui per mettere divisione, ma che pur è ben mandar li nostri a Ferrara e fare venire li suoi a Rezo per li rispecti che scrivemo. E non monstrare mia ti de haverne scripto quello ha dicto la Maestà soa che lo facino per mittere scandalo et divisione, ma che pur scrivamo questo da nui stessi et per propria opinione nostra. Mediolani, XXIIII februarii 1432». Ivi, n. LXXIII, p. 62. 276 Ivi, pp. 62-63. 277 Antonio Petrucci, nato nel 1400, letterato, politico e uomo d’armi, amico degli Strozzi, era un esponente dei toscani anti-medicei. Giovanissimo, ebbe la carica di podestà a Perugia. Nel 1428 fu ambasciatore del Comune di Siena presso il papa, continuando a militare come capofila della Toscana anti-fiorentina. Podestà di Lucca quando la città, nel 1429, era sotto attacco da parte di Niccolò Fortebraccio mandatovi dai Fiorentini, ottenne l’appoggio di Filippo Maria Visconti, che inviò in aiuto suoi capitani, come Francesco Sforza, con il cui aiuto Petrucci ripristinò il governo repubblicano. In premio per questa difesa, nel 1431 egli venne eletto a Siena capitano del Popolo e da allora fu per trent’anni il primo cittadino del reggimento in quella città. La sua biografia è ricca di uffici ricoperti con grande prestigio. In qualità di uomo d’armi, Petrucci fu al servizio del Piccinino e di Francesco Sforza. 278 «Nicolao Guerrerio. Per molte lettere siamo avisati, che messere Antonio Petrucci da Siena lo quale tu de’ bene conoscere, delibera partirse da’ nostri servitii et prendere altra ventura. E lui proprio ne ha scripto questo, et rechesto licentia, ben che nui li habiamo rescripto, confortandolo a perseverare cum nui, cum dirli che, havendo facto buono principio et bono mezo, de’ similmente volere fare bono fine. E specialmente siando adesso per andare de la el nostro serenissimo signor re de’ Romani, et lo dicto messere Antonio per recevere merito de quanto ben ha facto. Ma sentiamo pur, Nicolò, che lui è fermo in opinione de andarsene, et de novo siamo avisati che se conduce con el Papa cum CC lance, e quelle terre de Marema, de Pisa, che teneva per nui le ha molto ben fòrnite, et hale tute in sua possanza per cussì facta forma, che se dubita grandemente non voglia. farne altro. Et in conclusione li servitori nostri 274 275 127 incaricava Niccolò di un’altra ardua missione: convincere il re Sigismondo a intercettare il transito per Trento e per altre strade dei suoi domini della corrispondenza diretta al cardinale Giuliano Cesarini, appena nominato legato pontificio e presidente del Concilio generale convocato a Basilea. Il giorno 16 una nuova lettera del duca diretta a Niccolò, o più precisamente a Nicolao Guerrerio de Tertiis, inviata anche al «Consilio nostro in Placentia», era volta ad ottenere dal sovrano la liberazione del conte croato Pietro Zrini.279 Trascorsero altri due giorni e il 18 marzo Filippo Maria Visconti si rivolse nuovamente al suo ambasciatore Nicolao Guerrerio de Tertiis presso il re Sigismondo che, unitamente alla sua dispendiosa corte, continuando a gravare sulle finanze di Milano, indifferente a ogni garbata sollecitazione alla partenza, perpetuava la villeggiatura lombarda. Sua Maestà aveva evidentemente preteso nuovi esborsi all’esausto tesoro ducale. Il Visconti pose a quel punto inderogabili condizioni ultimative: ordinò bensì a Niccolò di versare al re i 1800 ducati che questi pretendeva, ma solo dopo avere accertato che il sovrano avesse effettivamente tolto le sue tende da Parma per andarsene in Toscana («advertas ipsos Majestati sue nequaquam exbursarei nisi certus fueris eum statim debere ex Parma recedere, et versus Tusciam iter suum prosequi»).280 Il 27 marzo Sigismondo non dava ancora sintomi di volersi muovere. Peggio, il duca di Milano fu costretto a ordinare bruscamente a Niccolò di chiedere al monarca di porre termine ai colloqui che stava prolungando con gli ambasciatori di Venezia e di sollecitarlo ad avviarsi senza frapporre ulteriori indugi verso la Toscana. I toni che usò Filippo Maria esprimono tutta l’esasperazione suscitata dal sovrano. Scriveva infatti il duca di Milano a Nicolao Guerrerio: 279 280 de là. dubitano tuti che non prenda mala via et tuti li signali sono de volere fare questo. Pertanto, Nicolò, volemo che retrovandote presto cum el serenissimo signor re de’ Romani gli notifichi tuto questo per nostra. parte; supplicandoli voglia scrivere prestamente al dicto messere Antonio in quella bona forma gli parirà, per confortarlo a perseverare in fare bene, offerendoli de magnificarlo et exaltarlo in honore, et farli per lui et per suo fratello del bene assai, et etiandio de operare per modo che suo fratello messere Guilielmo quale è preso già più di, come tu say, serà liberato, e mandandoli a dire tutte le altre bene parole che parirano alla Serenità soa per mantenerlo in la bona via, avisandote che lui è homo molto ambitioso de honore, et proferendoli la Maiestà soa dehonorarlo et de farli bene, verisimilmente se reduria a lassare ogni mala opinione che havesse preso. E quelle lettere deliberarà la Maiestà soa de scriverli, mandanele qui, perchè nui proprii le manderemo, e fale duplicare o triplicare, perché almeno una ne vada a salvamento. E questo dicemo perché la via non è secura. Et ancora per avisamento nostro mandane la copia de le ditte lettere. Mediolani, XII martii 1432». Cfr. ivi, n. LXXVII, pp. 65-66. Bano di Croazia (pronipote del Leonida di Szigeth), accusato d’aver partecipato ad una congiura viennese «mal soffrendo che la Corte non avesse dato a lui il goveno di Karlstadt». «Nicolao Guerrerio de Tertiis. Accepimus nuper a serenissimo domino nostro rege litteras inclusi tenoris, et nos ei rescribimus litteras his annexas, quarum copiam etiam ad te mittimus. Cum igitur ordinaverimus ut illi ducati MDCCC, de quibus in litteris ipsis fit mentio, ad te mittantur, volumus ut, quando eos habueris, advertas ipsos Majestati sue nequaquam exbursarei nisi certus fueris eum statim debere ex Parma recedere, et versus Tusciam iter suum prosequi. Mediolani, XVIII martii 1432». Ivi, n. LXXXII, p. 68. 128 «Ben che per un’altra te habiamo scripto quello proprio scriveremo per questa, pur, havendo la cossa molto a core como havemo, te recordamo che, intendendote cum monsignore de Piasenza et cum li altri nostri de chi parirà a la signoria soa, faciati ad ogni modo tale opera che la Maiestà del re rumpa et levi in tuto quella pratica che fa a Rezo cum li ambassatori de Venetiani, e, senza perdere più tempo, se avia prestamente verso Toscana».281 E qui il duca Filippo Maria finalmente prorompeva, ferreo nell’ordine impartito ma nello stesso tempo, contando sul talento persuasivo del Guerriero, vellutato per quanto atteneva la sua esecuzione («cum tale modo che la dicta Maiestà vegna a fare questo de soa voluntà»): «E per dio, Nicolò, sii a questo ben solicito cum aiuto del dicto monsignore, perchè non se poria fare cossa più utile, né più fructuosa per nui. Ma guardatilo a fare bellamente e cum tale modo che la dicta Maiestà vegna a fare questo de soa voluntà, nè possa dire che sia gravata per nui, nè per vui a farlo, avisandote che de certo conoscamo questo tenere le cosse in tempo essere la destructione nostra, e che l’inimici nostri non cercano altro. Si che de novo te caricamo fare per modo che la dicta pratica da Rezo se levi cum bella maineìra in tuto via, et la Maiestà del re se avia subito verso Toscana, perchè non poresti fare cossa ne fusse più grata, né megliore». La documentazione sulla missione espletata da Niccolò Terzi presso la corte di re Sigismondo termina qui. Per certo il Guerriero non riuscì, con le sue sole forze di persuasione, a sospingere il re verso la Toscana e Roma. Il duca Filippo Maria, da par suo, ottenne di far alzare i sovrani speroni solo più avanti, e non senza nuove pene. E così Sigismondo fu incoronato imperatore da papa Eugenio IV il 31 maggio 1433, giorno della Pentecoste, a Roma dopo essere stato a lungo ospite di Siena. La seconda pace di Ferrara Niccolò, cresciuto nella considerazione di Filippo Maria per le sue attitudini diplomatiche anche grazie all’esperienza maturata nei rapporti con il futuro imperatore Sigismondo durante la permanenza di questi in Lombardia, fu impiegato dal duca nelle trattative preliminari alla seconda pace di Ferrara, stipulata il 26 aprile 1433.282 Immediatamente dopo, tuttavia, s’interruppe all’improvviso il servizio di Niccolò Terzi agli stipendi del Visconti. L’anno seguente nacque un nuovo conflitto provocato principalmente dalle intrusioni di Filippo Maria nei domini di papa Eugenio IV, a Bologna e in Romagna. Il 28 agosto 1434, si scontrarono, tra Castel Bolognese e Imola, l’esercito dei pontifici, alleati a Veneziani e Fiorentini, posto sotto il comando di Niccolò da Tolentino, e quello dei ducali guidato da Niccolò Piccinino. In quel frangente il Terzi era schierato tra i capitani della lega anti-viscontea. 281 282 Ivi, n. LXXXIII, p. 69. Si veda la lettera del 24 febbraio 1432: ivi, n. LXVII, p. 57. 129 L’esito di quel confronto vide le milizie del Piccinino vittoriose su quelle della lega, e Niccolò Guerriero finì catturato assieme ad altri capitani alleati. Di questi, solo il Tolentino fu poi trattenuto in prigione dal duca Filippo Maria; i restanti vennero ben presto liberati, compreso il Terzi che, sia per riconoscenza suscitata dal trattamento generoso ricevuto, o per riguardo alla reciproca convenienza, tornò sotto gli stendardi del Visconti. Passati pochi mesi, infatti, il Guerriero combatteva nuovamente con i ducali. Il Da Erba scrive che il 5 novembre sostarono nel Parmigiano, diretti a Bologna con le loro compagnie, Niccolò Guerriero, Luigi Sanseverino e Cristoforo da Uella e che le loro soldatesche imperversarono arrecando grandi danni nel loro passaggio. Guerre private Il 19 settembre 1441 Niccolò Terzi, consigliere del duca Filippo Maria Visconti, fu creato cittadino di Milano. L’Angeli scrive che: «Fu suo consigliero creato il dicinove di Settembre 1441. cittadino di Milano».283 In realtà anche in precedenza egli partecipava, informalmente, ma influentemente, al Consiglio Segreto. Nel contempo, il milanese Niccolò Guerriero, consigliere alla corte di Filippo Maria Visconti, doveva occuparsi più prosaicamente, oltre che delle imprese ducali, anche dei propri interessi in terra parmense. Nel 1434 egli affrontò una spinosa controversia con Guido Torelli, suo compagno d’armi e altro valoroso condottiero, come lui consigliere ducale. Il contendere riguardava diritti d’utilizzo delle acque e i confini nei rispettivi feudi di Guardasone e di Montechiarugolo. Il 22 giugno il duca, contrariato per le notizie che gli erano state recate circa le liti scoppiate tra i suoi condottieri, tanto violente da allarmare i vicini, investì della causa Bartolomeo Cacci, maestro delle entrate straordinarie, con l’ordine, quale commissario ducale, di spegnere gli scandali e di punire i colpevoli. In realtà non fu facile dirimere quel conflitto e pacificare gli animi, dato il ruolo rivestito e la rude ostinatezza dei due principali protagonisti. Oltretutto Niccolò fu improvvisamente colpito da malattia e il processo fu sospeso. La causa riprese il 25 gennaio 1439, quando il duca Filippo Maria scrisse al Cacci informandolo che il Terzi era guarito e ordinandogli di provvedere di conseguenza. Il Cacci riuscì a pronunciare sentenza definitiva, tracciando confini e regolando le vertenze accessorie, soltanto agli inizi del gennaio 1440, un anno dopo. Peraltro, a dispetto della decisione ducale, i vassalli del Terzi a Guardasone continuarono a deviare imperterriti, come loro conveniva, le acque pertinenti a quelli di Montechiarugolo, costringendo il locale castellano e podestà a reclamare il 4 di febbraio presso quello competente 283 Si potrebbe anche intendere che, essendo Niccolò già consigliere ducale, quel giorno fosse creato cittadino di Milano. Cfr. B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 467. 130 di Guardasone, minacciando le più severe conseguenze per i turbatori dei diritti del suo signore.284 Il 24 dicembre 1442, con una sua missiva inviata al referendario, il duca dovette fare ammonire Niccolò, per le sue giurisdizioni di Guardasone e Colorno, assieme ad altri feudatari del Parmigiano, tra i quali Pietro Maria Rossi per Felino e Borgo San Secondo, accusati dai gabellieri di impedire loro la riscossione dei dazi in dispregio dei loro appalti e dei decreti sovrani. Gli evasori furono esortati a cessare le loro opposizioni. Un’ammonizione severa ma che rimase inascoltata se nel maggio successivo si dovette reiterarla con l’aggiunta di minacce in caso d inosservanza e con la seguente conclusione: «Non soffrirò che coloro, i quali pe’ ricevuti beneficii procurare dovrebbono i vantaggi della mia Camera, gl’impediscano per tal fatta, e procurino anzi, ingrati! il mio detrimento».285 La seconda Lega anti-viscontea Nell’estate del 1439, nel corso di una nuova guerra scoppiata fra il Ducato di Milano e la lega ricostituita dalle repubbliche di Venezia e di Firenze, le forze di Filippo Maria Visconti sotto il comando di Niccolò Piccinino, che aveva tra i suoi capitani Niccolò il Guerriero alla testa di 200 cavalieri, erano riuscite, con una serie fortunata di vittorie, a prendere il controllo di tutte le terre lombarde fino al lago di Garda. Conquistata Desenzano con il suo porto, il 26 settembre il Piccinino rivolse le proprie forze contro la flotta veneziana riparata a Toscolano, riportando una schiacciante vittoria. Catturò la maggior parte delle navi286 ed i loro ufficiali, i provveditori veneziani e il marchese Taddeo d’Este. Il comandante veneziano Pietro Zeno riuscì a rifugiarsi con due vascelli nel porto di Torbole, sulla sponda settentrionale. Il giorno seguente il Piccinino espugnava anche il castello di Maderno.287 «Fu il nob. Cacci incaricato da Filippo col pred. atto del dì 22 giugno di portarsi sulle facce de’ luoghi controversi per assicurarsi d’ ogni cosa non solo per veduta propria, ma col chiedere informazioni agli abitanti affine di poter far ragione a ciascuno de’ contendenti, e punire d’irremissibili castighi i colpevoli sì pe’ delitti civili, e pe’ criminali. E per togliere ogni cagione di scandalo tra i due feudatarii prescrisse il Duca al Commessario d’intimar loro di non comparire né personalmente, né per mezzo de’ loro figli sul luogo, ma di spedirvi i loro procuratori». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 405-406 nota. 285 Ivi, p. 462. 286 Erano galee, fregate e altro naviglio che Venezia era riuscita a portare nel gennaio precedente al lago di Garda, aggirando i territori Viscontei. La flotta risalì l’Adige dalla foce sino a Rovereto, in Trentino, da dove, calata a terra, fu trasbordata su slitte per raggiungere, superate le elevazioni del Monte Baldo, il porto di Torbole. Fu una formidabile impresa militare, ricordata come Galeas per montes. Sconfitti a Toscolano e Desenzano, i Veneziani, nuovamente riforniti per montes, allestirono, a Torbole, altre navi. Il 10 aprile 1440, comandata da Stefano Contarini, una più potente flotta vinse quella viscontea al largo del promontorio del Ponale, presso Riva del Garda, riportando a Venezia il completo dominio del lago. 287 Gli storici sono discordi sul giorno in cui si combatté quella battaglia. La data qui riportata è quella indicata da Carlo de Rosmini nella sua Istoria di Milano, sulla quale converge il maggior numero di consensi. Cfr. C. DE ROSMINI, Dell’Istoria di Milano, II, Milano 1820, pp. 345-346. 284 131 A quella sconfitta reagì per terra Francesco Sforza, il nuovo generalissimo della lega anti-viscontea, preoccupato di meritare la fiducia riposta in lui dalle due repubbliche al cui soldo era passato in luglio dopo l’addio al duca di Milano. Il nove di novembre si accese una nuova, dura battaglia, iniziata a sorpresa con un attacco delle forze della lega, calate dai passi montani non sorvegliati alle spalle delle truppe milanesi disperse lungo le sponde del lago, conclusa dopo fasi alterne con la vittoria dei Veneziani. Sopraffatte, le truppe viscontee fuggirono disordinatamente verso le navi e il monte, contando seicento uccisi e trecento cavalli dispersi. I vincitori fecero sessanta prigionieri e tra questi ve ne furono di illustri, come Carlo Gonzaga, figlio del signore di Mantova, Cesare Martinengo e Niccolò Terzi. Il Guerriero fu condotto a Brescia e la sua libertà venne scambiata con quella del provveditore Giorgio Corner, tenuto in prigione dal duca di Milano fin dal 1432. Scrive nelle sue Memorie Michele Daverio che Filippo Maria Visconti, duca di Milano, «pure volle premiar alcuni di quelli Condottieri d’armi che dal canto loro non avevan mancato di attaccamento e valore […] Infine concedette alli 26 ottobre 1440 anche al magnifico Nicolao Guerrero la terra di Colorno nel Parmigiano».288 La pace di Perugia Nell’agosto 1443 Alfonso d’Aragona, salito al trono del Regno di Napoli, inviò a Milano Giovanni della Noce per patteggiare un’alleanza contro Francesco Sforza, allora fortemente osteggiato dal suocero Filippo Maria. Franchino Castiglioni, per la sostanza diplomatica, e Niccolò Terzi con Uguccione dei Contrari sul piano militare, furono coinvolti in quell’impresa che ebbe il comando del Piccinino.289 Francesco Sforza era in quel tempo agli stipendi di Veneziani e Fiorentini, alleato di Sigismondo Pandolfo Malatesta, e conservava ancora in parte il suo dominio della ricca Marca d’Ancona: teneva Ascoli, Fermo e Rocca Contrada, mentre tutto il resto gli era stato tolto dall’avanzare delle milizie aragonesi e pontificie. Assoldato dal papa Eugenio IV, su istigazione del suocero Filippo Maria Visconti, Niccolò Piccinino, coadiuvato da Alfonso V d’Aragona, gli mosse contro. Francesco Sforza si rinchiuse a Fano: stretto d’assedio forze numerose e agguerrite, egli si difese con tanta gagliardia da costringere i suoi aggressori a M. DAVERIO, Memorie sulla storia dell’ex ducato di Milano, Milano 1804, p. 169. Pezzana, nel dare a sua volta questo annuncio, aggiunge: «Di fatto trovo poi fra le carte Sanseverini nell’Archivio dello Stato […] che Niccolò Guerriero verso il finire del 1441 ed al cominciar del 1442 erasi lagnato ai Maestri delle entrate perchè si facevano novità a danno delle sue esenzioni in Colorno ed in Guardasone; e che i predetti Maestri ordinarono il 18 genn. 1442 al nostro Refer[endario] di prendere informazioni diligentìssime intorno a ciò, o di mandar a Milano uno de’ dazieri che ne fosse bene istrutto». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 429-430 nota. 289 Cfr. B. FACIO, De rebus gestis ab Alphonso Primo, Neapolitanorum rege, I, Napoli 1769, p. 171. 288 132 restringersi nel rocca di Monteloro, tra Pesaro e Rimini. Quando il comandante in capo visconteo Niccolò Piccinino fu richiamato a Milano dal duca, lasciando a supplirlo l’inesperto figlio Francesco, questi fu sconfitto dal Malatesta nella battaglia combattuta sotto quel castello l’8 novembre 1443, ove anche le forze pontificie e quelle aragonesi furono messe in rotta. Quella vittoria consentì a Francesco Sforza di rioccupare le terre che egli aveva perduto nella Marca. Era nel frattempo nuovamente mutato nei confronti del genero l’atteggiamento del duca di Milano, riscopertosi più magnanimo e pedagogico: aveva voluto umiliare Francesco, era pur vero, ma giammai annichilirlo. Attuando disinvoltamente un’inversione della sua politica diplomatica, Filippo Maria si era rivolto alla Serenissima per stipulare una nuova alleanza, affinché la Repubblica aiutasse il genero a uscire dalle difficoltà in cui lui medesimo l’aveva messo. Niccolò il Guerriero, con le sue truppe a cavallo, rimase sull’altro versante di quella strana guerra dagli obiettivi mutevoli ed ambigui, agli ordini del Visconti ma ostile allo Sforza. Nel gennaio 1444 egli era presente a Fano, pronto a cavalcare verso l’Umbria, incaricato dal Piccinino di assoldare truppe. Conobbe mesi dopo, il 19 agosto 1444, la sconfitta di Montolmo, presso Macerata, inflittagli dalle truppe di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Francesco Sforza, che a Montolmo aveva disertato, stava diffondendo, incoraggiato dal riconciliato suocero Filippo Maria, proposte di armistizio. Il pontefice Eugenio IV fu lieto di accettarle e si arrivò così alla firma di una nuova pace a Perugia, città che festeggiò la notizia con immenso giubilo di popolo tra lo squillare di trombe e campane a distesa: «Adì 19 de ottobre, alle 19 ore, comenzaro a sonare le campane del Comuno al doppio un’ altra volta per la pace fatta, e alle 20 ore se bandì la ditta pace con 8 trombe e piphari per la piazza, tutti a cavallo: come ditta pace era fatta fra la Santità de nostro signore papa Eugenio quarto, per la Chiesa e suoi subditi e cità e terre da una parte, e ‘l conte e marchese Francesco Sforza».290 Pochi giorni dopo la firma della pace, a Perugia giungeva anche Niccolò Guerriero per radunarvi la sua gente d’armi e riportarla a Milano. Tanto si legge nella Cronaca della città di Perugia: «A quisti dì passate venne de Lombardya Nicolo Guerriere de meser Otto Buon terzo da Parma, e venne qui in Peroscia per parte del Capitano per tutte quille gente suoi che fuoro rotte nella Marca, e che tutte andassero in Lombardya; et così ogni persona va via». A metà novembre le truppe ducali guidate da Niccolò, alle quali si erano aggiunte quelle dei fratelli Piccinino e di Giacomo da Caivano, risalirono da Perugia l’Alta Valtiberina per valicare l’Appennino al Verghereto, presidiato dalla rocca che nel 1404 i Fiorentini avevano tolto ai conti Guidi. La Signoria autorizzò il transito dell’esercito visconteo rilasciando il 16 novembre una burocratica 290 Per Muratori, quelli accordi furono firmati a Perugia il giorno 10, da papa Eugenio IV, mentre il Cronista Riminese e il Sanuto scrivono della presenza, il 19 ottobre 1444, del suo delegato cardinale Luigi Patriarca. Cfr. Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1494 (Diario del Graziani), «Archivio Storico Italiano», XVI, I, 1850, pp. 558-559. 133 patente: «La Signoria fa riferimento alla richiesta di salvacondotto da parte di Francesco e Giacomo Piccinino, Niccolò Terzi, detto Guerrero, e Giacomo Gaivano che desiderano tornare in Lombardia con le loro compagnie e con robe et arnesi: pur non essendo necessario, vista l’alleanza con il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, di cui sono al servizio, in risposta anche alla lettera dello stesso duca, vengono concessi il passaggio e l’esenzione dal pagamento dei dazi. Un mazziere li attenderà tra Sansepolcro e Città di Castello e saranno scortati. Il sigillo apposto sulle lettere patenti rende ufficiale la concessione».291 Il pontefice Eugenio IV intervenne come pacificatore in un’altra guerra che coinvolse agli inizi dell’anno 1445 il Terzi. Accusato di essersi impadronito, nel suo feudo di Colorno, di proprietà boschive ecclesiastiche, questi stava affrontando un’insidiosa battaglia giudiziaria con Delfino Della Pergola, vescovo di Parma. In quelle circostanze il prelato non aveva esitato a ricorrere ai soliti estremi rimedi e aveva colpito con l’interdetto Niccolò e il popolo di Colorno, proibendo severamente al clero di celebrarvi gli uffizi divini. Fu a quel punto che intervenne da Roma il pontefice delegando l’arcidiacono di Reggio, Bartolomeo Anguissola, a dirimere la controversia. Ma non passò molto tempo che il vescovo Della Pergola, dichiarando finalmente «di volere procedere in modo amichevole e fraterno verso il Terzi», e schivando con ciò anche l’accumularsi di spese di giudizio in una fattispecie dai profili insidiosi, raggiunse un compromesso con Niccolò Guerriero e con i Colornesi, ponendo fine a ogni conflitto con una sentenza che arrivò l’8 di maggio. Ma già il 9 febbraio, sopiti i contrasti, era stato tolto l’interdetto sulla terra di Colorno ed era stata concessa l’assoluzione al parroco Ilario che aveva proseguito, incurante delle censure, a celebrarvi i riti sacri. Nell’autunno di quell’anno Niccolò, rappacificatosi con il suo vescovo, si trovò arruolato come fedele condottiero braccesco, agli ordini viscontei, contro gli sforzeschi. Dalle sue terre parmigiane e piacentine, dopo avervi «fatta buona raccolta di gente d’arme», si raggiunse Giovan Filippo, suo cugino, nella Marca, a Monte San Piero degli Agli, borgo fortificato a sette miglia dalla città di Fermo.292 Qui giunto, egli unì le proprie alle milizie di Francesco Piccinino, capitano generale del duca di Milano, in guerra contro Francesco e Alessandro Sforza. Nuova guerra del duca di Milano contro Venezia Nel 1446 il Visconti si riaccese improvvisamente il ventennale confronto bellico con la Serenissima. Fu una guerra dagli effetti particolarmente disastrosi, che vide le forze nemiche invadere agevolmente il ducato e arrivare fino alle porte di Milano, riguardo alla quale il Decembrio rilevò l’assenza di motivazioni 291 292 Cfr. Il carteggio della Signoria fiorentina all’epoca del cancellierato di Carlo Marsuppini (1444-1453), inventario e regesti a cura di R. M. Zaccaria, Roma 2015, n. 146, p. 553. Archivio privato De Moll-Guerrieri Gonzaga di Villa Lagarina (Trento), n.n., PARMENIO TERZINIO, Memorie istoriche della famiglia de’ Guerrieri di Fermo e di Mantova, ms., 1756. 134 politiche e la preponderanza di quelle personali: l’inimicizia del duca verso genero Francesco Sforza (ispirata dai bracceschi di corte, afferma il Simonetta). La situazione politica non cessava d’essere quanto mai confusa e Filippo Maria aveva contribuito non poco a renderla, se possibile, ancor più problematica divenendo protagonista di un turbinio di tentati accordi e ventilate alleanze alternative con Angioini, romano pontefice, patteggiamenti con il delfino di Francia, duelli con gli altri signori padani; andando allo scontro e infine all’incontro con il genero Francesco Sforza per sondare approcci con le repubbliche di Firenze e di Venezia. Agli inizi del 1446, in questo quadro ondivago e inesplicabile in cui la diplomazia del ducato appariva del tutto disorientata, Niccolò Terzi fu inviato in missione diplomatica presso la Serenissima, accompagnato da Lancellotto Crotti, con delle proposte di accordo che il 10 febbraio 1446 ebbe modo di illustrare davanti al Senato.293 Che l’accoglienza di quel supremo consesso fosse stata molto tiepida e la risposta interlocutoria lo attesta una lettera del 5 marzo con cui l’occhiuta Signoria di Firenze ragguagliava il proprio ambasciatore Domenico Martelli a Venezia «Si è appreso il tono ‘prudente’ della risposta dei Veneziani agli ambasciatori del duca di Milano, Filippo Maria Visconti». Nella missiva si aggiungevano altre due notizie pessime per Milano: «In ottemperanza al parere espresso dalla Signoria di Venezia si sta provvedendo affinché le forze della Lega possano equipaggiarsi in maniera adeguata. Il sabato precedente il conte Francesco Sforza è partito da Firenze soddisfatto per le misure adottate: si esorti Venezia a fare altrettanto».294 Tuttavia, mentre l’ambasciatore Niccolò Terzi illustrava le ducali proposte al Senato veneto, da Milano partivano degli ordini divergenti, come riferisce la corrispondenza della Signoria fiorentina. Il 2 aprile in una direttiva all’ambasciatore Domenico Martelli si deve constatare che: «Le «profferte» del duca non sembrano corrispondere agli avvenimenti in corso. Da Pontremoli, infatti, arrivano notizie sui tentativi del Visconti di impadronirsi del luogo per spingersi in Lunigiana; la sera precedente da Bologna si è stati avvisati che truppe milanesi sono giunte a San Giovanni in Persiceto, da dove hanno fatto scorrerie e saccheggi fino a San Giorgio di Piano, mentre altri uomini stanno avanzando».295 La Signoria il 16 aprile scrisse nuovamente al Martelli aggiornandolo minutamente. Le proposte del duca di Milano, Filippo Maria Visconti, sarebbero degne d’esame solo se coderenti con i fatti e Firenze ha molto apprezzata la prudenza con cui il Senato veneto ha risposto agli ambasciatori del Visconti. Si fa presente che Bologna per il protrarsi della guerra è allo stremo delle forze, privata di ogni risorsa pubblica e privata, Cfr. Il carteggio della Signoria fiorentina, cit., p. 239 nota. Cfr. ivi, n. 162, p. 240. 295 La lettera prosegue: «Si esorta Venezia a salvaguardare Bologna e fare in modo che non defezioni dall’alleanza con la Lega; il che potrebbe avvenire se questa non adotterà provvedimenti diversi dal passato come testimoniano le lettere dei Bolognesi e le parole del loro ambasciatore a Firenze». Cfr. ivi, n. 175, p. 248. 293 294 135 assolutamente non in grado di resistere a lungo. Il rimedio più valido per i Bolognesi sarebbe il dislocamento di truppe veneziane verso i territori del Visconti per minacciarne la sicurezza. La Signoria, fa presente che l’iniziativa non è dovuta a Firenze bensì imposta dalle difficoltà in cui si trova Bologna. Pur apprezzando la buona volontà dei Veneziani d’intervenire quando le circostanze lo esigeranno, la Signoria, ben conoscendo la «natura timida e sospectosa» del Visconti riteneva urgente spostare quanti più uomini possibile ai confini del Ducato per costringerlo «a fare quello con facti che per aventura al presente dimonstra con parole».296 L’arresto di Bartolomeo Colleoni Nel 1446 Il Terzi fu protagonista d’uno degli episodi memorabili dell’ultima guerra veneta: l’arresto del grande condottiero Bartolomeo Colleoni. Francesco Piccinino, nipote del più valoroso Niccolò, si era alleato con il Colleoni per riprendere Cremona a Francesco Sforza, ma in seguito ai contrasti insorti fra di loro e sulla base di sospetti d’intesa con la nemica Serenissima, imputati al grande condottiero bergamasco, si ordinò al Guerriero di arrestarlo quale indiziato di fellonia.297 L’ordine fu eseguito il 21 settembre a Pontenure, presso Piacenza. Il Colleoni, che cavalcava attorniato dai suoi cancellieri e segretari, distanziato e in retroguardia rispetto alle sue compagnie, fu assalito improvvisamente dagli armati guidati da Niccolò Guerriero e subito incatenato, nonostante le sue fiere proteste. Quindi fu dapprima portato nel castello di Sant’Antonino, poi, il giorno 26, a Milano e infine incarcerato ai Forni del castello di Monza, famigerato luogo di supplizio e di morte per gli oppositori dei Visconti. Restò recluso per quasi un anno, finchè, non appena defunto Filippo Maria, riuscì a fuggire e a raggiungere la sua compagnia di militi, ancora in linea dopo avere rifiutato la sua sostituzione al comando con il Terzi. Morte del duca Filippo Maria Visconti Filippo Maria Visconti morì il 13 agosto 1447. Ancora agli inizi di quell’anno, incapace di controllare un altro conflitto scoppiato con la Repubblica di Venezia, egli aveva avvertito l’urgenza di ricorrere al valore militare di Francesco Sforza, il genero periodicamente ripudiato e invocato. All’ultima ripulsa avevano contribuito i sospetti alimentati da eminenti personaggi della fazione braccesca presso la corte di Milano, e tra questi Niccolò Terzi, che il Corio, attingendo alle coeve cronache stilate dal Simonetta, rappresenta come personaggio di corte dotato «di grande auttorità, come quelli che ministravano i denari».298 Cfr. ivi, n. 180, pp. 251-252. Che dei contatti ci fossero effettivamente stati si trovò conferma nelle istruzioni a trattare con il Colleoni impartite dal Senato veneto ad Antonio Martinengo il 2 di agosto. 298 B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 830. 296 297 136 Il Terzi era in grande sintonia con Jacopo e Francesco Piccinino, eredi di Niccolò, gli altri importanti bracceschi della corte milanese titolari della responsabilità di tesorieri in administranda pecunia, e insieme sembra riuscissero a inquietare Filippo Maria, suscitando in lui timori e sospetti circa le ambiziose intenzioni del genero, tanto strenuo combattente e condottiero quanto infido di carattere. Nell’aprile, essi riuscirono a persuadere il duca a rifiutargli il pagamento degli stipendi convenuti per la sua condotta, indispensabili, peraltro, allo sviluppo delle operazioni difensive e offensive imposte dalla interminabile guerra con Venezia. Francesco Sforza non tardò a essere informato nella Marca, a Pesaro, dove si trovava, di queste iniziative, ne prese buona nota e pose in atto confacenti contromisure, facendosi precedere a corte da un suo incaricato, Pietro da Pusterla.299 Partì quindi egli stesso da Pesaro verso la Lombardia il nove di agosto, alla testa di 4 mila cavalieri e 2 mila fanti. Filippo Maria, già ammalato mortalmente, si spense quattro giorni dopo. Gli successe la Repubblica Ambrosiana e Francesco Sforza, nominato capitano generale, ebbe il comando dell’esercito milanese. Signore in proprio di Cremona e di Pavia, egli trovò la strada aperta per divenire il nuovo padrone di Milano. 299 Corio riferisce puntualmente su questi intrighi e loro conseguenze: «Erano molti a Milano, che favorivano la parte Braccesca, et la persona del Duca, fra i quali era Niccolò Guerriero da Parma, Antonio da Pesaro, et Jacopo da Imola di grande auttorità, come quelli che ministravano i denari. a costoro era molesto, che Francesco havesse tanta ministratione, et essi fossero privati dell’auttorità, et che perdessero gli utili, et Francesco Piccinino, et Iacopo fratelli fossero costretti a uscire di Lombardia, o ridursi in miseria, e scherniti da gli altri. Per fare dunque il Conte sospetto al Duca, gli fecero persuadere, che essendo il Conte d’animo insatiabile, et cupidissimo di signoria, et d’Imperio, non verrebbe, come Capitano, ma come Signore di tutto il suo Ducato et che per questo haveua promesso a Pietro da Pusterla le possessioni, che, nel Lodigiano possedeva l’Imolese, le quali dal nome di Pusterla sono dette Casali de’ Pusterlenghi. Et di quello mostravano d’haver varie lettere da chi intendeva il consiglio del Conte. perchè Filippo, il quale nelle cose sicure pigliava sospetto commandò che più denari non si mandassero al Conte: et poi lo fece avisare, che per non ne havere, indugiaua a pagarlo: ma che in quello mezo usasse a la sua solita temperanza: et che guidosse l’essercito per Romagna, et per il Ferrarese, et passasse il Po, scorrendo hora nel Padovano, hora nel Veronese, ch’arebbe havuta almeno una di queste due Città per qualche trattato. Quello commosse il Conte, considerato che questi commandamenti erano alieni dalla guerra, perciò che da quella parte non si potevano vincere i Vinitiani, e massimamente senza il favore di Lionello Marchese di Ferrara: ma apertamente conosceva, che i malevoli l’havevano messo in sospetto; il che anchora intese da’ suoi Oratori, et che più non haverebbe denari. perché mandò per Pietro da Pusterla, co ‘l quale purgò l’innocentia sua et poi gli disse ch’avisasse il Duca di quello, che bisognava ad haver vittoria contra i nimici. Pietro preso il camino, in quattro giorni giunse a Milano. Ma il Duca adirato non gli diede audienza, anzi con nuova commissione lo mando a Ferrara, dove stesse fin che l’avisasse d’altro. Ubidì Pietro, ne d’alcuna cosa hebbe ardire d’avvisare il Conte, il che fu la cagione che l’andata del Conte a Filippo si ritardò molti mesi, et le forze de’ Vinitiani accrebbero, declinando ogni hora piu lo stato del Duca». Ivi, p. 830. 137 Un interminabile processo alle intenzioni Per Niccolò Terzi il Guerriero la presa del potere di Francesco Sforza, con il vissuto di tutti gli antecedenti, creò una situazione scomoda, foriera di minacce e di pericoli. Si ritirò quindi nelle sue terre parmigiane e piacentine, in attesa degli eventi e richiamatovi dall’attivismo di Pietro Maria Rossi che, prevedendo vantaggi dall’arrivo a Milano di un nuovo signore, stava tentando di impadronirsi delle castellanie a lui tolte dai Piccinino e dai bracceschi. Era passato quindi subito all’assalto della rocca di Guardasone, pertinente a Niccolò Terzi, e a quella di San Andrea, dei da Cornazzano. Il Rossi, tuttavia, non aveva messo in conto, la dura reazione dei Terzi, per nulla rassegnati a subire, e tantomeno quella dello Sforza, poco disposto ad appoggiare le sue mire.300 In quel tempo i Milanesi della Repubblica Ambrosiana spingevano il loro capitano generale a stringere accordi con gli altri capitani d’armi e già il 21 agosto Francesco Sforza ne concludeva uno con i due Piccinino, Francesco e Iacopo. Con il Guerriero non dovettero esserci difficoltà se il 29 agosto, da Cremona, gli fu rilasciata una patente biennale, estesa a tutte le sue terre (Castelnuovo piacentino, Colorno, Guardasone e Canossa) valida anche per i famigliari Terzi (Giacomo, Beltrando, Girardino, Giberto, Guidone e Nicolò) e per la sua compagnia di milizie accreditata di 1400 unità tra cavalieri e fanti. Un secondo salvacondotto fu concesso alla moglie di Niccolò, Ludovica. Il 16 settembre un altro documento rilasciato a Niccolò permetteva a questi di raggiungere Parma passando per il Po e il Ticino. Tali fonti, a loro modo, provano che il Terzi e Francesco Sforza seppero presto acconciarsi con tutta l’intelligenza, o, se preferiamo, il bastante realismo e opportunismo, che le nuove circostanze esigevano e che i reggenti la Repubblica Ambrosiana verosimilmente suggerivano. A fine settembre, il mese successivo alla scomparsa del duca Filippo Maria, i due condottieri sembravano avere trovato rapidamente un’intesa abbastanza cordiale. Pezzana ne dà conferma riferendo di una lettera del 30 settembre di Francesco Lupi di Soragna ove si leggeva di un uomo d’armi di Niccolò Terzi che confermava il passaggio del suo capitano al servizio in condotta di Francesco Sforza al comando di 1500 cavalli.301 Nondimeno, trascorsi tre mesi, al tramonto di quell’anno, cominciarono a giungere insinuazioni sull’atteggiamento del Terzi e sui suoi rapporti con i Veneziani, che avevano dato inizio a ostilità contro la Repubblica Ambrosiana. Il 29 dicembre si parlò di incontri occulti avvenuti nottetempo a Casalmaggiore «Sul principio di ottobre Pier Maria scrisse a Francesco esprimendo la sua grande delusione». Cfr. N. COVINI, Le condotte dei Rossi di Parma. Tra conflitti interstatali e «picciole guerre» locali (14471482), in L. ARCANGELI, M. GENTILE (a cura di) Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, cit., p. 60 nota. 301 E il Pezzana qui commenta: «il che suppone a parer mio che lo Sforza gli avesse perdonato le passate offese». A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 554. 300 138 fra Girardino, o Gherardino (II) Terzi, un familiare di Niccolò, e Micheletto Attendolo, capitano generale veneto che comandava un’armata comprendente sei galeoni. Il 31 dicembre le forze di Venezia e dei suoi alleati, tra i quali il Gonzaga, erano già nel Cremonese con cavalieri, fanti e genieri attrezzati per superare il Po e assalire i borghi fortificati. Da Parma furono inviati alla Repubblica Ambrosiana e a Francesco Sforza segnalazioni allarmate che Niccolò Guerriero, ufficialmente al servizio di Milano, avesse improvvisamente passato il Po al comando delle sue truppe per portarsi nel proprio feudo di Castelnuovo. Si chiedeva ai commissari di campo milanese che al Terzi, considerato inaffidabile e insidioso, pronto a unirsi ai Veneziani, fosse ordinato di ritornare subito nei precedenti quartieri. A motivare i sospetti dei Parmigiani c’erano delle voci circa le subdole iniziative alle quali continuava a dedicarsi Gherardino (II) Terzi che, moltiplicando i suoi contatti, aveva raggiunto Ferrara dove, si vociferava a Parma, aveva patteggiato la consegna della città. Lasciata la corte estense, assieme a uno della squadra dei Sanvitale, Gherardino aveva raggiunto Niccolò a Piacenza, per riferire e valutare. A conclusione di questo consulto, Niccolò avrebbe deliberato di trasferirsi in forze a Castelnuovo. Quelle trattative con il marchese di Ferrara sarebbero proseguite perchè, come riferisce Pezzana, si mandarono «più fiate messi travestiti a Borso d’ Este in Rubiera, quella stessa Rubiera (nota bene, o lettore) che, ordinante il padre di Borso, fu teatro dell’ assassinio del padre di esso il Guerriero quasi 40 anni avanti ! e patteggiossi colà che in giorno da determinarsi Borso verrebbe sul Parmigiano colle sue genti, mentre Niccolò dalla parte di Castelnovo de’ Terzi farebbe una mossa colle proprie spalleggiate dagli altri gentiluomini che faceano parte della congiura».302 Peraltro, a tutte queste supposizioni mancò la certezza testimoniale in quanto, scrive sempre Pezzana, chi denunciò le congiure non aggiunse conferme. Questo processo alle intenzioni di Niccolò il Guerriero doveva durare a lungo, alimentato a Parma dai Reggitori, ovvero «Difensori», della città. Nuovi dubbi furono insinuati allorché Niccolò, ai primi del 1448, inviò cinquanta dei suoi armati a rinforzare la squadra radunata dagli inquieti Sanvitale. Nel tentativo di sopire o sviare quei sospetti sempre montanti, il 4 di febbraio, da Castelnuovo, Niccolò scrisse due lettere ai Reggitori parmigiani rivolgendo loro ampie lodi per il loro impegno a favore delle libertà civiche: «La quale non men di voi desidero per ogni rispecto, perchè credo le prudentie vostre conoscono che se fa tanto per mi quanto si faccia per voi, il perchè sempre me offerisco con l’avere et con la persona in saluatione di essa libertà».303 Nondimeno, pur prendendo atto di quelle solenni rassicurazioni, il 19 febbraio Luigi Bravi, ambasciatore dei Reggitori di Parma presso la Repubblica Ambrosiana, sentì il dovere di segnalare che Niccolò Guerriero aveva inviato da Castelnuovo trecento dei suoi cavalieri a precederlo nel 302 303 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 576-577. Ivi, p. 606. 139 proprio castello di Colorno, e insinuava l’opinione che stesse tramando a favore di Venezia assieme a Francesco Piccinino. Il 18 marzo, con una nuova lettera diretta ai rettori della Repubblica milanese, i Reggitori parmigiani tornavano alla carica con nuove imputazioni: una persona amica li avrebbe informati di una congiura ordita da Niccolò Terzi sempre in combutta con Francesco Piccinino. Entrambi, tempo quattro giorni, avrebbero scatenato la loro aggressione alla libertà e indipendenza di Parma. Una settimana dopo, smentita dai fatti anche questa notizia, i Reggitori insistevano comunque nuovamente a Milano per lamentare le rapine e le molestie che le terre parmigiane dovevano soffrire da Niccolò Terzi e da suo figlio Gaspare. Un’altra missiva di protesta fu inviata allo stesso Guerriero con la denuncia a carico dei suoi villici del feudo di Colorno, accusati di infestare tutti i borghi circostanti, sottoposti incessantemente a ruberie. Si dava inoltre per certo che il Guerriero, nominato capitano generale «di qua del Po», avesse pattuito una condotta di 400 lance e un pari numero di fanti. I latori di quelle notizie erano in grado di asseverare che fosse già stato esborsato metà dell’importo d’ingaggio e che il saldo sarebbe stato liquidato a breve. Notizie e sospetti suggeriti da «personaggi di grande affare, fededegni e moltissimi», come ci rivela puntigliosamente Pezzana, e che per tanti mesi costituirono una paranoica ossessione per i Difensori di Parma. Ai primi di maggio, «queste ingrate novelle comunicate aveano i nostri ai Signori di Milano, e raccomandato loro di tenere in ostaggio la moglie e i figliuoli di Niccolò, i quali colà dimoravano».304 Tuttavia i Milanesi,305 più aggiornati in merito alla situazione sul campo, e trovando nell’evidenza dei fatti comprovati motivi per un più lusinghiero giudizio sul Guerriero, senza badare agli allarmi che salivano da Parma permisero senz’altro che Ludovica e i figli tornassero al rispettivo sposo e padre, che in quei giorni aveva dimora nel suo feudo di Colorno. Il 5 maggio, poiché a Parma aveva preso corpo un’ulteriore fantasia, e cioè che anche Alberto Pio, signore di Carpi, si sarebbe aggiunto con le sue milizie, 800 cavalli e 400 fanti, a quelle del Terzi, si pensò bene di inviare a 304 305 Ivi, p. 636. Notizia e conferma di queste voci arrivarono poi fino a Firenze. Il 28 febbraio 1448 i Dieci di Balia informarono il loro ambasciatore a Venezia, Guglielmo Tanagli, che due giorni prima avevano ricevuto la visita di Gabriele Meraviglia, Giovanni Omodei e Giacomello Trivulzio, rappresentanti della Repubblica Ambrosiana. «Costoro si sono rammaricati che, dopo la morte del duca Filippo Maria Visconti, nei colloqui avuti a Venezia e a Bergamo, i Veneziani hanno chiesto la cessione di Lodi, con il relativo contado, Crema, Pizzighettone e Lecco, tanto da rendere insicure Milano e Como […] Infatti, quando si riteneva di essere prossimi a concludere la pace, avendo manifestato ai Veneziani l’intenzione di rinunciare a Lodi, i Milanesi hanno appreso che Francesco Piccinino e Niccolò Terzi erano stati allettati ad aderire a Venezia. Tutto questo potrebbe alterare l’equilibrio in Italia e perciò, pur di non assoggettarsi, Milano si rivolgerà al re di Napoli, Alfonso d’Aragona, o a qualsiasi altro signore, avendo nel frattempo stipulato un’alleanza con Genova». Cfr. Guglielmo Tanagli a Venezia, 28 febbraio 1448, in Il carteggio della Signoria fiorentina, cit., n. 129, p. 762. 140 Colorno presso quest’ultimo Lancellotto Tardeleri per chiedere di non essere aggrediti e di non offendere né i Parmigiani, né i loro alleati, né le loro terre. Ciò udito, Niccolò Guerriero rispose prontamente «che non li offenderebbe come non era per offendere Parma». L’11 di maggio il Terzi decise di consegnare a un atto autentico, debitamente convalidato, le sue solenni assicurazioni che furono poi trasmesse per la formale ratifica addirittura a Pietro Maria Rossi, il capo della famiglia irriducibile avversaria dei Terzi. Ciononostante l’incalzare delle insinuazioni riprese solo poche ore dopo, il giorno seguente la ratifica, quando il medesimo Rossi scrisse occultamente ai Reggitori parmensi di avere avuto altra rivelazione, da un innominato personaggio veneziano, ovviamente “fededegno”, che Niccolò Terzi aveva intascato ben sedicimila ducati dai Veneziani per condurre la guerra nel Parmigiano unitamente alle soldatesche di Alberto Pio. Questo proliferare di elucubrazioni provocò nuovo accorrere di parlamentari a Colorno, desiderosi di ottenere dal temibile Niccolò Terzi il Guerriero solenni dichiarazioni di lealtà alle quali puntualmente non venne prestato credito, come si evince dalle accurate e accorate cronache che ne fa il Pezzana306 per il primo semestre del 1448. Gli ultimi oratori mandati da Parma al Magnifico Niccolò Guerriero Terzi, ovvero a «questo potente, scaltro ed ambiguo Signore» (così lo definisce Pezzana),307 conclusero e siglarono un nuovo accordo di non belligeranza il tre di giugno.308 306 307 308 Non si deve scordare, come fa il Pezzana, peraltro in buona compagnia quando elenca una congerie di sospettazioni di tradimento scagliate dai nemici di Parma contro Niccolò Terzi, che tra i rappresentanti più autorevoli del Consiglio generale della Repubblica Ambrosiana, si distingueva per saggezza e dottrina il giureconsulto e sottile diplomatico Franchino Castiglioni. Questi, come si è già osservato, oltre ad essere cognato del Terzi, era soprattutto perfettamente in grado di valutare, per esperienza convissuta, reduce da una stretta collaborazione serenamente svoltasi per quasi quattro lustri in seno al Consiglio segreto di Filippo Maria Visconti e in ripetute missioni diplomatiche, la consistenza delle accuse ventilate. La lealtà e l’affidabilità del Guerriero non tardarono a ricevere, peraltro, una eclatante conferma nella realtà effettuale degli accadimenti successivi. Così lo definisce a questo punto il Pezzana, che non mai riesce a dissimulare la propria antipatia per Niccolò Terzi il Guerriero, sul quale fa ricadere, oltre al peso di colpe oggettive o sospettate, anche le troppe del defunto genitore Ottobono, assassinato quarant’anni prima. «Nel confermare il Capitolato i Difensori, gli Otto di Balia, ed i Signori di Credenza vi preambolarono in questa forma: “Volendo piuttosto col mezzo della pace e colla tranquillità rassodare e render quieta la Repubblica Parmigiana che con varii e molti pericoli tentarne l’ingrandimento, considerando quanto fosse conveniente per la salute e per lo mantenimento di essa Repubblica unire al corpo le membra, e sotto il lor capo ridurle in guisa che questo secondino ed obbediscano, e veggendo quante parti del territorio non obbedienti alla città loro capo riteneva sotto di sè il Magnifico Niccolò Guerriero Terzi, le quali obbedendo recato avrebbono molto di comodità e di sicurezza allo Stato determinano di accettare il predetto Capitolato, del quale ecco la sustanza. 1.° Niccolò cederebbe liberamente in pien dominio e giurisdizione della Magnifica Comunità di Parma alcune tra le ville ch’ei teneva col luogo di Colorno, tra le quali Casalpò; 2.° Obbligherebbesi con malleveria a far che i comuni di Guardasone e di Colorno levassero la tassa del sale alla dogana di Parma in que’ termini e 141 A questo punto si impone una severa riflessione. Nessuno fra quanti si sono avventurati a riferire su presunti progetti o sull’attuazione concreta di tradimenti da parte di Niccolò Terzi (e nemmeno uno tra quanti hanno scritto d’inestinguibili rancori covati dal Guerriero contro Francesco Sforza, in quanto figlio dell’assassino d’Ottobono) ha mai veramente preso in esame i rapporti vissuti dall’accusato a Milano, nell’ambito della corte viscontea, nella stretta cerchia degli intimi del duca. Sarebbe forse doveroso, in merito, fare finalmente constatazione di una importante e oltremodo significativa compresenza, durata oltre quattro lustri, nella prima metà del XV secolo, presso la corte milanese, e soprattutto nell’ambito intimo del Consiglio Segreto di Filippo Maria, di due personalità legate da strette, ma fin qui del tutto ignorate, affinità parentali: Franchino Castiglioni, autorevole uomo di legge, ambasciatore e fine tessitore di accordi, considerato fidatissimo dal duca, e il coetaneo Niccolò Terzi il Guerriero, un capitano d’armi la cui intelligenza il Visconti utilizzò volentieri e frequentemente anche per incarichi diplomatici, in particolare, come si è visto, durante la discesa in Italia dell’imperatore Sigismondo. Franchino Castiglioni, nato a Parma verso la fine del XIV secolo, aveva sposato in prime nozze Caterina, figlia di Ottobono Terzi e Francesca da Fogliano, sorellastra quindi di Niccolò. Un interrogativo che nasce spontaneo riguarda la consapevolezza, presso il Terzi e il Castiglioni, dell’esistenza di questi loro stretti legami di affinità parentale dei quali gli storiografi, antichi e moderni, per parte loro, si dimostrano sempre ignari. La risposta si trova considerando l’improbabilità che i due ragguardevoli componenti la corte modi che il farebbono Pier-Maria Rossi e gli altri Gentiluomini e Castellani del Parmigiano, ch’eransi già accordati o fossero per accordarsi col Comune di Parma; 3.° e 4.° Contribuirebbe pe’ luoghi e ville a lui soggetti ad ogni spesa di soldatesche, che fosse per fare il nostro Comune fino alla somma occorrente per 300 cavalli e non più, e per guastatori o fanti; 5.° Permetterebbe che i dazieri ponessero i Comarchi nelle sue terre appunto in que’ luoghi che a loro piacessero; 6.° Osserverebbe e farebbe osservare nelle terre stesse tutti gli Statuti, Ordini e Decreti del Comune di Parma; 7.° Non darebbe nelle sue terre ricetto ai ribelli, banditi e malfattori di Parma, e, trovandone in esse, consegnerebbe ad ogni richiesta nelle nostre mani; 8.° Non concederebbe spontaneo passaggio ai nemici nostri, e non riceverebbe nelle sue terre più di 40 forestieri senza nostra licenza; 9.° Rivelerebbe di buona fede e senza indugi qualunque cosa tendente a nuocere alla patria; 10.° Non iscriverebbe, nè manderebbe messi ai nemici palesi o sospetti del nostro Comune, salvo a quellial servigio de’ quali ei militasse; 11.° Farebbe guerra ( tranne a que’ di sua casa, a meno che non fossero chiariti ribelli), tregua e pace come piacesse al Comune stesso; 12. Darebbe a questo giuramento di fedeltà; 13.° A qualunque cittadino, distrettuale od abitante del Parmigiano lascierebbe liberamente godere i beni da loro posseduti nelle terre di lui. Il nostro Comune prometteva dal canto suo di ricevere nella sua protezione Niccolò, i suoi figli, ed i suoi eredi come buoni e divoti figliuoli, insieme colle loro ville e castella; di non far guerra alle terre del Terzi purch’ ei non la facesse alle nostre ed al Borghigiano, di concedere a lui tutti que’ capitoli favorevoli che in futuro si concedessero per avventura a Pier-Maria Rossi, e ad altri Signori. Permettevagli di prender partito e d’acconciarsi con qualunque Signoria, purch’egli non venisse a’ danni di Parma; e promette agli che, se il Comune di Parma spontaneo si assoggettasse a qualche Signore, inchiuderebbe ne’ capitoli della dedizione il Terzi e le sue terre». Il documento è trascritto da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 640-642. 142 viscontea possano averli ignorati, progredendo nella consuetudine quasi ventennale delle loro frequentazioni negli ambiti della corte ducale e nella ristrettissima cerchia del Consiglio Segreto di Filippo Maria. Più probabile, al contrario, che li abbiano dissimulati per l’incombere della memoria di Ottobono. Il Castiglioni, è da evidenziare, oltre alle responsabilità politicodiplomatiche esercitava ai vertici amministrativi della corte milanese altri rilevanti incarichi: compare come testimone negli atti di infeudazione e di alta amministrazione, firmava i contratti di condotta di luogotenenti e capitani ducali. Inoltre nel 1430, sempre in una materia che riguardava strettamente il mestiere delle armi intrapreso da Niccolò il Guerriero, aveva elaborato un regolamento richiesto dal duca, in cui venivano precisati i doveri e poteri che potevano attribuirsi a un luogotenente generale e quelli spettanti a un capitano ducale. Il parere del Terzi potrebbe avere in qualche misura influito sulla sua redazione. Ambasciatore della Repubblica Ambrosiana presso la Serenissima Nell’autunno del 1448, la Repubblica Ambrosiana, smentendo nettamente ogni illazione e tutti i sospetti che verminavano in terra parmigiana circa ventilati o consumati tradimenti, affidava proprio a Niccolò Terzi una nuova, decisiva missione, inviandolo quale suo ambasciatore presso la la Repubblica di Venezia con lo specifico incarico di offrire e patteggiare con la Serenissima proposte per stipulare una pace che prevedeva, tra l’altro, la cessione di Brescia. Una pace subordinata al formarsi di un’alleanza ostile a Francesco Sforza. La missione affidata al Guerriero era frutto di una situazione paradossale anche nell’ambito dei subitanei voltafaccia bellici e delle precipitose politiche pendolari tipiche dell’epoca, perché Francesco Sforza era, in quei giorni, il comandante supremo dell’esercito della Repubblica Ambrosiana. Il 15 settembre, nella battaglia di Caravaggio, egli aveva annientato, per conto di Milano, l’armata di Venezia, fornendo però successivamente chiari e non trascurabili sintomi di essere in procinto di passare nel campo degli sconfitti.309 309 In seguito alla grande vittoria di Caravaggio, Francesco Sforza si impadronì delle terre bergamasche e bresciane che, impaurite, gli si consegnarono spontaneamente. Si dispose a conquistare Brescia per poi accordarsi con la Repubblica di Venezia, allearsi con questa e rivolgersi contro Milano. Di questo suo progetto di tradimento fu accusato presso la Repubblica Ambrosiana dai due fratelli Piccinino, capitani bracceschi che militavano sotto il suo comando nell’esercito milanese. Quando Francesco Sforza lasciò andare liberi e senza imporre taglie o gli usuali riscatti, sequestrando loro solo le armi e i cavalli, tutti i prigionieri che a migliaia aveva fatto a Caravaggio, questo comportamento fu interpretato come strumentale all’inseguimento di accordi e alla cattura di benevolenza presso la Repubblica di Venezia. Conseguentemente, e a ogni buon conto, i reggenti di Milano, dissimulando le loro intenzioni, ordinarono a Francesco Sforza di trascurare la conquista di Brescià e di spedire la sua armata suddivisa ad assalire Lodi e Bergamo. Questi, a conferma della sua inaffidabilità, ubbidì solo parzialmente alle direttive dei reggenti: nel mentre inviava la minima parte 143 Il Senato Veneto accolse Niccolò Terzi con lusinghiera cortesia, grandi espressioni di stima ed elogi. Ascoltò le argomentazioni e le valutazioni che questi espresse in veste di ambasciatore, in nome dei Reggitori del governo milanese, sull’interesse che la Serenissima trovava nell’avere confini con uno Stato lombardo amico e dotato di potenzialità belliche inferiori anziché un antagonista, principe condottiero come il conte Francesco Sforza, ambizioso e reso incontentabile dalle sue vittorie. Alla fine, partito il Terzi per riferire ai Reggenti delle difficoltà incontrate dalla sua missione, il Senato della Serenissima decise: che era preferibile un accordo con Francesco Sforza all’alleanza offerta dalla Repubblica Ambrosiana. Il 18 ottobre stipulò con il condottiero il patto di Rivoltella sul Garda: in cambio del riconoscimento di Brescia e Bergamo, gli offriva aiuti militari che comprendevano 6000 cavalli e 2000 pedoni, uno stipendio per la condotta che lo gratificava di 30 mila fiorini annui fino alla resa di Milano. Così si consumava il tradimento tante volte preannunciato e denunciato dai Reggitori di Parma. C’era però da prendere atto che i paventati accordi con la Repubblica di Venezia contro la Repubblica Ambrosiana dovevano essere imputati non a Niccolò Terzi il Guerriero, perseguitato dai sospetti, ma, senza alcun dubbio, e con qualche attenuante, a Francesco Sforza e alle sue ambizioni di potere. Un particolare e una conclusione divenuta subito assolutamente trascurabile e rimossa dalla mente dei petulanti accusatori del Guerriero, e con troppe ragioni: il traditore effettivo stava per impadronirsi di Milano divenendone il Signore.310 Forse, per conservare dritta la barra del giudizio, bastava ricordare quanto osservò Machiavelli, nella sua opera maggiore, riguardo al medesimo fatto: «I Capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspireranno alla grandezza propria, o con l’opprimere te, che li sei patrone, o con l’opprimere altri fuora della tua intenzione; ma, 310 dell’esercito al comando dei capitani di scuola braccesca a lui avversi, come i Piccinino e i Sanseverino, all’assedio di Lodi, egli alla testa delle milizie più fedeli si portava a quello di Brescia. Una disubbidienza grave, che convinse i reggenti ambrosiani a spedire con urgenza Nicolò Guerrieri a Venezia per tentare di neutralizzare i disegni di tradimento di Francesco Sforza, contrapponendo simmetricamente alle profferte di questo le proprie, alternative proposte di alleanza nonché il possesso della città di Brescia. Fra gli accusatori temerari si deve comprendere anche il Pezzana, storico per altro scrupolosissimo. Nel III tomo della sua Storia di Parma, non si perita di nascondere il suo astio preconcetto, ostentato a tutto campo. Egli rimprovera, tra l’altro, Francesco Sforza perché con «Niccolò Guerriero Terzi […] a soverchia clemenza era disceso il Conte allorché in febbrajo (1449) s’insignorì di Parma». Peggio ancora, a pag. 267, rammenta assai compiaciuto che Guardasone fu «con ogni sua dipendenza, tolto da Francesco al perfido Niccolò Guerriero Terzi quando quel traditore passò al campo de’ Veneziani», ignorando intrepidamente che il traditore autentico, passato poi ai Veneziani, di fatto e non per sospetto, fu proprio lo Sforza. Ma il meglio della sua singolare oggettività il Pezzana lo elargisce alla pagina 11, dove impreca contro Niccolò il Guerriero, colpevole addirittura d’esser nato: «fossero chiamati da’ Cieli a spogliare delle restategli castella il perfido bastardo del feroce Ottobuono Terzi». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, p. 11. 144 se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l’ordinario [...] I Milanesi, morto il Duca Filippo, soldorono Francesco Sforza contro a’ Viniziani; il quale, superati li inimici a Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere e’ Milanesi suoi patroni».311 Quando Niccolò dovette abbandonare la Lombardia, inviato dai Reggitori di Milano in missione presso la Serenissima, Francesco Piccinino, che teneva sotto assedio Lodi occupata dai Veneziani, dovette intervenire nel Parmense a protezione dei beni e delle persone legate ai Terzi. Egli fu urgentemente informato, infatti, delle gravi ingiurie di cui era stata vittima, a Borgo San Donnino, la badessa del monastero di San Giovanni, parente del Guerriero. Il 7 ottobre intervenne con una lettera diretta ai Reggitori di Parma chiedendo la punizione esemplare dei responsabili degli atti commessi ai danni della badessa. In quella lettera il Piccinino spiegava che gli stavano a cuore le cose di Niccolò quanto le proprie e che comunque chiedeva solo giustizia. Poiché questa tardava a essere concessa, vi fu un secondo intervento energico del Piccinino. Sulla via di ritorno da Venezia, mentre sostava a Verona, Niccolò venne allertato circa avvisaglie di guerra che si stava apparecchiando contro di lui nel Parmigiano, specie attorno al fortilizio di Noceto. Il giorno 11 egli preavvertì i figli di vigilare e predisporre con urgenza le difese di Guardasone e delle altre rocche poste a presidio delle sue terre, cautelandosi dunque contro attacchi improvvisi. Posti in preallarme tutti i castelli dei Terzi, ne conseguì un tumulto di armi e armati convenuti entro quelle mura. Il nove del mese di novembre i timori espressi dal Guerriero divennero certezze: i Reggitori di Parma avevano deciso di passare all’attacco e inviarono le loro milizie all’attacco di Colorno, allora affidata da Niccolò al figlio Gaspare, le cui imprese ai danni di vicini e più lontani avevano accumulato e diffuso nel tempo molti motivi di vendetta. Posta sotto assedio la cinta di Colorno, gli abitanti non tardarono a sottomettersi ai Parmigiani. L’11 dicembre essi firmarono nel corso della notte i capitoli di resa che erano stati loro proposti. Il giorno 14, oltre quaranta dei più facoltosi Colornesi, in rappresentanza del borgo, andarono a Parma per giurare ai Reggitori fedeltà e obbedienza. Non altrettanto avvenne per il castello della rocca, che il 31 dicembre restava sotto assedio. Francesco Sforza signore di Milano La vicenda di Niccolò Terzi il Guerriero valicava da sempre i confini del Parmense per interagire con gli eventi di Milano e, per quanto riguardava i destini della sua famiglia, con le iniziative degli Sforza. Così fu anche nel corso di quell’anno. 311 N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XII. 145 Francesco Sforza, dopo il suo tradimento e la conversione al soldo di Venezia, era divenuto il peggior nemico della Repubblica Ambrosiana, al punto che il 27 dicembre precedente questa aveva addirittura posto una taglia di 10 mila ducati per la sua cattura. Il condottiero, al comando dell’armata veneta, aveva conquistato nei mesi precedenti Novara e successivamente Alessandria, Tortona e Vigevano. Il 14 febbraio Parma, arrendendosi all’inevitabile, si concesse allo Sforza, traditore conclamato della Repubblica Ambrosiana, e abolì il suo Reggimento di difesa che l’aveva governata fino a quel punto e che tanto si era impegnato a denunciare fantasiosi tradimenti di Niccolò Terzi. Il Corio ci informa che Francesco occupata Parma, ordinò che la città fosse affidata ai fratelli Manfredo e Giberto da Correggio, Ludovico Malvezzi e Pietro Maria Rossi. A questi egli aggiunse Niccolò Guerriero. Stando a quel che narrano i fatti, sembra che in quei primi mesi del 1449 i rapporti instaurati fra i due capitani d’armi, il vittorioso Francesco e l’emarginato Niccolò, fossero animati da reciproca fiducia e persino familiari. Francesco Sforza assicurò ai Terzi la conservazione di ogni loro dominio, possesso e beni. Niccolò teneva allora nel Parmigiano le terre e le rocche di Guardasone e Colorno, sopra e sotto Parma, oltre a Castelnuovo nel Piacentino.312 Tuttavia quella cordiale intesa risultò assai effimera, come tutte le altre stipulate a quel tempo. Poche settimane più tardi, infatti, il Terzi si accordò con l’amico Alfonso V d’Aragona, re di Napoli e pretendente al Ducato di Milano in virtù del testamento rogato a suo favore da Filippo Maria Visconti. Mise a disposizione i suoi feudi parmigiani per interventi a supporto della Repubblica Ambrosiana, ridotta in stato preagonico, assalita e circondata dall’esercito veneto sotto comando sforzesco. Re Alfonso, che teneva sue truppe in Toscana e in Romagna, poté così disporre di basi militari avanzate contro Milano, come le munitissime rocche di Colorno e Guardasone dove inviò subito ottocento fanti, mentre Astorre II Manfredi, a Faenza, ordinava l’invio di 1500 cavalli e 500 fanti. Se non che Francesco Sforza, informato di quanto stava maturando, prevenne le manovre, convinse presto il Manfredi, versandogli un anticipo di alcune migliaia di ducati, a riportare le sue milizie in Romagna. Il presidio del castello di Guardasone,313 assediato da Alessandro Sforza e dalla gente dei Rossi, non appena seppe che l’attesa di ulteriori rincalzi sarebbe stata vana, decise d’arrendersi. Niccolò Guerriero, che attendeva l’evolvere degli eventi a Colorno, si rese allora conto a sua volta che la situazione era ormai irrimediabilmente compromessa e di trovarsi isolato, senza più speranze di 312 313 Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., p. 572. Agli inizi d’autunno 1449, sorpreso entro le mura del castello di Guardasone, assediato dagli sforzeschi e dai Rossi, si trovava anche il giovane umanista e letterato Basinio da Parma (noto anche come Basinio Basini), forse qui inviato da Lionello d’Este con un’ambasciata per il Terzi. Costretto a combattere tra i difensori, cantò poi quell’esperienza bellica in una sua elegia. Basinio era nato nel castello di Tizzano nel 1425, scrive in un epistola a papa Niccolò V. Il padre Vincenzo aveva combattuto agli ordini di Ottobono. I. AFFÒ, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò, II, Parma 1789, pp. 185-196. 146 riscatto, privo di adeguate risorse militari e politiche, tanto a Parma come a Milano. Egli aveva già fatto partire la propria famiglia, la moglie Ludovica e i figli non combattenti, per Mantova. Pochi giorni dopo, commosso, accompagnato da un gran numero di suoi cavalieri e fanti, abbandonò anch’egli il suo ultimo feudo, le terre e il castello Colorno, per essere accolto presso l’amica e ospitale corte del marchese Ludovico III Gonzaga. L’Angeli, ripetendo fedelmente la narrazione di questi avvenimenti compiuta da Giovanni Simonetta nella sua Sforziade,314 ripresa con poche varianti anche da Bernardino Corio,315 nella Historia di Milano, così scrive: Per la qual cosa quelli di Guardasone veggendosi fuori della speranza di questo soccorso, né d’altronde aspettandone, pochi dì dopo si danno ad Alessandro. della qual cosa havutone Nicolò novelle, non giudicò, che fusse da aspettarlo in Colorno, dove allhora si trovaua, & perchè non paresse a’ suoi, ch’egli se ne fuggisse, finſe havere bisogno di gire a Mantova, dove prima haveua mandato la moglie, & l’altra famiglia non atta all’arme, per procurare il sussidio gia domandato al Re, et così lasciato Colorno, il quale era ben fornito di cavalli, & di fanti con molte lagrime se ne’ fuggì a Mantova.316 Lo accompagnarono verso quell’esilio altri della famiglia Terzi che avevano combattuto nelle sue compagnie: Giacomo o Jacopo, Beltrando o Beltramino, Gherardino o Girardino, Giberto, Guido o Guidone e Niccolò.317 Dopo la precipitosa e disperata partenza del Guerriero, arrivò in suo tardivo soccorso, inviato da Alfonso re di Napoli, il valoroso capitano Raimondo Anichino alla testa di 500 cavalieri. Posto il suo quartiere in terra reggiana, egli seppe che Colorno era stata messa sotto assedio dalle truppe di Alessandro Sforza. Pur dotato di forze scarse, portandosi con il favore della notte sotto la cinta colornese, Anichino operò dei tentativi, tutti falliti, di introdurre nella rocca che ancora resisteva i suoi militi. Lo Sforza reagì assalendo, anch’egli nottetempo, le truppe dell’Anichino mettendole in rotta e bruciandone l’accampamento. Seguì poco tempo dopo la completa resa dei Colornesi, del borgo e della rocca. Cfr. G. SIMONETTA, Sforziade, Lib. XIX, p. 178 Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, cit., pp. 906-907. 316 B. ANGELI, Historia della città di Parma, cit., p. 390. 317 I Terzi, che poi radicarono la loro discendenza in terra mantovana, furono impiegati per uffici di rilievo presso la corte dei Gonzaga. I medesimi, fregiati dal titolo di comes, o i loro figli, si sposarono con fanciulle o eredi del patriziato di quella terra. Niccolò Terzi, figlio del Giorgio Terzi, fratello del Guerriero, che fu promesso sposo nel 1408 di Palma, erede di Ugolotto Biancardo, nel 1456 si unì in matrimonio con Lucia di Cervato Secco; Guido, figlio di Guidone, con Lucia Lanfranchi di Panfilo; Jacopino, figlio di Giacomo, con Armellina Folenghi di Lorenzo. Il conte Gherardino II Terzi fu il consorte, in prime nozze, di Polissena di Alessandro di Giovanni Lisca. La loro figlia Elena, sposò nel 1474, Ludovico Uberti. Beltramino, prima di finire in prigione per reati imprecisati, impalmò Agnese Strozzi, figlia di Uberto. Cfr. I. LAZZARINI, Fra un principe e altri stati, cit., pp. 298, 335, 344 nota, 373. 314 315 147 Con questa estrema disfatta dei Terzi aveva conclusione anche la guerra nel Parmigiano, dove ogni terra si era ormai arresa al nuovo padrone milanese. Alfonso d’Aragona serbò sempre gratitudine per l’aiuto coraggioso che aveva ricevuto da Niccolò il Guerriero nel suo fallito tentativo di insediarsi a Milano quale erede designato del duca Filippo Maria. Il re di Napoli intervenne presso Francesco Sforza il 28 ottobre 1453 inviando una missiva che si concludeva con una richiesta: «Postremo se demanda che a lo magnifico Nicolo Guerrero et altri Signori de Terciis recomendati de la prefacta Maiesta siano restituiti tucte le castelle, terre et roba qualsivoglia che le sia tolta per ipso conte Francisco. Et etiam a quelli signori di Cortegio».318 L’istanza non trovò ascolto e il re di Napoli la ripeterà, annota Bartolomeo Facio nelle sue Res Gestae Alphonsi Regis, allorchè decise infine d’aderire alla Lega Italica, formatasi in seguito alla firma della pace di Lodi dell’aprile 1454. Il giorno 26 gennaio 1455, scrive Pezzana «impetrò inoltre che fossero restituite a Niccolò Guerriero ed ai Correggesì le castella che aveano perdute».319 Camerlengo alla corte dei Gonzaga a Mantova Niccolò Terzi trovò certamente la migliore accoglienza presso la vivace corte mantovana di Ludovico III. Non si conosce la data, ma probabilmente da subito, al suo arrivo in quell’esilio, egli fu investito di mansioni delicate non in quanto Guerriero – l’appellativo con il quale passò alla storia - meritato nelle sue prime imprese giovanili, ma in virtù delle competenze ed esperienze acquisite presso la corte ducale milanese. Qui egli era stato apprezzato da Filippo Maria Visconti per la sua opera di diplomatico, nel rango di consigliere e quindi come tesoriere in administranda pecunia «di grande auttorità, come quelli che ministravano i denari». Il Terzi approdò alla corte di Mantova in una fase temporale in cui, tra il 1444 e il 1459, Ludovico III Gonzaga stava «definendo il proprio ruolo come inequivocabile signore della città» per «organizzare il governo e l’amministrazione del marchesato».320 Nel 1457 Niccolò il Guerriero era accreditato quale camerlengo, una carica che seppe mantenere anche dopo il 1460, quando gli effetti delle ampie riorganizzazioni e degli «intenti del Gonzaga ebbero modo di dispiegarsi progressivamente e uniformemente in sincronia con lo sviluppo della città e del territorio»;321 un rango e una dignità di corte322 che ancora lo distingueva A. JAVIERRE MUR, Alfonso V de Aragón y la República Ambrosiana, 1447-1450, «Boletín de la Real Academia de la Historia», 156, 1965, p. 269. 319 «Facius, Res Gestae Alphonsi Regis, in Graev., T. 9, Pars. 3, col. 174 e 186». Cfr. A. PEZZANA , Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, pp. 119-120. 320 I. LAZZARINI, Fra un principe e altri stati, cit., p. I. 321 Ivi, p. VIII. 322 L’importanza della funzione di camerlengo va qui considerata nell’ambito delle caratteristiche proprie della corte mantovana, descritte nello studio dedicato a quel contesto dalla Lazzarini: «Intorno ai Gonzaga dunque si muoveva un gruppo di uomini assai vario, organizzato in modo non formale, ma chiaro, cui erano attribuite varie funzioni di diverso peso e significato, 318 148 allorché, dodici anni dopo, ottenne il cingolo di cavaliere dall’imperatore Federico III d’Asburgo. Il 17 giugno 1457 Ludovico III Gonzaga scrisse ai Reggitori della Comunità di Lucca per raccomandare «il nobile nostro camerlengo Nicolò Terzo» che si recava in quella città per risolvere alcuni suoi problemi amministrativi. In quella missiva il signore di Mantova insisteva perché venissero senza indugi accolte le sue richieste: «Il perché avegna siamo certi che esse sempre haverrano ricomandato cischuno et maxime li nostri, no glie mancharano d’alcuno favore, per satisfare ale pregere de esso Nicolò». Non mancava, il marchese Ludovico, di pregare le autorità lucchesi di avere riguardo del nobile Terzi anche per amor suo: «Per la qual pregiamo le prefate magnificentie vostre che etiam per amor nostro vogliano a rasone havere per ricomandato dicto Nicolò». Ludovico Gonzaga concludeva chiedendo di assicurare a Niccolò ogni favore e quant’altro necessario affinché la questione fosse risolta con la massima sollecitudine, «facto ragione summaria breve et expedita», consentendo così che il suo camerlengo «cum presteza il vegna ad esser satisfacto e possa ritornare a servirce, che di questo ce farano piacere assay esse vostre magnificentie».323 Quando nel febbraio 1469, sulla via di ritorno verso la Germania dal suo secondo viaggio a Roma, sostò a Ferrara l’imperatore Federico III d’Asburgo, vi creò molti cavalieri. Fra i più illustri si trovò anche il treenne Francesco Gonzaga, celebre poi come Francesco II, primogenito del signore di Mantova Federico I, qui accompagnato dall’ormai anziano “parmexano” Niccolò Terzi 323 caratterizzate dall’essere fisicamente e idealmente presenti là dove il potere incarnato dal principe risiedeva abitualmente. Questi uomini rivestivano incarichi diversi: gli uni gestivano funzioni nevralgiche per il governo dello stato (possiamo riconoscerli fra i detentori dei ‘principali offici di Mantova’ dello Schivenoglia), gli altri erano responsabili della cura minuta e quotidiana del principe e dei suoi familiari ed erano loro compagni negli svaghi (sono camerlenghi e cortigiani). […] Tutti si muovevano in corte, allorché a questo termine polivalente si attribuisca, com’è frequente riscontrare nelle fonti, un significato fisico, architettonico. Nel complesso dei palazzi gonzagheschi gravitanti intorno alla grande piazza del Duomo, oggetto plurisecolare dell’attenzione dei Signori di Mantova si trovavano infatti non solo gli appartamenti di residenza dei capitani, poi marchesi della città, ma i locali della cancelleria, del consiglio, della camera». Ivi, pp. 110-111. «Comunitati Luce, magnifici et cetera. Venendo adesso a quelle parte il nobile nostro camerlengo Nicolò Terzo, portator presente, per certe sue facende et maxime per riscodere certa quantità de denari da uno suo debitore habitante lì, come da luy le magnificentie vostre serano apieno informate, el ne havia pregato che lo volessemo ricomandare a quelle. Il perché avegna siamo certi che esse sempre haverrano ricomandato cischuno et maxime li nostri, no glie mancharano d’alcuno favore, per satisfare ale pregere de esso Nicolò non gli havemo voglito negare questa nostra per la qual pregiamo le prefate magnificentie vostre che etiam per amor nostro vogliano a rasone havere per ricomandato dicto Nicolò e contra questo suo debitore comettere che ‘l ge sia facto ragione summaria breve et expedita, prestandoli circa ciò ogni favore et altorio ge fosse necessario, aciò che cum presteza il vegna ad esser satisfacto e possa ritornare a servirce, che di questo ce farano piacere assay esse vostre magnificentie. Ali piaceri dele quale et cetera. Mantue ut supra [XVII junii 1457]» In Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2885, libro 30, c. 21v, Ludovico Gonzaga alla Comunità di Lucca, Mantova 17 giugno 1457. 149 presso presso la cortela mantovana. Si legge Terzi «il Guerriero», «il Guerriero», ancora ancora in caricacamerlengo quale camerlengo corte mantovana. Si nella coevacoeva di Andrea Schi Schivenoglia: Schivenoglia: legge cronaca nella cronaca di Andrea Nota Fedrigo aa Ferara Ferara con con gran Nota che che de de lano lano 1469 1469 vene vene lo lo imperadore imperadore Fedrigo gran trionfo, da Roma Roma et et questo questo foe foe fato, fato, perchè perchè quando quando luij luij trionfo, el el qual qual era era venuto venuto da andete chognossuto ne ne saputo saputo andete aa Roma Roma luij luij andete andete che che luij luij maij maij non non foe foe chognossuto perfina sotoscripti andete andete aa Ferara Ferara ee foe foe fati fati perfina chel chel non non foe foe in in Roma Roma et et lili sotoscripti chavalerij 1469 et chavalerij adij adij 14 14 de de febraro febraro 1469 et si si se se parti parti da da Mantoa Mantoa con con grande grande trionfo trionfo et mess. Fedrigo Fedrigo fiol fiol de de mes. mes. lo lo et Chompagnie. Chompagnie. Mes. Mes. Francesco Francesco fiol fiol de de mess. 324 Mes. marchexo qual avia avia trij trij anij: anij: 322 Mes. Lanzalete Lanzalete di di Ipolitij, Ipolitij, el el marchexo de de Mantoa, Mantoa, el el qual qual conte de de Gazolio, Gazolio, Mes. Mes. Nicolò Nicolò Terzo, Terzo, el el qual qual se se chiamava chiamava prima prima el el conte qual era era 325 parmexano, chamerlengo del del nostro nostro marchexo. marchexo.323 parmexano, ma ma al al presente presente era era chamerlengo Questa Questa èè l’ultima l’ultima traccia traccia che che lasciò lasciò di di sé, sé, al al tramonto tramonto della della sua sua combattuta Guerriero, combattuta esistenza, esistenza, Niccolò Niccolò ilil Guerrie Guerriero, divenuto divenuto infine infine mantovano mantovano ee alto alto dignitario dignitario alla alla corte corte dei dei Gonzaga. Gonzaga. Andrea Andrea Mantegna, Mantegna, Personaggi Personaggi della della corte corte di di Ludovico Ludovico III III Gonzaga, Gonzaga, Castello Castello di di San San Giorgio Giorgio aa Mantova, Mantova, Camera completato pletato tra tra ilil 1465 1465 ee ilil 1474, 1474, al Camera degli degli Sposi. Sposi. L’affresco L’affresco fu fu completato al tempo tempo in in cui cui Niccolò Niccolò Terzi Terzi ilil Guerriero Gonzaga Guerriero era era camerlengo camerlengo alla alla corte corte dei dei Gonzaga. Gonzaga. 322 324 323 325 Francesco 1519), primogenito al padre padre quale quale Francesco II II Gonzaga Gonzaga (1466-1519), (1466-1519), primogenito di di Federico Federico I, I, succederà succederà al d’Este. marchese Isabella d’Este. d’Este marchese di di Mantova Mantova nel nel 1484. 1484. Il Il 15 15 febbraio febbraio 1490 1490 sposerà sposerà Isabella Cfr. 1484 Cfr. A. A. SSCHIVENOGLIA CHIVENOGLIA,, Cronaca Cronaca di di Mantova Mantova dal dal 1445 1445 al al 1484, 1484, trascritta trascritta ee annotata annotata da da Carlo Carlo d'Arco, d’Arco, Mantova Mantova 1976, 1976, pp. pp. 45-46. 45-46. 150 150 6. I Terzi di Sissa Il 1409 fu l’annus horribilis per i Terzi. A conclusione della guerra con Niccolò III d’Este i personaggi di maggior spicco della famiglia, i tre figli del conte Niccolò Terzi il Vecchio, scomparvero annichiliti: massacrato a fine maggio Ottobono, trucidato a settembre Giacomo, imprigionato e spento con il veleno Giovanni. Alla disintegrazione fisica degli esponenti maggiori della stirpe corrispose la dispersione e, almeno all’indomani della faida, la rovina materiale dei loro eredi, subito privati di terre e castelli. A questa malasorte riuscirono a sottrarsi abilmene i Terzi di Sissa che s’acconciarono senza indugi agli ordini dei nuovi padroni di Parma, correndo ad asservirsi al carro del vincitore. Il 6 luglio 1409, quaranta giorni dopo l’assassinio del cugino Ottobono, Giberto II e Antonio Terzi «vedendo ogni loro cosa andare in sinistro, venuti a Porta S. Croce, conchiusero un accordo coll’Estense».326 Nati come ramo della casata dei Terzi di Parma, i Sissa discendevano da Gherardo (I) Terzi, o Gerardo Tercius, padre di Guido I (il Guido Tercius nominato in un documento del 1311).327 Il medesimo Guido è menzionato accanto al fratello Filippo, per le esenzioni e i privilegi loro accordati, nel diploma concesso dall’imperatore Ludovico il Bavaro il 7 dicembre 1329, ove entrambi recano il cognome de Tertiis.328 Di Filippo, o Filippone, non si conosce discendenza, mentre Guido, o Guidone, ebbe certamente una figlia, Giovanna, andata sposa al marchese Gugliemo Pallavicino, e tre figli maschi: Ghirardino I, Niccolò il Vecchio, conte di Tizzano, e Giberto. Quest’ultimo fu il capostipite dei Terzi di Sissa. A lui e ai suoi discendenti, nel 1386, Gian Galeazzo Visconti concesse in feudo la terra di Sissa unitamente a Trecasali, rafforzando il privilegio con immunità ed esenzioni. Giberto morì lo stesso anno, nel 1413, in cui fu infeudato quale conte, lasciando due figli: Antonio e Guido (II), militi egregi. Antonio Terzi non ebbe figli: capitano d’armi al servizio dei Visconti, tra i migliori del Ducato, alla celebrazione delle sfarzose esequie di Gian Galeazzo, nel 1402, fu tra gli otto nobili lombardi che ebbero l’onore di recare a spalla il feretro. L’otto giugno 1413 Guido (II), morto il padre Giberto, fu inscritto come signore di Sissa nel registro delle investiture feudali milanesi. 329 Egli ebbe due figli: Costanza, ricordata nel testamento della prozia Giovanna Pallavicino, e Giberto (II). Questi fu il padre di Guido (III), di un Niccolò e di Giberto (III). Nel 1422 Sissa fu occupata dalle milizie della Repubblica di Venezia, alleata dei Terzi allora in guerra contro il duca di Milano. I Veneziani già possedevano il forte castello di Torricella, il cui porto, sito fra il Po e il Taro, il cui presidio era di fondamentale importanza strategica, presidiando i collegamenti fluviali lombardi, in A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 126. Nel 1311 un Guido Tercius è citato tra i cittadini più insigni di Parma. Cfr. A. GAMBERINI, Un condottiero alla conquista del suo Stato, cit., p. 285. 328 Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, cit., pp, 370-371. 329 Precisa il Pezzana: «Perciocché nel Registro delle Investiture feudali che stanno in questo Archivio dello Stato si trova una concessione fatta da Giovanni a Frate Ercolano da Canobio, Proposto degli Umiliati di Parma, ed a Guido Terzi di quondam Giberto, Signore di Sissa, concessione che si asserisce rogata il dì 8 di giugno del vegnente anno 1413 (scritto con tutte lettere così: millesimo quadrìngentesimo decimo tertio, Indictione sexta) dal Cancelliere vescovile Andrea da Neviano)». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 149 nota. 326 327 151 particolare con Milano e Cremona.330 Due anni più tardi la rocca di Sissa, al centro d’interminabili scontri e obiettivo di troppi assalti, aveva accumulato rovine e danni ingenti. A gennaio i Veneziani, dovendo optare tra la ricostruzione integrale o l’abbandono, scelsero una terza via: ne demolirono in gran parte la cerchia, consapevoli che il mantenere la rocca in quello stato fatiscente sarebbe stato eccessivamente oneroso, e in definitiva altrettanto inutile come il mantenervi una stabile guarnigione, poiché la fortificazione, isolata e in posizione sfavorevole, sarebbe rimasta comunque facile preda degli altri manieri, ben più muniti, che la circondavano, presidiati da forze ostili. Ne preservarono soltanto il mastio, la torre principale, e consegnarono quanto restava del borgo, con Torricella, a Guido (II) Terzi, nominato contestualmente «governatore del castello di Sissa». Una più ampia ricostruzione della rocca, di dimensioni tuttavia assai meno poderose rispetto a quelle originarie, fu avviata solo dopo il 22 ottobre 1440, quando Filippo Maria, duca di Milano, investì del feudo di Sissa e delle ville dipendenti, concedendo il mero e misto impero e il godimento di ogni più ampia giurisdizione, i fratelli Giberto (III), Niccolò e Guido (II) Terzi, tornati nell’amicizia dei Visconti «i quali spontanei e con grave propria incommodità sovvenuto aveanlo di ragguardevole somma di pecunia». Queste concessioni furono rese effettive dalla commissione del duca di Milano del 21 di novembre e decisero la separazione da Parma delle giurisdizioni di Sissa e delle sue dipendenze di Borgonovo sotto l’argine, Casal Foschino, Sala e San Nazaro. Alla cerimonia d’investitura era presente Guido (II): prestò giuramento anche a nome dei fratelli.331 Michele Daverio, nelle sue Memorie sulla storia dell’ex Ducato di Milano, scrisse che il 3 novembre 1440 «quantunque il Duca avesse poco da gloriarsi della campagna di quest’anno, pure volle premiar alcuni di quelli Condottieri d’armi, che dal canto loro non avevan mancato di attaccamento, e valore». Tra questi condottieri premiati da Filippo Maria Visconti, si trovavano, oltre al magnifico Niccolao Guerrero, altri Terzi del ramo di Sissa: i fratelli Beltramino e Gherardino (II), ai quali furono assegnati in feudo il castello di Torricella e le ville di Gramignazzo, Coltaro, Trecasali, Palasone con le case di Barcolo dalla Fossa, Rigosa.332 330 331 332 Il 16 marzo 1427 Torricella, già possesso dei Terzi, occupata dai Veneziani, subì gli assalti di Niccolò Piccinino inviato da Filippo Maria Visconti al comando di mille militi forniti da Orlando Pallavicino, Pietro Rossi e Giberto Sanvitale. A rinforzo delle truppe in campo, la città di Parma inviò agli assedianti 250 guastatori e una catapulta per scagliare pietre e ordigni contro le mura. Il 23 marzo Torricella si arrese a Niccolò Piccinino, condottiero dei Visconti. «A concedere la quale fu mosso Filippo dalla indefessa sollecitudine dei Terzi a prò di lui, e specialmente dall’ averlo essi in que’ giorni di grandi necessità sovvenuto di 2000 fiorini a 32 soldi imp. l’uno. Dichiara egli nell’investitura di essere sempre per ricordarsi di così segnalato servigio prestatogli con grave loro incommodo, poiché erano essi medesimi poveri di danaro, e, volendo in qualche guisa rimunerameli, e considerando ad un tempo la sincerità della fede, e la servitù dei loro antenati, concede loro quel feudo, e delega il suo Consigliere Corradino de’ Capitani di Vimercato a darne loro il possesso». Ed aggiunge: «Il rogito di questa fatto nelle case del Corredini in Milano a’ 21 novembre è di Gian-Francesco Gallina Segretario e notajo Ducale (Arch. dello Stato, Registro d’investiture feudali, da c. 234, t.°, a 241- Ivi n’ è altra copia antica fra le carte dei Terzi)». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., pp. 429-430 nota. Cfr. M. DAVERIO, Memorie, cit., p. 169. Daverio qui scrive di Beltramino e Gherardino fratelli «da Trezzo» volendo forse scrivere «da Terzo». Pezzana, citandolo, sottolinea l’errore e subito propone la correzione che, però, sembra contenerne due altri. Infatti, dopo dopo aver letto «da Trezza invece di de’ Terzi», scrive che Beltramino e Gherardino «erano figliuoli di Matteo 152 Beltramino e Gherardino (II) erano verosimilmente figli del Terzo, figlio naturale di Gherardino I, beneficiato nel testamento, più sopra ricordato, di Giovanna Terzi vedova Pallavicino, e quindi nipoti del Gherardo I Terzi che nel 1362 aveva ottenuto da Bernabò Visconti la proprietà della rocca in rovina di Torricella che si ergeva in riva al Po e l’aveva ricostruita. 333 Tornando ai Terzi di Sissa, si trova che nel 1441, il 27 di novembre, Filippo Maria Visconti assegnò a Giberto (III) e Guido (II), e ai loro discendenti, nuove terre e castellanie in aggiunta a quelle loro concesse l’anno precedente. Quale compenso della loro fedeltà e, soprattutto, della loro tangibile e generosa devozione (avevano offerto ‘spontaneamente’ al duca un sonante sussidio di mille ducati d’oro) furono investiti dei nuovi feudi di Belvedere, Vezzano, Moragnano, Lalatta, Fontanafredda, Triviglio ed Antignola, sottratte alla giurisdizione di Parma e separate da questa.334 Il favore che i Terzi di Sissa avevano saputo riconquistare presso la corte dei Visconti fu coltivato e incrementato con cortigiana sagacia anche quando, defunto il duca Filippo Maria e tramontata la Repubblica Ambrosiana, Francesco Sforza prese il potere su Milano e sulle terre lombarde. La concessione in feudo sancita nell’ottobre 1440 e integrata nel 1441 dal Visconti fu rinnovata ed estesa dieci anni dopo da Francesco Sforza. Il 17 giugno 1450 il nuovo duca di Milano, allora dimorante a Lodi, decise l’erezione in Contea delle terre di Belvedere e di Sissa con le ville annesse, e proclamò conte Guido II, presente a quell’atto solenne, e tutti i suoi discendenti, maschi e legittimi, in infinitum con il mero e misto impero, con la podestà di gladio e con piena giurisdizione. Giusto un anno dopo, con la deliberazione ducale del giugno 1451, fu concessa ai nipoti di Guido II, figli di Giberto III, i diritti sopra una terza parte di Sissa e una metà di Belvedere. Un’altra terza parte fu assegnata al fratello di Guido e Giberto, il nobile Niccolò. La Contea di Sissa estendeva allora la sua giurisdizione sino a Casalfoschino, Sala, Borgonovo sotto la ghiaia, San Nazzaro. La Contea di Belvedere comprendeva le ville di Montignano, Antignolo, Urzano, Beliate, Fontanafredda e Trivilio. Lo Sforza dichiarò testualmente che così aveva deciso per ricompensare «la singolar fedeltà e Terzi» (A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 430). Ora, di un Matteo dei Terzi non si trova alcuna traccia nelle cronache. Se ne reperiscono invece, puntuali, riguardo a un Terzo, figlio naturale di Gherardino o Gherardo Terzi, abitante a Torricella, che l’8 luglio 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli concedesse, ottenendola, una torre in gran parte caduta in rovina e disabitata che sorgeva in riva al Po (cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 14 nota). Il medesimo Terzo, figlio di Gherardo o Gherardino Terzi, verosimilmente padre di quest’ultimo Gherardino, nonché di Beltramino, nuovi feudatari di Torricella, risultava beneficiario, l’8 agosto 1392, di un legato stabilito dalla zia, la nobile Giovanna Terzi, vedova del marchese Guglielmo Pallavicino. Il rogito è quello del notaio Cassano de’ Cassani del quale si è riferito in note precenti. E. SCARABELLI ZUNTI, Tavole genealogiche della famiglia Terzi, cit. 333 A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 105 nota. 334 «L’atto d’investitura fu rogato in Milano: il Capitani ricevette colà dai due fratelli Terzi il giuramento di fedeltà conforme in tutto a quello che prestarono nel precedente anno pel feudo di Sissa, ed eglino obbligaronsi a restituire il feudo di Belvedere al Duca quando piacesse a lui di dar loro cosa equivalente.Trovasi menzione di questa nuova investitura anche in una lettera del dì 27 novembre, con cui il Duca ne rende partecipi gli Uffiziali di Parma, affinchè i luoghi concessi ai Terzi non sieno per l’avvenire aggravati d’imposte». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 454 nota. 153 devozione verso lui e lo Stato suo, la grandissima integrità, la prestanza, il valore e l’altre preclare doti» di Guido, del quale ogni studio, ogni pensiero era unicamente rivolto a prestarsi al piacere di Sua Signoria, e il quale «a tutelare ed ampliare lo Stato di questa espone a del continuo con franco animo le proprie facoltà».335 Guido II sposò Paola dei Lanfranchi ed ebbe due figli: Panfilo e Giovan Maria, padre a sua volta di Panfilo e di un Giovan Francesco con i quali il suo ramo si estinse. Il fratello di Guido, Giberto (III) si era unito a Chiara Pallavicino e quel matrimonio fecondo contò nove figli: Panfilo, Giovan Maria, Niccolò, Apollonio, Carlo, Filippo, Ottobuono, Antonio e Ludovico. Quest’ultimo fu il marito di Caterina degli Arcelli di Piacenza. Dal loro matrimonio nacquero Guido (III) e Francesco. La nuova rilevanza conquistata dalla casata dei Terzi, o meglio dal superstite ramo di Sissa, è significativamente testimoniata dagli atti diplomatici. Quando, nel 1451, fu patteggiata la lega tra la Repubblica di Firenze e il duca di Milano, tra le norme vi era quella che imponeva a ciascuno degli alleati di comunicare all’altro l’elenco dei propri feudatari e degli altri più importanti collegati ai due stati. Il duca Francesco Sforza nominò suo rappresentante plenipotenziario il fratello Alessandro, che nel novembre, a capo dell’ambasciata ducale, ratificò il trattato di alleanza. Quando l’atto fu rogato a Parma, il 14 di quel mese, era presente alla cerimonia il conte Guido (III), accompagnato dai suoi zii Filippo e Ottobuono.336 Le nuova investiture di Sissa e Belvedere Il conte Guido (II), sempre benvoluto e quindi beneficato dai duchi di Milano, morì agli inizi del 1459. La vedova Paola dei Lanfranchi rivolse subito istanza al signore di Milano Francesco Sforza, a tutela dei figli Pamfilo e Giammaria, per la parte loro spettante dell’investitura dei feudi di Belvedere e di Sissa concessa al padre e ai suoi discendenti nel 1450. La nuova investitura venne data il 12 aprile da Cicco Simonetta, quale mandatario e procuratore del duca, a Cristoforo Piazza, procuratore di Paola, vedova del conte Guido.337 Il 26 marzo 1467 venne formalizzata la deliberazione ducale con la quale Galeazzo Maria e Bianca Maria Visconti prorogarono l’investitura di Belvedere e Sissa 335 336 337 «Registro d’investiture Feudali nell’Arch. dello Stato, ac. 241, t.°, e 242 […] Per maggiore dignità di essa Contea il Duca diede al Terzi lo stemma consistente in un Cane bianco sur un monte con una palma nella destra zampa ed un cartello colle parole Tibi soli: «unum Canem album super uno monte existentem cum palma una in grampha dextera cum brevi uno cum litteris dicentibus: TIBI SOLI, cum cazia una scopino moralia in campo caelestro et viridi habenti super adamantes tres simul connexos». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 41 nota. La ratifica fu rogata dal notaio Martino Ricci presso la dimora di Alessandro Sforza a Parma, nella parrocchia di S. Paolo pro burgo anteriori. «In quest’atto si legge che il Duca avea conchiusa di fresco una vera ed intrinseca confederazione e lega colla Eccelsa e Potente Comunità di Fiorenza, e che la nominazione de’ predetti aderenti e complici dovea da questi essere appunto riconosciuta ed approvata con atto pubblico da mandarsi alla parte che li avea nominati. Ivi dichiarò Alessandro di accettare essa nomina libenti, hilari, et gaudenti animo». Cfr. ivi, p. 59. Il rogito fu stilato da Cristoforo da Cambiago, Cancelliere ducale: cfr. ivi, p. 190. Gentile, un nipote del potente Cicco Simonetta, segretario di ducale di Francesco e poi di Galeazzo Maria Sforza, fu insediato quale cofeudatario condomino con i Terzi nelle terre di Sissa, titolare della Contea di Torricella, che comprendeva le terre a Gramignazzo, Coltaro, Palasone, Trecasali, Rigosa e Fossa. Il feudo fu confermato a Gentile Simonetta nel 1499 da Luigi XII, re di Francia. 154 al «prode Lodovico Terzi del q. Giberto (III), per lui, pe’ fratelli e per altri consanguinei suoi».338 L’11 maggio 1495 promisero fedeltà, omaggio e obbedienza al duca Ludovico il Moro e alla consorte duchessa Beatrice d’Este gli esponenti della famiglia Terzi legati al rinnovo delle investiture per le parti delle contee di Sissa e Belvedere loro spettanti. Prestarono giuramento i figli di Ludovico, Francesco I e Guido III. Erano presenti inoltre al giuramento, per mezzo dei rispettivi procuratori, Antonio, figlio di Giberto (III), i nipoti di quest’ultimo Paride ed Ettore (figli legittimi di Ottobuono) e Giberto (IV) (di Filippo). La battaglia di Fornovo Francesco I Terzi, capitano di Ludovico Sforza detto il Moro, duca di Milano, due mesi dopo quel giuramento, il 6 luglio 1495, fu ucciso alla battaglia di Fornovo combattendo da prode contro i Francesi. Egli aveva sposato Taddea dei Roberti figlia di Scipione. Dal loro matrimonio nacquero Caterina, morta nel 1485, Paolo, ancora vivente nel 1544, e Giampietro. Nel 1497 Giberto (III), nonno del valoroso Francesco, agendo in qualità di procuratore della vedova Taddea, tutrice di Giampietro, si appellò alla corte del duca di Milano per ottenere l’investitura a favore del figlio dell’ottava parte dei feudi di Belvedere e di Sissa. Il 29 settembre il duca accolse la domanda, memore soprattutto dei servizi che gli aveva reso il Ducalis Squadrerius Francesco Terzi. Giberto prestò poi, a nome dei suoi rappresentati, Taddea e Giampietro, il rituale giuramento di fedeltà nel Castello di Porta Giovia.339 Giampietro si sposò due volte: con Elisabetta dei Bernieri di Antonio di Parma e quindi con Isabella Benadusi di Scipione mantovano. Dai matrimoni nacquero Giuditta, Claudia e, nel 1505, Francesco (II). Vittima di un oscuro complotto, nel 1532 Giampietro finì assassinato per mano del prozio Ottobuono. Alleati e sudditi dei Farnese Nel 1551 i Terzi avevano affiancato i Farnese alleati della Francia contro gli imperiali e la Spagna nel corso la «guerra di Parma». Le loro terre fruirono della protezione delle milizie del duca Ottavio Farnese. Il 12 giugno, tuttavia, nonostante i rinforzi ricevuti, il castello di Sissa fu posto sotto assedio, espugnato, saccheggiato e diroccato dal conte Troilo Rossi al comando delle forze imperiali,. I Terzi poterono rientrarne in possesso solo l’anno successivo. Anche Torricella, feudo dei conti Simonetta, parimenti alleati dei Farnese, fu assalita nel corso di quella guerra dalle soldatesche spagnole. Ci furono tentativi di impadronirsi delle risorse preziose costituite dai mulini sul Po, ma i terrazzani, preavvertiti, reagirono con efficacia. Essi organizzarono una sortita riuscendo a sorprendere, catturare e massacrare una quarantina di invasori. La notte successiva arrivò la rappresaglia degli Spagnoli, che distrussero e affondarono tutti i mulini. Francesco II, figlio di Giampietro, conte di Sissa e Belvedere, sposò il 26 ottobre 1529 Isotta di Nogarola del conte Girolamo, dalla quale ebbe due figli: Giampietro (II) e Anton Maria. Quest’ultimo impalmò Flavia Appiani d’Aragona di Antonio. Dal loro «I fratelli erano Ottobuono, Filippo, Carlo, Apollonio ed Antonio. I consanguinei Panfilo e Gian-Maria (che avevano a tutrice Paola, vedova di Guido) e Niccolò zio di esso Lodovico»: ivi, p. 279. 339 L’atto, sta nel Registro delle Invest. feudali (Archivio dello Stato) da carte 256 a 26: Cfr. ivi, p. 303 nota. 338 155 matrimonio nacquero Francesco (III), morto nel 1590, e Luigi. Questi il 12 luglio 1623 convolò a nozze con Maria Cavalli, figlia del conte Paolo Camillo, ed ebbero cinque rampolli: Alessandro, primogenito, morì nel 1630; Francesco fu conventuale dei minori; Maria si maritò con Manuccio Visdomini; Lucilla era vivente nel 1636. L’ultimogenito, Ludovico, andò sposo alla contessina Lucrezia Scoffoni, dalla quale ebbe Ottavio, Niccolò, Angelica Corona e Antonio Maria. Antonio Maria Terzi (1629-1693) visse come gentiluomo alla corte del duca Ranuccio II Farnese. Sposò Anna Maria Farnese che gli regalò nove tra figli e figlie, tutte con il prenome di Maria o Mario. Cinque entrarono in convento: Francesca di S. Alessio, Anna di S. Francesco Saverio, Isabella, Costanza e Vittoria. Giulia rimase nubile e finalmente una Maria impalmò il conte Orazio della Somaglia. Dei due figli maschi, il secondogenito Mario sposò Lucrezia Scoffoni di Marc’Antonio da Parma senza lasciare discendenza. Il primogenito Gherardo (1655-1729) si sposò due volte: celebrò la prime nozze con Maria Teresa Cantelli che defunse il 16 gennaio 1687; passando alle seconde, scelse Anna Maria Maino (1667-1714). Da questo secondo matrimonio discese Francesco Maria che fu l’ultimo conte di Sissa e Belvedere. Maritato con Anna Maria Sanvitale, figlia del conte Ludovico, dama della duchessa Enrichetta d’Este, ebbe solo due figliole. La prima, Corona, andò sposa al marchese Bonifacio Rangoni di Modena. La seconda, Costanza,340 si maritò con il conte Antonio Marazzani Visconti di Piacenza. Il 17 dicembre 1758, deceduto il conte Francesco Maria Terzi privo di eredi maschi, la casata dei Terzi di Sissa si estinse confluendo nelle famiglie dei Rangoni modenesi e dei Marazzani Visconti piacentini. Il feudo di Sissa fu quindi devoluto alla Camera Ducale di Parma. 340 La contessa Costanza, figlia dell’ultimo conte di Sissa, sposa del conte Antonio Marazzani Visconti, diede alla luce l’11 agosto 1755 Francesco Maria. Educato a Roma all’Accademia Ecclesiastica, entrò nel 1780 come abbreviatore della Cancelleria Apostolica. Nella curia pontificia fu tra i collaboratori più stretti di Pio VI. Governatore di Sabina (1782-85), di Fabriano (1785-94), di Orvieto (1794-97), ricoprì quelli incarichi “con somma lode e decoro”. Successivamente fu assessore al Tribunale del governatore di Roma; relatore della sacra Consulta; referendario e votante nelle due sezioni del supremo Tribunale della Segnatura. Delegato apostolico a Fermo tra il 1802 e il 1808, si ritirò a Parma durante l’occupazione napoleonica di Roma. Nel 1819 era Vicario della basilica patriarcale di Laterano. Nel 1823 Pio VII lo nominava suo maggiordomo e Protonotario Apostolico. Papa Leone XII, che si avvalse di Francesco Maria Marazzani Visconti, tra l’altro, per avviare la riforma del palazzo apostolico e della guardia pontificia, lo creò cardinale in prectore dell’ordine dei preti nel concistoro del 2 ottobre 1826, tre anni prima della morte. 156 7. I Terzi di Fermo, poi Guerrieri I Terzi divennero cittadini di Fermo con il capitano d’armi Giovan Filippo, o Gio Filippo, figlio di Giacomo Terzi, nipote di Ottobono. Egli restò tuttavia unico e ultimo a portare in terra marchigiana il cognome parmense, e lo tenne solo per pochi anni, poiché, per ignote ragioni, lo cambiò in quello di Guerrieri, dando vita a un nuovo ramo della sua casata. Dopo l’uccisione di Ottobono e del padre Giacomo, nell’autunno 1409, nella diaspora che ne seguì per i Terzi di Parma, di Giovan Filippo si perdono le tracce. Ricompare nel 1431, rivestito della carica di podestà a Osimo, nella Marca anconitana.341 In quell’anno egli aveva già sostituito il nome del suo antico lignaggio con il nuovo e le Memorie historiche dell’antichissima, e nobile città d’Osimo lo indicano nel «Catalogo delli podestà» come Gio Filippo Guerrieri dal Monte Santo Pietro degl’Agli.342 Come il padre Giacomo «dottorato nell’una e nell’altra legge», egli si era potuto dedicare alla prestigiosa carriera podestarile. Similmente al genitore, e agli avi, seppe però praticare all’occorrenza anche l’arte della guerra. E infatti, nel novembre 1445, proprio a Monte San Pietro degli Agli (o Monsanpiero), indicato come sua dimora nelle Memorie historiche, Giovan Filippo si trovò a combattere a fianco del cugino Niccolò Terzi il Guerriero, figlio di Ottobono. Niccolò, obbedendo agli ordini perentori di Filippo Maria Visconti, aveva portato nell’autunno di quell’anno le sue lance nella Marca contro Francesco Sforza, genero del duca e, malgrado ciò, episodicamente, suo acerrimo antagonista. Il Terzi, acconciandosi alle disposizioni del volubile signore di Milano, dopo avere reclutato truppe nel Reggiano e nel Parmense, aveva raggiunto Giovan Filippo alla rocca di Monsanpiero, nella terra di Sant’Elpidio, distante poche miglia dalla città di Fermo. 343 Qui il Guerriero e il cugino avevano congiunto le proprie forze militari a supporto di quelle di Francesco Piccinino, capitano generale del Visconti, assediato dai due fratelli Sforza. Allorché la città di Fermo, il 25 novembre 1445, giorno di Santa Caterina, insorse riuscendo a cacciare Alessandro Sforza che la occupava, Niccolò il Guerriero, che stava «valevolissimo difensore» nella rocca di Monsanpiero, avuta notizia della ribellione, inviò immediatamente in appoggio degli insorti fermani un contingente di milizie sotto il comando di Giovan Filippo.344 Allora sottoposta al dominio pontificio. Nel 1433 di Osimo si insignorì Francesco Sforza che ne fece la base per le sue scorrerie nelle Marche. 342 L. MARTORELLI, Memorie historiche dell’antichissima, e nobile città d’Osimo, Venezia 1705, p. 437. 343 Archivio privato De Moll-Guerrieri Gonzaga di Villa Lagarina (Trento), n.n., PARMENIO TERZINIO, Memorie istoriche della famiglia de’ Guerrieri di Fermo e di Mantova, ms., 1756. 344 Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, Loreto, 1846, p. 47. Del fatto riferiscono anche Simonetta nella sua Sforziade (VIII, p. 150) e, più diffusamente, gli Annali di Fermo d’autore anonimo, dall’anno 1445 sino al 1557 ove si legge: «Correva l’anno del Signore 1445 al tempo di papa Eugenio IV, avendo usurpato alla Chiesa tutta la Marca et parte dell’Umbria Francesco Sforza et per spatio de undici anni, essendoli poi voltati contra il Papa con l’aiuto del re Alfonso di Napoli, Gio. Maria Visconti duca di Milano, dopo diverse factione, e battaglie seguite del mese di settembre, questo anno vedendo non potere resistere, fece disegno di retenere e difendere Fermo […] et lui si retirò con parte dell’esercito a Palero nei confini di Romagna, lasciato signor Alessandro Sforza suo fratello nella città con tre milia cavalli e doi 341 157 E le Memorie storiche della famiglia de Guerrieri di Fermo concordano: «Niccolò Guerrieri, che vigilante vigilava ad ogni andamento de nemici, tostoché ebbe inteso che li Fermani avean preso le Armi contro gli Sforzeschi, subito spedì da Monte San Pietro degli Agli in soccorso dell’afflitta Città Giovanfilippo suo fratello cugin carnale con buon numero di valorosi soldati come per attestato pubblico della medesima […] e che ora solo indichiamo dicendo: Eoque nomine fuisse Cives nobiles Ioannem Philippum Guerrierium qui etiam de Anno 1445 multi militibus auxilium prestitit Civitati nostrae contra Alexandrum Sforziam Arma sumpserat».345 Fermo fu allora grata a Giovan Filippo, il quale, così bene accolto e onorato dalla città a cui aveva portato soccorso militare, vi mise nuove radici. Qui sposò Andreana dei Verrieri di Sant’Elpidio, signora del Castellano e della Valle, e divenne capostipite della nuova casata Guerrieri di Fermo. Il Guerrieri fu immediatamente annoverato tra i notabili cittadini. Due mesi dopo il suo approdo a Fermo, il 6 gennaio 1446, era già accanto ai Priori nell’accogliere Domenico Capranica inviato dal governo pontificio quale legato della Marca. Nel 1453 Giovan Filippo, accompagnato «di una onorevolissima lettera dei Priori di Fermo», fu inviato ad esercitare una nuova podesteria a Norcia. Citando questa lettera, il cronista delle Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato va oltre l’avvenimento per arrivare ad affermare che: «La famiglia de’ Marchesi Guerrieri di Fermo trae la origine dal celebre Nicolò Terzi di Mantova che per il suo militar valore fu soprannominato Guerriero».346 Senonché questa affermazione regge male, poiché la milia fanti per difendere il paese [...] Ora li cittadini vedendo l’occasione per levarsi il giogo dal collo trattarono con il legato della Marca, il cardinale Ludovico da Padova Patriarca d’Aquileia Camarlingo e capitano del Papa di ammazzare li soldati, nella città e prendere la rócca con l’aiuto loro, et accordatasi la cosa, se venne alla esecutione che fu cosi. La vigilia di S. Caterina a dì 24 novembre, la città a certo segno dato si sollevò il popolo et ammazzati et fatti prigioni tutti quelli che alloggiavano nelle case loro, corsero in piazza et cominciarono a combattere con li soldati del signor Alessandro, quali per parecchie hore combatterono et si difesero, ma poi furono fatti retirare dal signor Alessandro dentro la rócca, dicono per esserli stati fatti avvertiti dalle sentinelle d’aver visto fuori della porta di S. Caterina una gran moltitudine de gente che con lumi venivano verso la città. et entrorono dentro, e perciò furono fatti retirare dentro la rócca, et però la città reconoscendo tanto benificio del miracolo fatto da S. Caterina, il di della sua festa va in processione con candele ad honorare et riverire detta Chiesa. Rinchiusi li nemici dentro alla rócca la città prese li capi delle vie che andava là, li fece fortificare et bastionare con travi, tavole et altre cose per ostare che li nimici non uscissero per quelle vie, poi mese buoni corpi de guardie per le mure della città, se andarono a riposare. Al cenno dato per tutte le castella furono uccisi, presi e svaligiati li soldati Sforzeschi […] Il signor Alessandro, non so se in quella notte o la seguente, uscito per vie occulte, avvisato da uno de’ Priori et dal Cancelliere, prese li Priori nel palazzo e li menò nella rócca. La mattina venne Gianfilippo de Giacomo Guerriero da S. Pietre con una gran compagnia di gente e poi da le castelle vennero in aiuto della città». Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., pp. 201-202. 345 PARMENIO TERZINIO, Memorie istoriche, cit. 346 «1453. I Priori di Fermo accompagnano di una onorevolissima lettera Giovan Filippo Guerrieri che va podestà a Norcia. La famiglia de’ Marchesi Guerrieri di Fermo trae la origine dal celebre Nicolò Terzi di Mantova, che per il suo militar valore fu soprannominato Guerriero. Militò esso sotto Filippo Visconti duca di Milano insieme al conte Francesco Sforza, al quale fu inimicissimo, per lo che congiurò sempre a suoi danni. Quando questi assediava Monsampietro Nicolò Terzi ne era valevolissimo difensore, essendovi stato spedito 158 famiglia dei Guerrieri fermani non «trae origine dal celebre Nicolò Terzi» (che nel 1453, sconfitto e costretto all’esilio da Francesco Sforza, da quasi un lustro dimorava ed esercitava l’ufficio di camerlengo presso la corte di Ludovico III Gonzaga a Mantova), bensì dal suo meno noto cugino Giovan Filippo, figlio del quondam Giacomo, o Jacopo, Terzi. E infatti gli Annali di Fermo d’autore anonimo, dall’anno 1445 sino al 1557, riferendo del soccorso portato a Fermo ribellatasi ad Alessandro Sforza, puntualmente notano che «la mattina venne Gianfilippo de Giacomo Guerriero da S. Pietre con una gran compagnia di gente e poi da le castelle vennero in aiuto della città». 347 Quel Guerriero era «Gianfilippo de Giacomo» e non già suo cugino Niccolò il Guerriero di Ottobono. Dal matrimonio di Giovan Filippo con Andreana dei Verrieri nacquero cinque figli. Il primo fu Apollonio, o Polonio, che rappresentò Fermo in ambascerie presso il pontefice Alessandro VI Borgia dal 1488 al 1492, anno in cui fu inviato ad Osimo come podestà; poi Giacomo o Giacopo che si distinse come capitano d’armi e fu tra i priori fermani. Di un Giovanni Battista, uomo d’arme, al contrario, si conservava pessima memoria perché nei giorni di ferragosto 1515 tentò d’impadronirsi di Fermo, finendo sconfitto ed esiliato.348 Altri figli di Giovan Filippo furono Alessandro, che sposò Lodovica de’ Paccaroni, un’illustre casata fermana, e Giovanni Francesco. La famiglia Guerrieri era dunque divenuta così forte nel volgere di pochi lustri da capeggiare a Fermo una fazione che si contrapponeva aspramente all’altra dominante dei Brancadoro, legata ai potenti Orsini romani. Le cronache sul finire del XV secolo e dei primi decenni del XVI lamentano un susseguirsi di scontri, faide sanguinose, con vittime nell’una nell’altra squadra, violenze che sconvolsero la vita comunale fermana, a fatica represse dai legati del governo pontificio. Ma non tutti i Guerrieri rimasero nella Marca. I discendenti maschi di Giovanni Francesco, figlio di Giovan Filippo del quondam Giacomo Terzi, si trovarono in due momenti distinti a godere della felice opportunità di potersi trasferire a Mantova, godendo della benevolenza dei Gonzaga. La prima occasione si presentò provvidenzialmente nel novembre del 1496. Francesco II Gonzaga, reduce dal regno di Napoli dove aveva comandato le truppe del corpo di spedizione che la Repubblica di Venezia aveva inviato in soccorso di Ferdinando V d’Aragona, fece tappa nella Marca d’Ancona. Doveva curarsi dalla virulenta febbre malarica che l’aveva colpito, riuscendo qui a superare la convalescenza, assistito anche dalla consorte Isabella d’Este che lo aveva premurosamente raggiunto. Vinta la malattia, durante una cerimonia celebrata in suo onore a Offida ebbe modo di dal duca di Milano. Allora che intese la ribellione de’ Fermani contro Alessandro Sforza, mandò in aiuto con alquante milizie il suo cugino Gian Filippo. Nicolò partì per Milano, e quegli restò a Fermo. […]. Allora fu che Gian Filippo sì stabilì a Fermo, e ammogliatosi a una gentil donna di casa Verrieri di s. Elpidìo Signora del Castellano e della Valle diede orìgine alla famiglia de’ Marchesi Guerrieri, la quale produsse illustri personaggi nelle ecclesiastiche dignità, nelle lettere e nelle armi». Cfr. Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit. p. 47. Queste notizie sono riprese anche da A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., Giunte, p. 89. 347 G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., p. 202. 348 Il giorno 14 agosto 1515 «Battista Guerrieri entrò in Fermo con 500 fanti e 60 cavalli; per due giorni la città fu sotto il suo dominio […] Gli abitanti de’ Castelli mal sofferendo, che Battista Guerrieri pensasse insignorirsi di Fermo, insorgono alle armi, e capitanati da Girolamo Brancadoro, lo sforzano uscire dalla città; quindi lo inseguono, lo combattono sotto le mura di Torre s. Patrizio, e lo sconfiggono uccidendogli 200 valorosi». Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit., pp. 68-69. 159 notare Ludovico, figlio primogenito di Giovan Francesco Guerrieri, cavalcare uno splendido destriero che gli veniva recato in dono. Colpito dalla valentia del cavaliere, oltre che dal pregio del palafreno, volle avere con sé a Mantova entrambi: l’uno per arricchire i suoi pregiati allevamenti di cavalli da guerra, famosi in tutta Europa; l’altro, il giovanissimo aitante guerriero e cavaliere Ludovico, a ornamento e servizio della sua corte. Si legge nelle Cronache: «De novembre […] passò il signor Giacomo S. Severino e fu regalato, il simile al Marchese de Mantua al quale fu donato un bel cavallo, che essendovi sopra un giovinetto, disse il Marchese che voleva ogni cosa, e quello fu Ludovico Guerrero, che se lo menò con lui, e da quello è discesa la famiglia de Guereri in Mantua oggidì cosi illustre».349 Verosimilmente il Gonzaga scoprì nel giovane Ludovico Guerrieri un parente del valoroso Niccolò il Guerriero che era stato camerlengo nel suo palazzo a Mantova. Assieme all’ormai anziano Niccolò, nel febbraio 1469, a Ferrara, l’allora fanciullo Francesco aveva ricevuto l’investitura a cavaliere dall’imperatore Federico III d’Asburgo. Propiziato da questi precedenti, nell’autunno del 1503, sei anni dopo il primo, ci fu un secondo incontro fra la famiglia di Giovan Francesco Guerrieri e il marchese Francesco II Gonzaga. Il signore di Mantova fu magnificamente ospitato a Fermo quando vi sostò, afflitto e costretto ancora da una sua malattia, anche allora sulla via di rientro dal Regno di Napoli verso le sue terre lombarde. Luogotenente generale delle truppe francesi in Italia, nei mesi precedenti aveva combattuto senza successo contro gli Spagnoli alla battaglia del Garigliano. Gratissimo per le cure e l’accoglienza superba, il marchese Gonzaga compensò Giovanni Francesco Guerrieri accogliendo a Mantova altri due della famiglia, Giovanni Battista e Vincenzo che quindi raggiunsero il fratello Ludovico, da sette anni al servizio presso quella corte.350 Messe radici in riva al Mincio, iniziò per quei Guerrieri una carriera di prosperi successi tra gli ufficiali gonzagheschi. Dieci anni dopo l’arruolamento ad Offida, «il dì penultimo aprilis 1506», Francesco II Gonzaga decretò l’aggregazione di Ludovico alla sua casata con il privilegio per lui, famigliari e discendenti del doppio cognome 349 350 Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., p. 225. E Ludovico confermò quella partenza avvenuta nel 1496 quando, nel 1522 tornò temporaneamente in patria parlando di una sua assenza che durava da 26 anni. Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit., p. 55. L’anno doveva essere necessariamente il 1503, allorché Francesco II abbandonò il Regno di Napoli. Ma Carlo d’Arco indica una data diversa, e introduce tra i partenti per Mantova Ludovico: «Nell’anno 1505 Francesco II Gonzaga, disgustato dai francesi, per i quali aveva combattuto, tornando dalla Sicilia fu magnificamente ospitato dai Guerrieri a Fermo, memori dell’accoglienza ricevuta a Mantova da Niccolò. Francesco, gratissimo per l’ospitalità ricevuta, chiese come avrebbe potuto contraccambiare i favori ricevuti. Gio-Francesco Guerrieri rispose che nulla gli sarebbe stato più grato di quella che esso signore pigliasse a servizio i suoi figlioli; così acconsentendovi il principe seco lui condusse in Mantova Gio-Battista, Lodovico e Vincenzo Guerrieri. Ciò accadde in quell’anno medesimo 1505 in cui esso GioFrancesco Guerrieri poté ritornare in patria dopo essere stato bandito per aver ucciso Lucca Brancadori a cui sempre mantenuto aveva odio implacabile». Cfr. Archivio di Stato di antova, Documenti patrii raccolti da Carlo d’Arco, n. 217, CARLO D’ARCO, Annotazioni genealogiche di famiglie mantovane, sec. XIX, IV, p. 390. 160 Guerrieri Gonzaga.351 Nel 1514 gli fu riconosciuto il rango prestigioso di marchionalem consocium beneamatum. Il 18 dicembre 1521, al comando di una compagnia di armigeri mantovani, fu inviato dal marchese Federico II Gonzaga al soccorso di Parma – patria dei suoi progenitori Terzi, del bisavolo Giacomo o Jacopo e del prozio Ottobono – allora assediata dai Francesi. Vi andò di rincalzo alla assai problematica, ma infine vittoriosa, difesa opposta da Francesco Guicciardini, pontificio commissario e governatore della città, che, nella sua celebre Relazione, loda la prudenza e il valore di Ludovico.352 Poche settimane dopo la vittoria di Parma, Ludovico dovette occuparsi dei conflitti che nell’altra sua patria, Fermo, opponevano la sua famiglia a quella dei Brancadoro. Trovò un efficace sostegno nell’oratoria di Baldassar Castiglione, al tempo ambasciatore a Roma del marchese di Mantova, che intervenne a suo favore, e della sua famiglia fermana, presso la corte pontificia e il collegio cardinalizio. In un dispaccio spedito a Federico II Gonzaga il 25 marzo 1522, Castiglione poteva riferire: «Jeri fui in Congregazione di questi Signori Cardinali, e parlai della cosa del Magnifico M. Ludovico da Fermo per parte di V. E. pregando Lor Signorie Reverendiss., che volessero fare tal provvisione, che Girolamo Brancadoro si levasse dal paese di Fermo per onore della Sede Apostolica e per satisfazione di V. E. e servizio dell’impresa: non parendo a Lei ragionevole il vietare al prefato M. Ludovico di venire a guardar le cose sue, e a difender, che gli amici e parenti sui non sieno maltrattati da questo fuoruscito». E Castiglione aggiungeva: «Ricordai ancora le opere fatte da questo M. Ludovico in questa impresa per servizio della Sede Apostolica, come fu la difesa di Parma, e tutto quello, ch’io seppi dire a tal proposito. Questi Sigg. mi dissero che farebbono provvisione opportuna: io non mancherò di sollecitarli».353 L’intervento di Castiglione sembra essere stato determinante, poiché alcune settimane dopo Ludovico venne richiesto dai Priori a Fermo. La cronaca del 26 giugno così narra: «Lodovico Guerrieri patrizio fermano […] si presenta alla Cernita, conciossiachè i Priori l’avessero richiamato in patria. Alla presenza de’ Savii egli narra essere stato lontano ventisei anni: avere servito i Principi di Mantova, e non esser prima tornato per le discordie, che laceravano la patria, alla quale esso intendeva essere obbediente figliuolo. Dopo ciò si stabili pace generale, e specialmente fra i Guerrieri, e i Brancadoro».354 Tornato a Mantova, sempre nel 1522, venne nominato, da Federico II Gonzaga, suo luogotenente generale. Ludovico aveva sposato Violante da Correggio.355 Da quel matrimonio nacque Isabella, maritata a Galeazzo Canossa, di Verona, riconosciuta in un famoso ritratto, opera di Paolo Veronese, eseguito nel 1547-48 (Musée du Louvre). In data 10 gennaio Cfr. C. D’ARCO, Annotazioni genealogiche di famiglie mantovane, cit., p. 391. Meno entusiasta il giudizio sulla truppa: «Vi erano ancora entrati due di innanzi cinquanta uomini d’arme del marchese di Mantova, gente assai inutile, di chi era capo messer Ludovico da Fermo, quale si portò prudentemente e valorosamente» (F. GUICCIARDINI, Relazione della difesa di Parma, in IDEM, Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 54). 353 Cfr. P. SERASSI, Lettere del conte Baldessar Castiglione …, I, Padova 1769, p. 17. 354 Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, cit., p. 55. 355 «Madonna Violante moglier de messer Ludovico Guerriero» morì nel settembre 1510. Avvolta nella tunica di terziaria, venne sepolta in San Domenico a Mantova. Lo si apprende da una lettera indirizzata il 30 di quel mese dall’amica Maria Della Torre al marchese Federico II Gonzaga, in quei giorni a Roma. Cfr. Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2479, c. 100. 351 352 161 1526, il marchese di Mantova donava al suo luogotenente il turrito palazzo della Gabbia, già proprietà dei Bonacolsi, che si erge nella contrada mantovana dell’Aquila.356 Defunto Ludovico nel 1530, questo edificio e la carica di maestro delle stalle passarono in ‘eredità’ al fratello minore Vincenzo, già capitano, dal 1521, del Lago di Mantova. Nel 1544, dopo l’acquisizione del Monferrato da parte di Federico II Gonzaga,357 Vincenzo fu deputato al governo di quelle terre e s’insediò come governatore del castello di Casale. Con la firma della pace di Cateau-Cambrésis, egli venne incaricato di missioni diplomatiche, concernenti l’assetto dei territori monferrini, prima a Parigi, nel 1559, e quindi a Milano, nel 1562. Mori nell’aprile del 1563 e venne sepolto, come il fratello, nella chiesa di San Domenico a Mantova. 358 Vincenzo aveva sposato Francesca Soardi, figlia di Giacomo, nobile di Bergamo, che gli diede quattro figli. I Guerrieri di Mantova Con Vincenzo proseguì a Mantova la discendenza dei Guerrieri Gonzaga. Tra le figure eminenti della casata emerge la figura sette-ottocentesca del cardinale Cesare. Dotato di vaste competenze giuridico-finanziarie, il cardinale segretario di stato Ercole Consalvi lo volle per ciò accanto a sé come coadiutore nella sua opera di restaurazione e di riforma amministrativa dello Stato della Chiesa. Oltre a presiedere la Congregazione del Censo, Cesare Guerrieri Gonzaga fu membro di quella del Concilio, della Economica, del Buon Governo, della Fabbrica di S. Pietro, e di altre minori. Nel 182627 il Guerrieri fu camerlengo del S. Collegio e nel maggio 1828 venne candidato alla Segreteria di Stato. Ma la sua carriera doveva concludersi qui. Salito al soglio pontificio Pio VIII con il conclave del 1829, l’ormai ottantenne cardinale Cesare Guerrieri Gonzaga si scoprì improvvisamente emarginato e abbandonò allora tutti gli incarichi più gravosi. Si spense a Roma il 5 febbraio 1832.359 A coronare, dunque, le due casate fiorite dal lignaggio dei Terzi di Parma, quella dei Terzi di Sissa e quella dei Terzi di Fermo (qui subito ribattezzati Guerrieri e quindi, passando nel Mantovano, Guerrieri Gonzaga), furono, agli inizi del XIX secolo e quasi in sincronia, due cardinali: per il ramo di Sissa, Giovanni Francesco Marazzani Visconti (1755-1828); per il ramo di Fermo con propaggini a Mantova, Cesare Guerrieri Gonzaga (1749-1832), camerlengo del Sacro collegio cardinalizio. Camerlengo, quantunque laico, era anche la più illustre e vigorosa personalità espressa dall’originaria casata di Parma al termine della sua parabola: Niccolò Terzi il Guerriero, che ricoprì per oltre quattro lustri quell’importante ufficio presso la corte dei Gonzaga, in un periodo in cui Mantova si trovò al centro della Cristianità. La città infatti, nel 1459-1460, divenne sede del Concilio, ovvero Dieta, che il papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, aveva convocato per lanciare contro Turchi e musulmani, invasori d’Europa, l’ultima crociata: quella che mai dispiegò le vele. L’attuale via Cavour, alla porta di piazza Sordello, poco distante dal Palazzo Ducale. Dopo il matrimonio con Margherita Paleologo, Federico II Gonzaga aveva acquisito nel 1536 il Marchesato di Monferrato. 358 Di quella chiesa, spianata nel 1925, oggi rimane soltanto il campanile. Essa si ergeva nei pressi della Loggia di Giulio Romano, alle Pescherie. 359 Fu sempre molto legato ad Orvieto, dove era spesso ospitato dalla sorella Drusilla, sposa del marchese Gualtieri. Beneficò la città con notevoli elargizioni destinate al restauro di monumenti e particolarmente per la costruzione del ponte «dell’Adunata» sul fiume Paglia. 356 357 162 TAVOLE GENEALOGICHE A. Dai Cornazzano ai Terzi di Parma B. I Terzi di Sissa C. I Terzi di Fermo, poi Guerrieri A - Dai Cornazzano ai Terzi di Parma A1. Oddone I É menzionato in due atti coevi che Ireneo Affò data attorno al 1015, con cui il vescovo Enrico, immediato successore di Sigefredo II sulla cattedra episcopale di Parma, riconferma in tutte le sue proprietà il convento di San Paolo. In entrambi questi documenti compare la sequenza dei nomi di appartenenza salica «Gerardus filius Oddonis» secondo una struttura parentale reiterante, nelle filiazioni, i nomi propri ereditati dagli avi; in questa peculiare fattispecie per i da Cornazzano. Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi dei sec. X-XI, II, Dall’anno 1001 all’anno 1100, Parma 1928, www.yumpu.com/la/document/view/13992403/d-drei-vol-ii-itinerari-medievali, nn. XVIII, XIX, p. 34. B1. Gandolfo Nel documento datato Fornovo 24 ottobre 1045 si trovano elencati Gandolfo (Gandulfus filius quondam Obdoni) assieme ai nipoti Gerardo II e Oddone II, figli del fu Gerardo I (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi) vassalli di Bonifacio III di Canossa. Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, cit, n. LXXVI, pp. 125-126. Gandulfus da Cornazano il 15 maggio 1076 è testimone all’atto di donazione da parte di Giulia, vedova di Arcoino, a favore del Capitolo di Santa Maria di Parma ove è arcidiacono suo figlio Giovanni. Cfr. ivi, n. CXXXXI, p. 211. C1. Lanfranco É chierico e canonico della cattedrale di Santa Maria di Parma. In un documento del 2 gennaio 1090 egli dichiara il suo «consensum et volumtatem Lanfranci clerici et canonici predicte sanctae Parmensis aecclesiae et filius Gandulfi de Cornazano». Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, cit., n. CXLVII, pp. 233-234. B2. Gerardo I. Risulta defunto nel 1045. C1. Oddone II Vassallo di Bonifacio III di Canossa assieme al fratello Gerardo II nel documento datato Fornovo 24 ottobre 1045 (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi). Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, II, n. LXXVI, cit., pp. 125-126. Presente al placito tenuto il 21 novembre 1046 nel Palazzo vescovile di Parma da Teutmario, o Dietmar, giudice imperiale, vescovo di Coira, messo dell’imperatore Enrico III. Cfr. ivi, n. LXXXII, p. 135. Il 18 giugno 1051 Odo, ovvero Oddone da Cornazzano, si trova a Spilamberto, menzionato tra i vassalli al seguito di Bonifacio III di Canossa, che presiede un placito a favore di Cadalo vescovo di Parma. Nel febbraio 1055 Gunterio e Olderico, messi imperiali, sentenziano contro Oddo qui dicitur de Cornazano a favore dei diritti di proprietà dei canonici di Santa Maria. Cfr. C. MANARESI (a cura di), I placiti del ”Regnum Italiae”, III, I, Roma 1960, n. 392, p. 210. Ancora Odo de Cornazzano rende testimonianza, a Marengo il 18 agosto 1073, per la contessa Beatrice e la figlia Matilde di Canossa. Il 9 dicembre 1081, con il pronipote Gerardo, testimonia per la contessa Matilde a Reggio. 164 C2. Gerardo II Citato come vassallo di Bonifacio III di Canossa assieme al fratello Oddone II in un atto datato Fornovo 24 ottobre 1045 (Girardus seu Obdo germanis bar[ba] et nepotis filiis quondam Girardi). Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, cit., n. LXXVI, pp. 125-126. Il 9 dicembre 1081 testimonia per la contessa Matilde a Reggio. D1. Oddone III, figlio del quondam Gerardi de Cornazano, il 13 agosto 1136 con proprio iudicatum stabilisce in base alla legge salica che, nel caso morisse senza discendenza maschile, la metà dei suoi possedimenti nella Contea di Parma passi ai suoi vassalli. D2. Gerardo III, o Gherardo Affò lo chiama pronipote di Oddone (II). Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, II, Parma 1793, p. 104. È testimone in veste di vassallo per Matilde di Canossa nel 1096 a Piadena e nel 1099 a Lucca e quindi, il 29 marzo 1101, in un atto rogato a Guastalla. Dodici anni dopo, nel 1113, Gerardo è al seguito della contessa a Pegognaga. L’8 aprile 1116 Girardus de Cornazano è menzionato tra gli eminenti cives parmenses presenti al placito tenuto dall’imperatore Enrico V a Reggio. A maggio 1116 si trova, quale vassallo, all’insediamento dell’imperatore Enrico V nel castello di Governolo per l’acquisizione dell’eredità di Matilde di Canossa. Gerardo nel 1140 trasferisce la propria famiglia a Piacenza dando origine a un nuovo ramo della casata da Cornazzano. «Sotto il 1140 vediamo allettato da’ Piacentini con donativi Gherardo da Cornazzano a stabilirsi nella loro patria, dove gli offersero casa e ricchezze»: ivi, pp. 178-179. ……. ……. F1. Gerardo IV Alla fine del 1161, quale capitano imperiale, comanda le forze in armi di Parma portate all’assedio di Milano, affiancando le milizie comunali lombarde al seguito di Federico I Barbarossa. Cfr. Acerbi Morenae historia, a cura di F. Güterbock, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Germanicarum, n.s., VII, Berolini 1930, p. 155. Nel marzo 1162 sempre Gerardo IV, ovvero Girardus de Cornazano, è designato tra i capitani che raccolsero la resa dei Milanesi. Secondo Corio, è delegato a ricevere il giuramento di sottomissione degli «habitatori» di Porta Romana. Cfr. B. CORIO, L’Historia di Milano, Venezia 1565, p. 119. Tre mesi più tardi, il 24 giugno 1162, viene convocato tra i principali testimoni del placito tenuto dal vicario imperiale Guibertus Bornado in Castrum Macreti. Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi del secolo XII, III, Parma 1950, n. 280, p. 229. Il 16 ottobre 1176 una sentenza del podestà di Parma lo condanna a restituire ai canonici della cattedrale di Parma i beni dei quali si era impossessato. Cfr. ivi, n. 465, p. 370. Nel 1178 ancora Gerardus de Cornazano è segnalato tra i seguaci di Federico Barbarossa de domo Comitissae Matildis. Cfr. N. TACOLI, Memorie storiche della città di Reggio di Lombardia, 3 voll., Reggio Emilia 1741-1769, II, p. 179. Compare quale vassallo della Chiesa di Parma in un atto perfezionato tra il 1188 e il 1193 in cui viene documentato il giuramento di fedeltà prestato il 13 dicembre 1192. Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, cit., III, n. 77a, p. 734. 165 G1. Manfredo († 1247) ∞ Auda Tavernieri o Tabernario «Nacque da Gerardo (IV) in data di poco posteriore al 1180». Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Manfredo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, www.treccani.it/enciclopedia/manfredo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/. Il Salimbene lo ricorda nella sua Cronaca come armigero di solida sapienza giuridica e religiosa. Il suo nome compare in due documenti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo IV da Cornazzano, accanto a quelli dei fratelli Oddone IV e Gerardo V. Il notaio registra la vendita a loro vassalli di possedimenti fondiari che questi habebant et tenebant già in precedenza, a Pizzo e a San Secondo, precisando che Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et refutationem. Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605. Nel 1224 è podestà di Parma e quindi di altre città padane e toscane. Muore a Borghetto sul Taro il 16 giugno 1247 in uno scontro fra filoimperiali e fuorusciti parmensi. Cfr. I. AFFÒ, Storia della città di Parma, III, Parma 1793, p. 197. G2. Oddone IV o Oddo de Cornazano Menzionato come testimone in sentenze pronunciate il 16 dicembre 1181 e il 15 aprile 1196 da «Macagnanus iudex, advocatus» dei consoli di Parma. Cfr. G. DREI, Le carte degli Archivi Parmensi, cit., III, n. 154a, p. 783. Compare poi, vassallo della Chiesa di Parma, in un atto perfezionato tra il 1188 e il 1193 in cui viene documentato il giuramento di fedeltà prestato il 13 luglio 1188. Cfr. ivi, n. 77a, p. 734; e quindi è registrato in due atti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo IV da Cornazzano, accanto a quello dei fratelli. Cfr. ivi, n. 831, p. 605. G3. Gerardo V Il suo nome compare in due atti notarili, datati 2 marzo 1198, come figlio di Gerardo IV da Cornazzano, accanto a quelli dei fratelli Manfredo e Oddone IV. Il notaio registra la vendita a loro vassalli di possedimenti fondiari che questi «habebant et tenebant» già in precedenza, a Pizzo e a San Secondo, precisando che «Girardus Infans de Cornazano similiter fecit finem et refutationem». Cfr. G. DREI, Le carte degli archivi parmensi, III, cit., n. 831, p. 605. ……….………………………………………………………………………………………………………………………………………. F2. Bernardo da Cornazzano o Gherardo o Gherardo Trino, Gherardo Terzo o ancora Gerardo Terzo Cornazano Nato tra il 1160 e il 1170. Cfr. G. ANDENNA, Cornazzano, Bernardo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, http://www.treccani.it/enciclopedia/bernardo-da-cornazzano_(Dizionario-Biografico)/. É podestà di Parma nel 1192. Nel 1213 è testimone alla pace sottoscritta fra il partito imperiale di Ferrara e gli Este. Nel 1216 è podestà a Reggio; nel 1218 a Cremona; nel 1224 a Pavia. Il 10 marzo 1225 è iudex a Brescia; nel 1226 podestà a Reggio; nel 1227 a Modena. Il 28 settembre 1229 firmò per la città di Parma, l’atto con cui il vescovo di Reggio Niccolò fissava la tregua fra Modena e Bologna. 166 G1. Guido I Tercius. Figlio di Gherardo o Bernardo o Gerardo o ancora, come scrive Angeli: «Gerardo Terzo Cornazano, che secondo il Campo, fu podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese / Guido, che fu Capitano dello ‘mperatore». Cfr. B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 463. H1. Filippo o Filippone, de Tertiis. Destinatario, con il fratello Guido, di benefici nel diploma del 7 dicembre 1329 dell’imperatore Ludovico IV il Bavaro, trascritto da I. AFFÒ, Storia della città di Parma, IV, Parma 1795, pp. 370-371: «Nobilibus viris Guidoni, et Filippono fratibus de Tertiis Civibus Civitatis Parme». H2. Guido II o Guidone de Tertiis I1. Giovanna († 1401). Vedova del marchese Guglielmo Pallavicini. Testò l’8 agosto 1392. Rogito citato da E. Scarabelli Zunti, Tavole genealogiche della famiglia Terzi, ms., sec. XIX, Archivio di Stato di Parma, Comune, Raccolta Zunti, b. 4350. I2. Ghirardino I. «Abitante in Torricella, che addi 8 luglio del 1362 fece suppliche a Bernabò perché gli concedesse una torre caduta in rovina, che ivi sorgeva in riva al Po». Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105, n. 126. J1. Terzo. Beneficia di un legato, stabilito l’8 agosto 1392, dalla zia, Giovanna Terzi, (v. L1), vedova del marchese Guglielmo Pallavicino. … K1. Matteo L1. Gherardino II. Capitano d’armi al servizio del duca di Milano, premiato assieme al fratello Beltramino con il feudo di Torricella M. DAVERIO, Memorie sulla storia dell’ex ducato di Milano, Milano 1804, p. 169. ∞ settembre 1444 Polissena, figlia di Alessandro Lisca, mantovano. M1. Elena ∞ nel 1474 il nobile veronese Ludovico Uberti. L2. Beltramino, Capitano d’armi al servizio del duca di Milano, premiato assieme al fratello Gherardino con il feudo di Torricella. I3. Giberto I, conte di Sissa e Torricella (v. Tav. B - I Terzi di Sissa) I4. Niccolò il Vecchio (1327 - Bergamo, gennaio 1398) ∞ Margarita († 10 agosto 1405). Nicholao filio quondam nobilis Guidonis capitanei de Terciis de Cornazzano. Condottiero al servizio dei Visconti. Il 19 agosto 1387, con diploma datato da Norimberga, l’imperatore Venceslao di Boemia concesse a Niccolò il titolo comitale per le giurisdizioni dei Terzi nel Parmense, a Tizzano e Sissa con altre minori nel Piacentino e nel Reggiano. Fu capitano del popolo a Bergamo, Brescia, Reggio, e Verona. Nel 1393 gli venne concessa la cittadinanza della Repubblica di Venezia, privilegio conferito a tutti gli eredi. 167 J1. Ottobono, o Ottobuono. Condottiero, signore di Parma e Reggio, marchese di Borgo San Donnino, conte di Tizzano e Castelnuovo († Rubiera, 27 maggio 1409, assassinato). Sposò in prime nozze Orsina (defunta il 28 agosto 1405) di famiglia ignota. Nel dicembre 1405 passò a nuove nozze con Francesca da Fogliano, figlia di Carlo e di Isotta Visconti, madre di Niccolò Carlo, di Caterina e di Margherita. Da Cecilia Della Pergola, non soluta, Ottobono ebbe il figlio naturale Niccolò, divenuto celebre come il Guerriero. K1. Jacopo, Jacobus Tertio de Parma armiger. Nel 1412 combatteva per la Repubblica di Venezia, presso Feltre, contro gli Ungheresi, arruolato nella cavalleria di Ruggiero da Perugia. Cfr. G. VERCI, Storia della marca trivigiana e veronese, XIX, Venezia 1791, pp. 79-80. K2. Giorgio († ante 1447). ∞ 1408 Palma, figlia del condottiero Ugolotto Biancardo. Cfr. A. Pezzana, Storia della città di Parma, II, cit., p. 102. Sposa poi Caterina di Canossa, di Guidone. Rimasta vedova, il 3 settembre 1485 Caterina dispose per testamento di essere sepolta nella cappella della famiglia Terzi, posta nella chiesa del convento di San Francesco dei frati minori di Parma. Cfr. G. PLESSI, Guida alla documentazione francescana in Emilia-Romagna: Parma e Piacenza, Bologna 1994, p. 474. L1. Niccolò ∞ a Mantova, nel 1456, Lucia di Cervato Secco. L2. Ginevra ∞ Pierpaolo Cattabriga, condottiero di Francesco Sforza; assassinato da Jacopo Rossi, che era amante della consorte, venne sepolto nella cappella dei Terzi nella chiesa dei Frati Minori a Parma. Ginevra fu infatti protagonista di una tragica vicenda: «Tra i misfatti del figliuolo Jacopo gravissimo giudica Pier Maria quello di tenersi a concubina, con intendimento d’ingiuriare il proprio genitore, Ginevra di q. Giorgio d’Ottone Terzi, famiglia nimicissima ai Rossi, Ginevra femmina spregevole cui avea Jacopo pur conosciuto carnalmente mentre viveva il marito di lei Pierpaolo Cattabrighe fatto uccidere da Jacopo medesimo» (A. PEZZANA, Storia della città di Parma, IV, cit., p. 310). M1. Barbara. ∞ Daniele di Niccolò Da Palù «strenuo guerriero». «Abitava nella vicinanza di S. Paolo pro burgo plazolae. Essa fece testamento a’ 15 luglio 1486, ed ordinò d’esser sepolta nella stessa tomba del padre. Barbara era stata negli anni precedenti istituita erede della spettabile Caterina Canossa (Rogiti di Antonio Boroni del dì 15 luglio e 3 novembre 1486 nell’Arch. pub.)» (ibidem). K3. Niccolò il Guerriero, Nicolao de Terciis Parmensi, conte di Tizzano e Castelnuovo († a Mantova, intorno al 1370). Sposa Ludovica, della quale si ignora la famiglia. Figlio naturale di Ottobono e di Cecilia Della Pergola, viene legittimato il 25 novembre 1405. L1. Giovan Francesco. Uomo d’armi, accompagnò il padre nelle sue ultime imprese militari al sevizio del Visconti e della Repubblica Ambrosiana, ma soprattutto nella difesa dei beni feudali. Dopo l’avvento di Francesco Sforza, segue Niccolò nell’esilio di Mantova. 168 L2. Gaspare. Come il fratello, affiancò il padre al sevizio del Visconti e nella tutela dei feudi familiari, in particolare quello di Colorno. Seguì il Guerriero nell’esilio mantovano. K4. Niccolò Carlo (* 6 dicembre 1406). Fatto proclamare signore di Parma e Reggio dallo zio Giacomo il 28 maggio 1409, l’indomani dell’uccisione di Ottobono, dopo venti giorni viene deposto con l’insediamento di Niccolò III d’Este. Muore ancora fanciullo, probabilmente nel feudo legnanese di Ottobono, a Villa Bartolomea, dove ha seguito in esilio la madre. K5. Caterina (* 1407, da Francesca da Fogliano). É la prima moglie di Franchino Castiglioni, giureconsulto, consigliere, guardasigilli maggiore e diplomatico, per un trentennio, del duca Giovan Filippo Visconti. K6. Margherita (* 1408, da Francesca da Fogliano) ∞ Marugolato (o, alla veneta, Marugolà, contrazione di Marco Regolo), primogenito del precedente matrimonio di Ludovico di San Bonifacio. J2. Giacomo o Jacopo, conte di Tizzano e Castelnuovo († Fiorenzuola d’Arda, inizi ottobre 1409, assassinato). Laureato in utroque iure all’Università di Pavia, nel 1395 vi ottiene una cattedra. Cfr. G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V, II, Pavia, 1836, p. 195. Giurisperito alla corte del duca di Milano, dopo esser stato governatore di Casalmaggiore, nel 1400 era podestà a Lodi e nel 1401 a Vicenza. «Fu uno dei deputati a portare il baldacchino di panno d’oro sopra il morto corpo di Giovan Galeazzo Duca di Milano». Conclude la sua vita affiancando come primo consigliere e strenuo compagno d’armi il fratello maggiore Ottobono, signore di Parma e Reggio. K1. Giovan Filippo (v. Tavola C - Terzi di Fermo) J3. Giovanni, conte di Tizzano e Castelnuovo († Castell’Arquato, fine ottobre 1409) ∞ nel 1405, Caterina Scotti di Francesco, che gli porta in dote 1000 fiorini. É capitano d’armi. Cfr. L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, II, Piacenza 1858 (stampa 1846), p. 347. Imprigionato dal cognato Alberto Scotti, viene da questi avvelenato nell’ottobre 1409, cinque mesi dopo l’uccisione del fratello Ottobono. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., pp. 132-133. 169 Genealogia della famiglia da Cornazzano - Terzi come riportata da Edoari Da Erba, Luca Contile, Bonaventura Angeli, e Ireneo Affò. A1. Pietro di Cornazzani. Bonaventura Angeli, che aveva letto le memorie di Da Erba, lo fa discendere da Gerardo: «di questo albero fu Gerardo [...] di cui ne nacque Pietro che fiorì intorno l’anno 1140 [ 1240 ? ] [...] questi ordinò, che la famiglia del suo ramo sì chiamasse dal nome suo e mutando il nome della gentilità, diversificò l’arma anchora, levando dall’antico i corni». B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462. Affò, citando le Antichità et Nobiltà di Cornazzano di Parma di Da Erba: «Et da questo generosissimo Capitanio Pietro n’uscì con felicissimo successo un primo figliuolo qual fu chiamato Primo e fu Capitanio strenuo dopo il padre delle genti d’arme di Federico 2.° Imperatore; et un secondo qual fu chiamato Secondo, et fu per sua virtù elletto dal Popolo Capitanio de la militia de la Città; et un terzo qual fu chiamato Terzo, e fu condottiero de le genti d’arme di Papa Innocentio 4.°, et da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre Famiglia di Terzi di Parma». Cfr. I. AFFÒ, A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e continuate da Angelo Pezzana, VI, II, Parma 1827, p. 330. B1. Primo. «Conciosia che Pietro cornazzano capitano valoroso di guerra havesse un figluolo e chiamollo Primo che fu capitano invitto di Federigo lmperadore». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli academici affidati et con le interpretationi et croniche, Pavia 1574, p. 109. B2. Secondo. «Pietro Cornazzano [...] hebbe anco un’altro figliuolo e lo fece nominare Secondo, che fu dopo il Padre, capitano di militia nella sua città». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento, cit., p. 109. B3. Terzo (dovrebbe corrispondere a F2. Bernardo da Cornazzano o Gherardo: vedi sopra). «Fu nominato Terzo il qual ſu condottiero delle genti d’Arme di Papa Innocentio quarto e da costui uscì la Ill. famiglia de Tertii de Cornazzani e fu poi un Nicolo de Tertii de Cornazzani figliuolo di un nomato Guidone». Cfr. L. CONTILE, Ragionamento, cit., p. 109. Di lui scrive Pezzana: «Fu chiamato Terzo, e fu condottiero de le genti d’arme di Papa Innocentio 4.°, et da lui n’uscì la Preclarissima, honoratissima, et illustre Famiglia di Terzi di Parma». Cfr. I. AFFÒ, A. PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal Padre Ireneo Affò e continuate da Angelo Pezzana, VI, II, 1827, p. 330. E Angeli: «Fu egli padre di Gerardo Terzo Cornazano, che secondo il Campo, fu podestà di Cremona l’anno 1223, da cui discese Guido, che fu Capitano dello ‘mperatore, e da lui Nicolò che condottiere di gente servì Bernabò nella guerra ch’egli ebbe contra Genovesi. Fu fatto conte di Tizzano, militò sotto Giovan Galeazzo Duca di Milano». Cfr. B. ANGELI, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462. 170 B–I Terzi di Sissa A1. Giberto I, conte di Sissa e Torricella († 1386) Capostipite dei Terzi di Sissa. A lui e ai suoi discendenti nel 1386 Gian Galeazzo Visconti concesse in feudo Sissa unitamente a Trecasali, garantendo così il privilegio con immunità ed esenzioni. B1. Antonio, capitano d’armi Nel settembre 1402, ai funerali di Gian Galeazzo Visconti, Antonio era tra gli otto nobili lombardi che ebbero l’onore di recarne a spalla il feretro. Quando il cugino Ottobono fu assassinato, nel maggio 1409, Antonio e il nipote Giberto II si affrettarono ad accordarsi con Niccolò III d’Este. B2. Guido I, capitano d’armi Il 13 novembre 1387, contro i Carraresi a Padova, «nella fazione di Pieve di Sacco trovossi il Parmigiano Guido Terzi, e convien dire ch’ei pugnasse con somma prodezza, poichè ivi fu creato Cavaliere»: A. PEZZANA, Storia della città di Parma, I, cit., p. 186, n. 209. C1. Costanza Risulta beneficiaria di un legato, subordinato alla condizione che si facessea monaca, nel testamento rogato l’8 agosto 1392 della prozia Giovanna, vedova del marchese Guglielmo Pallavicino. C2. Giberto II († 1413) D1. Niccolò D2. Guido II († 1459) ∞ Paola dei Lanfranchi Nel 1413, morto il padre Giberto II, viene inscritto come signore di Sissa nel registro delle investiture feudali del Ducato di Milano. Dopo che la Repubblica di Venezia, nel 1422, ha occupato Sissa, viene nominato governatore del castello. Il 17 giugno 1450 il nuovo duca di Milano, Francesco Sforza, decide l’erezione in Contea delle terre di Belvedere e di Sissa con le ville annesse e crea conte Guido II, presente all’atto solenne, e tutti i suoi discendenti. «Per maggiore dignità di essa Contea il Duca diede al Terzi lo stemma consistente in un Cane bianco sur un monte con una palma nella destra zampa ed un cartello colle parole Tibi soli»: «unum Canem album super uno monte existentem cum palma una in grampha dextera cum brevi uno cum litteris dicentibus: TIBI SOLI, cum cazia una scopino moralia in campo caelestro et viridi habenti super adamantcs tres simul connexos» Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 41 nota. 171 E1. Panfilo Morto Guido II agli inizi del 1459, la vedova Paola dei Lanfranchi rivolge istanza a Francesco Sforza a tutela dei figli Pamfilo e Giammaria, per la parte loro spettante dell’investitura dei feudi di Belvedere e di Sissa fatta al padre e ai suoi discendenti nel 1450. La nuova investitura virne concessa il 12 aprile da Cicco Simonetta, quale mandatario e procuratore del duca di Milano. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, III, cit., p. 190. E2. Giammaria F1. Giovan Francesco F2. Panfilo D3. Giberto III ∞ Chiara Pallavicino Il 22 ottobre 1440 Filippo Maria Visconti investe del feudo di Sissa e delle ville dipendenti i fratelli Giberto III, Niccolò e Guido II Terzi. Un anno dopo, nel giugno 1451, il duca di Milano concede ai nipoti di Guido II, figli di Giberto III, i diritti sopra una terza parte di Sissa e una metà di Belvedere. Un’altra terza parte viene riservata al fratello di Guido e Giberto, il nobile Niccolò. Il 27 novembre 1441 vengono investiti dei feudi di Belvedere, Vezzano, Moragnano, Lalatta, Fontanafredda, Triviglio ed Antignola, tolti e separati dalla giurisdizione di Parma. Cfr. A. PEZZANA, Storia della città di Parma, II, cit., p. 454 nota. E1. Giovan Maria E2. Niccolò E3. Carlo E4. Filippo F1. Giberto IV E5. Antonio E6. Apollonio E7. Ottobuono di Sissa. Nel 1532 uccide il pronipote Giovan Pietro, figlio di Francesco. F1. Paride F2. Ettore F3. Lazzarino. Figlio naturale, nel 1456 chiede dispensa al vescovo di Parma per accedere agli ordini minori. E8. Panfilo E9. Ludovico ∞ Caterina degli Arcelli, di Piacenza F1. Guido III F2. Luca 172 F3. Francesco I († 6 luglio 1495, alla battaglia di Fornovo) ∞ Taddea de’ Roberti di Scipione. Francesco fu ducalis Squadrerius di Ludovico il Moro G1. Caterina († 1495) G2. Paolo G3. Giampietro I († 1532) ∞ 1. Elisabetta dei Bernieri, di Antonio parmense, 2. Isabella Benadusi di Scipione mantovano. Vittima di un complotto, viene assassinato dal prozio Ottobuono. H1. Giuditta H2. Claudia H3. Francesco II (* 1505) ∞ il 26 ottobre 1529, Isotta di Nogarola figlia del conte Girolamo. I1. Giampietro II I2. Anton Maria I ∞ Flavia Appiani d’Aragona (* 1539) di Antonio. J1. Francesco III († 1590) J2. Luigi ∞ il 12 luglio 1623, Maria Cavalli, figlia del conte Paolo Camillo. K1. Alessandro († 1630) K1. Francesco. Minore conventuale K3. Maria († 25 febbraio 1658) ∞ Manuccio Visdomini . K4. Lucilla K5. Ludovico II († 1639) ∞ Lucrezia Scoffoni. L1. Ottavio L2. Angelica Corona L3. Niccolò L4. Anton Maria II (1629 - 20 luglio 1693) ∞ Anna Maria Farnese. Gentiluomo alla corte del duca Ranuccio II Farnese. M1. Francesca di S. Alessio. Monaca. M2. Anna Maria di S. Francesco Saverio. Monaca. M3. Maria Isabella, al secolo Lucrezia. Monaca. M4. Maria Costanza. Monaca. M5. Lucilla M6. Maria ∞ conte Orazio della Somaglia. M7. Maria Vittoria, al secolo Fortunata. Monaca. M8. Giulia 173 M9. Gherardo (1655 - 5 marzo 1729) ∞ 1. Maria Teresa Cantelli († 1687); 2. Anna Maria Maino (1667 - 1714). N1. Francesco Maria († 17 dicembre 1758) ∞ Anna Maria Sanvitale, dama della duchessa Enrichetta d’Este. Senza discendenza maschile, è l’ultimo conte di Sissa e Belvedere. O1. Corona ∞ marchese Bonifacio Rangoni, di Modena O2. Costanza ∞ conte Antonio Marazzani Visconti, di Piacenza. Dal loro matrimonio nacque Giovanni Francesco Marazzani Visconti, creato cardinale nel 1826. _________________________________________________________ Con la morte del conte Francesco Maria, il 17 dicembre del 1758, la casata dei Terzi di Sissa si estingue confluendo nelle famiglie dei Rangoni di Modena e dei Marazzani Visconti di Piacenza. Il feudo di Sissa venne devoluto alla Camera Ducale di Parma. 174 C–I Terzi di Fermo, poi Guerrieri Giacomo o Jacopo Terzi, figlio di Niccolò il Vecchio, fratello di Ottobono e Giovanni († settembre 1409). A1. Giovan Filippo Terzi o Gioan Filippo o Gianfilippo de Giacomo ∞ Andreana dei Verrieri di Sant’Elpidio, signora del Castellano e della Valle. Nel 1431, é podestà a Osimo, nella Marca anconitana. Trapiantato a Fermo nel 1445, dopo aver combattuto a difesa della città agli ordini del cugino Niccolò Terzi il Guerriero, contro Alessandro Sforza. Nel 1453, podestà di Norcia. B1. Alessandro ∞ Lodovica de’ Paccaroni. B2. Giovanni Battista. Capitano d’armi. Nel 1515 tenta d’impadronirsi di Fermo finendo sconfitto ed esiliato. Effemeridi della città di Fermo e suo antico Stato, Loreto 1846, pp. 68-69 B3. Giacomo o Giacopo. Capitano d’armi, è tra i priori fermani. C1. Pier Tommaso D1. Guerriero Guerrieri. Nel 1500 si trasferisce a Sant’Elpidio. E1. Camillo. Compì gli studi di diritto a Padova, Bologna e Ferrara, città dove dà vita «in ragguardevole prole» a un nuovo ramo della casata. B4. Polonio o Apollonio. Rappresenta Fermo in ambascerie presso il pontefice Alessandro VI Borgia dal 1488 al 1492, quando viene inviato a Osimo come podestà. C1. Francesco. Capitano di ventura, si arruola nelle milizie francesi acquisendo fama di prode nella guerra contro gli Ugonotti . B5. Giovanni Francesco. Nell’anno 1503 « Francesco II Gonzaga, disgustato dai francesi, per i quali aveva combattuto, tornando dalla Sicilia fu magnificamente ospitato dai Guerrieri a Fermo, memori dell’accoglienza ricevuta a Mantova da Nicolò. Francesco, gratissimo per l’ospitalità ricevuta, chiese come avrebbe potuto contraccambiare. Giovanni Francesco Guerrieri rispose che nulla gli sarebbe stato più grato di quella che esso signore pigliasse a servizio i suoi figlioli; così acconsentendovi il principe seco lui condusse in Mantova Gio. Battista, […] Vincenzo Guerrieri». Cfr. Archivio di Stato di Mantova, Documenti patrii raccolti da Carlo d’Arco, n. 217, CARLO D’ARCO, Annotazioni genealogiche di famiglie mantovane, sec. XIX, IV, p. 390. C1. Giovanni Battista ∞ Eleonora Preti. A Mantova. C2. Eleonora ∞ Cesare Gonzaga. C3. Federico († agosto 1527), a Fermo. 175 C4. Ludovico, poi Ludovico Guerrieri Gonzaga († 1530) ∞ Violante da Correggio († settembre 1510). Nel 1496 Francesco II Gonzaga lo conobbe a Offida nella Marca d’Ancona e lo volle con sé alla corte di Mantova. Cfr. G. DE MINICIS (a cura di), Cronache della Città di Fermo, cit., p. 225. Nel 1506, Francesco II Gonzaga decretò l’aggregazione di Ludovico alla propria casata con il privilegio del doppio cognome Guerrieri Gonzaga. Nel 1514, Federico II Gonzaga gli riconobbe il rango di marchionalem consocium beneamatum. Nel dicembre 1521, Ludovico venne inviato dallo stesso Federico Gonzaga a Parma assediata dai Francesi, di rincalzo alla strenua resistenza di Francesco Guicciardini, pontificio commissario e governatore della città. Cfr. F. GUICCIARDINI, Relazione della difesa di Parma, in IDEM, Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 54. E nel 1522, sempre Federico II nominò Ludovico Guerrieri Gonzaga suo luogotenente generale. D1. Isabella ∞ Galeazzo Canossa, di Verona. È stata riconosciuta in un ritratto, opera di Paolo Veronese, eseguito nel 1547-48 (Musée du Louvre). C5. Vincenzo (1495-1563) ∞ 1554, Francesca Soardi. Nel 1516 era camerarius del marchese Francesco II Gonzaga; nel 1521 il successore Federico II Gonzaga lo nominò capitano del Lago di Mantova, quindi divenne, nel 1532, prefetto della scuderia ducale. Nel 1544, dopo l’acquisizione del Monferrato da parte di Federico II, Vincenzo fu deputato al governo di quelle terre e s’insediò come governatore del castello di Casale. A seguito della firma della pace di Cateau-Cambrésis, egli venne incaricato di missioni diplomatiche concernenti l’assetto dei territori monferrini a Parigi, nel 1559, e infine a Milano nel 1562. Morì nell’aprile 1563. D1. Olimpia ∞ conte Massimiliano d’Arco D2. Ludovico († 1589) D3. Lucrezia ∞ Francesco, conte di Rho D4. Violante ∞ 1. Claudio, conte di Arco; 2. Coffini D5. Tullo, 1° conte di Mombello in Monferrato, ∞ 1. contessa Giulia Brembati; 2. marchesa Flavia Capilupi E1. Alfonso († 1639), 2° marchese di Mombello ∞ 1. marchesa Anna Maria del Carretto; 2. Margherita Albini E2. Giovanni Battista ∞ Maddalena Gavotti E3. Felicita ∞ Luigi Gonzaga E4. Francesca ∞ 1. Alessandro Canzi Boschetti Gonzaga; 2. Ercole Gonzaga E5. Alessandro († 10 maggio 1630). Cavaliere di Calatrava e cavaliere di Malta. E6. Ludovico. Cavaliere di Malta. E7. Vincenzo (1573 ca. -1617). 2° conte e 1° marchese di Mombello, ∞ 1620 contessa Ippolita Guerrieri Gonzaga, figlia di Giovanni Battista 2° conte di Conzano. E8. Cesare († 21 febbraio 1656), 3° marchese di Mombello, primo ministro e consigliere ducale, ∞ 1. Giulia Caffini; 2. Contessa Savina Trissino, di Vicenza F1. Anna 176 F2. Bonaventura (1651 ca. - 26 novembre 1706). Cavaliere del Redentore, primicerio di S. Andrea a Mantova. F3. Cesare Fortunato F4. Tullo, 4° marchese di Mombello, ∞ nel 1678, Drusilla Visconti, vedova di Alessandro Grassi. Governatore di Casale. G1. Costanzo (* 1702) G2. Delia ∞ Francesco Strozzi di Spilimbergo G3. Elena († 29 luglio 1759) ∞ 1709 Giovanni Picco Pastrone, conte di Cadorzo, (1685 - 1755) G4. Alessandro († 1780), 5° marchese di Mombello ∞ Marianna Spolverini Dal Verme H1. Girolamo (1717-1808), 6° marchese di Mombello, ∞ Cecilia Borromeo. I1. Maria ∞ nel 1783, conte Andrea Simonetta. Dama di palazzo della duchessa di Parma dal 1785. I2. Tullo († 1845), 7° e ultimo marchese di Mombello, ∞ Antonietta Monteggia. Podestà di Mantova. I3. Alessandro H2. Ludovico († 1790) ∞ Antonia de Numispak I1. Francesca I2. Barbara († 1807) ∞ conte Ignazio Caroni I3. Marianna ∞ Gaetano Rovetta H3. Anna († 1763) ∞ Francesco Zanardi Landi, patrizio di Piacenza G5. Bonaventura (1691-1756) ∞ 1. Anna Salm zu Salm; 2. Lucrezia Valenti Gonzaga H1. Cesare (1749-1832). Cardinale. H2. Camillo (1751-1776) H3. Bradamante (1765-1846) ∞ nel 1780, il conte Federico Rasponi, patrizio di Ravenna (1757 - 1835) H4. Marianna (1753-1832) ∞ Anselmo Zanardi Landi, conte di Veano e patrizio di Piacenza H5. Odoardo (1748–1820) ∞ Camilla Gallarati Scotti (1754 - 1817) I1. Bonaventura (1778–1841) ∞ Maria Castiglioni (1782) J1. Alessandro (1816-1897) J2. Odoardo (1818-1877) ∞ Marianna Maffeis, ebbero tredici figli, dei quali sopravvissro: K1. Giovanni Battista ∞ Lucy Pyke, con discendenza K2. Tullo (1866–1902) ∞ Gemma de Gresti di San Leonardo (1876 - 1928) L1. Anselmo (1895-1974) ∞ Emma Maraini (1902 - 1990) M1 - Maria Gemma (1929) M2 - Tullo (1931) M3 - Carlo (1938), con discendenza K3. Ludovico (1869-1900) ∞ Maria Luisa Beccaro 177 L1. Gianluigi (1898-1969) ∞ Emilia Vimercati Sanseverino M1. Odoardo (1929-2015) ∞ Alessandra Marsigli Rossi Lombardi, con discendenza M2. Giambattista (1933-2019) M3. Alessandro (1938-2008) K5. Alfonso (1818) ∞ Maria Mazzorin K6. Beatrice (1876-1954) ∞ barone Leopoldo De Moll K8. Ines (1877-1894) J3. Alfonso (1820) J4. Ranieri (1822) I2. Lucrezia (1773) ∞ conte Bolognini I3. Teresa (1781-1769) ∞ march. Giuseppe Cavriani I4. Giovan Battista (1872-1856) Cavaliere di Malta I5. Camillo (1785-1844) Cavaliere di Malta I6. Marianna (1784 ) ∞ march. Gualterio I7. Giovanna (1785) ∞ march. Girolamo Gardoni I8. Giuseppe (1786-1789) I9. Catterina (1788-1793) I10. Rosa (1790-1791) I11. Francesca (1792-1812 ) ∞ Scotti di Molfetta I12. Maria (1794-1807 ) ∞ Odoardo Donesmondi I13. Luigi (1783 -1854) ∞ Maria Rasponi (1799-1865) J1. Camilla (1817-1897) ∞ Ippolito Gamba (1806-1890), con discendenza. J2. Anselmo (1819-1879), politico mazziniano, nel 1848 al governo di Milano durante le “Cinque Giornate” J3. Marianna, educatrice a Parma ∞ Domenico Caggiati, medico di Parma. J4. Lucrezia (1824-1854 ) J5. Teresa ∞ Giuseppe Curuz, ingegnere di Mantova J6. Carlo (1827-1913), combatté con Garibaldi, senatore del regno d’Italia, ∞ Emma Hohenemser (1835-1900). K1. Luigi (1868-1900) K2. Maria (1869-1950 ) ∞ Clemente Maraini (1864-1932) K3. Sofia (1873-1961) ∞ Pietro Bertolini (1859-1920), ministro del regno d’Italia ______________________________________________________________________________________ 178 MAPPA DEI LUOGHI 179 La cartina riproduce in modo schematico l’area emiliana con i castelli e i borghi fortificati ove si svolse la vicenda della casata dei Terzi. 180 180 INDICE dei nomi Indice dei nomi A Aceti, Antonio ............................................... 48 Acquaviva, Antonio ..................................... 48 Acuto, Giovanni (v. Hawkwood, John) .. 47; 49 Adam, Salimbene de ............................. 19; 20 Aldighieri, Antonio ...................................... 79 Aldighieri, Baldassarre ................................. 79 Aldighieri, Gherardo degli ................... 61; 79 Aldighieri, Giberto degli.............................. 72 Alessandro III (Rolando Bandinelli) papa17 Alessandro V (Pietro Filargis) papa ........ 108 Alessandro VI (Rodrigo Borgia) papa .... 175 Alighieri, Dante ............................................. 22 Aliotti, Adone................................................ 81 Aliprandi, Pagano ......................................... 41 Anguissola, Bartolomeo ............................ 134 Anichino, Raimondo.................................. 147 Antelami, Benedetto .................................... 67 Appiani d’Aragona, Antonio .................... 155 Appiani d’Aragona, Flavia ............... 155; 173 Appiani, Giacomo ........................................ 49 Appiano, Gherardo d’ ................................. 50 Aquila, Antoniuccio dall’............................. 44 Aragona Alfonso V d’, re di Napoli ....... 121; 132; 135; 140; 146; 148 Ferdinando V d’, re di Napoli............ 159 Giovanna II d’, regina di Napoli ......... 97 Pietro d’ .................................................. 121 Arcelli, Caterina degli ........................ 154; 172 Arco, Claudio, conte d’ ............................. 176 Arco, Massimiliano. Conte d’ ................... 176 Arduino, vescovo ......................................... 15 Ariosto, Ludovico ........................................ 46 Arrigoni di Taleggio, famiglia ..................... 41 Asburgo, Federico III d’ ........................... 149 Asburgo, Leopoldo IV d’............................ 52 Asciano, Guido d’......................................... 49 Attendolo, Micheletto............. 44; 95-97; 139 Attendolo, Muzio, detto Sforza (v. Sforza ) 44; 46; 47; 54; 55; 91; 94; 95; 97 Avogari, famiglia ........................................... 59 B Baese, Guilelmi de ........................................ 18 Bagiardini, Giuliano ..................................... 46 Bagnacavallo, Sebastiano da ....................... 79 Balestraccio, il .............................................. 61 Barbiano, Alberico da ...... 40; 47-58; 64; 106 Barbiano, Alberico II (Novello) da 123; 125 182 Barbiano, Giovanni da ......................... 49; 51 Barbiano, Ludovico da ................................ 55 Bartolini Salimbeni de’, famiglia ................ 45 Bartolomeo da Gualdo, o dei Santi ......... 126 Basinio da Parma (o Basinio Basini) ....... 146 Beatrice di Tenda ........................................ 118 Beccaria di Robecco, Lancellotto .............. 55 Belenzani, Rodolfo ....................................... 87 Bellanoce, Corrado di .................................. 16 Benadusi, Isabella .............................. 155; 173 Benadusi, Scipione ..................................... 155 Bentivoglio, Giovanni..................... 51; 53-56 Benzone, Giorgio ......................................... 83 Berengario I, re d’Italia ................................ 33 Bernieri, Antonio dei ................................. 155 Bernieri, Elisabetta dei...................... 155; 173 Biancardo, Palma ........................ 91; 100; 168 Biancardo, Ugolotto .... 38-40; 47: 53; 61; 76; 84: 91; 100; 147 Biglia, Andrea .............................................. 119 Boiardo, Guido, di Rubiera ........................ 79 Bonghi, o Bongi, famiglia di Bergamo ..... 41 Bonifacio IX (Pietro Tomacelli) papa 59; 84 Bornado, Guiberto de ........................ 17; 165 Boucicaut, Jean Le Meingre sire di... 95; 109 Bozzoli, Ubertino dei................................... 38 Braccio da Montone............... 47; 59; 97; 103 Bracelli, Jacopo ........................................... 122 Brancadoro, famiglia di Fermo ....... 159; 161 Brancadoro, Girolamo............................... 161 Bravi, Luigi................................................... 139 Brembati, Giulia contessa ......................... 176 Brembilla, famiglia ........................................ 41 Broglia, Cecchino ............................. 47-49; 51 Buralli, Tomaso ............................................. 81 Burgani, Uberto ............................................ 14 C Cacci, Bartolomeo ...................................... 130 Cadalo, vescovo di Parma ..................... 11-13 Caivano, Giacomo da ................................ 133 Caliari, Paolo, detto il Veronese .............. 176 Cambiago, Cristoforo da, notaio ............. 154 Camerino, Antonio da ................................. 53 Camino, Gerardi de...................................... 18 Camponeschi dall’Aquila, Antonuccio ... 109 Canale, Luca da ....................................... 46-48 Canobio, Frate Ercolano da ..................... 151 Canossa Bonifacio III di .......................... 10; 11; 13 Camilla di ................................................. 82 Caterina di ..................................... 101; 168 Donizone di............................................. 10 Galeazzo di ............................................ 176 Guidone ........................................ 101; 168 Matilde, contessa di................... 10; 13; 14 Simone da ................................................ 61 Canossa di Montalto, famiglia........... 80; 101 Cantelli, Bartolomeo .................................... 81 Cantelli, Luca ................................................. 69 Cantelli, Ludovico .................... 41; 49; 54; 55 Cantelli, Maria Teresa ....................... 156; 174 Cantelli, Martino ........................................... 81 Cantelli, Pietro............................................... 99 Capilupi, Flavia .......................................... 176 Capitani, Corradino dei ............................. 152 Capponi, Gino ....................................... 54; 82 Capranica, Domenico ................................ 158 Carmagnola, (Francesco Bussone), detto il ................................................. 47; 118; 122 Carpeneta, Gerardi de.................................. 18 Carrara, Francesco II da (detto Novello) ......................................... 38; 39; 49; 51; 61 Carrara, Giacomo da .................................... 76 Carrara, Marsilio da .................................... 100 Carraresi, famiglia 38; 50-56; 61; 75-77; 102 Cassani, Cassano dei ......................... 106; 153 Castiglione, Baldassare .............................. 161 Castiglione, Branda da ............................... 125 Castiglioni, Franchino.... 101; 103; 124; 132; 142; 169 Castiglioni, Guarniero....................... 125; 126 Caterina da Siena, santa ............................... 48 Cattabriga, Pierpaolo ................................. 168 Cattaneo, Galeazzo da Mantova ................ 61 Cavalcabò, famiglia ......................... 15; 82; 83 Cavalcabò, Giovanna ................................... 70 Cavalcabò, Marsilio ...................................... 82 Cavalli, Dondadeo ...................................... 104 Cavalli, Maria ...................................... 156; 173 Cavalli, Pantasilea ....................................... 104 Cavalli, Paolo Camillo................................ 156 Cernitori dei, famiglia .................................. 81 Cernitori, Cabrino dei ................. 81; 115-116 Cervato Secco, Lucia di .................... 147; 168 Cesarini, Giuliano cardinale ...................... 128 Chiaravalle, Bernardo di .............................. 63 Cittadella, Rampini da.................................. 99 Clemente VII (Roberto di Ginevra), antipapa .................................................... 48 Colleoni, Bartolomeo.......................... 47; 136 Colonna, Giovanni ................................ 47; 59 Colonna, Ludovico..................................... 126 Compagnia Bianca........................................ 47 Compagnia della Rosa .................... 49; 54; 55 Compagnia di San Giorgio ......................... 47 Consalvi, Ercole cardinale ........................ 162 Contarini, Andrea doge .............................. 35 Contarini, Giovanni ................................... 108 Contarini, Stefano....................................... 131 Contrari, Uguccione 44; 97; 101; 110; 112; 132 Cornazzano Aicardo da, vescovo............................... 17 Alberto da, canonico ............................. 19 Armanno da............................................. 19 Bernardo da ................................ 19; 23; 24 Gandolfo da ............................... 10; 11; 13 Gerardo (I) da ......................................... 10 Gerardo (II) da ....................................... 11 Gerardo (III) da ............................... 14; 15 Gerardo (IV) da ............................... 15; 16 Gerardo (V) da........................................ 20 Giacomo da ............................................. 18 Lanfranco da, (Vigoleno) ...................... 27 Lanfrancus da, canonico ....................... 14 Manfredo da ........................ 19; 20; 23; 28 Oddone (I) da ................................ 10; 164 Oddone (II) da.................... 10; 11; 12; 14 Oddone (III) da ...................................... 14 Oddone (IV) da ...................................... 20 Pietro da ............................. 24; 26; 27; 170 Uberto da ................................................. 19 Corner, Giorgio .......................................... 132 Corner, Pietro .............................................. 35 Correggio, Galeazzo da .................................... 95; 110 Gherardo da .......................................... 110 Giberto da................... 31; 56; 91; 94; 146 Manfredo da .......................................... 146 Matteo da ................................................. 24 Violante da ............................................. 161 Correggio, famiglia 20; 57-65; 71; 92; 106 Corte, Pietro da ............................................. 72 Cossa, Baldassarre, (v. Giovanni XXIII, antipapa) ............................................ 62; 84 Cremona, Giovanni da ................................ 99 Crotti, Lancellotto ...................................... 135 Cusino, Antonio da .................................... 110 D da Fogliano, famiglia .............. 81; 93; 95; 103 da Palù, Niccolò .......................................... 168 da Padova, Ludovico, patriarca, ............. 158 Dal Verme, Jacopo ...... 36-38; 47-54; 61; 76; 84-89; 93 de Sacis, Pietro, notaio ............................. 116 de Porta, Jacopino, notaio ....................... 116 Dalla Corte, Girolamo ................................. 39 Della Pergola, Angelo ......................... 80; 120 Della Pergola, Cecilia, madre di Niccolò il Guerriero ........ 80; 101; 115; 116; 120; 168 183 Della Pergola, Delfino ................. 80; 81; 134 Della Pergola, Leonoro .............................. 81 Della Scala, famiglia ........................ 38; 48; 53 Della Torre, Maria ..................................... 161 Diedo, Bernardo ......................................... 100 Doria, Antonio ............................................ 121 E Enrico III, imperatore .......................... 11; 12 Enrico IV, imperatore .......................... 12; 14 Enrico V, imperatore ................................... 14 Enrico, vescovo di Parma ........................... 10 Enzo di Svevia, re di Sardegna............ 20; 28 Este Aldrovandino d’...................................... 23 Beatrice d’ .............................................. 155 Borso d’ ......................................... 104; 139 Enrichetta d’ .......................................... 156 Ercole I d’ .............................................. 104 Isabella d’ ............................................... 150 Leonello d’ ............................................. 103 Niccolò III d’ ... 44; 61; 84-103; 108; 117 Taddeo d’ ............................................... 131 Eugenio IV, (Gabriele Condulmer), papa ............................................... 129; 132; 134 F Facino Cane . 47; 52; 55; 69; 85-95; 102; 118 Faenza, Martino da....................................... 65 Farnese, Anna Maria ......................... 156; 173 Farnese, Ottavio, duca............................... 155 Farnese, Ranuccio II, duca .............. 156; 173 Federico I di Svevia, detto il Barbarossa 1518; 33 Federico II di Svevia ................ 20; 24; 26; 28 Felino, Antonio da ..................................... 123 Feltre, Vittorino da..................................... 106 Fieschi Gian Luigi ..................................... 121; 124 Luca......................................................... 109 Ludovico cardinale .......................... 93; 96 Obizzo, vescovo di Parma ................... 23 Fieschi, famiglia .......................... 27; 113; 122 Fogliano Beltramo da .................................... 82; 116 Carlo da ... 42; 44; 79-84; 91;-99; 102-116 Eleonora................................................. 102 Francesca da, .........56; 80; 84; 100; 142 Guido Savina (II) da .............................. 82 Jacopo da ............................................... 116 Folenghi, Armellina, di Lorenzo ............. 147 Fondulo, Gabrino 43; 77; 82; 83; 91-93; 114 Foscari, Francesco, doge di Venezia....... 108 Fosio, Maffeo dal........................................ 111 Fregoso, Abramo (Campofregoso) ......... 123 184 Fregoso, Tommaso (Campofregoso) ..... 121 Frizzolino (Fuzzolino) di Golem ....... 50; 54 G Gaivano, Giacomo ..................................... 134 Gallina, Gian-Francesco, notaio ducale . 152 Gattamelata (Erasmo da Narni) detto il .. 47 Gente, Giberto da ........................................ 20 Giovanni XXIII, antipapa ................... 62; 84 Giudice, Giovanni del.................................. 37 Gonzaga, famiglia ....................................... 148 Carlo ....................................................... 132 Federico I ............................................... 149 Federico II ..................................... 161;176 Francesco I ................................. 53; 54; 76 Francesco II ............... 149; 159; 160; 176 Gianfrancesco .................................. 43; 92 Ludovico III ........................ 118; 147; 148 Gozzadini, Nanne ........................................ 55 Grasso, Nigro, podestà a Parma ................ 18 Gregorio XI (Pierre-Roger de Beaufort), papa ........................................................... 30 Gregorio XII, (Angelo Correr), papa ..... 108 Guarino Veronese (Guarino Guarini) .... 103 Guarnazza, Giacomino ............................... 78 Guerrieri Alessandro ............................................. 159 Giacomo, o Giacopo .................. 159; 175 Giovan Filippo, già Terzi .................... 158 Giovan Francesco ................................ 160 Giovanni Battista.................................. 159 Giovanni Francesco ............................. 159 Polonio .......................................... 159; 175 Guerrieri Gonzaga Cesare, cardinale .................................. 162 Isabella .................................................... 176 Ludovico ........................................ 160-162 Vincenzo ....................................... 160; 162 Guicciardini, Francesco ................... 161; 176 Guidi, conti (famiglia) ................................ 133 Guinigi, Paolo, signore di Lucca................ 51 Guinizone, notaio ......................................... 15 Gunterio, messo imperiale .......................... 12 H Hawkwood, John (v. Acuto Giovanni) .... 47 Herberia, Gerardo de ................................... 14 I Imilia, badessa ............................................... 11 Imola, Jacopo da ........................................ 137 Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi) papa... 20; 24; 27 Innocenzo VII (Cosimo Migliorati) papa 72 L Lalatta, Giovanni .......................................... 90 Landi, Bernabò.............................................. 36 Landi, Ubertino............................................. 36 Lanfranchi, Lucia, di Panfilo .................... 147 Lanfranchi, Panfilo ..................................... 147 Lanfranchi, Paola dei ........................ 154; 171 Langhirano, Galcazzino da ....................... 111 Lavello, Cristoforo da ................................ 123 Leone XII (Annibale della Genga Sermattei), papa .................................... 156 Liechtenstein, Giorgio di, vescovo di Trento ................................................ 84; 87 Lione, Luca da ............................................... 55 Lisca, Alessandro ........................................ 147 Lisca, Polissena .................................. 147; 167 Locatelli di Valle Imagna, famiglia ............ 41 Lorena, Beatrice di ................................ 10; 13 Ludovico il Bavaro, imperatore ..29; 31; 151 Luigi XII, re di Francia .............................. 154 Lupi di Soragna, famiglia ............................ 20 Lupi di Soragna, Francesco ...................... 138 M Macagnanus, iudex ..................................... 166 Machiavelli, Niccolò ........................... 47; 144 Maino, Anna Maria ........................... 156; 174 Malaspina, Bartolomeo................................ 67 Malaspina, famiglia ....................................... 15 Malatesta, Carlo, signore di Rimini ... 46; 47; 51; 84; 121 Malatesta, Galeotto I ................................... 30 Malatesta, Pandolfo .... 43; 54; 59; 69; 86; 92 Malatesta, Sigismondo Pandolfo .... 132; 133 Malcorpo da Cremona ................................. 48 Malnepoti, famiglia ....................................... 72 Malvezzi, Ludovico .................................... 146 Malvicino, Giovanni ....... 108; 109; 111; 117 Mandello, Ottolino da .................... 33; 36; 37 Manfredi, Astorgio, o Astorre ............ 50; 51 Manfredi, Astorre II................................... 146 Manfredi, Giovanni ............................... 51; 92 Mangiarotto, Ugo ......................................... 21 Marazzani Visconti, Antonio .......... 156; 174 Marazzani Visconti, Francesco ............... 156 Marocella dalla Porta, Beatrice................. 102 Martelli, Domenico .................................... 135 Martinengo, Cesare .................................... 132 Marzano, Giovanni ...................................... 72 Mazza, Giovanni ........................................... 78 Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico ... 45 Meraviglia, Gabriele ................................... 140 Merlino ........................................................... 73 Michelotti, Biordo ........................................ 50 Michelotti, Ceccolino ............................ 47; 49 Mirandola, Princivalle della ................. 38; 55 Montagnana, Cecco da .............................. 120 Montanari, Montino dei .............................. 81 Montefeltro, Antonio da ............................. 55 Morosini, Bernardo .................................... 100 Mostarda da Forlì .................................. 50; 59 Musacchi, Gervaso ....................................... 81 N Neviano, Andrea da ................................... 151 Noce, Giovanni della ................................. 132 Nogarola, Girolamo di .............................. 155 Nogarola, Isotta di............................. 155; 173 O Obertenghi, famiglia ...................................... 9 Obizzo, vescovo ........................................... 23 Olderico, messo imperiale .......................... 12 Omodei, Giovanni ..................................... 140 Onorio II (Pietro Cadalo), antipapa.......... 11 Orsina, moglie di Ottobono . 61; 79; 81; 101 Orsini, famiglia ............................................ 159 Orsini, Paolo.............................. 47; 49; 59; 72 Ottone IV di Brunswick.............................. 23 P Paccaroni, Lodovica de’ ............................ 159 Paleologo, Margherita, marchesa del Monferrato ............................................ 161 Pallavicino Antonio .................................................. 119 Chiara............................................. 154; 172 Giovanna Terzi vedova ..... 106; 151; 153 Guglielmo ............................ 106; 151; 153 Orlando ............................ 92; 93; 114; 152 Pietro ........................................................ 88 Rolando .................................................... 88 Uguccio ............................................. 38; 39 Pallavicino di Varano, Lanzario ................. 72 Pallavicino di Varano, Vinciguerra ............ 72 Pallavicino, famiglia.... 10; 21; 43; 55; 59; 66; 67; 71; 72; 78; 82; 84; 89 Paolo Uccello, (Paolo di Dono), pittore .. 45 Parma, Orlando da, podestà ....................... 35 Pavia, Antonio Simone da ........................ 123 Pazzi, Gasparo de’ ........................................ 65 Pedrignacola, Antonio da............................ 81 Pellegrino, marchesi di, famiglia ................ 36 Perugia, Ruggiero da .................................. 100 Pesaro, Antonio da .................................... 137 Petrucci, Antonio ....................................... 127 Pezzali, Giovanni dei ................................... 99 Piazza, Cristoforo ....................................... 154 185 Piccinino, famiglia .................... 118; 137; 138 Piccinino, Francesco ........ 133-140; 145; 157 Piccinino, Jacopo ............................... 134; 137 Piccinino, Niccolò .... 47; 118; 122-125; 130133; 152 Piccolomini, Enea Silvio (Pio II, papa) ... 46; 162 Pico della Mirandola, Alberto Pio .. 140; 141 Pico della Mirandola, famiglia ........... 94; 102 Pio VII, (Barnaba Chiaramonti), papa ... 156 Pisa, Filippo da.............................................. 49 Pizzo, Opicino del ........................................ 19 Pizzo, Uldefredo da ..................................... 18 Porro, Antonio .............................................. 33 Porta, Beatrice Marocella dalla................. 102 Pusterla, Baldassarre della ........................... 41 Pusterla, Balzarino della .............................. 40 Pusterla, Pietro da ...................................... 137 R Rangoni, Bonifacio ............................ 156; 174 Rangoni, Gerardo ......................................... 18 Rangoni, Giacomino .................................. 111 Regna, Lanzarotto della ................ 81; 85; 115 Rho, Francesco conte di ........................... 176 Ricci, Martino, notaio ................................ 154 Rivola, famiglia.............................................. 41 Roberti, Taddea dei ........................... 155; 173 Roberto III del Palatinato ........................... 51 Rocca, Dino dalla ......................................... 41 Rocca, Marcardo della ................................. 86 Romano Giulio, ......................................... 162 Rossi Antonio ............................................. 70; 93 Bertrando ................................................. 30 Giacomo (o Jacopo), vescovo .... 43; 67; 70; 72; 75; 83; 84; 92; 96 Giovanna dei ........................................... 70 Leonardo dei .................................... 76; 83 Pietro .... 41; 61; 62; 64; 66-68; 72; 91; 92 Pietro Maria .......... 98; 131; 138; 141; 146 Rolando .................................................... 27 Troilo dei ............................................... 155 Rossi, famiglia 20; 21; 44; 57-62; 71; 72; 74; 81; 89-93; 98; 111 Rota, famiglia................................................. 41 Rusca, Luterio, podestà ............................... 36 S San Bonifacio Bernardo di ............................................ 104 Isotta ....................................................... 104 Ludovico di .................................... 56; 102 Marugolà di................................... 103; 169 Rizzardo di............................................. 104 186 Silvio di ................................................... 104 San Bonifacio, famiglia .............................. 103 San Felice, Ferro da.................................... 112 San Severino, Cecco da ............................... 77 Sanseverino, Luigi ...................................... 130 Santa Vittoria, Mazzarino di ....................... 48 Sanvitale Anna Maria ................................... 156; 174 Giberto ............. 69; 75; 77; 109; 110; 152 Ludovico ................................................ 156 Sanvitale, famiglia . 20; 21; 57; 64; 67-73; 78; 110; 120; 139 Sassuolo, Francesco da ......................... 44; 94 Savelli, Paolo.................................................. 40 Savoia, Amedeo VIII, duca di........... 95; 123 Savoia, Maria di (figlia di Amedeo VIII); ................................................................. 123 Savoia-Acaia di ............................................ 95 Scala, Brunoro della (o Scaligero) ............ 100 Scoffoni, Lucrezia.............................. 156; 173 Scoffoni, Marc’Antonio ............................ 156 Scotti Alberto ................................................... 113 Caterina ................................ 106; 113; 169 Francesco ............................... 72; 106; 113 Giovanni ................................ 72; 113; 114 Lodovico .................................................. 68 Manfredo ................................................. 68 Scotti, famiglia ................................68; 77; 113 Scrovegni, Pietro........................................... 50 Serra, Bernardo della ..........49; 51; 54; 55; 61 Sforza Alessandro ..........134; 146; 147; 154; 157 Francesco I ........103; 118; 123; 132-138; 143-148; 153; 154 Galeazzo Maria ..................................... 154 Ludovico, detto il Moro ...................... 155 Muzio Attendolo, detto lo ..... 44-47; 54; 55; 91; 94; 95; 97 Sigefredo II, vescovo ..................................... 9 Sigismondo di Lussemburgo ....... 117; 124126,129; 142 Simonetta, Cicco, .............................. 154; 172 Simonetta, Gentile ...................................... 154 Soardi, Francesca ........................................ 161 Soardi, Giacomo ......................................... 161 Sole, Giovanni dal ...................................... 100 Somaglia, Orazio della ...................... 156; 173 Sparapane, capitano detto lo ...................... 83 Spoleto, Nicolò da ...................................... 109 Stefano III, duca di Baviera ........................ 38 Steno, Michele, doge .................................. 108 Strozzi, Agnese, di Uberto ........................ 147 Strozzi, Uberto ............................................ 147 Suardi, famiglia .............................................. 41 T Tanagli, Guglielmo ..................................... 140 Tardeleri, Lancellotto................................. 141 Tartaglia, Angelo.................................... 72; 74 Tavernieri, Auda .................................. 20; 166 Tavernieri, Bartolo ................................ 20; 28 Tavernieri, Elena .......................................... 20 Teodoro II Paleologo ......................... 41; 109 Terzi Antonio ..................... 57; 75; 85; 111; 151 Antonio Maria, .................................... 156 Barbara .................................................. 168 Beltramino ............................................. 147 Caterina, figlia di Ottobono ..... 101; 103; 124; 142; 169 Elena ....................................................... 147 Francesco I, caduto a Fornovo ......... 155 Francesco Maria ................................... 156 Gaspare ......................................... 140; 145 Gherardino (II) ................... 139; 147; 152 Gherardo (I), o Ghirardino ......... 29; 151 Giacomo (o Jacopo) .................. 105; 157 Giberto (I) ....27-30; 33-35; 57; 168; 171 Giberto (II) ............................................ 111 Giberto (III) .......................................... 152 Ginevra ................................................... 168 Giorgio ................................... 91; 100; 147 Giovan Filippo, poi Guerrieri .. 114; 134; 157 Giovanni ............................................... 105 Guido I, o Guidone ............................... 28 Guido II ................................................. 152 Jacopino ................................................. 147 Lazzarino ............................................... 172 Ludovica, moglie di Niccolò il Guerriero ................................ 138; 140; 147; 168 Margarita, moglie di Niccolò Terzi il Vecchio .................................. 42; 79; 168 Margherita, figlia d’Ottobono .. 101; 103; 169 Niccolò Carlo ............. 44; 84; 97; 99; 101 Niccolò, il Guerriero ................ 115; 157 Niccolò, il Vecchio ............................. 33 Ottobono, o Ottobuono ...................... 43 Ottobuono, di Sissa ........... 154; 155; 172 Primo ......................................... 26; 27; 170 Secondo ..................................... 26; 27; 170 Terzo............................ 24; 25; 26; 27; 170 Terzi di Fermo .......................................... 157 Terzi di Parma ............................................ 26 Terzi di Sissa ............................................. 151 Teutmario, o Dietmar ........................... 11; 12 Tizzano, Simone da ...................................... 88 Tolentino, Niccolò da................................ 129 Tomacelli, Giannello .................................... 59 Torelli, Guido ......... 44; 97; 98; 118-123; 130 Tornielli, Antonio, podestà......................... 41 Treviso, Niccolò da (notaio) .................... 103 Trivulzio, Giacomello ................................ 140 Tutino, arcidiacono ...................................... 19 U Ubaldini, Bernardino ................................. 126 Uberti, Ludovico ............................... 147; 167 Uella, Cristoforo da .................................... 130 Urbano VI (Bartolomeo Prignano), papa 48 V Valdimania, famiglia ..................................... 41 Vale di San Martino, famiglia ..................... 41 Vallisnieri, Antonio ...................................... 61 Vallisnieri, Lorenzo ............................. 99; 107 Vasari, Giorgio .............................................. 45 Venceslao IV, re di Boemia .... 30-34; 40; 52; 96 Venosa, Grasso da...................................... 100 Verrieri, Andreana dei ............................... 158 Vianino, Pietro da ............................ 75; 77; 87 Vignate, Giovanni da ................................... 83 Visconti Antonio .................................................... 85 Astorre ...................................................... 88 Bernabò ............................................. 24; 29 Bianca Maria .......................................... 154 Carlo ............................................ 37; 38; 52 Caterina ................................ 39; 56; 60; 71 Filippo Maria . 83; 95; 100; 103; 117-130; 134-143; 148;-153 Francesco .......................................... 49; 77 Gabriele Maria ................................. 61; 85 Gaspare .................................................. 125 Gherardo ........................................... 30; 34 Gian Galeazzo ...... 30-35; 40; 48; 50-59; 102; 151 Giovanni Maria ....... 43; 68; 83-85; 92; 95 Isotta ................................................ 82; 168 Mastino ..................................................... 52 Matteo....................................................... 40 Niccolò .............................................. 30; 34 Viridis, o Verde ....................................... 52 Visdomini, Manuccio ........................ 156; 173 Visdomini, Zanardo dei .............................. 38 Vittore IV (Ottaviano dei Crescenzi), antipapa .................................................... 17 Z Zeno, Pietro ................................................. 131 Zrini, Pietro, bano di Croazia .................. 128 187 188 Indice MARCO GENTILE, Prefazione pag. 5 Introduzione » 7 1. Dai Cornazzano ai Terzi » 9 2. I Terzi di Parma, podestà e condottieri » 26 3. Niccolò Terzi, il Vecchio » 33 4. Ottobono Terzi » 43 4.1 Francesca da Fogliano » 100 4.2 Giacomo e Giovanni Terzi » 105 5. Niccolò Terzi, il Guerriero » 115 6. I Terzi di Sissa » 151 7. I Terzi di Fermo, poi Guerrieri » 157 TAVOLE GENEALOGICHE » 163 MAPPA DEI LUOGHI INDICE dei nomi 179 » 181 189 190 Finito di stampare dalle PARMA nel mese di giugno 2019