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Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato Riccardo Cardilli Maria Floriana Cursi Olivier Descamps Paul J. du Plessis Roberto Fiori Paola Lambrini Gianni Santucci Martin Josef Schermaier a cura di Roberto Fiori Estratto Jovene Editore 2008 3 ROBERTO FIORI FIDES E BONA FIDES. GERARCHIA SOCIALE E CATEGORIE GIURIDICHE* 1. La fides arcaica. 1.1. Lo stato della dottrina. – Negli ultimi anni è stata dedicata molta attenzione al tema della bona fides nel diritto romano, forse anche in conseguenza dello sviluppo avuto dalla corrispondente nozione civilistica nella dottrina e nella giurisprudenza. Tuttavia, benché sia unanimemente riconosciuto lo stretto rapporto esistente tra la buona fede del diritto classico e la fides arcaica, nell’analisi della prima non si è adeguatamente tenuto conto del ruolo e del significato della seconda1. Io credo, al contrario, che per una corretta comprensione della bona fides – come di molti istituti del diritto classico – sia imprescindibile una analisi delle origini. Partiamo dunque dalla natura e dalla funzione della fides arcaica. Com’è noto, la dottrina ha fornito essenzialmente due soluzioni. Secondo alcuni autori, essa coinciderebbe originariamente con il ‘potere’ di una parte sull’altra, e con la corrispondente subordinazione personale di quest’ultima; successivamente, il rapporto si sarebbe trasformato sino a ricomprendere anche la ‘sottomissione virtuale’ di chi presta la fides, attraverso il valore impegnativo della parola2. E su que* Testo italiano della relazione tenuta il 22 febbraio 2008 presso l’Institut de droit romain dell’Université de Paris II, su invito del prof. Michel Humbert, che ringrazio nuovamente. 1 Con l’eccezione di L. LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, Milano 1961. 2 È questa la ricostruzione di LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., spec. 133 ss., seguito da D. NÖRR, Aspekte der römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München, 1989, 146 ss. Ad essa può avvicinarsi anche la lettura di G. VON 238 ROBERTO FIORI sto terreno – in un periodo di forte influenza, sulle discipline classiche, dell’etnologia – non sono mancate interpretazioni magistiche della nozione, avvicinata a quella polinesiana di mana3 come potere magico del capo4 o come forza magica delle parole5. Altri autori hanno concentrato la propria interpretazione solo sul rapporto tra fides e giuramento – forse anche condizionati dal fatto che le fonti (al più) tardo-repubblicane a noi pervenute, scomparsi gli istituti del diritto arcaico, mettevano in risalto soprattutto questa funzione6 – e hanno rappresentato la fides essenzialmente come principio di vincolatività della parola data7. 1.2. Le funzioni della fides nelle fonti. – A me sembra che non possano essere accolte né l’una né l’altra ricostruzione. Nelle fonti, la fides appare sostanzialmente in due funzioni. BESELER, Fides, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, Roma, 1934, 135 ss., secondo il quale il significato originale di fides sarebbe ‘Bindung’: in un’età pregiuridica le dispute si sarebbero risolte con la sottomissione fisica del vinto, che sarebbe stato appunto legato. Cfr. anche E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, 1976 (tit. or. Le vocabulaire des institutions indoeuropéennes, Paris, 1969) 88. 3 A. MAGDELAIN, Essai sur les origines de la sponsio, Paris, 1943, 125 ss. 4 A. PIGANIOL, Venire in fidem, in «RIDA», V, 1950, 345 ss.; C. GIOFFREDI, Religione e diritto nella più antica esperienza romana (per la definizione del concetto di «ius»), in «SDHI», XX, 1954, 278; P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma, 1959, 374 ss. 5 F. MAROI, Contributi alla sociologia giuridica, in Scritti giuridici, II, Milano, 1956, 784. 6 Cfr. ad es. Cic. off. 3, 111: nullum enim vinculum ad adstringendam fidem iureiurando maiores artius esse voluerunt. 7 F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, Berlin, 1934, 151 ss.; W. KUNKEL, Fides als schöpferisches Element im römischen Schuldrecht, in Festschrift P. Koschaker, II, Weimar, 1939, 5; ID., Über Schuld und Schaden in der Antike, in Scritti C. Ferrini, III, Milano, 1948, 90 ss.; M. HORVAT, Osservazioni sulla bona fides nel diritto romano obbligatorio, in Studi V. Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1953, 423 ss.; M. KASER, Das römische Privatrecht, I2, München, 1971, 181; cfr. anche M. TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani: ‘Leerformeln’ e valori dell’ordinamento, in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Studi A. Burdese, IV, Padova, 2003, 40 nt. 129. Paradossalmente, pur essendo lo studioso che più ha sottolineato il significato di fides come ‘credito’ (cfr. infra), anche G. FREYBURGER, Fides. Étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne, Paris, 1986, spec. 319 ss., enfatizza, rispetto alle origini, un ruolo formale della fides come «respect absolu d’un règle ou d’un accord» (ibid., 324). FIDES E BONA FIDES 239 a) In primo luogo, essa costituisce il parametro per relazioni codificate dai mores anche nel contenuto. Ne sono un esempio la clientela, i cui obblighi risultano fissati già in età antichissima, secondo le fonti all’epoca della fondazione della città8; o ancora le associazioni aristocratiche tra gentiles denominate sodalitates, costruite su un sistema di comportamenti di ‘fedeltà’ che in parte risale addirittura al passato indoeuropeo9. Si tratta di valenze ‘tipiche’ nelle quali i doveri delle parti non discendono solo dalle specifiche promesse, ma sono soprattutto codificati nella prassi e ‘naturalmente’ richiamati dal ‘tipo’ di rapporto10. b) In secondo luogo, la fides consente la nascita di vincoli non codificati nel contenuto dai mores11, attraverso l’adozione di uno strumento ‘aperto’ come il giuramento che permette di dar vita a un rapporto le cui regole sono dettate unicamente dai verba del giurante. Ora, alla luce di queste risultanze, la seconda teoria (della ‘parola data’) appare insufficiente perché si basa su un’analisi incompleta dei testi. Ma neanche la prima risulta convincente, perché a ben vedere non solo nel giuramento, ma anche nei rapporti codificati dai mores non è dato ravvisare alcun ‘potere’: non ne dispone il patronus nei confronti dei clientes, il princeps della sodalitas nei confronti dei sodales, il tutor nei confronti del pupillus. In realtà la fides non è una nozione potestativa, e anzi proprio per questo la sua infrazione determina, nel diritto arcaico, una sanzione come la sacratio, che permette a chiunque – anche a soggetti sprovvisti di potere – di punire il colpevole12. Qual è, allora, il valore primo della nozione? 8 Dion. Hal. 2, 10, 1-3 (cfr. anche Plut. Rom. 13, 8). Sul problema storiografico della cd. ‘costituzione di Romolo’, la mia opinione è in R. FIORI, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 180 s. 9 R. FIORI, Sodales. Gefolgschaften e diritto di associazione in Roma arcaica (VIII-V sec. a.C.), in Societas-Ius. Munuscula di allievi a F. Serrao, Napoli, 1999, 99 ss. 10 Cfr., circa la derivazione ex moribus dei doveri fondati sulla fides, Gell. 5, 13, 2-6, nonché le altre fonti riportate in FIORI, Homo sacer, cit., 160 ss. 11 Sui quali eventualmente si innestano gli specifici accordi dei singoli: per le pactiones nel rapporto di sodalitas, attestate in tab. 8, 27, mi sia permesso di rinviare a FIORI, Sodales, cit., 141 ss. 12 Sulla sacratio come rimedio a ‘vuoti di potere’ cfr. FIORI, Homo sacer, cit., spec. 518 ss. 240 ROBERTO FIORI 1.3. La fides come ‘credito’ socio-giuridico. – Un’analisi del vocabolario connesso alla nozione di fides è ai nostri fini estremamente significativa. È stata da tempo riconosciuta la stretta relazione tra il sostantivo fides e il verbo credo13. Si tratta di termini del vocabolario giuridicoreligioso antichissimi – soprattutto credo, che ricorre solo ai margini delle famiglie linguistiche indoeuropee, nelle lingue, cioè, dei popoli le cui migrazioni sono più antiche14 – riconducibili a due distinti radici (i.e. *k̂red-dhē-, *bheidh-) che nelle diverse lingue si sono per lo più conservate alternativamente15 ma che il latino ha mantenuto entrambe, attribuendo a fides il ruolo di sostantivo di credo. Sono infatti nozioni correlative: volendo spiegare la radice indoeuropea alla base del latino credo, dovremmo rendere l’espressione come ‘compiere un atto di riconoscimento16 delle capacità o del ruolo dell’altro (eventualmente nell’attesa di una remunerazione)’. Non dunque un credo teologico, ma un atto che – nelle sue espressioni religiose – si esplica piuttosto nell’attribuzione di offerte alla divinità. In corrispondenza, lat. fides indica la capacità di un soggetto di ricevere un tale ricono13 Cfr., per quanto segue, A. ERNOUT, Skr. ‘çrad-dhā́’, lat. ‘crēdō’, irl. ‘cretim’, in Mélanges S. Lévi, Paris, 1911, 85 ss.; A. MEILLET, Latin credo et fides, in «Mémoires de la Société Linguistique», XXII, 1920, 215 ss.; A. WALDE - J. B. HOFMANN, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, I3, Heidelberg, 1954, 286 s.; BENVENISTE, Vocabolario, cit., 85 ss., 130 ss.; A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine4, Paris, 1979, 148 s.; G. DUMÉZIL, Credo e fides, in Idee romane, Genova, 1987, 47 ss. (ed. or. Idées romaines, Paris, 1969, rielaborazione di Latin crēdō, arménien arit’; mots et légendes, in «Revue de philologie», LXIV, 1938, 313 ss.) 47 ss.; J. POKORNY, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, I3, Tübingen-Basel, 1994, 117 e 580. Isolato A. PARIENTE, Sobre la etimología de ‘credere’, in «SDHI», XIX, 1953, 340 s. (crēdere < *crēddere < *crēt[ŏ]-dare: ‘dar en prestamo, dar prestado’). LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 160 s. fraintende le posizioni della dottrina e ipotizza una (in realtà inesistente) opposizione tra Meillet e Walde-Hofmann, dalla quale uscirebbe rafforzata la sua lettura di fides come ‘potere’. 14 Secondo la nota teoria di J. VENDRYES, Les correspondances de vocabulaire entre l’indo-iranien et l’italo-celtique, in «Mémoires de la Société Linguistique», XX, 1918, 3 ss. 15 In indo-iranico e celtico la prima (ved. śraddhā́h , avest. zrazdå, airl. cretim, . gall. credaf; i termini gall. ffydd, corn. fyth, bret. feiz sono derivati di lat. fides), in greco la seconda (peivqomai, pivsti"). 16 Al tempo stesso dichiarativo e costitutivo: è questo un ‘credito’ che si alimenta agli atti di ‘fiducia’. FIDES E BONA FIDES 241 scimento (fides mihi est apud aliquem significa, letteramente, ‘ho credito presso qualcuno’), che a volte – in determinate connessioni: per esempio fidem facere, fidem habere alicui, propriamente ‘riconoscere a qualcuno la fides che gli spetta’ – può indicare secondariamente l’atto di ‘fidarsi’17. Il cristianesimo ha profondamente mutato il rapporto tra queste nozioni, e ciò naturalmente ha velato la nostra capacità di intepretarle correttamente. La correlatività tra credo e fides si è mantenuta, ma il termine ‘fede’ si è specializzato in senso religioso, sostituito, sul piano mondano, da ‘fiducia’18. Queste espressioni, tuttavia, enunciano solo il significato secondario della nozione di fides (l’atto di affidamento di un soggetto), mentre quello primario (la qualità dell’altro soggetto di ricevere la fiducia) è scomparso, sostituito – nel gioco di alternanze con credo – da ‘credito’ (o al limite da ‘affidabilità’). Per fare un esempio, laddove noi parliamo di ‘fede in Dio’, i romani dicono fides deorum: la fides ‘degli’ dèi, un loro attributo, una loro prerogativa. In ciò vediamo tutta la distanza che separa la religione romana dal cristianesimo: la prima è una religione ‘civile’, alla quale non ci si converte, ma che implica la partecipazione, in quanto membri della cittadinanza19, a un culto di divinità della cui esistenza non si dubita; il secondo, soprattutto alle origini, richiede invece una conversione individuale che è intesa come atto di fiducia, come credere nell’esistenza del Dio unico. Nella cultura romana arcaica, la fides è insomma la qualità di un soggetto che appare ‘affidabile’ rispetto ai suoi comportamenti e alle sue parole. Còlto questo valore primario, comprendiamo meglio il rapporto spesso riscontrabile nei testi latini tra il termine fides e con17 I due valori sono riconosciuti ampiamente in dottrina: cfr. M. VOIGT, Die Begriffe von fides (1871), in Das jus naturale aequum et bonum und jus gentium der Römer, IV, Leipzig, 1875, 377 ss.; E. FRAENKEL, Fides in Thesaurus linguae Latinae, VI.1, Leipzig, 1913, 661 ss.; ID., Zur Geschichte des Wortes ‘fides’, in «RhM», LXXI, 1916, 187 ss.; R. HEINZE, Fides, in «Hermes», LXIV, 1929 = Vom Geist des Römertums, Berlin, 1938, 27; J. HELLEGOUARC’H, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la république2, Paris, 1972, 33; FREYBURGER, Fides, cit., 37ss., 319 ss. 18 Ne è testimonianza la tarda sostituzione di fidem habere con fidem adhibere: FRAENKEL, Fides, cit., 686. 19 Il punto è affermato con grande chiarezza e semplicità in J. SCHEID, La religione a Roma4, Roma-Bari, 2001, 8. 242 ROBERTO FIORI cetti come quelli di honor, decus, fama, dignitas, ecc.20. In una società classista come quella romana, l’affidabilità di un soggetto si lega alle sue condizioni economiche e sociali: l’honestas non è, se non secondariamente, l’‘onestà’ come qualità morale, bensì il comportamento conforme all’honor, ossia al rango del soggetto – un rango che naturalmente impone dei doveri etico-giuridici21. Questa prospettiva determina una coincidenza tra ‘affidabilità’ e ‘stabilità’; una stabilità che non è solo costanza di comportamenti, ma anche rispetto della posizione che a ciascuno spetta nella gerarchia cosmica: la gravitas è la qualità che si alimenta alla fides per conservare la maiestas, ossia la giusta gerarchia tra gli honores22. Tutto ciò implica, naturalmente, che maggiore è il rango, maggiore sarà il ‘credito’: cosicché la fides si caratterizza sin da età risalente23 per essere un attributo soprattutto della classe dirigente, dei boni (optimi, optimates)24, dei sani (sanates), dei fortes25, dei probi26 – 20 HELLEGOUARC’H, Vocabulaire, cit., 362 ss.; FREYBURGER, Fides, cit., 41 ss. Vocabulaire, cit., 387 s.; R. FIORI, Materfamilias, in «BIDR», XCVI-XCVII, 1993-1994, 480 ss. 22 Sul rapporto tra gravitas, maiestas, honor e fides mi sia permesso di rinviare a FIORI, Homo sacer, cit., 107 ss. 23 Di fortes, sanates e improbitas parlano le XII tavole (cfr. infra, ntt. 25 e 31); la figura del bonus vir deve avere una storia molto antica, se davvero se ne possono scorgere le tracce nel vaso di Duenos del VII-VI sec. a.C. e nell’epiteto sostanzialmente coevo di Iuppiter Optimus (Maximus) (G. COLONNA, Duenos, in «Studi etruschi», XLVII, 1979, 169 s.). 24 Sul rapporto boni-optimi e sull’etimologia (< *ops) nel senso di ‘colui che possiede ricchezze’ cfr. per tutti HELLEGOUARC’H, Vocabulaire, cit., 495 ss. 25 Per l’equivalenza tra boni, fortes e sani (sanates), cfr. Fest. verb. sign. s.v. sanates (LINDSAY, 474) (cfr. tab. 1, 5): in XII (sc. tabulis) cautum est, ut idem iuris esset sanatibus quod forctibus, id est bonis (cfr. Fest. verb. sign. s.v. <sanates> [LINDSAY, 426 e 428]; Paul.-Fest. verb. sign. s.v. forctes [LINDSAY, 74]: forctes, frugi et bonus, sive validus; s.v. horctum forctum [LINDSAY, 91]: horctum et forctum pro bono dicebant). Sanates non indica una categoria di ‘rinsaviti’ (rispetto all’alleanza con Roma) – come sostengono queste fonti con una paretimologia che interpreta l’espressione come sinonimo di sanati – ma esprimono, attraverso una formazione antica (optimates optimus, summates - summus, infimates - infimus, nostrates - noster) l’appartenenza alla categoria dei sani. 26 Per la sostanziale equivalenza di boni e probi cfr. per tutti Plaut. Trin. 272273. Probus e sanus non avrebbero mai assunto, per HELLEGOUARC’H, Vocabulaire, cit., 495, un valore di categoria sociale: ma cfr. ERNOUT-MEILLET, Dictionnaire4, cit., 21 HELLEGOUARC’H, FIDES E BONA FIDES 243 denominazioni, queste, che sviluppano solo nel tempo un senso morale autonomo, ma che all’inizio indicano i ricchi e i potenti, caratterizzati in senso positivo, anche dal punto di vista etico-giuridico del rispetto dei boni mores, non diversamente dagli ¢gaqo… greci. Ciò non deve stupire: che i notabili siano maggiormente ‘affidabili’ discende sia dal fatto che possono garantire protezione e tutela in misura maggiore dei deboli, sia dall’essere meno condizionabili, così da avere maggiore auctoritas27, sia infine dalla circostanza che – per così dire – noblesse oblige: il bonus vir, per restare ‘affidabile’ agli occhi del gruppo, per essere definito constans e gravis, deve comportarsi correttamente o diverrà inconstans ac levis, ossia inaffidabile28. L’inaffidabilità, la violazione della fides, trasforma il bonus e il probus in malus et inprobus, in un paria che, non avendo alcun rango socio-giuridico, non ha credito e dunque fides29: l’homo malus è improbus30, non può più ‘garantire con il proprio credito’ (è questo il 537: probus < *pro-bho-s ‘qui pousse bien (ou droit)’ (cfr. ved. pra-bhú-h. , ‘eminent, puissant’). 27 Cfr. Cic. top. 73: persona autem non qualiscumque est testimoni pondus habet: ad fidem enim faciendam auctoritas quaeritur. L’auctoritas, prosegue Cicerone, è attribuita da chi giudica e da chi compie l’existimatio (i censori) alle persone dotate di talento, di ricchezze, di età, di fortuna ecc. (anche se Cicerone seguendo la morale stoica, ravvisa l’auctoritas innanzi tutto nella virtus). Sono queste convinzioni radicate nella mentalità romana ben oltre l’età arcaica e repubblicana: cfr. Mod. 8 reg. D. 22, 5, 2: in testimoniis autem dignitas fides mores gravitas examinanda est …; Call. 4 de cogn. D. 22, 5, 3 pr.: testium fides diligenter examinanda est. ideoque in persona eorum exploranda erunt in primis condicio cuiusque, utrum quis decurio an plebeius sit: et an honestae et inculpatae vitae an vero notatus quis et reprehensibilis: an locuples uel egens sit, ut lucri causa quid facile admittat … Cfr., sui passi qui citati e in generale su questi problemi in relazione alla testimonianza, J. Ph. LÉVY, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, in Studi B. Biondi, II, Milano, 1965, 27 ss. 28 Cfr. Cic. Sull. 3, 10: inconstans ac levis, nec testimonii fidem tribui convenerit. 29 Il che non significa che le classi umili non abbiano una fides, ma che il loro ‘credito’ è minore di quello delle classi dominanti: nelle XII tavole (1, 4), si afferma che solo un ricco può garantire per un altro ricco, mentre chiunque può essere garante di un proletarius, ma con ciò si riconosce una fides (e dunque un ruolo) anche ai proletarii. Allo stesso modo, nel rapporto di clientela, anche il cliens ha, come si è detto, una propria fides, benché essa si atteggi nel senso di ‘fedeltà’, a fronte di una fides del patronus intesa come ‘protezione, tutela’; e nel rapporto di sodalitas i sodales sono legati al capo dell’associazione da un rapporto di fidelitas (cfr. CIL, XIII, 1668). 30 Cfr., oltre alle fonti citate di seguito, Plaut. aul. 213; Lucil. sat. 10, 4. 244 ROBERTO FIORI senso originario di probare31), gli è vietato di rendere o di chiedere testimonianza (intestabilis32), perché questa testimonianza sarebbe essa stessa mala et exsecranda33. In alcuni casi egli può addirittura essere ucciso legittimamente, come avviene per l’addictus – che può essere ucciso dal creditore – e per l’homo sacer – che può essere ucciso da chiunque34. D’altronde, in una realtà come quella della Roma arcaica, 31 Tab. 8, 22 è stata interpretata da alcuni nel senso che inprobus indicherebbe l’incapacità di essere testimone e intestabilis l’incapacità di invocare testimoni (cfr. per tutti Th. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, 990 s. nt. 9; cfr. ibid., 991 nt. 1, seguito da F. PRINGSHEIM, Le témoignage dans la Grèce et Rome archaïque, in «RIDA», VI, 1951, 170 s.), da altri ritenendo che improbus indichi in generale la sanzione della «impossibilità di fare o di ricevere prova», specificata da intestabilis come «non poter più fare, né ricevere testimonianza» (cfr. per tutti S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, I, Roma, 1928, 543). In realtà è probare a venire da (in)probus, e non il contrario (cfr., pur in un contesto ormai slegato dai valori originari dei termini, Cic. Caec. 1, 3): poiché le testimonianze richiedevano una fides, solo i probi potevano testimoniare, cosicché la sanzione decemvirale va letta nel senso che chi manca ai doveri della testimonianza diviene improbus e dunque intestabilis, non potendo più né dare né ricevere testimonianza. Non a caso, nelle successive norme in materia (o nelle ripetizioni della regola decemvirale: la questione non è per noi interessante), quando il tessuto sociale entro cui si giustificava l’improbitas è mutato, resta solo l’intestabilitas (Ulp. 1 ad Sab. D. 28, 1, 18, 1; 56 ad ed. D. 47, 10, 5, 9; Arc. Char. test. D. 22, 5, 21 pr.). Su questi testi cfr. ora M. HUMBERT, Intestabilis, in Fides humanitas ius. Studii L. Labruna, IV, Napoli, 2007, 2543 ss. 32 Gell. 15, 13, 11 = tab. 8, 22 (FIRA, I, 62): qui se sierit testarier libripensve fuerit, ni testimonium [fatiatur,] inprobus intestabilisque esto: chi manchi ai compiti derivanti dall’essere testimone o libripens (nella mancipatio) diviene improbus e intestabilis. Cfr. anche Gell. 7, 7, 3; Serv. auct. Verg. Aen. 4, 386; Inst. 2, 10, 6; la locuzione improbus intestabilisque ritorna in Sall. bell. Iug. 67, 3, per indicare il comandante che perde la fama per essere scappato incolume di fronte alla disfatta; in Liv. 23, 3, 1 ss. si descrive una rivolta della plebe di Capua contro il senato, che viene chiamato improbus ac detestabilis, e i singoli senatori mali atque improbi, in opposizione a boni et iusti. In dottrina, HUMBERT, Intestabilis, cit., 2543 ss. 33 Cfr. Porph. in Hor. serm. 2, 3, 181 (HAUTHAL, II, 274), riportato nt. seg. 34 Avevo proposto un accostamento tra improbitas e sacratio già in FIORI, Homo sacer, cit., 218 e nt. 88, soprattutto sulla base di Fest. verb. sign. s.v. Sacer mons (LINDSAY, 422 et 424): ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet (su cui cfr. anche ibid., 48 nt. 100); Horat. sat. 2, 3, 179-181: praeterea ne vos titillet gloria, iure / iurandi obstringam ambo: uter aedilis fueritve / vestrum praetor, is intestabilis et sacer esto; Ps.-Acr. Hor. serm. 2, 3, 181 (KELLER, II, 150): intestabilis] periuri sic dicebantur tamquam sacri, hoc est obnoxii numini, per quod iuraverant. intestabiles appellabantur, quorum testimonium non valebat. sacer] exsecrabilis vel exsecrandus kat¦ ¢nt…frasin et hoc secundum duodecim tabulas; Porph. in Hor. serm. 2, 3, 181 (HAUTHAL, II, 274): antiqui eos, quos in testamento nolebant admitti, ‘intestabiles’ vo- FIDES E BONA FIDES 245 in cui la certezza dei rapporti giuridici dipende dalla loro ‘testificabilità’ e le attività negoziali e processuali poggiano in larga misura sull’eterogaranzia, il possesso della fides è essenziale alla sopravvivenza del soggetto nel gruppo, mentre l’improbitas determina come effetto l’impossibilità di fornire prove o di invocare l’intervento di terzi a prova del proprio interesse, coincidendo sostanzialmente con la morte civile35. 1.4. La fides e la ‘parola data’. – Dato questo valore ‘sociale’ della fides, il suo impiego nella costruzione di rapporti socio-giuridici riconosciuti dal gruppo al di là dei legami gentilizi e familiari (clientela e sodalitas) appare ovvio. Ma si chiarisce anche il legame tra fides e giuramento. Il ius iurandum è infatti vincolante non perché la parola data (intesa come manifestazione di volontà del giurante) abbia valore in sé, ma perché essa deve essere informata – per usare le parole di Cicerone – alla constantia (nei giuramenti promissori) e alla veritas (nei giuramenti assertori)36, ossia a qualità del vir bonus come persona ‘afcabant, [detestabiles] scilicet, quorum testimonium malum et exsecrandum esset; Ps.Acr. Hor. epod. 17, 6 (KELLER, I, 451): sacris autem detestabilibus. Da questi testi potrebbe desumersi una tradizione formulare e terminologica legata al rituale della detestatio sacrorum, nel quale forse venivano formalmente recisi i rapporti tra l’homo sacer e il gruppo (ibid., 494), che aveva naturalmente anche l’effetto dell’improbitas e dell’intestabilitas. Mi sembra però impossibile dimostrare che ogni improbitas comportasse una sacratio, come implica la perfetta identità postulata da R. PESARESI, Improbe factum. Riflessioni sulla provocatio ad populum, in Fides humanitas ius. Studii L. Labruna, VI, Napoli 2007, 4197 s.: non vi è alcuna opposizione tra probus e sacer dal punto di vista della sacrificabilità (un significato di probus come «puro e quindi sacrificabile agli dei» non risulta da nessuna fonte – cfr. T. VESTERGAARD, Probus, in Thesaurus linguae Latinae, X.2, Stuttgart-Leipzig, 1998, 1483 ss. – e infatti l’a. non fornisce riscontri), né può sostenersi che lat. improbus derivi «dall’osco umbro, dunque da un contesto culturale in cui è attestata la pratica della sacratio capitis» (ibid., 4198 nt. 63), come afferma l’a. fraintendendo ERNOUT - MEILLET, Dictionnaire4, cit., 537 (i quali si limitano a dire che la radice si trova anche nelle lingue italiche, e anzi ipotizzano una diversa quantità vocalica originaria); peraltro, di regola in simili ipotesi il latino conserva la -f- intervocalica (cfr. ad es. lat. rufus), mentre qui, come mostra anche la corrispondenza con il vedico (cfr. supra, nt. 26), si tratta chiaramente di un regolare sviluppo i.e. -bh->osco-umbro -f- e lat. -b-. 35 Così, esattamente, MOMMSEN, Römisches Strafrecht, cit., 991. 36 Cfr. Cic. off. 1, 23: fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas. Impiego qui la distinzione tra i due tipi di giura- 246 ROBERTO FIORI fidabile’37. Questa affidabilità è ormai pregna, allorché scrive l’oratore, di valori esaltati dall’etica stoica. Ma occorre sempre ricordare – e lo si fa di rado – che nel pensiero romano, ancor più che in quello greco, le categorie filosofiche sono spesso intimamente legate al retaggio giuridico-religioso della cultura arcaica. E per comprendere davvero il rapporto tra fides e giuramento occorre ricordare che alle origini la veritas cui il ius iurandum deve essere informato non è una verità ‘razionale’, ma una verità ‘cosmica’: nel pensiero arcaico la verità è il principio di corrispondenza tra il detto (o il fatto) e il mondo ordinato secondo giustizia, al punto che le radici dei termini latini verum e fides ricorrono in altre lingue ad indicare il giuramento o il comportamento conforme all’ordine cosmico, e talora entrambi – basti pensare all’antico irlandese fír38. Le parole e i comportamenti del bonus vir devono essere conformi al verum, perché la falsità è un atto caotico che mette in crisi l’ordine cosmico, su cui poggia anche lo status del giurante: l’unica conseguenza possibile, per la comunità, di mento – verisimilmente estranea all’esperienza romana: cfr. FRAENKEL, Fides, cit., 687, sull’indifferenza tra glauben e vertrauen nel vocabolario della fides – in termini puramente descrittivi. 37 Sul rapporto tra queste nozioni e il vir bonus cfr. HELLEGOUARC’H, Vocabulaire, cit., 265 ss., 283 ss.; G. FALCONE, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), in «Annali Palermo», XLIX, 2004, 105 ss. 38 Da i.e. *bheidh- deriva non solo lat. fides e gr. pístis, ma anche alb. bē ‘giuramento’; da i.e. *uer- derivano lat. verum, ant. irl. fír; ant. isl. várar (pl.) ‘giuramento’, ` contratto’, ted. wahr (ERNOUT - MEILLET, Dictionnaire4, cit., 233 ant. ingl. wǣr ‘fides, e 727; POKORNY, Wörterbuch, cit., 117 e 1166). Cfr. però anche il rapporto etimologico tra ingl. truth (ant. ingl. trēow, trēow∂¯ ‘verità’ ma anche ‘fides’) e ted. Treue nonché, al di là delle etimologie, la nozione greca di ajlhvqeia, su cui per tutti (con particolare attenzione al passaggio dal pensiero mitico a quello filosofico) M. DETIENNE, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, 1967. D’altronde, nelle altre culture indoeuropee ‘marginali’ (nel senso sopra indicato) come la latina, la stessa nozione di ordine cosmico può essere tradotta anche con ‘appropriatezza, verità, giustizia’: cfr. ant. irl. cóir (su cui per tutti D. POLI, La ‘interpretatio hibernica’ del diritto, in S. SCHIPANI - N. SCIVOLETTO [a cura di], Atti del convegno internazionale ‘Il latino del diritto’, Roma, 1994, 275 s.) e ved. r.tá- / avest. aša- (su cui mi limito a rinviare a quanto scritto in FIORI, Homo sacer, cit., 91 s. nt. 108). Peraltro, non è questa una prospettiva solo indoeuropea: cfr. ad es. la nozione, fondamentale per la cultura egiziana, di ma’at (su cui per tutti J. ASSMANN, Ma’at. Gerechtichkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, München, 2001). FIDES E BONA FIDES 247 non essere travolta dal disordine, è ‘separare’ (sacrare) il colpevole dal(l’ordine gerarchico del) gruppo39. In realtà, mentre il giuramento cristiano è un fatto essenzialmente individuale – nel senso che lo spergiuro determina peccatum, ossia mette in pericolo la salvezza dell’anima del giurante, e solo la sua – il giuramento romano è un fatto eminentemente sociale, così come – lo abbiamo appena ricordato – ‘sociale’ è la religione di Roma. In questo contesto, lo spergiuro non può interessare solo il giurante, perché coinvolge il mantenimento dell’ordine cosmico, ma al contrario riguarda tutto il gruppo nella misura in cui non provveda a recidere il legame con il colpevole. La stessa invocazione delle divinità nei giuramenti deve essere compresa in questo contesto: il giurante richiama la fides degli dèi a testimonianza e garanzia del proprio impegno, a corroborare la propria fides, né più né meno di quanto potrebbe fare chiedendo l’intervento di un garante o testimone umano, perché gli dèi sono essi stessi – benché a un livello gerarchico superiore – parte del cosmo ordinato. Cosicché l’offesa che lo spergiuro arreca agli dèi non deriva dalla menzogna in sé, ma dall’aver invocato la loro fides, la loro garanzia e testimonianza, e dall’aver conseguentemente violato l’ordine cosmico su cui poggia la pax deorum40. 39 Sulla sacratio dello spergiuro cfr. Horat. sat. 2, 3, 179-181; Ps.-Acr. Hor. serm. 2, 3, 181 (KELLER, II, 150), riportati supra, nt. 34, su cui FIORI, Homo sacer, cit., 225 ss. Gli argomenti con cui F. ZUCCOTTI, Il giuramento in Grecia e nella Roma pagana: aspetti essenziali e linee di sviluppo, in A. CALORE (a cura di), Seminari di storia e di diritto, II, Milano, 1998, 1 ss. (cfr. già ID., In tema di sacertà, in «Labeo» 44 [1998] 432 s. e 444 s.) contesta l’applicabilità di una simile sanzione al falso giuramento si fondano sulla ripetuta omissione delle fonti appena ricordate e su una analisi dei testi del tutto decontestualizzata: la frase deorum iniuriae dis curae (Tac. ann. 1, 73, 4), che per l’a. sarebbe una «regola generale» dell’ordinamento romano nel senso della non punibilità dello spergiuro nel diritto umano (ID., Il giuramento, cit., 41), è in realtà un’affermazione dell’imperatore Tiberio, strumentale all’impunità di due spergiuri, all’interno di una vicenda che Tacito giudica scandalosa. E nel principio periurii poena divina exitium, humana dedecus (Cic. leg. 2, 9, 22) il dedecus è un riferimento alla nota censoria che in età tardo-repubblicana ha sostituito la sacratio arcaica (cfr., per spergiuro e nota censoria, Cic. off. 3, 111), così come anche nell’episodio riportato da Gell. 6, 18, 10-11. 40 E in questo senso occorre intendere le formule arcaiche di giuramento in cui si invoca la punizione divina in caso di spergiuro, riportate ad es. da Paul.-Fest. verb. sign. s.v. lapidem silicem (LINDSAY, 102); Liv. 1, 24, 8; Polyb. 3, 25, 7-9, su cui cfr. per 248 ROBERTO FIORI Un sistema di valori che, peraltro, non è chiuso all’interno del gruppo romano ma viene proiettato anche nei rapporti internazionali, all’interno di quel che è stato chiamato il ‘sistema sovrannazionale romano’41. Nei rapporti pubblici con gli stranieri – nei foedera, nella sponsio, ma anche nell’amicitia o nell’hospitium42 – assume rilievo la fides populi Romani, che si alimenta alla ‘stabilità’ (gravitas)43 e allo status gerarchico (maiestas) del popolo romano44. Ma è interessante notare che, quando determina relazioni di amicitia e hospitium tra o con i singoli, parametro di riferimento diviene anche la qualifica di bonus vir (kalÕv kaˆ ¢gaqÒv), che in iscrizioni del primo e secondo secolo avanti Cristo viene riconosciuta (o addirittura attribuita: il verbo è prosagoreÚw) ai legati45 e allorché viene instaurato un rapporto di amicitia46. 2. La bona fides. 2.1. La genesi della bona fides. – In un imprecisato momento storico, che possiamo collocare tra il IV e il III sec. a.C., dalla nozione di fides si enuclea quella di bona fides. Dico ‘si enuclea’ perché la bona fitutti A. CALORE, Per Iovem lapidem. Alle origini del giuramento, Milano, 2000, 42 ss. (che tuttavia non può essere seguito rispetto alle conseguenze dello spergiuro: ibid., 158 nt. 37). 41 P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino, 1965. 42 FREYBURGER, Fides, cit., 177 ss. 43 Cic. Flacc. 9. 44 Proc. 8 epist. D. 49, 15, 7, 1 e FIORI, Homo sacer, cit., 162 ss. 45 SC de foedere cum Astypalaeensibus (105 a.C.) (CIGr 2485; IG XII/3, 173; IGRR IV, 1028) lin. 3-4: ¥ndra kalÕn kaˆ ¢gaqÕn [par¦ d»mou] kaloà kaˆ ¢gaqoà kaˆ f…lou prosago[reàsai]; SC de Narthaciensibus et Melithaensibus (150 e 147 a.C.) (IG IX/2, 89; Syll. 674; GIRARD-SENN, 23 ss. n. 4) lin. 62-63: ¥ndrav kaloÝv k¢gaqoÝv prosagoreàsai (cfr. lin. 16-18 e 39-41); SC de Stratonicensibus (81 a.C.) (Syll. 523; Dittemberger, OGIS 441) lin. 68: ¥ndrav kaloÝv kaˆ ¢gaqoÝv prosagoreàsai kaˆ f…louv; Ios. Flav. ant. Iud. 13, 9, 2 (264) e 14, 8, 5 (146): ¥ndrev ¢gaqo… (F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II2, Napoli, 1973, 26 e nt. 24). 46 SC de Asclepiade Clazomenio sociisque (78 a.C.) (CIL I2 588; IG XIV 951; GIRARD-SENN, 286 ss. n. 5; FIRA I 35) lin. 10-11: ¥ndrav kaloÝv kaˆ ¢gaqoÝv prosagoreàsai kaˆ f…[louv pros]|agoreàsai (DE MARTINO, Storia, cit., II, 33 ss.; cfr. A. RAGGI, Senatus consultum de Asclepiade Clazomenio sociisque, in «ZPE», CXXXV, 2001, 73 ss.). FIDES E BONA FIDES 249 des non si sostituisce alla fides, ma costituisce una sua declinazione quasi unicamente nel contesto del diritto privato47, e anzi nel solo àmbito processuale dei iudicia bonae fidei – dai quali verisimilmente discende anche la cd. buona fede soggettiva48 – essendo sostanzialmente una specificazione della nozione più antica49. Tra i due princìpi vi sono però indubbiamente delle differenze, e la prima diversità si manifesta già a livello terminologico nell’aggiunta – che non può certo definirsi tautologica50 – al sostantivo fides, dell’attributo di bona. Il dato, dopo quanto abbiamo sin qui detto, non può apparire casuale. Come si è visto, la nozione di fides si lega strettamente alla struttura gerarchica della società romana, il cui apice è costituito dai boni, che si autorappresentano – anche in sede giurisprudenziale, avendo il monopolio della elaborazione del diritto – come un modello di comportamento. Ciò non significa, naturalmente, che l’espressione fides bona possa essere tradotta come ‘fides aristocratica’: come abbiamo visto, la fides è del patronus come del cliens, del potente come del povero, perché è una nozione – come quelle di maiestas, gravitas, dignitas, ecc. – essenzialmente relativa, che si definisce solo nella comparazione tra i diversi gradi della società. Significa, piuttosto, che la fides subisce una trasformazione coerente con il cambiamento della società di cui è espressione. Finché i rapporti negoziali – e, in senso più lato, socio-economici – della Roma arcaica erano limitati alla sfera ristretta della comunità romana, dove lo status e dunque la fides di ogni soggetto 47 È un po’ forzato sostenere che la bona fides «non ricorre altrove nell’intera letteratura latina», se non nelle testimonianze relative alle formule, come sostiene LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 179 (il giudizio è parzialmente mitigato ibid., nt. 34), benché nelle altre fonti siano usi effettivamente solo avverbiali: cfr. FRAENKEL, Fides, cit., 680 s. 48 Che resta fuori dalla nostra indagine: chi scrive ritiene verisimile lo sviluppo prospettato da LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 209 ss. 49 Ciò risulta con chiarezza, ad es., dal discorso di Cic. off. 3, 69 ss., nel quale si passa con disinvoltura da casi di fides a casi di bona fides, all’interno di un discorso unitario: cfr., per un’analisi più estesa, R. FIORI, Ius civile, ius gentium, ius honorarium: il problema della ‘recezione’ dei iudicia bonae fidei, in «BIDR» CI-CII, 19981999, 192 ss. 50 Così invece SCHULZ, Prinzipien, cit., 154: «eine tautologische Wortbildung». 250 ROBERTO FIORI erano noti, chiari e definiti, ciascuno impegnava la propria fides reale, effettiva. Quando però Roma si apre al confuso e mutevole mondo dei mercati e dei traffici internazionali, i rapporti si realizzano tra persone che – non appartenendo alla medesima comunità – non hanno contezza l’uno del ‘credito’ dell’altro. È possibile allora che la prassi commerciale abbia sviluppato, e che il pretore romano abbia adottato – ma è verisimile anche il contrario, così come è probabile che la novità sia stata introdotta, per il tramite del pretore, su impulso dei giuristi – un parametro oggettivo, astratto, desunto dall’esperienza romana ma imposto anche agli stranieri che avessero chiesto una tutela entro la iurisdictio del pretore romano. Questo parametro astratto è una fides fittizia, convenzionale, svincolata dalla realtà concreta delle parti del rapporto, delle quali non si verifica – non può verificarsi – lo status, l’affidabilità: si richiama invece un paradigma comportamentale espresso dalla figura del bonus vir51. 2.2. Bona fides e ius gentium. – Qualora si consideri affidabile il quadro sin qui proposto, dovrà concludersi che la bona fides è strettamente legata alla tradizione del ius, costituendo nulla più che un parametro dell’oportere civilistico. Si aprono allora due problemi. Il primo riguarda il rapporto tra bona fides e ius gentium, e in particolare il significato dell’innovazione determinata dal processo formulare: perché la bona fides, pur essendo un istituto di ius civile, è tutelabile solo nelle formulae e non anche nelle legis actiones? Il secondo problema, che al primo è connesso, riguarda la plausibilità della teoria maggioritaria di una origine pretoria dei iudicia bonae fidei. Partiamo dalla prima questione. La concezione romana del diritto – è stato rilevato spesso – non è ‘positivistica’. Particolarmente nella prospettiva arcaica, il ius esiste a 51 Cfr. in questo senso già A. PERNICE, Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit2, II.1, Halle, 1895, 80 s.; H. KRÜGER, Zur Geschichte der Entstehung der bonae fidei iudicia, in «ZSS(RA)», XI, 1890, 177; LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 181; NÖRR, Aspekte, cit., 153. FIDES E BONA FIDES 251 prescindere dall’essere posto da un’autorità o dall’avere una tutela giuridica: esso trae origine dalla natura stessa delle cose, è una proiezione sul piano giuridico dell’ordine del mondo. Da ciò deriva che il ius Quiritium non coincide con ‘il diritto’, ma con quella parte del ius che è riservata ai cittadini romani: il fatto che le restanti regole di diritto non ricevano tutela dalle legis actiones non significa che non siano percepite dai romani come ius. I rapporti di emere e vendere o di locare e conducere, ad esempio, sono noti – sul piano economico – già in età arcaica52, benché nel ius Quiritium rilevino solo se versati in negozi che quest’ultimo riconosce, come la traditio, la mancipatio o la sponsio. Ciò però non esclude che un emere realizzato con uno straniero in modo informale non fosse percepito dai romani come atto giuridico, benché non tutelabile mediante le legis actiones – allo straniero comunque interdette. In realtà, perché i romani potessero parlare di ius gentium, non era necessario attendere il processo formulare o addirittura il diritto pretorio: la concezione del ius gentium come parte del ius civile può senz’altro essere originaria. La novità rappresentata dal processo formulare non è dunque quella di aver ‘creato’ il ius gentium, ma di avergli attribuito per la prima volta una tutela nel processo romano. Ed è significativo il modo in cui questa tutela viene realizzata sul piano della tecnica formulare – almeno secondo quella che a me pare la ricostruzione più probabile53. 52 L’uso decemvirale di emere per indicare ogni alienatio (Arist. fr. 67 LENEL = Pomp. 18 ad Q. Muc. D. 40, 7, 29, 1: … lex duodecim tabularum emptionis verbo omnem alienationem complexa videretur; cfr. anche tab. 7, 11 = Inst. 2, 1, 41 e tab. 7, 12 = Tit. Ulp. 2, 4) doveva essere precedente le XII tavole, come mostra il suo uso nel composto coemptio. Nel testo decemvirale compariva con certezza anche il verbo vendere nella forma venum dare: cfr. tab. 4, 2b (= Gai. 1, 132): si pater filium ter venum du[uit] filius a patre liber esto (cfr. Gai. 4, 79; Tit. Ulp. 10, 1; nonché tab. 3, 5 = Gell. 20, 1, 47: … trans Tiberim peregre venum ibant). Locare, merces, pretium e vendere compaiono in tab. 12, 1 (= Gai. 4, 28): lege autem introducta est pignoris capio velut lege XII tabularum adversus eum, qui hostiam emisset nec pretium redderet; item adversus eum, qui mercedem non redderet pro eo iumento, quod quis ideo locasset, ut inde pecuniam acceptam in dapem, id est in sacrificium, inpenderet; sull’antichità di questi termini e sull’interpretazione del passo cfr. R. FIORI, La definizione della locatio conductio. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli, 1999, 14 ss. 53 Per quel che segue, R. FIORI, Ea res agatur. I due modelli del processo formulare repubblicano, Milano, 2003. 252 ROBERTO FIORI Per dare protezione ai rapporti di ius gentium il pretore non crea – se non in casi marginali, che si spiegano altrimenti – formulae in factum, ma formulae in ius in cui il convenuto finge, in una demonstratio al quod, di confessare il debito, in quanto premette alla sua confessione una condizione negativa dell’accertamento, contenuta in una praescriptio pro reo. Se il giudice verifica la fondatezza della praescriptio, non si pronuncia sulla pretesa dell’attore, sostanzialmente assolvendo il convenuto. Se al contrario ne verifica l’infondatezza, la confessio vale pro iudicato, cosicché – se il rapporto riguarda parti romane – può seguire l’esecuzione civilistica anche senza l’instaurazione di una legis actio e anche prima della lex Aebutia. Cosa significa tutto ciò? Che così come il ius Quiritium non ha un fondamento (solo) legislativo, ma anzi essenzialmente consuetudinario, mentre le legis actiones sono basate sulla lex – anche quelle predecemvirali come la legis actio sacramenti e la manus iniectio, che le Dodici Tavole hanno per così dire ‘rifondato’ –, allo stesso modo il ius gentium si fonda sui mores, ma viene tutelato da un processo che si basa sull’imperium del pretore: fino alla lex Aebutia, il processo formulare è interamente ‘pretorio’, e gli effetti civilistici si raggiungono solo attraverso le finzioni sopra ricordate; ma ciò non implica affatto che i rapporti da esso tutelati debbano essere tutti ricondotti al ius honorarium. 2.3. Bona fides e ius honorarium. – Queste considerazioni ci indirizzano verso il secondo problema. Così come non è necessario pensare a una – non attestata – origine pretoria del ius gentium, allo stesso modo non c’è bisogno di ipotizzare un’origine pretoria dei iudicia bonae fidei. Anche questa teoria non poggia su basi testuali certe. Anzi, come è noto, i testi dei giuristi romani nonché le formule a noi pervenute indirizzano senz’altro verso una natura civilistica dei iudicia bonae fidei. Eppure, com’è noto, almeno a partire dagli studi di Moriz Wlassak si è affermato che i rapporti rientranti in questa categoria sarebbero stati originariamente tutelati da formule in factum, nell’ambito del ius honorarium. Wlassak pensava ad una successiva sostituzione di formule in FIDES E BONA FIDES 253 ius: una traccia del sistema scomparso sarebbe rimasta nelle formule in factum del deposito e della negotiorum gestio. Altri autori (Max Kaser, Wolfgang Kunkel, André Magdelain e Franz Wieacker) hanno invece immaginato una vera e propria trasformazione delle formule, da pretorie a civili: infatti, si afferma, tutte le actiones civiles deriverebbero dalla lex, mentre i iudicia bonae fidei sarebbero – così viene interpretato un noto passaggio del de officiis di Cicerone (3, 61) – iudicia sine lege. Il pretore peregrino avrebbe trasformato il vincolo della fides, originariamente ‘etico’, in obbligo giuridico, determinando una contrapposizione tra il semplice oportere civilistico, detto ex lege, e l’oportere pretorio, detto ex fide bona. La ‘civilizzazione’ dei iudicia bonae fidei sarebbe invece frutto dell’opera dei prudentes, indirizzati – o, addirittura, tratti in inganno – dall’assenza di una clausola edittale e dalla presenza, invece, di un riferimento all’oportere: l’origine onoraria di quest’ultimo, denunciata dalla clausola ex fide bona, sarebbe stata infatti dimenticata dai giuristi perché risalente alla sfera più antica dell’attività del pretore54. In realtà, nei testi romani non è attestato alcun oportere ex lege: gli unici casi in cui l’espressione appare si riferiscono in generale a un dovere imposto dalla legge55. E il passo di Cicerone da cui è tratta la 54 M. WLASSAK, Zur Geschichte der negotiorum gestio, Jena, 1879, 153 ss.; cfr. anche ID., Römische Processgesetze. Ein Beitrag zur Geschichte des Formularverfahrens, II, Leipzig, 1891, 302 s. nt. 10; ID., Actio, in «RE» I.1, Stuttgart, 1893, 311; ID., Die klassische Prozessformel: mit Beiträgen zur Kenntnis des Juristenberufes in der klassischen Zeit, I, Wien-Leipzig, 1924, 22 nt. 44; ID., Rechtshistorische Abhandlungen (hrsg. E. Schönbauer), Wien, 1965, 75 s. M. KASER, Mores maiorum und Gewohnheitsrecht, in «ZSS(RA)», LIX, 1939, 52 ss., spec. 67 ss.; ID., Die Anfänge der manumissio und das fiduziarisch gebundene Eigentum, in «ZSS(RA)», LXI, 1941, 153 ss., spec. 181 ss.; ID., Das altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen, 1949, 289 ss.; ID., in «ZSS(RA)», LXXI, 1954, 430 ss., spec. 436 ss.; ID., Das römische Zivilprozessrecht, München, 1966, 109 ss.; ID., Das römische Privatrecht, I2, München, 1971, 202 s., 207, 485 s.; ID., Ius honorarium und ius civile, in «ZSS(RA)», CI, 1984, 30 ss., 83 ss.; M. KASER - K. HACKL, Das römische Zivilprozessrecht2, München, 1996, 153 ss.; W. KUNKEL, Fides als schöpferisches Element im römischen Schuldrecht, in Festschrift P. Koschaker, Weimar, 1939, II, 1 ss.; A. MAGDELAIN, Les actions civiles, Paris, 1954, 42 ss.; F. WIEACKER, Zur Ursprung der bonae fidei iudicia, in «ZSS(RA)», LXXX, 1963, 1 ss. Per un’analisi di queste teorie cfr. FIORI, Ius civile, cit., 165 ss. 55 FIORI, Ius civile, cit., 188 nt. 99. 254 ROBERTO FIORI definizione dei iudicia bonae fidei come sine lege iudicia intende dire tutt’altro, e cioè – parlando dell’introduzione delle formulae de dolo da parte di Aquilio Gallo – che già prima il dolus malus era punito lege, come nella tutela delle XII tavole e nella circumscriptio della lex Laetoria, e sine lege, nei iudicia bonae fidei56. La contrapposizione di un oportere ex lege con l’oportere ex fide bona è dunque del tutto artificiosa, al punto che viene da chiedersi quali siano le ragioni storiografiche che hanno indotto gli interpreti a rappresentare la fides come un dovere etico, a inventare la categoria dell’oportere ex lege, e a ipotizzare l’origine pretoria dei iudicia bonae fidei. A me sembra che queste ragioni debbano essere ricercate nella proiezione, sulla realtà antica, di prospettive e categorie moderne, soprattutto sulla base di tre fattori. a) Il primo è la diversa idea di fides e di credo propugnata dal cristianesimo, cui abbiamo già accennato: l’attrazione della fides nella sfera della ‘fede’ ne ha enfatizzato i caratteri etici a scapito di quelli più propriamente giuridici. b) Il secondo è il processo di graduale estromissione della bona fides dal ius civile. Già nell’esperienza romana, il venir meno del processo formulare aveva avvicinato la bona fides all’aequitas. Ma finché quest’ultima era considerata essa stessa principio di diritto, in quanto espressione di ‘diritto naturale’, la natura ‘giuridica’ della buona fede non veniva messa in dubbio. Qualcosa inizia a cambiare con il giusnaturalismo tedesco, allorché si afferma la separazione del diritto (positivo e naturale) dalla teologia morale, e soprattutto con la distinzione kantiana tra etica e diritto57: quando poi il positivismo spo56 Cic. off. 3, 61: atque iste dolus malus et legibus erat vindicatus, ut tutela duodecim tabulis, circumscriptio adulescentium lege [P]laetoria et sine lege iudiciis, in quibus additur ex fide bona. 57 Per una visione sintetica di questi problemi, cfr. per tutti H. WELZEL, Diritto naturale e giustizia materiale, Milano, 1965 (ed. or. Naturrecht und materiale Gerechtichkeit. Prolegomena zu einer Rechtsphilosophie4, Göttingen, 1962), 161 ss.; F. WIEACKER, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania, Milano, 1980 (ed. or. Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung2, Göttingen, 1967), II, 1 ss.; e soprattutto G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, passim. FIDES E BONA FIDES 255 sta il diritto naturale dalla sfera del diritto a quella della morale, si afferma una nuova nozione – almeno per la tradizione civilistica: diverso sarebbe il discorso per l’aequitas canonica – di equità come correttivo dell’ordinamento e di buona fede come principio morale. A questa tendenza si accompagna una trasformazione, indotta dall’affermazione degli stati nazionali, del ruolo della legge, sempre più identificata con l’intero ordinamento positivo, per assecondare la volontà del legislatore a scapito della tradizione scientifica e del potere dei tribunali. Ciò ha determinato, soprattutto nella dottrina europea dell’Ottocento, una sostanziale svalutazione della buona fede, percepita come principio etico (equitativo) di correzione della legge58. c) Il terzo fattore è l’affermarsi, nella storia del diritto privato, dell’idea di contratto come ‘accordo’ – ma questo tema richiede una breve digressione. 2.4. Bona fides e ‘parola data’. – È noto che a partire dal giusnaturalismo – sulla scorta di suggestioni canonistiche filtrate dalla Seconda Scolastica – il contratto ha perso sempre più le caratteristiche romane di ‘modo’ in cui nasce l’obbligazione, per assumere tratti quasi organicistici di ‘sostanza’ (si pensi alla dottrina dei substantialia contractus). In questo processo, che nei paesi tedeschi si esprime nella teoria del negozio giuridico, il cuore del contratto diviene la manifestazione di volontà, mentre l’obbligazione è solo una conseguenza eventuale – come mostra la possibilità, in alcuni ordinamenti come quello italiano, di un ‘contratto a effetti reali’. La volontà dei contraenti esprime, nel micro-ordinamento contrattuale, la sovranità manifestata, nel macro-ordinamento statale, dal legislatore. Il contratto tende a essere identificato con l’autonomia delle parti, e ciò, ideologicamente, non può che riflettersi in una marginalizzazione della buona fede o, per meglio dire, in una sua forzata identificazione con la fedeltà all’accordo a scapito di quell’altra funzione della fides come insieme di doveri ‘tipici’, impliciti nel rapporto, 58 Per un quadro assai sintetico di questi processi rinvio a R. FIORI, Storicità del diritto e problemi di metodo. L’esempio della buona fede oggettiva, in L. GAROFALO (a cura di), Scopi e metodi della storia del diritto e formazione del giurista europeo (Atti Padova 2005), Napoli, 2007, 25 ss. 256 ROBERTO FIORI che avevamo ravvisato già nel diritto romano arcaico (§ 1.2). A questo esito si perviene particolarmente nel positivismo giuridico, e soprattutto in area tedesca, dove anche nel linguaggio comune la correttezza viene chiamata Redlichkeit, ‘fedeltà alla parola data’: si enfatizza, da un lato, il rapporto tra bona fides e conventio – che, come abbiamo visto, era presente, ma non assorbente, nelle fonti romane –, dall’altro l’opposizione tra bona fides e dolo – ridotto a ‘vizio della volontà’. Questi esiti si riflettono sulla dottrina romanistica, anche in tempi recenti. È di qualche anno fa l’autorevole riproposizione della teoria che mira a ravvisare il nucleo primigenio e fondamentale della bona fides nel ‘rispetto della parola data’, ossia dell’accordo contrattuale: solo successivamente la riflessione giurisprudenziale vi avrebbe affiancato «il compito … di correggere soluzioni non adeguate, di introdurre obblighi complementari»59. Si tratta evidentemente di una proiezione, sulla nozione più recente, della teoria che abbiamo già discusso rispetto alla fides arcaica60; ma anche in questo caso non mi sembra vi siano adeguati riscontri nelle fonti. Innanzi tutto, come abbiamo visto (§ 1.2), la seconda funzione era già presente nella fides, cosicché è piuttosto improbabile che la bona fides l’abbia prima persa e poi recuperata. Appare poi difficile enfatizzare il rapporto tra bona fides e consenso. I iudicia bonae fidei non sono circoscritti ai contratti consensuali, ma comprendono anche rapporti – come la tutela e la negotiorum gestio, alcune obligationes re contractae61, nonché (forse) i rap59 TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., 1 ss. (la citazione è ibid., 186). L’ipotesi, in forma assai più succinta, era già in SCHULZ, Prinzipien, cit., 151 ss.; HORVAT, Osservazioni, cit., 425 s. 60 Il rapporto è chiaro in SCHULZ, Prinzipien, cit., 151 ss.; HORVAT, Osservazioni, cit., 425 s.; TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., 40 nt. 129. 61 Al riguardo, non mi sembra sufficiente sostenere che queste avrebbero avuto inizialmente una tutela estranea alla bona fides, mediante formulae in factum (TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., 61 ss.), perché occorrerebbe comunque spiegare la ragione per cui, a un dato momento, si sia ritenuto di tutelare anche queste con formule ispirate al principio della buona fede – ossia, secondo l’ipotesi qui criticata, al principio della vincolatività dell’accordo – senza trasformare il rapporto in consensuale. FIDES E BONA FIDES 257 porti tutelati mediante actio rei uxoriae ed altri ancora62 – nei quali il consenso non ha alcun ruolo costitutivo dell’oportere (ex fide bona). Infine, è impossibile non notare che, nel lavoro compiuto dalla giurisprudenza per riconoscere una protezione ai contratti atipici, la bona fides non è mai richiamata dai giuristi63, mentre è chiaro che – se davvero essa avesse determinato un vincolo obbligatorio fondato sulla prestazione del consenso e sulla conseguente necessità di rispettare la parola data – il suo ruolo non sarebbe stato indifferente: non solo perché avrebbe imposto di riconoscere immediata tutela ai contratti atipici, ma anche perché questi ultimi sarebbero stati costruiti come contratti consensuali, senza alcun bisogno di attendere – perché fosse concessa protezione dal pretore – l’esecuzione di una prestazione64. In realtà, tra la bona fides e il consenso non può esservi, in diritto romano, alcun rapporto privilegiato. Come abbiamo accennato sopra, la concezione romana del contratto è basata non sull’accordo, ma sul vincolo obbligatorio: è contractus – ricevendo tutela in via di azione – non ogni pactum, ma solo l’accordo che cada in un oportere 62 Sulla questione dell’elenco dei iudicia bonae fidei cfr. per tutti M. TALA- MANCA, Processo civile (diritto romano), in «ED», XXXVI, Milano, 1987, 64 nt. 457. 63 Lo riconosce lo stesso TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., 53 ss. È bene chiarire che il problema è distinto dalla costruzione delle formule dell’agere praescriptis verbis (cui invece lo riconnette TALAMANCA, op. cit., 59 s.), che pure costituiscono lo strumento più efficace per la tutela dei contratti atipici: è verisimile che queste formule fossero costruite con una grande varietà, ed è possibile che alcune contenessero riferimenti alla bona fides e altre no (condivisibile M. ARTNER, Agere praescriptis verbis. Atypische Geschäftsinhalte und klassisches Formularverfahren, Berlin, 2002, 51). Ad es., è estremamente difficile che la formula concessa in Lab. ad ed. fr. 98 LENEL = Pap. 8 quaest. D. 19, 5, 1, 1 – ipotesi in cui si discute quale modello negoziale di locazione sia stato adottato, ma non si mette in dubbio che il rapporto sia di locazione: cfr. FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 128 ss. – fosse priva di un oportere ex fide bona. 64 Per superare questo ostacolo non basta affermare che il pretore e i giuristi avrebbero trovato nella tipicità contrattuale un limite alla portata del principio della buona fede, non riconoscendo carattere vincolante a qualsiasi assetto d’interessi su cui fosse caduto l’accordo delle parti (TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., 66 s.), perché il punto è proprio questo: per quale motivo, disponendo di una categoria come la buona fede, capace di dar vita a un oportere che si sostiene nascerebbe dal solo consenso, la tipicità contrattuale avrebbe resistito alla genesi di una categoria generale di contratto-accordo? 258 ROBERTO FIORI tipico. Pertanto ai fini dell’identificazione della categoria ‘contratto’ non rileva tanto la prestazione del consenso quanto l’obbligazione, che nasce non solo consensu, ma anche re, verbis o litteris. 2.5. Bona fides e ‘natura del contratto’. – Per comprendere il valore della bona fides nel diritto romano occorre dunque guardare all’obligatio. Il contenuto dell’obbligazione è determinato sia dal consensus sia dalle regole del tipo (il nomen contractus), e la bona fides si riferisce non solo al primo, ma anche alle seconde: non è un caso che i giuristi medievali – che forse sul piano dogmatico restano i migliori interpreti del diritto romano – abbiano versato le principali regole dell’esecuzione del contratto secondo buona fede nella nozione di natura contractus. È anzi proprio a queste regole che occorre ricondurre la novità della bona fides rispetto alla fides arcaica. La bona fides, infatti, operando in negozi informali, tende a enfatizzare la funzione della fides che sopra avevamo ricordato per prima (§ 1.2 sub a), ossia l’inserimento nel rapporto di tutti i doveri codificati dai mores, anche se non esplicitati nei verba dei contraenti. Infatti il convenuto, allorché nella formula accetta di pagare una somma corrispondente a tutto ciò che in virtù del rapporto si debba pagare ex fide bona (quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona), legittima il giudice a quantificare una somma diversa da quella che quest’ultimo avrebbe individuato sulla base del semplice oportere, direttamente discendente dal contenuto espresso del negozio. La seconda funzione (§ 1.2 sub b), di rispetto dei verba, tende invece a restare radicata nella nozione arcaica di fides, trapelando solo in parte nel nuovo principio, allorché si rileva che la bona fides può dirsi osservata solo se si rispetta la conventio esistente tra le parti65. Si spiega così perché un negozio tradizionalmente basato sulla fides come la sponsio non rientri tra i iudicia bonae fidei 66: il giudice non 65 Iav. 11 epist. D. 19, 2, 21 e Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 11, 1. nella lex Rubria de Gallia Cisalpina (20, 27) la formula riporti un oportere ex fide bona: è questa, a mio avviso, una prova della persistenza del legame tra fides e bona fides, pur nelle distinzioni discusse in testo. 66 Benché FIDES E BONA FIDES 259 può integrare il rapporto con i doveri tipici del negozio quando il contenuto del contratto è interamente assorbito dai verba; questi dovranno essere rispettati in considerazione della fides che anima il rapporto, ma la valutazione dell’oportere non sarà ex fide bona. 3. Fides, bona fides e strutture ‘tipiche’ nella società e nel diritto. Possiamo concludere. La fides e la bona fides non sono categorie morali, né ‘formule vuote’ riempite di volta in volta con i valori che la società ritiene più rilevanti sul piano etico. Esse sono invece strettamente connesse con la struttura della società e con i suoi bisogni economico-sociali, così come filtrati dall’interpretatio dei giuristi. Il loro criterio di riferimento è sempre oggettivo: in età arcaica, il concreto status socio-giuridico delle parti del rapporto; successivamente un parametro astratto identificato con il bonus vir. Uno status concreto e un parametro astratto caratterizzati entrambi da una serie di obblighi socio-giuridici la cui elaborazione è affidata ai prudentes – dapprima i sacerdoti, poi i giuristi laici. Su queste basi, le due nozioni hanno sviluppato sin dalle origini una (apparentemente) duplice valenza: da un lato, il rispetto dell’accordo negoziale, dall’altro l’ossequio di tutte le regole implicitamente derivanti dalla natura del rapporto. Inoltre, sono nozioni da sempre appartenenti al ius civile. La buona fede è oggi spesso presentata nei diritti contemporanei come una sorta di correttivo etico dell’ordinamento, e negli stessi termini è descritta dai romanisti. Al contrario, attraverso la fides, essa appartiene al più antico strato del ius civile romano, e anzi ci fa andare ancora più indietro nel tempo, alle concezioni della gerarchia elaborate dalle tradizioni giuridiche dei popoli indoeuropei. Mi sembra che tutto ciò sia una dimostrazione del fatto che se, come credo, il diritto romano può aiutare a comprendere meglio i sistemi giuridici attuali, è altrettanto vero, e i romanisti spesso lo dimenticano, che il diritto classico è incomprensibile senza un’adeguata analisi dell’esperienza arcaica.