il cristo ritrovato
G. Caiazza
LO ‘SFONDO’ PREZIOSO
VILLA BRESCIANI E IL SUO ‘OSPITE’ PIÙ GRANDE
COMPLESSO MAESTOSO SEPPUR
NASCOSTO
Attualmente ubicata nel centro storico della moderna cittadina di Cervignano del Friuli, benché in
posizione defilata all’interno della sponda meridionale del fiume Ausa, villa Bresciani - Peteani von
Steinberg - d’Attems von Petzenstein - Auersperg
(Fig. 1) è sicuramente uno degli edifici di maggior
pregio architettonico della località friulana ed uno
tra i non numerosissimi ma particolarmente significativi ‘segni della storia’ inseriti in un contesto urbano
in continuo ‘aggiornamento’ qual è quello dell’antica
Cerveniana. Le sue origini sono sicuramente cinquecentesche, ma - benché testimoniate dall’analisi
degli elementi architettonici e decorativi tuttora in
situ, come si vedrà - non sono più documentabili in
formato cartaceo dopo l’incendio occorso all’archivio
dei proprietari nel 1789, le ‘asportazioni’ verificatesi
durante il primo conflitto mondiale e le dispersioni
legate all’intenso ‘viavai’ di documenti di famiglia in
famiglia per motivi di successione1.
Il monumentale complesso affacciato lungo l’odierna
via Trieste era un tempo circondato da un’ampia
area naturalistica privata, a poco a poco ‘erosa’ dalla
forte espansione urbanistica della città moderna,
avviata nella seconda metà dell’Ottocento2: nel XVI
secolo, la villa era sorta infatti in una zona nettamente decentrata rispetto all’abitato più antico, tanto
che originariamente, mentre il cortile d’accesso era
spontaneamente limitato dalla strada, il vasto parco
“si allungava nella campagna”3 retrostante l’edificio
padronale. Altri estesi possedimenti terrieri, oltre a
quelli ubicati presso la foce dell’Aussa (Baràncole) e
nella zona palustre cervignanese (nel 1795 è attestato il Paludo Bresciani), erano destinati all’agricoltura
e si allargavano al di là della cancellata posta all’ingresso principale al centro della recinzione, ancora
chiaramente individuabili in fotografie di grande
formato dei primi anni Cinquanta in possesso degli
attuali proprietari4.
Circa il casato cui si deve la fondazione del complesso, la famiglia (de) Bresciani che nel 1710 ottenne il
titolo baronale (Fig. 2), comunemente si ritiene di
doverne cercare le origini in una non meglio precisata famiglia Spizzamiglio proveniente da Brescia.
Primo ad asserirlo fu Vincenzo Joppi in una precisazione aggiunta a posteriori al suo incompleto albero
genealogico della famiglia cervignanese, ma la man-
nel diploma di laurea di Andrea Bressan fu Antonio,
del 16935. Benché finora tutt’altro che dimostrabile
nonostante le più accurate indagini genealogiche
esperite, il presunto trasferimento dalla Lombardia
in Friuli potrebbe essere effettivamente avvenuto,
ma quantomeno fra Quattrocento e Cinquecento,
visto che una famiglia Bressan, Brissano o Brissiano è
già attestata a Cervignano intorno alla metà del XVI
secolo6. L’alternarsi delle forme è poi riscontrabile
fino all’estinzione del casato, con la baronessa Maria
Anna “EX CLARO BRIXIANORVM GENERE VLTIMA PROLES”: gli stessi documenti dell’Ufficio tavolare riportano la forma italianizzata Bresciani, che è la più diffusa, accanto alla variante aristocratica de Bresciani,
la ‘semplificata’ Bressiani e la genuina Bressani, che è
Fig. 2 – Albero genealogico del barone de
Bresciani, 1857 ca.
(collezione privata).
Fig. 1 – Attraverso il
cancello affacciato
su via Trieste s’intravede il corpo centrale di villa Bresciani
(G.C.).
cata citazione della fonte lascia supporre che possa
trattarsi di una congettura. In una lettera ad Enrico
del Torso, nel 1952 Carlo d’Attems dichiarò che “in
quanto alla origine dei Bresciani non posso né confermare né negare quello che scrive lo Joppi, perché
non ne ho gli elementi”, ma aggiunse che “la mia
opinione personale, che però non posso corroborare
e che può benissimo essere errata, è che il cognome originario dei Bresciani era Bressan o Brescian,
cognome abbastanza diffuso”, attestato per esempio
84
anche la più vicina al cognome tipicamente friulano
Bressan7. Non si può tacere che in Friuli esiste una
località chiamata Bressa, attualmente frazione del
comune di Campoformido, attestata già in documenti duecenteschi, che approfondendo l’indagine
potrebbe risultare la vera ‘sorgente’ del nome di famiglia in questione8: quantunque infatti non vi siano
dubbi che la massima concentrazione del cognome
Pizzamiglio si riscontri nelle province lombarde,
va sottolineato che la - forse apparente - variante
85
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 3 - La veduta d’insieme mette in evidenza la caratteristica
conformazione ad
“U” degli edifici ad
uso residenziale (collezione privata).
nella pagina a fianco: Fig. 4 - Il pozzo
sovrastato dalla
bandierina recante
la data 1652 (collezione privata).
Spizzamiglio, ancorché meno comune, sia oggi attestata quasi soltanto nella nostra regione9. In mancanza di dati certi sulla presunta emigrazione (ai due
toponimi citati se ne potrebbero aggiungere numerosi altri: dal milanese Bresso al sudtirolese Brixen…),
si profilerebbe la ragionevole ipotesi che un nucleo
familiare, denominato Spizzamiglio presumibilmente
a motivo di un antico soprannome generico, si sia
spostato da Bressa a Cervignano prima del 1559,
venendo qui soprannominata in riferimento al luogo
d’origine “i Bressàn”, in friulano ‘quelli (originari) di
Bressa’ (“chei di Brèsse”), cioè i ‘di Bressa’10.
ESTERNO ARTICOLATO
ED INTERNI SONTUOSI
Al presente, l’insieme da tutti denominato ‘villa
Bresciani’ si incentra su un complesso residenziale
dalla tipica conformazione ad ‘U’, creata da due ali
piuttosto sviluppate inserite perpendicolarmente alle
estremità del corpo padronale, a sua volta inconfondibilmente caratterizzato da una parte centrale
timpanata aggettante, imperniata su un - a dir poco
- appariscente ingresso sopraelevato, incorniciato
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a mo’ di porta urbica in cima al solenne scalone in
pietra bianca che dà direttamente accesso al salone del piano nobile (Fig. 3). La facciata riflette lo
schema tripartito della pianta: le aperture si aprono,
ordinatamente, simmetriche rispetto all’asse centrale
sottolineato dalla scalinata e dall’elegante portale,
che presenta un bugnato “assai simile alle porte delle
città, frequenti nel Veneto e che si fanno risalire al
Sanmicheli, con due grandi guglie, il frontone e lo
stemma”11.
Al di sopra della trabeazione modanata aggettante,
l’attuale ingresso principale è in effetti sormontato
dallo stemma nobiliare della famiglia Bresciani privo
degli ‘smalti’ (sarebbe: d’azzurro alla torre d’argento
merlata alla guelfa, la porta e le finestre chiuse, poggiata su una montagna al naturale, al destrocherio
vestito di rosso impugnante una chiave posta in
sbarra): fiancheggiato da due pinnacoli sagomati,
esso è posizionato al livello del granaio ed è a sua
volta sovrastato dall’ampio timpano impostato sulla
linea di gronda, estrema propaggine della robusta travatura lignea che sostiene la tradizionale copertura
in tegole.
Le due ‘barchesse’ laterali, che si dipartono dalle
estremità orizzontali
del nucleo dominicale, presentano un
andamento sobrio
e lineare, essendo
caratterizzate da ordini di aperture (finestre e porte) regolari e
simmetriche. La stessa essenzialità si può
riscontrare nella facciata secondaria del
nucleo dominicale,
sul retro della villa,
di fronte al parco,
che è mossa soltanto
da un poggiolino in
pietra bianca di cui si
dirà, oltre che dalle
inferriate delle finestre e dalla ringhiera
in ferro battuto posta a definire il balconcino di
quella che fino a non molto tempo fa era la camera della contessa Maria Edith Attems Petzenstein.
Esattamente davanti alla scalinata, il cortile d’onore
è impreziosito da un’ampia vasca circolare con fontana centrale zampillante circondata da aiuole ed è
delimitato dalle due ali, parzialmente nascoste agli
sguardi dei passanti dalle fiorenti essenze arboree del
breve giardino antistante.
Queste stesse alberature coprono quello che dovrebbe
essere l’ingresso principale della cappella gentilizia,
che si erge a breve distanza dal capo dell’ala ovest,
mentre davanti a quello della barchessa orientale,
nobilitato dalla presenza di un’austera meridiana
rettangolare, s’innalzano le spire in ferro battuto
dell’artistica duplice incastellatura di un largo pozzo
dal disadorno parapetto anulare in semplici mattoni
ma con sponda in pietra, spire occultate da copiosi
rampicanti al di sopra dei quali sbuca a fatica una
bandierina metallica recante la data 1652 ricavata
a traforo (Fig. 4). Secondo qualcuno, quest’ultimo
elemento potrebbe indicare l’anno di conclusione
dei lavori di costruzione della villa12, ma in realtà
potrebbe semplicemente trattarsi di un esplicito
riferimento all’epoca di realizzazione del magnifico
manufatto fabbrile posto a coronamento del pozzo al
tempo di Giovanni Domenico Bresciani: allora sessantaduenne, questi era nato all’indomani dell’ottenimento del riconoscimento della nobiltà (1589), da
trentadue anni era sposato con la contessa Gaspara
di Strassoldo dalla quale aveva avuto (1636) l’erede
Giovanni Giuseppe, che di lì a poco avrebbe ottenuto - anche per i fratelli - l’elevazione al rango del
cavalierato del Sacro Romano Impero (1653)13.
Addossato al lato ovest, si trova infine l’ampio corpo
rustico, originariamente destinato ai locali di servizio
- alloggi per i contadini, rimesse per gli animali, ecc. ed oggi adibito a sede di un’azienda florovivaistica14.
Alle pertinenze del complesso signorile d’un tempo
appartenne altresì il fabbricato posto sul lato est del
fronte strada, che doveva essere il classico foledôr
(principalmente tinaia, ma non soltanto) della villa
signorile friulana, mentre oggi è una casa a sé stante,
isolata dal resto del complesso.
All’interno della villa si susseguono ambienti carichi
di storia, caratterizzati da un arredo di una ricercata ma al contempo controllata eleganza. La chiara
‘impronta’ veneta manifestata dall’impianto planimetrico ad ‘U’ emerge anche dalla distribuzione
degli spazi interni, imperniati sulla sala passante
terrena a colonnine lignee (se ne riparlerà) e sul
soprastante salone d’onore. Tutte le altre stanze della
villa si dispongono simmetricamente ai lati dell’asse
centrale ed alcune sono caratterizzate da un proprio
‘programma iconografico’: così, se le pareti delle sale
‘delle armi e della musica’ sono contraddistinte dalla
presenza di numerosi esemplari di armi bianche,
stampe e dipinti di soggetti diversi, che fanno da
pendant ai ritratti fotografici che coprono il vecchio pianoforte a coda, i muri della biblioteca sono
arricchiti dai ritratti degli antenati delle famiglie
Bresciani e Peteani, mentre due salottini presentano raffigurazioni di personaggi dei casati Attems ed
Auersperg15.
RIFLESSI DELL’ARTE PITTORICA
Sulle due pareti longitudinali del salone d’onore, la
grande sala posta al centro del piano nobile, spiccano
in tutta la loro imponenza due grandi tele riproduenti altrettanti leggendari episodi tratti dalla Storia
romana di Tito Livio e dalle Vite parallele di Plutarco:
Il ratto delle Sabine e Coriolano fermato da Veturia e
Volumnia. Citate solo di rado ed attribuite tout court
a Pietro da Cortona16, le due opere meriterebbero
senza dubbio un approfondimento critico. Più che
di lavori integralmente attribuibili al grande pittore
barocco, pare trattarsi di riproduzioni di buona mano
delle opere di analogo soggetto più volte eseguite
dal maestro stesso e/o dai membri del suo immediato
entourage17: benché prive di firma, esse sono dunque
87
il cristo ritrovato
Fig. 5 – Anonimo
cortonesco, Ratto delle
Sabine, seconda metà del
XVII secolo, particolare
(G.C.).
Figg. 6-7 – Anonimo
cortonesco, Coriolano
fermato da Veturia
e Volumnia, seconda
metà del XVII secolo,
particolari: il
protagonista in ascolto
e le donne imploranti
(G.C.).
verosimilmente attribuibili a qualche allievo o a
qualche seguace del Berrettini e potrebbero addirittura rivelarsi un patrimonio ancor più rilevante di
quanto si possa pensare.
La prima (Fig. 5), in particolare, è una reinterpretazione ‘speculare’, di minore altezza ma più allungata
orizzontalmente (cm 195 × 450) dell’omonimo olio
su tela (cm 280 × 426) dipinto nel 1630 o ’31 per
i marchesi Sacchetti dal celebre artista cortonese
ed oggi conservato alla Pinacoteca Capitolina di
Roma, quel Ratto delle Sabine che è considerato il
primo capolavoro della pittura barocca romana per
l’asimmetrico ma calcolato disordine di una composizione di esuberante e policroma vitalità, di cui
furono eseguite diverse copie nello studio del maestro18. Episodio leggendario, il ‘ratto’ costituisce la
prima e principale delle due varianti con cui è stato
solitamente rappresentato questo noto ‘momento’
della Roma primitiva: il rapimento delle donne da
parte dei Romani (l’altra, meno frequente, è quella
che raffigura le Sabine impegnate a porre fine al
combattimento tra nuovi e vecchi ‘familiari’: se
entrambe compaiono nei cinquecenteschi affreschi
dei Carracci a Bologna, della seconda è famosa in
particolare la versione ottocentesca di J.L. David,
mentre le più celebri redazioni della prima sono il
gruppo scultoreo cinquecentesco del Giambologna
ed appunto il seicentesco dipinto di Pietro da
Cortona). Secondo la leggenda, per dare ai Romani
le spose di cui erano privi, Romolo fece loro rapire
durante le prime consuali le donne dei Sabini, da lui
appositamente invitati alla festa: ne seguì una lunga
guerra, cui pose fine l’intervento delle donne stesse
e che ebbe come esito l’ammissione dei Sabini alla
cittadinanza e l’associazione al potere del loro re Tito
Tazio19.
La seconda tela - identica alla prima per dimensioni
- immortala invece il momento in cui le matrone
romane Veturia e Volumnia convincono Coriolano,
rispettivo figlio e marito, a non attaccare Roma
(Fig. 6). Personaggio leggendario creato verosimilmente per giustificare le alterne vicende belliche tra
Romani e Volsci ed al contempo esaltare la grandezza
d’animo del patriziato, secondo la tradizione il console romano Cneo Marcio nel 493 a.C. conquistò
Corìoli, capitale dei Volsci, ottenendo il soprannome
Coriolano che lo rese celebre. Attiratosi, per la sua
politica oligarchica, le accuse della plebe di volerla
ridurre alla fame, fu esiliato proprio tra i Volsci e qui,
per rivalsa contro la madrepatria, convinse i vecchi
nemici ad affidargli il comando dell’esercito: dopo
i suoi primi successi, il Senato romano lo supplicò
invano di desistere, ma solo le preghiere della madre
Veturia e della moglie Volumnia riuscirono a frenarne la determinazione inducendolo a ritirarsi, anche
se così facendo egli andò incontro alla morte per aver
tradito la causa volsca. Per questo soggetto il ‘copista’
potrebbe essersi ispirato all’analogo affresco dipinto
dal pistoiese Giacinto Gimignani (abile seguace
del Berrettini poi resosi autonomo) verso il 1648
insieme ad un Ratto delle Sabine “versione austera e
razionalizzata del prototipo cortonesco”20 nella Sala
della storia romana del palazzo Pamphilj affacciato
su piazza Navona (attuale sede dell’Ambasciata del
Brasile), opera per le cui figure alcuni non escludono
l’intervento dello stesso Pietro21.
Al di là dell’effettiva paternità delle due opere cervignanesi, altri interrogativi sorgono circa il motivo della loro presenza nel salone d’onore di villa
Bresciani, l’epoca in cui furono eseguiti ed il nome
del committente… Tutte questioni al momento
aperte ma che potrebbero trovare soluzione nel prosieguo delle ricerche.
Quanto alla motivazione della scelta dei soggetti, si
può avanzare un’ipotesi sufficientemente attendibile. Il Ratto è stato in passato citato come simbolo
dell’ideale femminile di virtù (in particolare per la
sposa), della fortezza femminile, della fondazione
della famiglia, ma ha anche da sempre simboleggiato
la protezione divina accordata all’Urbe, risultando
utile a vari committenti come mezzo di autocelebrazione: un ‘tramite’ promozionale perfetto per i nobili
Bresciani (il sessantaduenne Domenico, il diciassettenne primogenito Giovanni Giuseppe e gli altri
figli) dal 1653, anno in cui furono creati cavalieri,
a poco più di un ventennio dall’esecuzione del prototipo-Sacchetti da parte di Pietro da Cortona…22.
Da meno di un lustro si erano poi conclusi i lavori di decorazione guidati da Olimpia Maidalchini
Pamphilj nel palazzo romano, nel cui programma
decorativo “l’argomento delle origini” rivestiva un
ruolo molto importante: i Pamphilj facevano risalire
le proprie origini al re Numa Pompilio23, che secondo
il mito era nato lo stesso giorno della fondazione di
Roma da parte di Romolo, al quale erano dedicati tre
dei quattro episodi affrescati da Gimignani nel fregio
della sala dedicata alla storia romana (Ritrovamento di
Romolo e Remo, Ratto delle Sabine, Romolo consacra il
bottino di guerra o Le spoglie opìme), essendo il quarto
come detto incentrato sulle implorazioni accolte da
Coriolano24 (Fig. 7). Molto probabilmente, quel che
era da poco accaduto a Roma si ripeté a Cervignano,
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il cristo ritrovato
G. Caiazza
dove anche i Bresciani vollero eternare le proprie
blasonate ascendenze al fine di comprovare la legittimità della nuova dignità raggiunta. D’altronde, il
salone d’onore era il più importante ambiente ‘pubblico’ delle ville e dei palazzi dell’aristocrazia - anche
friulana - dell’epoca, la stanza di rappresentanza per
eccellenza, la grande sala nella quale ricevere le
visite degli ospiti di riguardo ma anche le suppliche
o le richieste di favori (comunque di persone di un
certo livello sociale, non essendovi ammessi i sotàns:
fattori, contadini, affittuari, braccianti ecc.)25. A
nessuno di essi sicuramente avrebbe potuto sfuggire
il messaggio sotteso a determinate raffigurazioni,
esplicitamente alludenti alla forza e determinazione
(Ratto), alla pìetas e nobiltà d’animo (Coriolano),
ma soprattutto al sempre più alto rango della famiglia Bresciani. Queste stesse spiegazioni andrebbero
benissimo anche nel caso in cui si potesse dimostrare
che le due tele in questione siano entrate a far parte
- non tanto su commissione, quanto a seguito di un
acquisto ‘mirato’ - delle collezioni e dell’arredo della
villa più tardi: in tal caso si potrebbe pensare al 1710,
anno in cui i fratelli Giovanni Domenico, Giovanni
Battista, Giovanni Pietro e Giovanni Antonio de
Bresciani ottennero dall’imperatore asburgico per sé
e per i membri del loro casato il titolo di liberi baroni
del Sacro Romano Impero26.
90
ORIGINI ACCERTATE
Il nucleo originario dell’immobile principale risale al
secolo XVI: lo dimostrano tra l’altro i resti dei vivaci
affreschi ornamentali riemersi - durante lavori di
sistemazione eseguiti nel 1962 - sulla parte alta delle
pareti nord e ovest della moderna cucina del piano
nobile, la cui originaria destinazione a camera per gli
ospiti - attestata dai proprietari attuali - è ribadita
dai soggetti delle raffigurazioni pittoriche “che si
muovono in alto come fregio” (Fig. 8)27. A quanto
si è potuto appurare durante le indagini che hanno
portato alla stesura del presente contributo, si tratta
di affreschi da tempo noti ma tuttora inediti: l’unica
riproduzione fotografica - parziale - fino ad ora pubblicata risulta errata, verosimilmente a causa di un
refuso tipografico28. Inoltre, i pochi autori che finora
se ne sono occupati descrivendoli sono stati piuttosto
imprecisi, riferendo queste opere pittoriche alla “facciata posteriore” della villa, che invece è del tutto
priva di decorazioni pittoriche: in realtà si tratta sì
della parete posteriore del corpo centrale, ma dal lato
interno! Del tutto arbitraria è oltretutto l’identificazione dei soggetti dipinti con delfini, divinità marine, sirene e generiche figure mitologiche, così come
il riferimento ad una presunta vivacità dei colori
impiegati dall’ignoto frescante29. Servendosi manife-
Figg. 8-11 – Affreschi
ornamentali nell’ex
camera per gli ospiti,
XVI secolo (G.C.).
91
il cristo ritrovato
G. Caiazza
stamente di una gamma cromatica piuttosto limitata,
quest’ultimo eseguì nelle tinte rosso-marrone-blu
una serie di accattivanti scene raffiguranti giochi di
putti e fantastiche creature zoomorfe (Fig. 9), veri e
propri monstra degni di un bestiario medievale ma al
tempo stesso in qualche modo ‘familiari’ (si riconoscono volatili e teste canine, ovine e bovine, oltre
a corpi da quadrupedi e code composite da creature
marine, reali e mitologiche) (Fig. 10): scene animate
a metà fra ingenuità e ‘maniera’, accompagnate ed
al contempo separate da più o meno lunghe file di
grosse perle nelle tonalità del blu ed incorniciate da
schematici festoni resi nelle stesse gradazioni delle
immaginifiche figure (Fig. 11)30.
Pure l’analisi delle murature conferma la datazione
cinquecentesca del nucleo edilizio primitivo: la
particolare ‘consistenza’ di alcune pareti rispetto ad
altre - appurata dal vivo nel corso dei restauri del
’62 - dimostra inoltre che tale nucleo si limitava ad
uno sviluppo minore dell’attuale, compreso com’era
fra quelli che oggi sono il solido muro occidentale
del salone e la spessa parete orientale della prima
sala ad est del salone stesso, che da ultimo funse da
sala da pranzo della contessa Maria (e difatti sulle
Fig. 12 - Pianta
del complesso ex
Bresciani: rielaborazione della mappa
del 1974 conservata
all’Ufficio tavolare
di Cervignano.
Fig. 13 - Villa
Bresciani-Peteani,
acquerello, 1891 (collezione privata).
92
pareti spiccano ritratti della stirpe d’Attems) ma in
precedenza era stata utilizzata come salottino con
caminetto31. Sulle origini ancor più remote di quell’unico e compatto fabbricato nulla è possibile dire al
momento, ma certo esso è genericamente assimilabile alle “case padronali” dal “corpo centrale di forma
quasi cubica” che nel XVI secolo costituivano uno
dei principali tipi di villa in Friuli32. Con il passar
del tempo, quell’edificio divenne l’attuale ‘elemento’
mediano: in data imprecisata fu infatti ‘allungato’, in
particolare verso ovest, in modo tale da raggiungere
una nuova simmetria rispetto all’ingresso principale
posto al centro del pianterreno. Fra il 1760 ed il
1770 il fulcro dominicale fu infine “quasi per intero”
riattato e “di molto” ampliato, a partire dall’aggiunta
dei corpi di fabbrica laterali - le due ‘ali’ di cui si è già
parlato - che conferirono alla pianta il caratteristico
andamento ad ‘U’ (Fig. 12)33.
Nella seconda metà del Settecento è attestato un
rimaneggiamento pressoché totale del complesso,
verosimilmente in seguito all’incendio del 1789, che
oltre a devastare l’archivio di famiglia dovette al contempo danneggiare le strutture architettoniche34. Se
l’ipotesi fosse corretta, i lavori di riatto andrebbero
ascritti al barone Giuseppe de Bresciani, sposo della
contessa Bianca di Toppo oltreché figlio di Giovanni
Antonio de Bresciani, che nel 1710 aveva ottenuto
il titolo baronale.
Una cosa è sicura: l’entrata principale non fu ‘spostata’ al primo piano in tale occasione35, bensì oltre cent’anni più tardi! Come infatti testimonia il disegno
acquerellato non firmato ma datato 1891 conservato
nella collezione privata degli attuali proprietari (Fig.
13), la sopraelevazione fu voluta e commissionata
soltanto alla fine del XIX secolo: per risolvere la
malsana situazione legata alla forte umidità causata
dal frequente risalire dell’acqua dal sottosuolo, il
cavaliere Enrico fu Antonio Peteani von Steinberg,
nonno della contessa Maria fece aggiungere (oltre
ad “un rialzo adatto nella parte di mezzo”) l’ampia e
maestosa scalinata esterna in pietra bianca ad unica
rampa36, che tuttora giunge al piano nobile aprendosi
sull’ampia balconata provvista di elegante balaustra
in pietra, inserimento di cui s’avvantaggiò il portale
incorniciato in bianca pietra bugnata precedentemente affacciato sul cortile d’onore dall’alto del
poggiolino aggettante dal salone, elegante elemento
litico che proprio allora fu rimosso e reimpiegato
davanti alla porta-finestra rivolta sul parco retrostante (Fig. 14), dall’altra parte dello stessa grande sala
del primo piano.
In tal modo si conferì all’insieme quel caratteristico
aspetto che oggi dà all’osservatore l’impressione di
trovarsi di fronte ad un fabbricato ad un solo piano
e notevolmente rialzato rispetto al suolo37, mentre
si tratta di una tipica villa elevantesi fuori terra di
due piani più il sottotetto38: il pianterreno è semplicemente e suggestivamente celato dalla scenografica
gradinata, ma è tuttora ben visibile e normalmente
accessibile (dietro e sotto la scala) dall’originario
portale inserito fra quattro lesene, al di là del quale
ci si ritrova nell’antica sala passante con soffitto a
travatura lignea sorretta da eleganti - e solo apparentemente esili - colonnine in legno su basi in pietra39 (Fig. 15). Attraverso questo interessantissimo
ambiente, momentaneamente deputato a mere funzioni di deposito, si giunge al tuttora rigoglioso parco
retrostante, attraversando il portale a sesto ribassato
sottostante il poggiolino di reimpiego succitato,
insieme talora indicato come “facciata originale”
della villa40, ma molto probabilmente a torto, come
dimostrano la sua esposizione a tramontana (è tipico
delle pareti posteriori trovarsi in ombra) nonché la
maggiore articolazione degli spazi e degli elementi
architettonici (si notino, per esempio, gli stipiti del
portale ora nascosto dallo scalone) su quello che è
ed era il prospetto principale, correttamente esposto
a solatio.
ANTICHITÀ PERTINENZE
E MODIFICHE
Il ‘giardino’ di villa Bresciani copre soltanto una
parte dell’originaria più ampia estensione, ma mantiene quasi intatte le sue dimensioni da quando,
oltre centotrent’anni fa (1873), risultava accatastato come ‘orto’ circondato da ‘pascoli’, ‘arativi’ e
‘vigne’ a nord, mentre verso est un’enorme distesa
di terreni coltivabili in precedenza appartenuti ad
altri cinque proprietari (quattro privati e la “chiesa
di Cervignano”) furono poco alla volta acquisiti dai
Bresciani, che già possedevano ampie superfici ‘arative’ verso sud, di fronte alla villa41. Il parco è ancora
delimitato da un’alta cinta muraria che circoscrive
l’intera proprietà e segna “nettamente il confine con
l’esterno”, creando quello che è stato definito “un
microcosmo”, trattandosi di una ‘natura’ contraddistinta da una totale “indipendenza dall’ambiente circostante”, nota tipica dei parchi delle ville friulane42.
Esso è inoltre tuttora attraversato da vialetti che si
insinuano in mezzo alle ampie fronde dei numerosi
palmizi (Fig. 16), degli alti ippocastàni e degli altri
alberi secolari, fra i quali si distingue un tiglio pluricentenario, la cui presenza ha anche richiamato le
attenzioni del Corpo Forestale dello Stato43.
Al di là del parco, oltre una bassa muraglia divisoria
in cui si apre pure il passaggio diretto ricavato accanto alla casetta del contadino (i cui ruderi lasciano
ancora intravedere una caratteristica struttura muraria ‘a traliccio’ di chiare ascendenze tardomedievali),
si estende il vasto spazio in origine destinato ad orto
e frutteto, al di là del quale si allungavano a perdita
93
il cristo ritrovato
d’occhio i campi coltivabili poc’anzi menzionati.
Qua e là, in mezzo al verde del parco, si possono
ammirare alcuni reperti romani, talvolta riuniti in
piccole ‘composizioni’ che rievocano i celeberrimi
‘capricci’ in cui il gusto per il rovinismo rendeva
evidente l’influsso romantico: diverse urne cinerarie,
anfore di varie tipologie (Fig. 17), resti sparsi e due
grossi frammenti dell’operculum displuviato di un
sepolcro. Questi ultimi appartenevano ad un sarcofago a cassa liscia in pietra scolpita a imitazione di un
sopra a sinistra:
Fig. 14 - Poggiolino
reimpiegato sul retro
del salone d’onore,
sovrastato dallo
stemma della famiglia Peteani (G.C.).
a destra:
Fig. 15 - L’ingresso
originario alla villa
(oggi ‘coperto’ dallo
scalone) e la sala
terrena passante con
colonnine lignee
(G.C.).
in alto a destra:
Fig. 16 - Palmizi su
montagnola artificiale all’interno del
parco (G.C.).
sopra a destra:
Fig. 17 - Anfore di
diverse tipologie ed
urna cineraria di età
romana nel parco
della villa (G.C.).
94
tetto coperto con embrici e coppi (lunghezza totale
m 2,13; larghezza cm 72; spessore cm 8; altezza cm
25) dell’inizio del II secolo d.C., come pare dimostrare l’accurata e regolare esecuzione (modulo 5 x 5)
dei caratteri capitali presenti sugli ‘specchi’ costituiti
dalle finte tegole (della riga superiore si vede solo
la parte bassa di qualche lettera, mentre nella riga
inferiore si leggono le due parti della formula ANIMAE MERENTI formata da due gruppi di sei caratteri
separati da un ‘coppo’, con il nesso NT in penultima
posizione)44 (Figg. 18-20). Il coperchio risulta privo
del colmo del finto tetto, ma presenta sulla superficie
sbozzata due fori non passanti: forse fu ricavato dalla
giunzione di due pezzi litici, o più verosimilmente fu
tagliato in epoca recente per essere reimpiegato rovesciato, non tanto come vasca di fontana quanto come
seglâr, il caratteristico acquaio friulano45. Allo stesso
sarcofago potrebbe appartenere il malridotto cassone
rettangolare impiegato come vasca per l’acqua nella
vicina floricoltura, il quale presenta misure compatibili con quelle dell’opercolo giacente nel parco della
villa (m 2,12 di lunghezza, cm 66 di larghezza, cm 8
di spessore e cm 57 di altezza).
A queste già notevoli testimonianze vanno aggiunte
alcune anfore intere (vinarie e olearie) conservate
all’interno della villa (Fig. 21) e due frammenti di
decorazione scultorea murati in un corridoio al pianterreno, un pezzo di elegante trabeazione con ornato
a piccoli ovuli ed una porzione di cornice angolare di
Fig. 18 - Sarcofago
romano, II secolo
d.C., frammento anepigrafo (G.C.).
Fig. 19 - Sarcofago
romano, II secolo
d.C., frammento con
iscrizione “animae“
(G.C.).
Fig. 20 - Sarcofago
romano, II secolo
d.C., frammento con
iscrizione “merenti”
e foro (G.C.).
In alto: Fig. 21 Anfore romane di
diverse tipologie suggestivamente disposte all’interno della
villa (G.C.).
95
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 22 - Il parco della
villa Bresciani “attraversato” dal tracciato della strada
romana per il nord
(da ROSSETTI 1984).
Fig. 23 - La colombaia
di villa Bresciani
(G.C.).
96
ara funeraria con motivo a foglie di vite e grappoli.
È verosimile che la maggior parte di questi reperti
provenga dall’immediato circondario, giacché in
età romana il territorio dell’attuale Cervignano era
attraversato in direzione nord-sud da un lungo tratto
di una fra le principali arterie dell’area altoadriatica,
che da Aquileia puntava verso nord: è ininfluente
che si trattasse della via che viene tradizionalmente
ma impropriamente denominata Iulia Augusta o della
porzione conclusiva della via Annia proveniente da
nord-est attraverso il ‘ponte Orlando’ sull’Aussa,
oppure del tratto finale della Postumia, che all’altezza
dell’attuale Sevegliano si innestava sulla già ricordata direttrice per il Noricum46… Questo importante
asse della comunicazione terrestre, che si intrecciava
a non meno importanti vie d’acqua fra cui il fiume
Aussa, provenendo da Terzo saliva diritto verso nord
tagliando longitudinalmente una buona parte di
quelli che sarebbero diventati i principali possedimenti cervignanesi dei Bresciani, incluso l’angolo
nordorientale del parco della villa47 (Fig. 22). D’altro
canto, a distanza di poche centinaia di metri dal sito
più tardi sfruttato dai facoltosi baroni si trovarono
alcuni insediamenti e necropoli sufficientemente
estesi, dai quali proverranno gran parte i reperti testé
ricordati48.
All’altro angolo del parco, davanti alla facciata
posteriore dell’ala ovest, si conserva una interessantissima colombaia, perfettamente conservata in
tutte le sue parti e presumibilmente risalente al
XVII-XVIII secolo, che ha già suscitato l’interesse
di studenti universitari e studiosi accreditati. Benché
per la colombicoltura si impiegassero anche terrazze chiuse sovrastanti il tetto o stanze ubicate nel
sottotetto (tanto che il vocabolo piccionaia è divenuto pressoché sinonimo di ‘ultimo piano’), nella
fattispecie si tratta di un’alta torretta quadrilatera
in muratura (Fig. 23) destinata all’allevamento ed
all’ammaestramento - detto trenaggio - dei colombi,
volatili dei quali fin dall’antichità l’uomo sfruttò,
al fine di inviare e ricevere messaggi, la capacità di
orientarsi ovunque e ritornare al proprio nido, oltre
a ricavarne come apprezzato alimento la carne degli
esemplari giovani (piccioni) e come ottimo fertilizzante le abbondanti deiezioni (colombina): la nobiltà godeva addirittura di uno specifico ‘diritto del
colombaio’, speciale privilegio di allevare “colombi
di alto volo” al preciso scopo di spedire e farsi recapitare corrispondenza49. Accessibile agli allevatori, la
torricella ubicata sul retro di villa Bresciani presenta
al piano più alto una duplice serie di entrate/uscite
equidistanti, le cosiddette buche, inferiormente fornite di piatto bordo sporgente orizzontale sorretto
da mensole (in sostituzione del non comune asserello
ligneo), atto non soltanto a favorire il tipico, prolungato ‘appollaiarsi’ dei colombi e le partenze e gli
arrivi di questi un tempo insostituibili ‘messaggeri
alati’, ma eventualmente anche ad impedire l’accesso
ai malintenzionati (gatti, topi, ladri…)50.
Tornando al citato acquerello del 1891, si possono
fare ulteriori considerazioni, confrontando l’immagine ‘a volo d’uccello’ tardottocentesca con la facies
odierna della villa e con un’altra ed ancor più elegan-
te raffigurazione acquerellata conservata nella stessa
collezione privata ma eseguita nel 1922, in occasione
dell’emanazione del decreto legislativo che dichiarò
la villa Bresciani “monumento nazionale” (Fig. 24).
In quest’ultima immagine, l’elegante fabbricato principale è rappresentato in realistica prospettiva e
completo delle due ali, circondato da una cornice
dipinta sovrastata dallo stemma Bresciani fra l’arme
d’Attems e lo scudo Peteani, riuniti sotto la corona
‘tollerata’ (un cerchio d’oro rabescato, ornato di
smalti policromi, brunito ai margini e cimato da
sedici grosse perle - nove visibili - su altrettante
punte) sorretta da due angeli; alla base della finta
incorniciatura un lungo cartiglio orizzontale contiene il motto “Tempora mutantur sed non nos in illis”,
‘i tempi mutano, ma non noi in essi’ (divisa in lingua
latina che è un chiaro rimando al succedersi dei
titolari nella continuità di un’ininterrotta ‘linea’ ereditaria), mentre al di sotto un’altra, ben più elaborata
lista bifida nastriforme riporta il soggetto raffigurato e
l’occasione celebrata.
Dal doppio raffronto, risulta evidente che nell’ultima
decade del XIX secolo (dopo il 1891) si provvide a
modificare l’aspetto della villa senza snaturarlo: oltre
all’introduzione della scalinata con le conseguenze
già ricordate, l’unico intervento sostanziale consistette nell’inserimento di una grande vasca circolare
con fontana zampillante coronata di aiuole verdi al
centro della corte, al posto delle preesistenti più estese aiuole di fiori policromi, con conseguente ampliamento della zona alberata all’ingresso (Fig. 25).
Prima del 1922 furono anche messi a dimora i rampicanti che tuttora coprono interamente il pianterreno
del fabbricato principale e in seguito fu modificato
l’edificio orientale prospiciente la strada pubblica,
che oggidì appare come edificio autonomo, mentre
non è dato sapere quando i due pilastri sui quali tuttora è incardinato il cancello affacciato su via Trieste
furono arricchiti mediante l’aggiunta delle lesene
e delle cuspidi vascolari tuttora in situ51. Evidente
risulta invece dal raffronto delle immagini il cambio
della bandiera che garrisce al vento al di sopra del
timpano del nucleo dominicale: in un trentennio, al
vessillo rosso-blu dei Bresciani si sostituì lo stendardo
bianco-rosso degli Attems, il cui stemma troncato
cuneato di rosso su tre punte d’argento è ben noto.
pella gentilizia della villa Bresciani: oggi come allora,
sul fronte principale lungo la strada comunale corre
la parete laterale sud dell’oratorio nobiliare annesso
al complesso, ufficialmente posto sotto il titolus della
Santa Croce ma più familiarmente e semplicemente
nota - in particolare ai devoti cervignanesi - come
Fig. 24 - Villa
Bresciani-PeteaniAttems, acquerello,
1922 (collezione privata).
Fig. 25 - L’intricata
base del tronco del
grande glicine che si
affaccia sul giardino
d’onore (G.C.).
LA CAPPELLA DI SANTA CROCE
Nell’angolo inferiore sinistro del disegno acquerellato del 1891 è inoltre chiaramente raffigurata la cap-
97
il cristo ritrovato
G. Caiazza
‘cappella Bresciani’ (Fig. 26). Protetto da intonaco
chiaro recente, il fabbricato in muratura oggi visibile
e liberamente visitabile fu eretto nel 1692, “in ossequio a precise disposizioni testamentarie del nobile
Giuseppe de Bresciani”, in sostituzione o come
ampliamento, rimaneggiamento o “radicale rifacimento” di un edificio cultuale preesistente tuttora
“indatabile” a causa della totale mancanza di dati di
scavo o d’archivio52. L’anno seguente il fabbricato
venne arricchito con l’aggiunta della sagrestia sul
fianco nord e nel 1873 fu rinnovato quasi completamente53; non prima di una ventina d’anni più tardi
(nel disegno del 1922, sfortunatamente, la chiesetta
non rientra nella ‘inquadratura’, ma in quello del
1891 questo particolare ancora non esiste) una
monofora campanaria con apertura ad arco a tutto
sesto, inquadrata da lesene angolari e timpanata secondo l’inconfondibile modello del ‘campaniletto
a vela’ - fu innalzata al colmo della facciata rivolta
verso la corte interna, sopra il piccolo frontone triangolare con oculo centrale.
Nonostante le ridotte dimensioni, il piccolo edificio
di culto ha ben quattro distinte entrate: quella principale (di per sé, ma non certo quanto all’effettivo
Fig. 26 - La cappella
“di Santa Croce” vista
dall’odierna via
Trieste (G.C.).
98
utilizzo e nemmeno storicamente, visto che fu aperta
solo nel 1770 da Giuseppe di Giovanni Antonio de
Bresciani)54 è di forma rettangolare, con architrave
sovrastato da cornice aggettante e soprastante lunetta, e si apre al centro della facciata, fiancheggiata
dalle stèle funerarie di una ragazzina (Alix, sorellina
della baronessa Enrichetta Luigia e come lei figlia
del barone Charles Bourlet de Saint Aubin, morta
nel 1839 quattordicenne)55 e di un bimbo (Paul de
Sainte-Preuve, morto nel 1843 a soli 5 anni) qui
trasportate da Gorizia nel 1889; quella destinata al
popolo (la chiesetta è sempre stata aperta ai credenti
di passaggio e tuttora è liberamente accessibile ai
viandanti) si affaccia con un triplo scalino sulla strada comunale, al centro della parete meridionale, ed
è anch’essa rettangolare, con architrave protetto da
ampia cornice sagomata sporgente sorretta da mensole e sovrastata da lunetta semicircolare definita
da cornice modanata con chiave d’arco aggettante;
quelle accessibili dalla corte interna ai celebranti ed
agli abitanti della residenza patrizia (un tempo ‘giurisdicenti’) si aprono nel basso fabbricato, addossato
alla parete nord, che collega la sagrestia con la piccola navata, e la più importante delle due è a sua volta
sovrastata da una cimasa poggiante su mensole.
L’aula ha pianta rettangolare con soffitto a botte e
cosippure il piccolo presbiterio, che è illuminato da
una coppia asimmetrica di strette finestrelle sul lato
sud e da un alto lunettone nella parete di fondo. La
pavimentazione è costituita da un sobrio disegno
marmoreo a scacchiera bianco-rosso (probabile riferimento alla livrea degli Attems), interrotto al centro dalla lastra tombale che dal 1892 chiude l’“unico
sepolcro” dei liberi baroni Bresciani e dei cavalieri
Peteani (Fig. 27), su cui compare lo stemma gentilizio femminile della contessa Maria Anna Bresciani,
formato dai due scudi ovali accollati (ma sarebbe
meglio dire ‘attestati’) privi di elementi decorativi
(in forma ridotta, dunque fatto eseguire dalla ‘dama
maritata’ e non durante la vedovanza) e corona, correttamente a sinistra l’arme della moglie (appunto
la baronessa Maria, già maritata in prime nozze con
il barone Carlo Alessandro d’Elvenich) e a destra
quella del marito, il cavaliere Enrico Peteani von
Steinberg, preceduti da una lunga epigrafe celebrativa: A XP Ω / + / AD IMAGINEM VITAE / CONSANGVINITATIS ANTIQVO AFFINITATIS / NOVO VINCVLO CONIVNCTAE / VNVM SEPVLCRVM / BRIXIANORVM S R I
LIB BAR / ET / PETEANORVM A STEINBERC S
R I EQ / MDCCCXCII.
In effetti, dalla seconda metà dell’Ottocento in
poi, la cappella è stata il tempietto sepolcrale delle
famiglie nobili succedutesi in linea femminile nella
proprietà della villa: alle pareti, lo attestato lapidi
con iscrizioni commemorative ed epitaffi monumentali di diverse epoche, forme e dimensioni. Tuttavia
tale funzione non fu svolta solo a partire dal 1883 per
volontà della baronessa Maria “ultima dei Bresciani”,
ma era sicuramente precedente: infatti, tra “i nobili
e le famiglie più doviziose del paese” delle cui “pietre
funerarie” era “quasi per intero lastricato” il pavimento della parrocchiale di San Michele ampliata
nel 1614, mancavano proprio i de Bresciani56.
Va segnalata inoltre la grande lastra marmorea,
posta dirimpetto all’ingresso, che ricorda il riatto
effettuato da Francesco Luigi de Bresciani nel 1873
(Fig. 28): ANTIQUUM FAMILIARE SACELLUM / VETUSTATE FOEDATUM / REFICERE AMPLIARE EXORNARE
/ CURAVIT / FRANCISCUS S.R.I. LIBER BARO
A BRIXIANIS / S. HIEROSOL. O. FRATER MILES DE
IUSTITIA / SANCTISS. DMNI PII PAPAE IX / CUBICULARIUS SECRETUS / S. M. IMP. AC R. APOSTOLICAE /
FRANCISCI IOSEPHI I / CAMERARIUS ET CONSILIARIUS ETC. / A.D. MDCCCLXXIII”. Dal testo risulta
chiaramente che l’uso della chiesetta per le sepolture
risale molto più indietro della data riportata, giacché
in quella data il barone Francesco “procurò di restaurare, ingrandire ed abbellire l’antico sacello familiare,
andato in rovina a causa della vecchiaia”.
Ancor più degna di nota è infine la lapide posta
esattamente di fronte all’ingresso dalla strada: “AD
MEMORIAM PIETATIS QVA / IOSEPHVS A BRIXIANIS
ATAVVS / A·D·III CAL·APR·MDCXCII SACELLVM SACRIS
Fig. 27 - Sepolcro
Bresciani-Peteani, 1892
(G.C.).
Fig. 28 - Lapide apposta
nel 1873 per ricordare il riatto voluto
da Francesco de
Bresciani (G.C.).
Fig. 29 - Epigrafe del
1892, duecentesimo
anniversario dei
‘lavori’ del 1692 (G.C.).
99
il cristo ritrovato
G. Caiazza
OPIBVSQ·AVXIT
/ HENRICVS PETEANORVM
S·R·I·EQ· / MARIA PETEANORVM LIB BAR·E
GENTE BRIXIANIA / D·D·III·CAL·APR·MDCCCXCII”
(Fig. 29). Se ne ricava chiaramente che il “sacello”
era stato ‘innalzato’ per volontà dell’“avo del bisavolo” Giuseppe de Bresciani nel 1692: considerando
che il verbo latino augeo (auxi, auctum, augere) significa primariamente ‘far crescere’ e quindi ‘ingrandire,
allargare, rinforzare, accrescere, aumentare’, se ne
può dedurre che all’epoca non vi fu la fondazione del
luogo di culto bensì la sua ri-fondazione. In effetti, il
cavaliere Giovanni Pietro de Bresciani nel suo testamento del 1680 ca. cita esplicitamente “la nostra
cappella di casa”, nella quale “da tempo si venera”
“quel benedetto crocifisso”57. In cosa poi sia effettivamente consistito l’intervento voluto da Giuseppe,
è possibile ipotizzarlo: visto che nel suo testamento
egli “lascia e comanda sia eretta una capella”58, piuttosto che ad un semplice ripristino o ad una radicale
ristrutturazione, potrebbe parer più logico pensare ad
una ricostruzione (l’attuale chiesetta) in luogo diverso dall’originario (che per il momento non sarebbe
dato conoscere).
Al di sotto della semplice copertura in coppi del
tetto a spioventi, aula e coretto sono - come detto
- voltati a botte, che però termina a vela sulla parete
absidale di fondo retrostante l’altare, nella quale fino
a qualche tempo fa si apriva una grande nicchia a
forma di croce latina (oggi non più esistente) contenente un crocifisso ligneo policromo di dimensioni
gigantesche59, poggiante su una croce charpentée
latina immissa, a formare una “crocifissione ad un
solo personaggio”60 di incerta provenienza ma sicuramente databile al periodo romanico (Figg. 30, 31,
40 e 41). Come notò Antonio Rossetti, “a giudicare
dalla perfetta, calcolata collocazione del crocifisso
all’interno dell’abside” si potrebbe supporre “che la
cappella del 1692 sia stata costruita o adattata ex
novo proprio per il crocifisso stesso”61: in realtà il
monumento policromo in legno di pioppo fissato ad
una croce in tavole di abete fu inserito nella nicchia
cruciforme protetta da vetro solo nel 1889, allorché
il barone Enrico Peteani de Steinberg volle che fosse
ricavata nel muro di fondo della zona absidale, che
fece ampliare alle dimensioni attuali.
IL GRANDE ‘OSPITE’
Rappresentante in loco una delle due più comuni
immagini di culto della scultura romanica62, il crocifisso conservato nella cappella Bresciani è stato
100
giustamente descritto come “colossale” da tutti i suoi
recensori per evidenti motivi. Ma ancora è difficile
capire come, perché e quando “un tale colosso sia
finito nella minuscola Cappella Bresciani”63.
Innanzitutto va ricordato che in età romanica, di
norma, una statua veniva realizzata “in vista del
luogo cui” era “destinata e ciò” induceva “lo scultore
a modificare certe proporzioni, a diminuire lo spessore
di certe parti allo scopo di ottenere un buon effetto”,
dal momento che “una statua che deve essere guardata dal basso in alto non può avere le proporzioni
normali, appunto per poter apparire normale ed equilibrata”64 dal punto di osservazione. Se dunque “la
tensione drammatica si misura anche in termini di
distanza e di vuoto”65, quella che è stata definita “la
rozza massività” del Cristo di Cervignano66 è piuttosto l’esito del tentativo di rifarsi a quei modelli aulici
di grandi dimensioni e da porre in posizione elevata,
nei quali la struttura anatomica del Rex Iudaeorum
poteva risultare piuttosto ‘allargata’ su una croce
non rappresentante l’originario strumento di tortura
romano ma il simbolo dell’apoteosi del Messia67 (Fig.
30). Modelli non rari - sulla scia dello schema colto
diffuso da tempo in tutta Italia68 - anche in loco:
dai piccoli crocifissi raffigurati ‘ad occhi aperti’ nell’VIII-IX secolo su oggetti devozionali di produzione
cividalese rinvenuti a Gonars, Lestans e Cividale, al
crocifisso ‘vivo’ inciso al centro della grande croce
processionale del IX secolo già a Santa Maria in
Valle (che presenta lo stesso nodo frontale visibile a
Cervignano), a quello ligneo del tardo XI secolo in
collezione privata; da quello fissato alla croce astile
cividalese in rame dorato della metà del XII secolo a
quello grossomodo coevo miniato sul Messale aquileiese dell’abbazia di Moggio ora alla Biblioteca arcivescovile di Udine; da quello delineato a penna sul
Graduale di Weingarten conservato nella medesima
biblioteca, a quello raffigurato - alla fine dello stesso
secolo - sul recto dell’encolpio cruciforme rinvenuto
nella chiesa di Sant’Agnese a Rorai Piccolo di Porcia;
da quello affrescato al piano superiore dell’aquileiese
‘chiesa dei pagani’ a quello grossolanamente effigiato
su un fianco dell’urna argentea delle reliquie di san
Giusto rinvenuta nella cattedrale di Trieste, fino a
giungere a quelli più tardi che ornano gli evangeliari
dell’Epifania e di S. Marco (secondo XIII - primo
XIV secolo) o la lunetta del portale principale del
duomo di Venzone, ove a metà Trecento si ripropose il piuttosto ‘eccedente’ bacino del Cristo già
visto - con rese diverse - a Cividale, Moggio, Rorai,
Aquileia e Trieste oltre che a Cervignano69.
Fig. 30 - Il crocifisso
ripreso lateralmente e dal basso verso
l’alto: visto correttamente, pare ancor
più imponente e perde
completamente ogni
presunta ‘disarmonia’
(G.C.).
Fig. 31 - Il Cristo “della
Contessa” dopo il
recente restauro:
particolare del busto
(G.C.).
Probabilmente nessuno scoprirà mai l’identità dell’autore, ma è indubbio che dovette trattarsi di
persona “sensibile”, capace di produrre un Crocifisso
ligneo che “colpisce vivamente, sia per l’imponenza
sia per la ‘forza magnetica’ che gli è propria; difficile
da dimenticare e facile da amare”, tanto che “non
a caso i Cervignanesi lo considerano da sempre
un proprio simbolo, unitamente alla torre di San
Michele”70. E non a caso, dopo i recenti restauri, si è
parlato pure di “alta qualità” del manufatto, in netto
contrasto con quanto si era detto finora71.
Oltre a criticare la bontà della resa scultorea, si è
spesso parlato di questo manufatto come di un ‘crocifisso processionale’, ma si tratta di una definizione
tanto generica quanto impropria. Considerandone le
forme a dir poco imponenti, il fatto che esso sia stato
realmente utilizzato nel corso di antiche cerimonie
religiose itineranti si configura come un fatto puramente episodico (siccità del 1932), mentre pare ben
più verosimile ritenere che esso sia ‘nato’ per essere
‘innalzato’ all’interno di una chiesa, ovviamente
molto più grande della cappellina in cui da circa
quattro secoli si trova72: non sul nudo intonaco, né
all’interno di una capiente nicchia o al di sopra di un
altare secondario, e neppure lungo una parete laterale, pur adatta a favorirne le visite impetratorie da
parte di popolani in devoto pellegrinaggio (ciò può
essere accaduto in un secondo momento); ma sicura-
mente in posizione elevata, visto che tanto le dimensioni quanto lo sguardo consentono di comprendere
che sia stato pensato per essere guardato di sott’in
su, dal basso verso l’alto73 (Fig. 31). D’altronde, dopo
che il Concilio Trullano (602) autorizzò la rappresentazione del Messia in forma umana, “il Crocifisso
andò a collocarsi sull’altare” e a partire dal XII secolo
“la croce venne ad abitare la chiesa in una posizione
che sembrò abbracciarla tutta”74.
Si deve perciò pensare ad uno di quegli imponenti
crocifissi scolpiti che erano comunemente definiti ‘maggiori’ e almeno dall’XI secolo nelle chiese
romaniche - molto meno spoglie, cupe e severe di
quanto oggi si continui a credere - venivano posizionati nel posto d’onore, cioè centrale, in modo
tale da attirare immediatamente l’attenzione del
fedele fin dal momento del suo ingresso nella chiesa
e da coinvolgerlo nella liturgia soprattutto durante i
momenti rituali ‘riservati’ ai celebranti75: di norma
sopra l’entrata del ‘santuario’ presbiteriale, quindi
sovrastanti l’iconostàsi (magari pendenti dall’arco
trionfale); oppure ritti su quel particolare architrave
detto ‘asse del coro’ o ‘trave di gloria’; o anche al di
sopra di una trave appositamente sospesa all’incirca
al centro della chiesa76. Non di rado, il Servo sofferente era fiancheggiato da altri protagonisti della
Passio, perlomeno i ‘dolenti’ per antonomasia, cioè la
madre Maria di Nazareth e l’evangelista Giovanni77.
Ma se già nel XII secolo o perlomeno all’inizio del
Duecento altrove furono effettivamente innalzati
simulacri lignei di dimensioni paragonabili a quelle
del pezzo in questione78, finora poco si sa circa la
presenza in età romanica di crocifissi ritti su pergole
o travi oppure pendenti dai soffitti in qualcuna delle
chiese di Aquileia e dintorni, o nelle non lontane
chiese di rito e arredo liturgico bizantino dell’area
101
il cristo ritrovato
G. Caiazza
altoadriatica.
In mancanza di informazioni documentarie dirette,
riguardo l’effettiva provenienza del ‘gigante’ ligneo
è dunque giocoforza muoversi per via indiziaria:
tuttavia, benché il buono stato di conservazione del
manufatto (il ricovero ininterrotto in una chiesetta
secondaria ma costantemente ‘curata’ lo ha posto al
riparo dai più gravi danni provocati da intemperie,
incendi, tarli e quant’altro) abbia fortunatamente
consentito di lavorare per confronti e deduzioni, non
c’è accordo tra gli studiosi.
LEGGERE E RILEGGERE LE FONTI
Fig. 32 - La chiesa di San Michele
Arcangelo a
Cervignano oggi
(G.C.).
102
La tesi oggi maggiormente accreditata è quella sostenuta da G. Fornasir, il quale è fermamente convinto
che esso sia il “gran crocifisso di legno” descritto
da mons. Bartolomeo di Porcia e Brugnera, abate
commendatario di Moggio, durante la sua visita
apostolica del 1570 alla chiesa cervignanese di San
Michele, nella quale il manufatto era posizionato (e
venerato) “nella parete” fra l’altar maggiore dedicato
all’arcangelo titolare e l’altare laterale di sant’Antonio abate79.
Il documento citato si trova a tutt’oggi presso la
Biblioteca Civica di Udine ed è la trascrizione
ufficiale redatta a mente fredda dal notaio e cancelliere Agostino Varisco80, ma nell’Archivio della
Curia udinese è tuttora conservata la minuta scritta
dallo stesso Varisco a mo’ di block-notes durante
le ‘visite’ nei vari luoghi, studiata singolarmente
da B. Staffuzza e comparata alla prima dallo stesso
Fornasir81. Quest’ultimo sottolinea che la redazione
definitiva presenta una “forma più ordinata, precisa
e dettagliata” nella “sostanziale identità di contenuto” rispetto alla malacopia82, però quelle che egli
definisce “sfumature” talvolta sono sostanziali. In
particolare, nel passaggio dagli appunti alla ‘bella
copia’, il materiale viene riordinato e rimpolpato
(o talora decurtato) attingendo ai ricordi, mentre
l’aggettivazione assegnata ai singoli oggetti in situ
subisce un quasi sistematico rifacimento, che spesso
si traduce in un vero e proprio ‘ingigantimento’.
Come il reverendus dominus visitatore della minuta
diventa illustris et reverendus nel testo finale, così
taluni oggetti di ottone (ex aurichalco) divengono
bronzei (aenei), altri di color celeste si fanno cerulei,
il ‘nostro’ crocifixus ligneus diventa magnus e la magna
statua di sant’Antonio addirittura maxima83.
Secondo la ricostruzione proposta da Fornasir a proposito del crocifisso di San Michele, nella ‘brutta’
Varisco commise diverse inesattezze che poi corresse
trascrivendo in ‘bella’: in realtà, il notaio di mons. di
Porcia scrisse esattamente la stessa cosa e d’altronde
nessuno potrà mai giudicare l’esattezza o inesattezza
di quanto riferì il pubblico ufficiale scribente rispetto
alla reale consistenza degli altari e degli arredi liturgici, essendo scomparsa da tempo la chiesa dell’epoca
ed essendo quella tardosettecentesca non solo diversa ma anche edificata in posizione differente e con
orientamento opposto (Fig. 32). Lo studioso non
considera che all’epoca della visitatio la chiesa doveva
presentarsi nel suo aspetto medievale, giacché solo
nel 1614 sarebbe stata consacrata la nuova parrocchiale “aggrandita et in forma moderna ridotta”84
sullo stesso luogo in cui “in un tempo non precisabile, ma molto lontano, vi era un grande monastero
le cui mura di cinta verso oriente toccavano la villa
Bresciani” a detta di quella stessa “antica tradizione”
secondo la quale “le antiche casupole vicino a detta
villa servivano di cantina al monastero”85.
Nella minuta leggiamo: “altare sacratum sanctissime
Virginis cum / statua illius lignea sculpta / scabella
bona et est medium inter / altare maius et altaris
sancti Antonii / et desuper in pariete crucifixus
ligneus” (l’ultima riga risulta inserita in un secondo
tempo), ‘altare consacrato della santissima Vergine,
con sua statua lignea scolpita, buoni scanni, e sta nel
mezzo fra l’altar maggiore e l’altare di sant’Antonio
e al di sopra, sul muro, un crocifisso ligneo’86. Dalla
bella copia si rileva esattamente la stessa situazione,
tranne la ‘maggiorazione’ del crocifisso: “aliud altare
sacrum titulo sanctissime Virginis cum statua eius
ligno sculpta pictaque et medium est inter praedicta
duo altaria desuperque in pariete crucifixus magnus
ligneus positus est”, ‘un altro altare consacrato sotto
il titolo della santissima Vergine con statua di lei scolpita in legno e dipinta, e sta nel mezzo tra i predetti
due altari, e al di sopra, sul muro, è posto un grande
crocifisso ligneo’87. Varisco si lasciò forse prendere
un po’ la mano dal ricordo della ‘enorme’ statua di
sant’Antonio vista prima del Cristo, negli appunti
definita semplicemente ‘grande’. D’altro canto, lo si è
già ricordato, in età romanica le croci di dimensioni
più ampie di altre eventualmente compresenti erano
spesso definite ‘grandi’ o ‘maggiori’88.
Ad ogni modo, quando il visitatore raggiunse
Cervignano nel capitanato gradiscano, giovedì 9
marzo 1570, fra l’altar maggiore e quello antoniano
della chiesa tardomedievale dedicata all’arcangelo
guerriero vide l’altare mariano consacrato (ve n’era
un altro, più antico, dedicato pure alla Madonna ma
non consacrato) e “al di sopra” di esso, sulla parete
laterale, un crocifisso di legno di una certa imponenza89. Quindi una grande statua lignea del Cristo in
croce c’era sì nella vecchia chiesa di San Michele
dell’insula asburgica in territorio veneziano, ma non
si segnalava per alcuna caratteristica particolare e
non è affatto detto che si trattasse di quella oggi
conservata nella cappella Bresciani: la possibilità che
“lo stesso enorme crocifisso che oggi si venera nella
cappella Bresciani” possa provenire dall’antica chiesa
di San Michele90 appare obiettivamente niente più
che una congettura tra le tante e sostenibile solo in
via del tutto ipotetica, senza prove documentarie
assolute. Per di più, fin dall’XI secolo il monasterium
cervignanese era stato soppresso ed il suo patrimonio
accorpato ai beni delle benedettine di Aquileia91:
se nella chiesa vi fosse stato un crocifisso di tal
fatta, molto probabilmente avrebbe preso la strada
di questo secondo cenobio molto prima della visita
dell’abate moggese.
È forse più realistico pensare che quello descritto ‘al
di sopra’ dell’altare mariano durante la visitatio fosse
un altro crocifisso ligneo, magari lo stesso venerato
poi nel nuovo edificio cultuale sorto nel 1614, al cui
interno ebbe un proprio altare laterale che dal 1659
divenne sede della neonata confraternita “del Santo
Crocifisso”, cui spettava tra l’altro “l’obbligo del
mantenimento del predicatore quaresimale” e che contrariamente a quanto sostenuto dai più - pare non
aver avuto alcun legame con il Crocifisso Bresciani92.
Questo secondo e più ‘moderno’ manufatto scultoreo
trovò posto anche nella successiva chiesa parrocchiale, eretta a partire dal 1780, ove tuttora si trova
sull’architrave dell’arco trionfale93: ovviamente, un
crocifisso coevo o al massimo del secolo precedente
non provocò alcun particolare interesse nel notaio
di Bartolomeo di Porcia, giacché non era altro che
quella “croce, almeno di legno, con l’immagine di
Cristo” perlomeno “dipinta” che durante la successiva visita del 1584/85 - sotto Paolo Bisanti, vicario
generale del patriarca Giovanni Grimani - sarebbe
stata indicata come il principale elemento di ‘arredo’
fra quelli considerati indispensabili per “tutti” gli
altari, “anche i più poveri”94.
Eppure, se non era nella chiesa del “monasterium
Sancti Michaelis Archangeli de Cerveniana”95, ritenuta una delle più antiche abbazie benedettine del
Friuli e che tanta importanza ebbe per Cervignano
nel Medioevo, dove si trovava la monumentale
immagine tridimensionale del Salvatore prima di
arrivare nel sacellum dei Bresciani? A questo proposito l’ipotesi avanzata da Fornasir che la più antica
menzione dell’opera vada attribuita al presule moggese, e quindi la sua datazione al 1570, non è affatto
da scartare, visto che egli vide altri crocifissi magni
durante la sua peregrinatio96.
In primis, egli poté ammirare “un grande crocifisso”
già il giorno seguente, venerdì 10 marzo 1570, “nel
mezzo della tribuna, che è tutta dipinta” dell’altar
maggiore dedicato a san Martino nell’omonima chiesa plebanale del vicino villaggio di San Martino di
Terzo (Fig. 33): “crucifixus magnus in medio tribune
que tutta picta est” recita la minuta, trasformata in
bella copia nella frase “in archu tribune crucufixus
magnus positus est”, ‘nell’arco trionfale è collocato
un grande crocifisso’97. Si nota subito che stavolta
l’aggettivo magnus è già presente nella prima stesura,
ma nel passaggio in bella non viene accresciuto: è
molto probabile che Varisco abbia ritenuto più che
sufficiente definire in quei termini una scultura la
cui ‘grandezza’ era forse legata più all’effetto creato
dalla posizione (appeso al soffitto o fissato alla trave
dell’arco trionfale) che alle dimensioni effettive. In
questo caso, poi, si può solo presumere che si trattasse di un simulacro ligneo: è pressoché certo, ma il
redattore non specificò nemmeno nel brogliaccio la
materia utilizzata dall’ignoto artigiano.
Al momento non esiste dunque alcun indizio a
Fig. 33 - San
Martino di Terzo e
Cervignano nella
mappa seicentesca dei possessi del
Monastero femminile di Aquileia,
conservata nell’Archivio Frangipane di
Joannis, studiata da
R. Härtel nel 1984.
103
il cristo ritrovato
G. Caiazza
favore della pur molto antica pieve sorta lungo la
via Annia98 sulla base del quale si possa ritenere
plausibile l’identificazione del ‘grande crocifisso’
ivi presente nel Cinquecento con quello ora nella
cappella Bresciani: la cui imponenza, a tutta prima,
sembrerebbe piuttosto smentire simile abbinamento.
Per di più, proprio nel 1570 “il beneficio parrocchiale
di San Martino era tanto misero” che di lì a breve il
pievano “dovette abbandonare la cura per non morire
di fame, e la casa presbiterale era talmente diroccata,
ut vix sustineri possit”99. Infine la pieve tuttora celebre
per i suoi affreschi fu sotto la giurisdizione del monastero cervignanese di San Michele fino all’XI secolo,
dopodiché passò con esso sotto le benedettine di
Aquileia100. Anche in questo caso, insomma, bisogna
ammettere che, se nella chiesa vi fosse stato un crocifisso di eccezionale pregio, sarebbe stato trasferito
altrove ben prima della ‘fatidica’ visita apostolica.
Il colosso Bresciani potrebbe allora provenire dall’antica capitale del Patriarcato. In effetti, secondo
certuni studiosi l’opera arriverebbe dalla chiesa conventuale del cenobio femminile aquileiese (all’epoca
in piena attività nella località oggi denominata
appunto Monastero), come afferma “la tradizione
locale” ed in particolare una leggenda che “ritiene
che questo Crocifisso si trovasse sulle prime esposto
alla venerazione dei credenti” proprio “nell’antichissimo Monastero Abbaziale delle Reverendissime
Madri di Monastero presso Aquileia”101 (Fig. 34).
Secondo altri, invece, esso arriverebbe addirittura
dalla Basilica patriarcale102. Ma se nel caso della
località di provenienza una devota leggenda popolare
può effettivamente fungere da appiglio per questa
Fig. 34 - Il
“Monasterio”
benedettino
femminile,
indicato con il
n. 21, circondato
dalla “villa” oggi
omonima, nella
Civitatis Aquilieie
quemadmodum
nunc iacet
fedelissima
topographia,
Trieste 1865.
104
ipotesi (peraltro del tutto plausibile), per quanto
riguarda il sacro edificio per cui il Cristo fu originariamente scolpito essa, come si vedrà, non è di alcun
aiuto: si tratta di mere supposizioni, per quanto non
del tutto inverosimili. E se di primo acchito chiunque sarebbe naturalmente portato a privilegiare l’antica sede metropolitana, a favore della pur potente
abbazia di Sancta Maria extra muros, ricca di diritti,
possedimenti e reliquie103, gioca il fatto che fin dal
1036, con apposita donazione del patriarca Poppone,
il castrum Cirviganum - poi villam de Serviana - fu
infeudato proprio alle monache aquileiesi104, appartenenti per lo più a famiglie friulane e germaniche
fra le più influenti, e forse per questo ritenute spesso
le dirette committenti dell’opera, pur in assenza di
prove persuasive105.
In realtà, ci sarebbe un’altra possibilità, anch’essa
legata alla visita apostolica del 1570.
fra IV e V secolo ad corpora, cioè sulla tomba dei
due martiri, nell’immediata periferia sudorientale
della città, in quell’area cimiteriale sub divo che nel
tempo ha restituito molte sepolture paleocristiane
ad sanctos107, essa era ancora ben distinguibile in
tutta la sua ragguardevole mole (Fig. 35) nelle più
antiche piante ‘topografiche’ note della Civitatis
Aquileie, databili al XVII-XVIII secolo108, ma data la
posizione “troppo appartata e discosta da case” già
nel 1356 il patriarca Nicolò di Lussemburgo ordinò
di “levare i Corpi santi e le reliquie” ivi conservati e
li fece “deporre nella metropolitana” asserendo “che
vi potevan succedere ruberie”109. Ciononostante, nel
XVI secolo questo martyrium si segnalava per tutt’altro: un vero e proprio unicum.
All’interno, da una trave posta al centro della nave
incombeva sui fedeli un “antichissimo” crocifisso
LA PREPOSITURA COLLEGIATA
DEI SANTI FELICE E FORTUNATO
A sud-est della basilica patriarcale aquileiese, in
un’antica area cimiteriale periferica al di là del
fiume Natissa, sorgeva fino alla seconda metà del
Settecento la grande basilica martiriale extramuraria
dedicata ai santi Felice e Fortunato, fatta rientrare
nel perimetro urbano medievale con l’ampliamento
delle mura meridionali e tanto importante nel XII
e XIII secolo da essere sede di una delle due scuole
capitolari attestate in Aquileia e da passare sotto la
protezione diretta della Sede Apostolica, con apposita bolla di papa Alessandro III, nel 1174106. Sorta
ligneo, un “crocione” tanto grande da incutere timore, ma così arcaico nelle fattezze che il 20 febbraio
1570 - quando fu visto da mons. Bartolomeo da
Porcia - pareva che i fedeli non lo ‘comprendessero’
più e, invece di essere da esso spinti alla devozione,
al vederlo fossero indotti al riso: “in medio ecclesiae
super trabe est crucifixus ligneus magnus antiquissimus cuius visione populus potius ad risum quam ad
devotionem excitatur”110.
Confrontando il testo riportato, tratto dalla bella
copia della relazione, con la minuta della stessa, si
nota che anche in questo caso il notaio ha reso più
ridondante la sua prosa: “in medio ecclesie super
trabe est crucifixus ligneus antiquus” recita la prima
stesura, sicché Varisco nel trascrivere ha reso superlativo l’aggettivo indicante approssimativamente l’età
del manufatto e ha aggiunto un magnus non espresso
negli appunti111: rispetto al Cristo della chiesa cervignanese di San Michele c’è sì l’identica aggiunta
dell’aggettivo magnus (che a questo punto si può
considerare un quasi generico riferimento a simulacri
di proporzioni superiori alla media), ma c’è anche
e soprattutto un ulteriore, notevolissimo elemento
supplementare, un commento del tutto singolare.
Circa le manifestazioni popolari descritte, non sappiamo se si intendesse fare riferimento a sorrisi di
sufficienza o a risa di scherno, ma le une o le altre più
che essere attribuite alla (presunta) rozzezza del lavoro scultoreo, avrebbero dovuto essere imputate alla
sua incapacità di ‘comunicare’ correttamente con
gente ormai abituata a ben altri simulacri112: il ‘segno’
doveva aver perso la sua veridicità giacché per la sua
obsolescenza non solo pareva contraddire l’assunto che l’imago Christi meriti l’onore di latria come
Cristo stesso (Bonaventura e Tommaso d’Aquino),
ma addirittura deludere la tradizionale formulazione per cui l’onore reso all’immagine transita al suo
prototipo (Giovanni Damasceno), vanificando così
la funzione tipicamente medievale di suscitare e
sollecitare il fervore del credente (che attraverso
la somiglianza dell’imago visibile adora l’Invisibile),
nonché quasi annullando le altre due ‘giustificazioni’
dell’immagine sacra, di contribuire al mantenimento
della ‘memoria delle cose sante’ e di consentire ai
‘semplici’ di ‘intendere’ i fondamenti della fede e
la storia sacra (funzione ben nota grazie al famoso
motto Biblia pauperum, ma più correttamente esprimibile nella sintesi littera laicorum)113.
Questo, però, agli occhi della gerarchia, poiché
confrontando di nuovo le due versioni disponibili
del resoconto, si ha la netta impressione che nel
commento inserito nel testo dal notaio giochi un
ruolo predominante “la sensibilità, il gusto di chi
ha steso la relazione, che ormai aveva altri modelli
e altri canoni estetici”114: la minuta stesa durante la
visitatio riporta infatti l’esplicito consiglio di sostituzione del crocifisso con le parole “extolatur et alius
apponatur cum ridiculosus sit”, ‘essendo ridicolo, sia
portato fuori e un altro sia collocato’, e la descrizione
si conclude con le frasi “cohoperiatur Christus cum
tela infixa” e “cohoperiatur altare portatile cum tela
infixa”, doppio invito senza mezzi termini a ricoprire
Fig. 35 - “S. Felice
Prepositura”, con
il n. 1, e “S. Felicita”,
con il n. 6, nella
Civitatis Aquilieie
quemadmodum nunc
iacet fedelissima
topographia, Trieste
1865. Tra le due chiese
si nota il “Punt dal
Crist”.
105
il cristo ritrovato
G. Caiazza
completamente con della tela ben fissata sia il crocifisso sia l’altarolo esterno a lui dedicato115. Il fatto
che la descrizione sia stata riformulata ‘mitigata’ al
momento della ricopiatura, fa supporre che l’opinione del visitatore e del suo entourage non coincidesse
affatto con quella del popolo, al contrario di quel che
invece si voleva far credere…
Dall’annotazione circa i presunti atteggiamenti dei
fedeli alla vista del Cristo di San Felice, alcuni
hanno poi frettolosamente dedotto che dovesse
trattarsi di un oggetto “di fattura altomedievale”, ma
a parte il fatto che ad Aquileia e dintorni non sono
noti crocifissi ‘pendenti’ così antichi non è necessario risalire tanto indietro nei secoli: a suscitare i
‘sorrisi’ del visitatore e del suo seguito più che dei
devoti (i quali, per quanto in numero ridotto rispetto
al passato, nella seconda metà del XVI secolo continuavano a frequentare la chiesa) sarebbero state
più che sufficienti le apparentemente disarmoniche
fattezze di un neanche troppo vecchio - per l’epoca
- crocifisso romanico come quello attualmente ospitato a Cervignano, lontanissimo dalla sempre più
perfetta verosimiglianza delle sculture realizzate dal
Tre-Quattrocento in poi, cui ormai si era almeno in
parte abituati116.
Da entrambe le versioni del testo della visita apostolica, risulta comunque chiaramente che la trabs
sormontata dal crocifisso non era quella dell’arco
trionfale detta magna, né tanto meno “una cèntina
del soffitto” e neppure quella “della iconostasi”117,
bensì una trave ubicata appositamente in medio
ecclesiae e dunque posizionata grossomodo al di sopra
dell’altare marmoreo non consacrato posto “fuori
del coro, nel mezzo della chiesa (…) privo di pala”
e “attorniato da colonnine marmoree” secondo il
modello già noto degli altari ‘mediani’ (si possono
ricordare almeno quello esistito nell’aula sud della
cattedrale aquileiese e i due attestati nelle altrettante aule antiche di Parenzo), altare che lo stesso
Bartolomeo di Porcia volle fosse reintitolato a San
Giovanni Battista, trasferendo ad esso “tutti i titoli,
gli emolumenti e gli oneri pertinenti alla chiesetta”
giovannea ubicata a sud della chiesa patriarcale
presso il Natissa (poco prima del ponte diretto alla
‘terra di San Felice’), incorporata alla prepositura
dal 1363 e più nota come Santa Felicita (forse il
titolus originario di questa cappella, in precedenza
officiata dai prebendari della metropolitana), che egli
trovò “ormai quasi distrutta” e dalla quale ordinò di
“togliere le travi e le tegole ancor buone dal tetto
per provvedere alle accomodature necessarie nella
106
prepositura di San Felice”118. Risulta evidente che
nel XVI secolo la Ecclesia Colegiata Sancti Felicis et
Fortunati, chiesa a tre navate divise da otto coppie
di colonne dedicata ai due fratelli martiri, era ancora
quella “struttura a sovrapposizioni” d’epoca romanica
formata da “un insieme di sotto-parti ciascuna delle
quali conserva un’autonomia più o meno pronunciata” pur “all’interno di un unico edificio”: era ancora
lo “spazio ‘reale’” nel quale si erano visti “proiettati” i
sacri simulacri quando la tendenza alla raffigurazione
tridimensionale era divenuta “generale”, quando il
linguaggio visivo (i verba visibilia di sant’Agostino) si
era decisamente indirizzato verso la rappresentazione
plastica (che Dante avrebbe poi definito “visibile
parlare”), in quello stesso secolo XII che aveva visto
la “rifondazione” del dogma eucaristico, il corpus
Christi sacramentale, il Verbo incarnato119.
Alcuni studiosi - forse persuasi dal ‘credo’ popolare
- avevano ipotizzato che il crocifisso venerato a San
Felice fosse quello “miracoloso, bene conosciuto e
molto venerato in Friuli” oggigiorno esposto sull’altare eretto nell’apposita nicchia della navata nord
della basilica patriarcale aquileiese e che “da data
immemorabile viene portato in processione per
implorare, in tempo di pubbliche calamità, qualche
grazia particolare e specie contro la siccità”120: ma ciò
non è possibile, in quanto se è ben vero che l’origine
di quel gran crocifisso ligneo soprannominato ‘Cristo
dei miracoli’ è piuttosto oscura, è impensabile che
nel 1570 si definisse ‘antichissimo’ un simulacro del
XV secolo se non addirittura quasi coevo, per il quale
già il concetto di antichità sarebbe stato meno appropriato di quello di semplice vecchiaia121.
Scartata questa proposta infondata, è invece doveroso ricordare che quello che i documenti chiamano
“il Cristo di San Felice” era oggetto di venerazione
da tempi ben più lunghi, tanto che tutta la toponomastica del borgo sudorientale di Aquileia era chiaramente ‘segnata’ dalla sua presenza (constatazione
che ribadisce quanto detto a proposito del ridiculosus
affibbiato nella minuta della visitatio al crocifisso…):
il terreno circostante la basilica martiriale, porzione
principale dell’antica terra Sancti Felicis, ‘terra di
San Felice’, (Fig. 36) divenne in linguaggio locale la
braida dal Crist, ‘braida del Cristo’; la roja dal mulin di
Munistìr, ‘roggia del mulino di Monastero’, dopo la
grande ansa meridionale prese il nome popolare di
roja dal Crist; il ponte ad una campata che permetteva di superarla, in origine pons Sancti Felicis, ‘ponte
di San Felice’ (poco a ovest dell’arc di San Filìs, ‘arco
di San Felice’, tratto delle mura medievali che sca-
valcava il fiume racchiudendo nella civitas questa
basilica con il suo territorio), fu poi chiamato punt
dal Crist, ‘ponte del Cristo’; infine lo stesso edificio
sacro di origini martiriali finì per essere significativamente ribattezzato “la chiesa detta del Cristo di San
Felice”122. Isolati toponimi di questo tipo sono alle
volte giustificati dalla semplice vicinanza di uno dei
tanti crocifissi votivi che un tempo punteggiavano le
strade del Friuli insieme alle numerosissime ancònis
dedicate alla Vergine e ai Santi, ma - per quanto
venerato - uno di tali simulacri non sarebbe stato
in grado di ‘improntare di sé’ l’intera toponomastica
della zona, come invece è capace di fare un’imago
sacra venerata in un santuario e magari ritenuta
miracolosa123. Si confronti il caso della ‘Madonna
delle Grazie’ di Udine: l’icona posta nella basilicasantuario nel 1479 ha ‘segnato’ poco a poco l’intero
circondario, dal titolus dell’edificio sacro (già chiesa
dei Santi Gervasio e Protasio) al nome dello spiazzo
antistante (largo ‘delle Grazie’), della stradina laterale (vicolo ‘delle Grazie’), del passaggio sulla roggia
(ponte ‘di Santa Maria delle Grazie’), del mulino
che un tempo vi sorgeva accanto (mulino ‘delle
Grazie’), dell’intero quartiere (da via Liruti a borgo
Pracchiuso, in friulano contrade ‘des Gràziis’), ecc.124
(Fig. 37).
Nel 1570, inoltre, “sotto il portico fuori di detta chiesa” dei Santi Felice e Fortunato si trovava “un altare
non consacrato dedicato al Cristo di San Felice”,
dotato tra l’altro del già citato “altarolo portatile” e
circondato da una recinzione lignea “così che vi si
possa guardare dentro da ogni lato”: “sub portichu
extra dictam ecclesiam est altare non sacratum dicatum Christo Sancti Felicis ornatum (…) altariolo
portatili (…) circumseptum est assibus ita ut intus
undique videri possit”125. Il basso atrio addossato ad
una parte della facciata dell’edificio basilicale era
la porzione superstite dell’antico nartece ed al suo
interno custodiva la vuota statio devozionale dedicata all’imago Christi venerata al centro della basilica: data la descrizione fornita dal notaio al seguito
del visitatore apostolico, possiamo scartare l’ipotesi
che sopra l’altarolo trovasse spazio un affresco, ma
in ogni caso quell’umile signum devotionis doveva
essere sentito molto ‘vicino’ dalla gente aquileiese
se nel 1769 l’arcivescovo di Gorizia Carlo Michele
d’Attems (dieci anni dopo la sua visita pastorale nei
cui atti è ricordata anche la chiesa “dei Santi Felice
e Fortunato in Seminario” con i circostanti “desolati
casali di San Felice”) acconsentirà all’abbattimento della basilica “con condizione che la Capella
Fig. 36 - La ‘terra
di San Felice’
con i toponimi
‘influenzati’
dal Cristo in
essa venerato
(elaborazione
condotta sulla
Civitatis Aquilieie
quemadmodum
nunc iacet
fedelissima
topographia,
Trieste 1865).
del Crocefisso resti, e venghi meliorata”, sicché si
effettuò la stima del valore dei muri “avendo però
lasciato di misurare” nell’atrio “li muri che serviva
per formare una Capella”, quella stessa “cappella del
Cristo con due colonnine di calcare alte m 1,35” che
alla fine di maggio del 1775 è ancora in piedi insieme
all’intera facciata mentre procedono la demolizione
dell’edificio e la vendita dei materiali così ricavati
dalla chiesa “diroccata”, di cui due anni dopo resterà
il solo campanile e nel 1813 non rimarrà quasi più
traccia (molto tempo dopo, gli archeologi recupereranno varie testimonianze, fra cui il bassorilievo
non finito in pietra calcarea del IV-V secolo recante
i busti affrontati dei ‘principi degli apostoli’ Pietro
e Paolo, ora esposto al Museo Paleocristiano di
Monastero), ultimata la demolizione del “campestre
terrazzo” posto a dividere il terreno circostante dal
“girone” della chiesa126. Riprendendo il confronto
proposto poc’anzi con il santuario mariano di Udine,
chiunque oggi varchi l’ingresso di quest’ultimo può
Fig. 37 - L’area
circostante la
basilica delle Grazie
a Udine con i
toponimi da
essa ‘influenzati’
(elaborazione
condotta sulla
Pianta della regia
città di Udine di
Antonio Lavagnolo,
1842/50 ca.)
107
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 38 - Attuale
“ufficio delle letture”
dei santi martiri
Felice e Fortunato
(da Liturgia 1990).
immediatamente ammirare sulla parete destra dell’atrio una riproduzione della Madonna delle Grazie,
‘copia’ che è oggetto della venerazione dei fedeli
esattamente come l’icona ‘originale’ custodita nel
santuario: proprio quel che doveva accadere ad
Aquileia, laddove i fedeli avevano il primo contatto
con una ‘emanazione’ del Cristo ‘di San Felice’ fin
dal momento in cui entravano nell’atrio dell’antica
ed imponente basilica.
UN ‘TRASLOCO’ PROBLEMATICO
Secondo la “pia credenza” che lo riguarda, il Crocifisso
sarebbe arrivato da Aquileia durante una processione
tenutasi in epoca imprecisata ma “remotissima” per
impetrare il dono della pioggia: messo al riparo nella
cappella a causa dell’improvviso scatenarsi di un
temporale, esso non avrebbe più ‘voluto saperne’ di
essere spostato altrove127.
Benché la leggenda citata venga solitamente riferita
all’antico monastero delle ‘reverendissime madri’
di Aquileia, è evidente come il racconto si attagli
in particolare all’ultima delle ipotesi presentate:
la memoria liturgica annuale dei martiri Felice e
Fortunato, che oggi si festeggia il 13 agosto (Fig. 38),
in passato si celebrava in universa Aquileiense diocesi
il giorno seguente 14 agosto, corrispondente al dies
natalis dei due santi tramandato dalla tradizione aquileiese e ribadito dal Martirologio Geronimiano128.
Da sempre in Friuli l’ottavo mese è il più siccitoso
dell’anno civile, sicché è verosimile che - se davvero
ebbe luogo… - la processione abbia lasciato Aquileia
proprio verso la metà di agosto, periodo caratterizzato
peraltro da improvvisi acquazzoni, violenti scrosci
di pioggia di breve durata che iniziano e terminano
bruscamente, fatto che rende un po’ meno inverosimile che la ‘mitica’ processione possa essere partita
proprio dal santuario meridionale.
Resta però il fatto che, come nessuna delle numerose processioni che si svolgevano nell’ambito del
convento benedettino femminile di Aquileia è documentata diretta a Cervignano, così fra le solenni
celebrazioni attestate nella prepositura intitolata ai
santi Felice e Fortunato (feste dei titolari e dei santi
Michele, Caterina e Nicola, ai quali erano dedicati
gli altari secondari posti nelle cappelle interne) non
si ricorda alcuna processione che prevedesse il trasporto del Cristo129. Né esso era ‘interessato’ (la cronaca del 1570 fornisce chiare indicazioni) dalle processioni metropolitane che coinvolgevano l’edificio
in cui si trovava: nella solennità della Purificazione
108
popolarmente nota come ‘Candelora’, dalla cattedrale si andava fino alla collegiata, ove si benedicevano
le candele che poi si distribuivano ai partecipanti; il
“primo giorno di Quadragesima”, dopo l’imposizione
delle ceneri nella chiesa madre, si raggiungeva la
prepositura cantando e lì si leggevano “i sette psalmi
penitenziali”, per poi tornare in cattedrale a celebrare
la messa e concludere l’ufficio liturgico; la domenica
delle Palme dalla basilica metropolitana (Fig. 39) in
processione ci si portava a San Felice per la benedizione degli ulivi, dopodiché si rientrava cantando
al punto di partenza per concludervi la messa comprendente “il passio”; il giorno di san Marco evangelista la basilica a sud del Natissa doveva essere una
delle tappe intermedie della “processione de letania
maiori” che pregava peregrinando “per sette chiese”
(ultima quella d’Ognissanti), così come essa doveva
essere ‘toccata’ dalla processione solenne che andava
“attorno la città” in occasione del “dì del corpo de
nostro Signore” (il Corpus Domini)130.
Oltretutto, se la cittadina era raggiungibile dall’at-
tuale località di Monastero in circa due ore di cammino131, essa distava un’ulteriore mezz’oretta dalla
terra Sancti Felicis e pensare ad un corteo orante della
durata di cinque o più ore (il rientro risulta sempre
inevitabilmente più lento rispetto all’andata…) pare
francamente esagerato, tanto più considerando le
obiettive difficoltà che si sarebbero incontrate nel
portare “a braccia di uomini” una statua tanto grande e, per quanto cava, comunque di un “venerabile
peso”132.
Al di là dell’effettiva provenienza dell’oggetto, va in
effetti sottolineato un elemento che di solito viene
ignorato o ingiustamente dato per scontato. Un
crocifisso di proporzioni così ‘esagerate’ fu senz’altro
commissionato e realizzato per un edificio di culto
di grandi dimensioni, sia in senso puramente architettonico sia in senso specificatamente ecclesiastico:
ma non allo scopo di portarlo in processione, bensì
come parte integrante della suppellettile sacra, cioè
come ornamentum (nel senso letterale di ‘elemento
indispensabile’) ecclesie per antonomasia, pezzo scultoreo policromo di prim’ordine dell’arredo liturgico
da esporre (permanentemente dal XII secolo) alla
venerazione dei fedeli in posizione eminente133.
Spesso ci si dimentica che esso nacque e fu ‘vissuto’
innanzitutto come uno degli “strumenti sussidiari
della preghiera e delle pratiche di devozione” che si
svolgevano all’interno della basilica, strumenti le cui
funzioni erano ovviamente legate alla sfera religiosa
ma precisamente ai riti liturgici comunitari o alla
venerazione individuale che la Chiesa (comunità)
svolgeva nello spazio pubblico costituito dalla chiesa
(edificio)134. La semplice descrizione già ricordata del
Crocifisso della basilica dei Santi Felice e Fortunato
“in medio ecclesiae super trabe” è sufficientemente
esplicita al riguardo: anche da questo punto di vista,
dunque, giunge una conferma all’ipotesi avanzata.
D’altronde, come si è su accennato, è del tutto
improbabile che si tratti di un crocifisso ‘da processione’: mentre infatti la crux processionalis o portabilis
fu impiegata in apertura di cortei liturgici fin dai
tempi più antichi, dapprima impugnata direttamente
(come le più piccole croci ‘da benedizione’, fornite di
corta ‘manopola’ sottostante) e in un secondo tempo
mediante un’asta appositamente innestata in corrispondenza della terminazione inferiore del braccio
verticale (croce astìle) o afferrando il prolungamento
verso il basso del cosiddetto ‘montante’135, l’uso di
portare in processione grandi sculture raffiguranti il
Cristo sulla croce è molto più recente, tanto che le
pur diffusissime “grandi croci decorate” recanti la tri-
dimensionale imago crucifixi sono databili “non prima
del XVII secolo”136.
È chiaro, quindi, che la notizia della processione
al termine della quale l’opera in questione sarebbe
rimasta nella cappella Bresciani va considerata con la
massima cautela: se durante il basso medioevo fosse
esistito davvero un ‘cammino di preghiera’ seguendo il quale i fedeli dell’epoca usavano spostarsi da
Aquileia a Cervignano, il relativo corteo non avrebbe potuto che essere preceduto da una croce astile, o
al massimo da un diverso modello di croce portatile
(magari appartenente a qualche confraternita), ma
assolutamente non da un crocifisso processionale,
troppo in anticipo sui tempi e, nel caso in questione,
dimensionalmente davvero fuori misura. Il fatto poi
che il busto e il bacino del colosso all’interno risultino “accuratamente svuotati in fase di lavorazione”137,
non indica affatto la volontà di alleggerirlo per
Fig. 39 – Basilica
cattedrale
metropolitana di
Aquileia (G.C.).
109
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 40 - Il crocifisso
mezzo secolo fa,
nella nicchia
cruciforme fatta
realizzare da Enrico
Peteani von Steinberg
nel 1889 (da MARCHETTINICOLETTI 1956).
renderlo atto al trasporto: il tronco scelto per essere
lavorato veniva sempre preventivamente ‘scavato’
ma al fine di evitare spaccature durante la stagionatura e l’incavo poteva rimanere aperto qualora la
statua fosse destinata ad una fruizione tale da non
permettere la visione di tale ‘vuoto’138, esattamente
come nel nostro caso, ove il ‘retro’ del crocifisso era
fissato ad una croce lignea (che quindi ne impediva
la percezione) e lo statuario insieme era rizzato su una
robusta trave posta ad una certa altezza da terra.
Fino al XVII secolo, dunque, quel crocifisso non avrebbe potuto essere portato in corteo ed anche in seguito
ciò sarebbe potuto accadere solo in rare occasioni,
come i particolari ‘cammini’ organizzati per impetrare
il dono dell’acqua piovana in anni di grande siccità
(è rimasto memorabile quello del 1939, vd. infra): se
circostanze simili si fossero verificate effettivamente,
la prima volta avrebbe potuto coincidere proprio con
il ‘cambiamento di sede’ della statua, ma oltreal fatto
che tale evento avrebbe comunque potuto verificarsi
solo a partire dal Seicento e che la ricostruzione cronologica fin qui proposta già induce a ritenere che
non sia mai avvenuto, tra breve si avrà un’ulteriore
conferma: all’alba di quel secolo (e forse non da poco)
il colosso era già nella cappella Bresciani!
Riassumendo: è più che verosimile che il Crocifisso
Bresciani non si sia affatto ‘mosso’ all’interno di
Cervignano ma vi sia giunto da Aquileia; non però
dal monastero femminile o dalla basilica patriarcale,
bensì dal santuario dei Santi Felice e Fortunato;
pertanto è altamente probabile che il ‘Cristo della
Contessa’ non sia altri che il ‘Cristo di San Felice’,
da qualcuno definito “ridicolo” ma da molti veneratissimo (Fig. 40).
CRONOLOGIA DI UN ARRIVO
Analizzata la questione della provenienza dell’opera,
resterebbe da capire quando e perché avvenne il trasferimento dalla sede originaria alla cappella della
villa Bresciani. In base agli elementi finora raccolti
e qui presentati, l’inizio del XVII secolo potrebbe
essere la data dell’arrivo del crocifisso ligneo nella
chiesetta: eppure finora si è ipotizzato tutt’altro.
Secondo Fornasir il ‘trasloco’ sarebbe avvenuto dopo
il 1780, in occasione dei lavori di ricostruzione della
chiesa matrice cervignanese dedicata all’arcangelo
Michele, che fu consacrata nel 1833139. Che il ‘trasloco’ sia stato effettuato all’inizio provvisoriamente
ed abbia solo in un secondo tempo assunto carattere
definitivo, cosicché l’oratorio gentilizio affacciato
110
sull’odierna via Trieste sia passato da sede temporanea a ‘dimora’ permanente, può essere un’ipotesi
condivisibile, ma già vent’anni fa Rossetti dimostrò
che Fornasir “erra il periodo in cui sarebbe avvenuto
il trasferimento”, non accorgendosi “di una singolare
contraddizione”140.
La leggenda di cui si è detto fu infatti tramandata dal
barone Francesco Bresciani (1814/78), che affermò
di averla intesa “costantemente ripetere dai vecchi
della sua famiglia e dai più anziani del paese” e di
essere consapevole di come essa faccia riferimento
ad una processione svoltasi in epoca “remotissima”:
ora - nota giustamente Rossetti - se il trasloco “fosse
effettivamente avvenuto alla fine del Settecento, il
padre di Francesco (Girolamo Maria, 1773-1850) o
lo zio (Antonio Francesco, nato nel 1768) o ancor
meglio il nonno (Giuseppe, 1731-1807) non avrebbero certo dato credito alla leggenda, dal momento
che almeno l’avo avrebbe potuto assistere di persona
- viste le date - all’ipotetico spostamento”; ed in
tal caso, annota ancora lo studioso, “non avrebbe
quindi senso l’affermazione del barone Francesco”141.
D’altronde, i coniugi Enrico e Maria Peteani von
Steinberg nella loro Memoria del 1890 confermarono
la cronologia relativa attribuita al barone Francesco
allorché affermarono chiaramente che il “venerabile
colossale crocifisso di legno” si trovava “esposto alla
devozione della famiglia e dei fedeli” nella cappella
Bresciani “da tempo immemorabile” e non da poco
più di un secolo142.
Ma Rossetti aggiunge qualcosa ancor più importante:
“una notazione” riportata da Molaro nel suo libro
del 1920 ma sfuggita a Fornasir, nella quale “il primo
storico di Cervignano riprende una frase del testamento del cav. Gio. Pietro de Bresciani (anno 1680
circa)” in cui il testatore menziona “quel benedetto
crocifisso che da tempo si venera nella nostra cappella di casa”143. Si è già accennato a questa importante
testimonianza a proposito delle origini dell’oratorio
gentilizio, ma bisogna sottolineare che essa risulta
ancor più rilevante per ricostruire la cronologia dell’arrivo del grande Cristo ligneo in loco: infatti non
soltanto attesta che esso si trovava già all’interno del
complesso dominicale intorno al 1680, dunque almeno cent’anni prima del periodo 1780-1883 al quale si
continua a fare riferimento, ma soprattutto che era
stato ‘portato’ nella chiesetta (quella menzionata dal
cavaliere Giovanni Pietro era la versione precedente
- e forse primitiva - di quella attualmente visibile
e visitabile, che come detto fu aucta da Giuseppe
de Bresciani nel 1692, ovvero dodici anni dopo)
quanto meno da alcuni decenni, considerando che
altrimenti nel 1680 ca. nessun uomo adulto avrebbe
adoperato l’espressione “da tempo”. Nel momento in
cui dettò le sue volontà, ancorché presumibilmente
corpore sano, il testatore doveva infatti avere circa
trentott’anni (era nato nel 1642, era stato nominato cavaliere del Sacro Romano Impero insieme
ai fratelli e al padre nel 1653 ed aveva sposato la
contessa Maria Novelli nel 1669): il fatto che egli
non si ricordi dell’arrivo del crocifisso nella cappella
di famiglia (Fig. 41), significa che esso doveva essere
avvenuto prima della sua nascita, grossomodo entro
il quarto decennio del Seicento; ma il fatto che le
sue parole siano così vaghe, fa ipotizzare che l’evento
risalga ad un momento nettamente anteriore, sicché
è plausibile che il ‘viaggio’ sia avvenuto al massimo
nei primi decenni del XVII secolo, dunque durante
la giovinezza del padre, ser Giovanni Domenico,
nato nel 1590. O più probabilmente ancor prima
di tale data, nel corso dell’ottavo-nono decennio
del Cinquecento, giacché parrebbe quanto meno
strano che il genitore in caso contrario (cioè avendo
coscientemente assistito all’evento) non ne avesse
tramandato al figlio la data, perlomeno in maniera
approssimativa. Purtroppo di Antonio de Bresciani,
padre di Giovanni Domenico e nonno di Giovanni
Pietro, non si hanno notizie, all’infuori di una possibile identificazione con quell’Antonello Brexano
che è il primo cervignanese con quel cognome
ad essere menzionato nell’urbario parrocchiale del
1559, “camerario uscente” della chiesa madre di San
Michele144.
Se la sede originaria fosse stata la badia cervignanese
intitolata all’arcangelo, il trasferimento avrebbe davvero potuto aver luogo “in occasione del rifacimento
della chiesa nel 1613-14 o non molti anni più tardi”
come qualcuno ha ipotizzato145: ma, come si è visto,
l’ipotesi che il crocifisso abbia seguito un semplice
percorso interno alla città non regge. Se invece si
trattò della basilica dei Santi Felice e Fortunato come si propone - l’occasione ideale avrebbe potuto
essere proprio tra la fine del XVI e l’inizio del XVII
secolo, considerando che già nel 1570 si constatò una
situazione piuttosto precaria dell’edificio, al cui interno non si conservavano più, ormai né il Santissimo
né alcuna reliquia, e per di più si registravano arredi
mancanti, infiltrazioni d’acqua, muffe sulle colonne,
ambienti inutilizzabili (es. la sagrestia) e guasti alle
mura, al tetto ed ai mosaici pavimentali146. Oltre a
ciò, come si è già visto, il visitatore Bartolomeo di
Fig. 41 - L’interno
della cappella in una
fotografia di quasi
trent’anni or sono
(da ROSSETTI-D’ANTONIO
1979).
111
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Porcia chiese l’immediata copertura del “ridicolo”
crocifisso e ne ‘suggerì’ vivamente la sostituzione:
fatto che potrebbe essersi effettivamente verificato
entro un brevissimo lasso di tempo…
Dopo quasi quindici anni, infatti, il 4 febbraio 1585
il vescovo Cesare de Nores - visitatore per conto di
Paolo Bisanti, vicario del patriarca commendatario
Giovanni Grimani - osservò che, a parte “l’arca
con le reliquie dei santi martiri titolari” retrostante
l’altar maggiore (arca che noi in realtà sappiamo
vuota dal 1356 per volontà del patriarca Nicolò di
Lussemburgo), la chiesa era pressoché priva di tutto
(“indiget multis sed nihil habet”), i canonici ab
immemorabili tempore non vi risiedevano più e “da
tempo non (vi) si esercitava la cura” a parte le messe
festive, sicché dispose l’immediato sequestro delle
rendite di decano, preposito e canonici (all’epoca
nove) affinché si provvedesse all’acquisto delle suppellettili necessarie e alla riparazione dell’edificio
cultuale dell’insigne prepositura ormai decaduta147.
A neanche dieci anni di distanza, il 2 aprile 1594 il
reverendo Giovanni Battista Scarsabon - per conto
del patriarca commendatario Francesco Barbaro visitò nuovamente la “chiesa collegiata dei Santi
Felice e Fortunato”, lasciando precise disposizioni
riguardo al decoro di quella che pare una chiesa
semi-abbandonata, ordinando tra l’altro di “togliere
i calcinacci” e “imbiancare le pareti del vestibolo”
(quello che un quarto di secolo prima era stato definito porticus)148. Infine, il 3 marzo 1603 il beneficio
della prepositura di San Felice - rimasto vacante - fu
unito alle rendite del nuovo Seminario patriarcale
fondato a Udine (Fig. 42), segnando la conclusione
dall’esistenza giuridica della plurisecolare istituzione
ecclesiastica, la cui basilica l’11 dicembre 1624 fu
visitata da un rappresentante del patriarca Antonio
Grimani, che sullo stato materiale dell’edificio lasciò
ben poche annotazioni, tra cui la conferma dell’esistenza di un altare di San Giovanni (presumibilmente quello reintitolato da mons. di Porcia) oltre ad
un solo altare secondario (mezzo secolo prima erano
almeno tre…), dedicato a San Carlo (titolus nuovo)
e pure molto malridotto, ed all’altar maggiore con
l’arca priva delle reliquie dei martiri149.
È del tutto evidente che in un luogo di culto sempre
più ‘vuoto’ nonostante le piccole riparazioni di volta
in volta effettuate al complesso in degrado, non si fa
più alcun cenno al gigantesco ‘Cristo di San Felice’
dopo il 1570. È dunque più che verosimile ipotizzare che il crocifisso sia stato spostato altrove molto
tempo prima che Giandomenico Bertoli constatasse
112
la scoperchiatura del tetto della basilica martiriale
(1730) e l’arcivescovo goriziano Carlo Michele
d’Attems acconsentisse alla sua demolizione (1769),
essendo parocho di Aquileia, cioè “pievano per parte
della Parochiale di San Giovanni”, il sacerdote
Antonio de Bresciani150.
L’analisi dei dati documentari non solo conferma, ma
addirittura precisa la ricostruzione proposta a partire
dallo studio del crocifisso come elemento dell’arredo
liturgico. Dunque, in base alle informazioni desumibili dalle visite pastorali, supportate dalle deduzioni
suesposte di ordine genealogico, si potrebbe datare
la ‘partenza’ della scultura da San Felice al quindicennio compreso fra il 1570 ed il 1585, quand’era
preposito di San Felice il sandanielese Volconio de’
Volconii: incaricato dal patriarca Giovanni Grimani
il 29 settembre del ’70, questi mantenne la prepositura fino al 1591 e forse fu l’ultimo della lunga serie151.
In quel torno di tempo, molto probabilmente già fra
il terzultimo ed il penultimo decennio del XVI secolo (si ricordi che Giovanni Domenico de Bresciani,
nato nel 1590, non raccontò al figlio di aver vissuto
l’episodio, e questi, testando nel 1680, ricordò senza
precisione il crocifisso “che da tempo si venera…”), il
‘Cristo di San Felice’ lasciò - per così dire - il posto al
‘Cristo della Contessa’ o ‘crocifisso Bresciani’. Cioè,
lungi dallo scomparire, il ridiculosus simulacro sacro
continuò ad assolvere al meglio le funzioni fin dal
VII secolo riconosciute alle immagini religiose, tanto
più evidenti nel caso di una figura tridimensionale
perennemente esposta alla venerazione dei fedeli.
Restano da chiarire nel dettaglio le vicende che lo
portarono dalla basilica dei santi martiri Felice e
Fortunato fino a Cervignano, ma successivi studi permetteranno senz’altro di approfondire ulteriormente
i vari passaggi e gli eventuali intermediari, uno dei
quali potrebbe essere stato il nobiluomo tarcentino Giuseppe de Frangipane, che fu parroco di San
Michele - sotto la giurisdizione delle benedettine
aquileiesi - dal 1567 al 1597, dunque ben prima di
quel Paulo Bressano che ne fu il quarto successore, dal
1617 al 1650, ed il cui cognome potrebbe facilmente… sviare l’indagine152.
Dopo essere ‘giunto’ nella cappella gentilizia della
villa Bresciani, il gran Re (si noti la riseca intorno
alla testa: probabilmente non è originaria e potrebbe
essere stata prodotta per incoronare il Cristo non con
una calotta di spine ma con una vera e propria ‘insegna di sovranità’) “restò nella piccola costruzione,
gelosamente protetto dall’affettuosa cura della nobile
famiglia proprietaria e dall’assidua devozione popola-
Fig. 42 - In questa
piccola veduta
prospettica, nel 1752 F.
Leonarduzzi assegnò
il n. 1 al palazzo del
Seminario costruito
a Udine nel primo
Seicento (collezione
coppola).
re”, testimoniata anche dagli ex-voto tuttora affissi
alle pareti della piccola sacrestia adiacente153.
Certo, rimane anche da capire perché sia stata decisa
la ‘partenza’ del grande manufatto: considerando
che “l’orientamento della spiritualità collettiva” era
ancora favorevole alla ‘fortuna dell’immagine’ (come
confermano, per es., la sopravvivenza dell’edicola
devozionale ‘del Cristo’ nell’atrio basilicale quanto
meno fino al 1775 e la sovrabbondanza di toponimi
‘cristologici’ in un’ampia area circostante), l’ipotesi
più logica pare quella della ‘volontà’ di ottemperare
al decreto del primo visitatore apostolico tridentino
e al contempo tutelare la venerata statua. Su di essa
infatti non solo pendeva più che metaforicamente il
biasimo di Bartolomeo di Porcia, ma letteralmente
gravava anche la pessima situazione del santuario:
la permanenza del Cristo nella periclitante chiesa
di San Felice avrebbe comunque potuto metterne a
repentaglio la sopravvivenza!
Nulla è per il momento possibile precisare circa i
dettagli del trasferimento, per il quale si potrebbe
perfino ipotizzare un percorso ‘a tappe’: il Cristo di
San Felice potrebbe essere stato ‘ricoverato’ temporaneamente in qualche altro sacro edificio di
Aquileia (nella cattedrale patriarcale, nella chiesa
delle benedettine o nella parrocchiale), dal quale
sarebbe poi stato ‘prelevato’ in un secondo tempo
per interessamento di un intermediario al momento
non identificato (forse lo stesso de Frangipane) e che
comunque è plausibile abbia vissuto qualche decennio prima di pre Paolo Bressano e molto prima di don
Antonio de Bresciani.
TRA FRIULI E SÜDTIROL
Quanto alla genesi materiale del sacro simulacro,
in questo stesso volume si evidenzia giustamente
una ‘pista’ pusterese d’epoca romanica ed il ‘debito’
della scultura lignea monumentale nei confronti
dell’oreficeria154. Rimandando al valido contributo
di Luca Mor, in questa sede si ritiene opportuno presentare quello che pare un tassello importante nella
ricostruzione storica della genesi del ‘Crocifisso della
Contessa’/’Cristo di San Felice’. Il Museo Diocesano
di Brixen-Bressanone, infatti, custodisce da oltre
quarant’anni il crocifisso mutilo proveniente dalla
cappella di Lamprechtsburg-Castel Lamberto presso
Bruneck-Brunico, datato al decennio 1140-1150,
epoca dell’eminente episcopus brissinensis Hartmann:
benché privo degli arti e dal busto pesantemente
rimodellato in epoca moderna, esso conserva impressionanti affinità con il Cristo di Cervignano.
Il perizoma (Fig. 43) rientra a pieno titolo nel gruppo dei ‘gonnellini’ ottenibili per ripiegamento di
una tunica di cui Mor offre un’ampia panoramica:
la piegatura triangolare anteriore, ovvero quella
113
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 43 - Perizoma
del crocifisso della
cappella di Castel
Lamberto, 1140/50 (da
SEMFF 1980).
114
evidente “pezza di stoffa” che “scende fra le cosce”
quasi “asse di simmetria”, e le due pieghe verticali
“del tessuto sui fianchi” rimandano direttamente
al piatto ‘triangolo multiplo’ anteriore, al riporto
pendente dal nodo frontale e alle tre pieghe laterali
del crocifisso Bresciani, nonostante la “sciancatura”
sette-ottocentesca abbia eliminato su entrambi i
fianchi del manufatto sudtirolese i due ‘avvolgimenti’ a livello della ‘cintola’, che peraltro “si trova di
poco sotto l’ombelico” come a Cervignano155. L’unica
differenza evidente risiede nella resa del nodo, che
non è strettamente legato, triangolare e tondeggiante
come nel caso friulano: Mor identifica tutta una serie
di ‘parentele’ proprio in riferimento al perizoma e al
sistema di annodatura, ma nulla vieta di considerare
il torso di Castel Lamberto fra i ‘capostipiti’ del gruppo, che secondo M. Semff “sembra fosse diffuso dal
XII secolo fino alla metà del XIII” e manifesta “singolari e specifiche tendenze” sudtirolesi rilevabili anche
in area sveva nel XII secolo per via di una “naturale
interdipendenza” e di influssi comuni provenienti
dall’Italia per il “rigore astratto della modellatura”,
assunti che dimostra portando diversi esempi, primi
fra tutti il crocifisso di Nonnberg a Salisburgo e
quello di Sigmaringen, nei quali “il grande e rotondo
nodo centrale è legato stretto” come a Cervignano156.
D’altronde, il XII secolo - che Jacques Le Goff ha
giustamente definito l’“epoca del grande fermento
occidentale” e della “rinascita europea”157 - è il culmine di quello straordinario periodo “di libertà per
le immagini e di eccezionale creatività iconografica”
che caratterizza l’arte romanica occidentale, in cui la
‘manovra’ è a tal punto lasciata alla discrezione dell’artifex che neppure l’usuale riferimento ad un’opera
ritenuta degna di venerazione e d’incontestabile prestigio gli impedisce di trasformare il modello “sotto la
copertura dell’omaggio che gli rende”, sicché “i temi
iconografici si moltiplicano, senza mai lasciarsi racchiudere in tipi figurativi immutabili e strettamente
codificati”158.
L’attuale frammento conservato a Bressanone è alto
73,5 cm, ovvero meno della metà dell’identica porzione della monumentale scultura conservata nella
cappella Bresciani (altezza 239,5 cm: solo il ‘torso’
163,3 ca.), ed è realizzato in legno di tiglio, mentre
il crocifisso ‘della Contessa’ è ricavato da un unico
tronco di pioppo (suppedaneo compreso): questi due
elementi, insieme alla resa semplificata dei panneggi
e del nodo, depongono a favore di una realizzazione
del Cristo ‘di Bressanone’ avvenuta qualche tempo
prima, nella medesima ‘temperie’ artistica benché ad
un diverso livello progettuale159. Allo stesso ambito
potrebbe appartenere pure il ‘Palmesel’ della chiesa
veronese di Santa Maria in Organo160, che però è
chiaramente successivo ai due simulacri in questione,
nonché a quello che dovette essere il prototipo della
serie di crocifissi ‘aretini’ (e di altre località della
Toscana) ai quali già E. Carli aveva accennato e che
in anni recenti sono stati restaurati ed almeno in
un caso riferiti a “un artista non italiano” all’opera
nell’ultimo decennio del XII secolo161. A proposito di
questo gruppo di sculture centroitaliane, è del tutto
verosimile che il ‘pezzo’ più vicino al mondo germanico sia appunto il Cristo ritoccato da Margarito
d’Arezzo nel 1264 ma originario della seconda metà
del XII secolo: nonostante alcune evidenti differenze, esso presenta infatti i maggiori punti di contatto
con la scultura oggetto di questo contributo ed il
suo possibile ‘ascendente’ brissense nell’inclinazione
del capo, nella resa di barba e capelli, nella linearità
delle braccia e nella resa del perizoma, relativamente all’annodatura (sebbene snellita), al ‘triangolo’
inguinale ed alle ripiegature laterali162.
Al di là delle manipolazioni che anch’esso subì, il
crocifisso ligneo oggi a Cervignano corrisponde tuttora alle caratteristiche evidenziate per quello conservato a Bressanone: struttura ‘geometrica’, statica
e “allineata” del torace e del ventre; testa “spinta in
avanti” e “leggermente inclinata sull’asse verticale
verso la spalla destra”; capigliatura con scriminatura
centrale, “ciocche lunghe” parallele e aggettante
attaccatura che “delimita le tempie e la fronte orizzontalmente”; “orecchie strette e a forma di ovale
allungato”, identicamente inclinate rispetto alla
‘linea’ dei capelli; chioma che da dietro le orecchie
scende lungo il collo per poi ‘risalire’ sulle spalle;
“barba realizzata grazie a sei singoli coni scolpiti con
le estremità ingrossate e che curvano leggermente
verso l’alto”; “marcata incisione” delle sopracciglia
grazie al netto taglio dell’arcata, delle palpebre (a
Cervignano socchiuse, a Bressanone chiuse), del
lungo naso “finemente realizzato” e soprattutto delle
labbra “fortemente serrate”, prominenti e inarcate
all’ingiù163 (Fig. 44).
Evidentemente gli autori (o l’unico…) dei due simulacri lignei condividevano l’impostazione di chiare
origini germaniche (non il Gero Christ del 980 ca.,
ma il crocifisso bronzeo già nella sacrestia di San
Lucio ad Essen-Werden del 1060 ca. o quello in
noce della chiesa di San Giorgio a Colonia del 1070
ca., o ancor meglio quello sovrastante la pisside del
tesoro di Hildesheim, pure dell’XI sec. ma ancor più
risalente e del quale si riparlerà)164, manifestavano
le stesse ‘tendenze’ scultoree sudtirolesi evidenziate
da Semff ed erano legati alla medesima ‘corrente’
romanica pusterese studiata da Mor: e se il kruzifixus
di Lamprechtsburg fu realizzato verso la metà del XII
secolo, al colossale cricifixus di San Felice si diede
verosimilmente ‘vita’ nella seconda metà di quello
stesso secolo o al massimo, ma è ipotesi sempre meno
attendibile, entro gli inizi del XIII. Questa proposta
anticipa le più recenti congetture riferite alla metà
del Duecento riprendendo in parte la datazione al
primo Duecento avanzata da alcuni studiosi del secolo scorso (dei quali però non si condivide la riduttiva
interpretazione critica del manufatto) ed anzi anticipandola ulteriormente sia per via del confronto con
il crocifisso di Castel Lamberto, sia in riferimento
allo studio dei contatti storicamente dimostrabili fra
Aquileia e Bressanone.
Dopo che il vescovo Vodalrico di Bressanone presenziò alla consacrazione della basilica popponiana
nel 1031 e il patriarca aquileiese Enrico prese parte
al concilio di Bressanone del 1080, date troppo alte
allo stato attuale delle ricerche, i contatti fra le due
chiese locali sono sufficientemente documentati fino
al quinto decennio del XIII secolo: per il periodo che
qui più interessa, dobbiamo considerare innanzitutto
la presenza del patriarca aquileiese Pellegrino I nel
1154 a Brixen, dove, al seguito di Federico detto
‘Barbarossa’, dovette incontrare Hartmann, che resse
la locale diocesi dal 1140 al 1164165. Pellegrino apparteneva al nobile casato trentino dei signori de Povo,
che poco più tardi sarebbe entrato in possesso anche
del castello di Beseno acquisendone il nome e dal
quale sarebbero presto ‘derivati’ i de Manzano, a loro
volta partecipi della ‘trasformazione’ dei de Lavariano
in di Strassoldo: ma al di là di tutto, egli resse lo
Stato aquileiese dal 1131/32 al 1161, conferendogli
saldezza e stabilità anche mediante l’acquisizione di
terre e castelli da feudatari d’alto rango (si pensi al
castrum di Artegna, comprato dagli Spanheim nel
1146) e mantenendosi sempre fedele all’imperatore,
dapprima Lotario II, quindi Corrado III, infine il
citato Federico I166. Sulla base dei dati al momento
disponibili, bisogna poi spostarsi al 1224, anno in cui
Enrico de Strashou fu eletto vescovo di Bressanone:
già arcidiacono di Aquileia almeno dal 1208, egli
rimase canonico della locale cattedrale ma operò in
Sudtirolo e vi morì nel 1240, lasciando ai confratelli
del Capitolo aquileiese, oltre a quattro bona mantilia
e un cingulum irlandese, la “sua domum de Aquilegia
cum duabus turribus” (Fig. 45), un terreno “ultra
flumen” ed un altro “ex ista parte fluminis” di cui in
quel momento fruiva Otto Ruffus, canonico e maestro delle scuole di San Felice167.
I mandati di Pellegrino ad Aquileia e di Enrico a
Bressanone coincisero con la prima e la terza fase
del periodo di massimo fulgore della prepositura
dei Santi Felice e Fortunato: questa, che da prima
del 1172 ospitava la seconda scuola capitolare di
Aquileia e dal 1174 era direttamente sottoposta alla
Fig. 44 - Volto del
crocifisso della
cappella di Castel
Lamberto, 1140/50
(da SEMFF 1980).
115
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 45 - La “domum
de Aquilegia cum
duabus turribus”
lasciata nel 1240
ai confratelli del
Capitolo aquileiese
da Enrico de
Strashou vescovo
di Bressanone,
doveva essere lo
stesso complesso poi
denominato “Torri
Savorgnane” (da
G.D. Bertoli, Tomo III
delle Antichità di
Aquileia).
Sede Apostolica (in virtù della già ricordata bolla di
Alessandro III che ne aveva confermato i consistenti possessi e diritti, imitato nel 1197 da Celestino
III), dal 1161 al 1246 vide susseguirsi alla sua guida
numerosi prepositi fra cui alcuni particolarmente
influenti come Gionata, Giovanni, Duringo e Poppo
che, oltre a rappresentarla nelle adunanze parlamentari, presenziarono costantemente ad atti ufficiali,
presiedettero arbitrati, rappresentarono i patriarchi,
ricevettero da essi nuove concessioni ed ottennero
ulteriori riconoscimenti dai pontefici168.
XII SECOLO...
È innegabile che per l’arrivo a San Felice del crocifisso - con ogni verosimiglianza lo stesso oggi detto
‘della Contessa’ - difficilmente si potrebbero trovare
momenti più adatti dei due periodi indicati, compresi fra la metà del XII secolo ed il 1240. Propendere
per l’uno o per l’altro significherebbe ‘datare’ l’imago Christi tridimensionale, verosimilmente pensata
proprio per essere issata sulla ‘trave’ mediana della
basilica dei due martiri aquileiesi: le immagini sacre
medievali ed in primis i crocifissi, soprattutto dopo
aver definitivamente superato dall’XI secolo ogni diffidenza (timori di idolatria) ed acquisito al contempo
una propria autonomia (non più meri ‘contenitori’ di
reliquie), nascevano di norma in funzione di un preciso ‘luogo’ e difficilmente erano ipotizzabili fuori da
quel contesto, sicché è verosimile che la monumentale scultura lignea sia nata ad hoc per San Felice,
116
al cui interno mostrava (presumibilmente non da
sola, ma certamente come elemento esteticamente
e liturgicamente insostituibile) la presenza visibile ed
impressionante di Cristo in stretta connessione con
la presenza reale e trasformante dell’Eucaristia (dottrina che fu riaffermata e sviscerata soprattutto nel XII
secolo…)169. Senza poter approfondire ulteriormente
l’indagine, risulta difficile scegliere tra i due estremi identificati: restringere il campo all’episcopato
di Enrico a Bressanone non sembra corrispondere
all’evidente (dopo i recenti restauri) arcaicità della
scultura cervignanese; d’altra parte, una datazione
legata a Pellegrino I - entro il 1161 - potrebbe forse
parere un po’ troppo risalente, eppure è la più convincente.
Tornando al ‘debito’ della scultura lignea di grande
formato nei confronti dell’oreficeria, non si può
non sottolineare che esso non è altro che un aspetto
del complesso rapporto di interdipendenza tra i due
‘mondi’ artistico-artigianali, che è stato da tempo
evidenziato soprattutto per il periodo che va dalla
fine del XII al primo terzo del XIII secolo, allorché
il fenomeno della “trasposizione” di modi, materiali
e stilemi originariamente specifici di arti del tutto
diverse ‘pesò’ molto più che in altre epoche storiche,
poiché nell’arte medievale “il problema della causalità, o meglio del primato artistico, è più difficile da
penetrare”170. Quel lasso di tempo fu caratterizzato
dalla “enorme spinta iniziale e innovativa che le artes
minores e soprattutto l’arte orafa” (argenterie lavorate a sbalzo, dorature, intagli eburnei…) “esercitarono
sulla scultura monumentale” nell’Italia nord-orientale e nelle aree limitrofe, al punto che spesso soltanto
la visione ‘dal vivo’ permette di distinguere senza
errori i veri rapporti di grandezza e di materiale tra
oggetti resi fotograficamente consimili dal grande
sforzo di imitazione della produzione degli orafi operato dagli scultori: ciò che avvenne anche nell’Italia
centrale, proprio per quanto riguarda i crocifissi
cosiddetti ‘aretini’ già ricordati, che condividono
con crocifissi bronzei coevi “caratteri individuali
quasi identici”, tanto da stupire per “la somiglianza
dell’Imago”171.
Proprio al periodo citato, ma sempre più propendendo verso la metà del XII secolo, risalirebbe il grande
Cristo in croce conservato nella cappella Bresciani,
sulla base dei confronti artistici (dal Kruzifixus-Torso
di Castel Lamberto al crocifisso aretino ritoccato da Margarito) e dei riscontri storiografici (da
Pellegrino I di Povo patriarca di Aquileia ad Enrico
de Strashou vescovo di Bressanone): circa le ‘ascen-
denze’, vale sicuramente la
pena di rimarcare il prospettato accostamento
al piccolo crocifisso
sovrapposto alla pisside d’argento del
tesoro della cattedrale
di Hildesheim, prodotto
dalla locale scuola orafa
dopo il 1022, che presenta notevoli ‘convergenze’ con il più tardo
oggetto di questo studio,
dalla postura eretta del
corpo alla testa non completamente reclinata, dall’angolo di ‘apertura’ delle
braccia al pollice ‘poggiato’
sulla mano (dicesi ‘in adduzione’), dal parallelismo degli
arti inferiori al saldo posizionamento dei piedi sul suppedaneo172. D’altronde, anche
l’ignoto autore del Crocifisso cervignanese ebbe i
suoi ‘modelli remoti’ in quanto, pur non negando la
creatività dell’artefice, la realizzazione di un nuovo
manufatto artistico per buona parte del medioevo
ebbe come inscindibile presupposto la conoscenza,
ricezione e ‘ripetizione’ di un’imago preesistente
quanto meno nei suoi “elementi essenziali”, fatto che
nel caso in questione dovette avvenire nei termini
della ‘derivazione’, cioè della ripetizione di un’altra
immagine rinnovandone contenuti e funzioni al
punto da ‘crearne’ una del tutto ‘nuova’173.
Concordemente definito colossale, il ‘Cristo della
Contessa’ è stato assegnato a scuole diverse dagli
studiosi, che l’hanno giudicato “lavoro assai imperfetto”, attribuibile alla “mano d’un imitatore popolaresco” o comunque “non opera d’artista” perché
“troppo pesante, troppo sproporzionato e troppo
rigido”; cosicché, in passato genericamente riferito
ad un periodo “anteriore al rinascimento delle arti
belle” compreso entro l’inizio del Trecento, nella
seconda metà del secolo scorso era stato attribuito ai
primi anni o decenni del secolo XIII (magari ventilando l’ipotesi cautelativa che il succitato “imitatore
popolaresco” potesse anche essere “notevolmente
posteriore”) ed in anni recenti è stato ‘riportato’ alla
metà del Duecento174. Ora invece pare nuovamente
ammissibile una datazione alta dell’opera, addirittura
verso la metà del XII secolo, sulla base di importanti ‘indizi’ favorevoli: l’evidente resa complessiva
‘intermedia’ tra il Christus triumphans e il Christus
patiens, tra il momento della vittoria sulla morte e il
momento che portò a quella vittoria; il suppedaneum
foggiato ad elegante poggiapiedi polilobato, esplicito
riferimento allo “sgabello” descritto dai salmisti ai
piedi di Dio175 e ‘citazione’ delle pedane su basse
terne di archetti frontali e laterali che nel XII secolo
comparivano negli avori bizantini sotto i piedi dei
santi176; il tipo di copertura pelvica (Fig. 46) (dall’inconfondibile nodo frontale raramente riscontrabile
dopo il XII sec.) ben lontana dal colobium, ma non
mero subligar di decenza né campestre da portare sotto
la toga, bensì perizonium così curato ed eccedente i
fianchi del Giusto ingiustamente giustiziato da sembrare un gonnellino, tipologia verosimilmente connessa all’antica raffigurazione del Christus victor177; la
quasi coincidenza fra altezza e apertura delle braccia
- 239,5 contro 249,5 cm - chiara trasposizione cristologica del mistico homo quadratus ildegardiano,
‘figura’ del rapporto macrocosmo-microcosmo in
linea con le concezioni ascetiche diffuse prima del
Duecento178; ed infine la pregiata crucicola in smalti
cloisonné rinvenuta nella testa del crocifisso, minuta
croce ‘pomata’ dotata di appendici rotonde nei punti
di contatto fra i bracci e i clipei, erede degli encolpi
cruciformi devozionali ma lontana dalle croci pettorali a terminazioni trilobate duecentesche e pienamente assimilabile alle crocette “pendenti” doubleface bizantine realizzate in metalli preziosi con smalti
‘tramezzati’ multicolori (Fig. 47), non solo amuleto
(phylacterion) ma memoria Christi in sé quand’anche
prive di reliquie, databili al medio XII secolo anche
dall’analisi dei motivi esornativi179. Che insieme al
suo cordoncino de serico quest’ultima sia stata ‘donata’ al venerato simulacro da persona d’alto rango è
Fig. 46 - Il perizoma
del crocifisso dopo
il restauro, vista
laterale (da CASADIO
2003).
Fig. 47 - La crucicola
rinvenuta nella
cavità occipitale del
crocifisso Bresciani
(da CASADIO 2003).
117
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Fig. 48 - Il
campaniletto a vela
sovrapposto alla
facciata ‘principale’
della cappella (G.C.).
innegabile (i fili giallo e rosso intrecciati richiamano
le autorità ecclesiastiche, che portavano al collo crucicole pectorales similari già secoli prima che fossero
annoverate fra le insegne di dignità), ma più che ad
“una delle nobili badesse o monache del monastero
di Santa Maria extra muros di Aquileia” si dovrebbe
pensare ad uno dei tanti alti prelati frequentanti San
Felice nel suo periodo di maggior splendore180.
Alla fin fine, la presunta sproporzione e l’apparente
disarmonia del crocifisso Bresciani non sono affatto
dovute alla scarsa abilità dell’ignoto ma per nulla
incapace artifex, bensì alla sua volontà di adeguare le
fattezze di quel corpo ligneo non solo al luogo in cui
sarebbe divenuto oggetto di venerazione ed alla posizione dalla quale avrebbe dovuto essere guadato, ma
anche e soprattutto alle tendenze figurative dell’epoca (XII secolo) ed alle proporzioni allora considerate
dal simbolismo cristiano perfette, appropriate per il
“Re dei re”, il “Signore dei signori”, quel Christus rex
nel quale ogni sovrano medievale intendeva rispecchiarsi181.
FRA XVII E XX SECOLO
A seguito delle lotte tra la Serenissima e l’Austria,
Cervignano entrò a far parte dell’Impero Asburgico:
il fiume Aussa segnò i confini tra i domini arciducali
e quelli veneziani. Durante la cosiddetta ‘guerra
di Gradisca’ (1615-1618), la città fu gravemente
danneggiata: il 9 ottobre 1617, in esecuzione della
delibera del Senato lagunare su proposta del provveditore generale di Palma (l’odierna Palmanova)
Antonio Grimani, se ne avviò la distruzione poiché
“serviva d’impaccio alla libera navigazione sull’Aussa”; sicché, quando veneziani ed arciducali deposero
le armi, restavano in alzato solamente la chiesa con
la canonica, “una abitazione per i ministri pubblici” e
“dieci case delle migliori” sull’ottantina di abitazioni
preesistenti182. Evidentemente, villa Bresciani dovette essere una delle ‘case’ sopravvissute, dal momento
che non patì danno alcuno183: e ciò non accadde
neppure al primitivo oratorio gentilizio, quel piccolo
edificio cultuale privato che “al principio del 1600
vi era già; ma sembra che vi esistesse ancora molto
prima”184 e che nel 1692 fu in qualche modo ‘rimpiazzato’ dall’attuale cappella, giunta fino a noi con i
successivi interventi di cui s’è detto (Fig. 48).
Passato il ciclone napoleonico, durante il quale
Antonio Bresciani era stato eletto primo sindaco del
neonato comune di Cervignano, elevato a capoluogo
del quarto cantone del terzo distretto (“dell’Isonzo”
118
o “di Gradisca”) rientrante nel dipartimento di
Passariano del Regno d’Italia185, nel periodo 18201828, all’epoca dei lavori di ristrutturazione resisi
improrogabili nella nuova chiesa di San Michele, la
cappella Bresciani rimase l’unico luogo di culto efficiente nelle vicinanze del centro urbano e come tale
ospitò le celebrazioni parrocchiali insieme all’altra
chiesetta cervignanese officiata, la più decentrata
San Girolamo, ubicata nell’omonimo borgo186.
Quattordici anni più tardi, “il sacerdote che gode
pro tempore il benefizio della Cappella Bresciani”
- all’epoca don Antonio Trevisani - fu nominato
primo maestro della scuola “triviale” comunale che
dal primo gennaio 1842 aprì i battenti in un locale
sito nei pressi della parrocchiale cervignanese, in
ottemperanza al decreto sull’istituzione di scuole
popolari in tutto il Litorale asburgico (1841)187.
Non era trascorso neanche un lustro dacché l’incolumità del crocifisso romanico era stata messa molto
seriamente a repentaglio: il 3 giugno 1837, l’arcivescovo di Gorizia Francesco Saverio Luschin, nel
corso di una delle periodiche visite pastorali, aveva
ingiunto ai proprietari della cappella la rimozione
(“allontanamento”) del Crocifisso in quanto “di proporzioni troppo grandi” rispetto alle ridotte dimensioni dell’edificio e perché “pietatis sensus potius
retundens quam excitans”, ‘reprime la devozione
più che incoraggiarla’, quasi parafrasando l’ironico
commento messo per iscritto da Agostino Varisco
per Bartolomeo di Porcia due secoli e mezzo prima.
Fortunatamente, né il barone Girolamo Maria de
Bresciani, né la consorte contessa Doralice Matilde
Beretta, né il figlio Francesco Luigi Maria avevano
ubbidito, sicché l’opera era rimasta tranquillamente
al proprio posto188. E’ presumibile che monsignor
Luschin conoscesse la ‘sentenza avversa’ del suo lontano predecessore, ma di certo questo suo pronunciamento costituisce oggi un ulteriore indizio favorevole
- quantunque indiretto - all’identificazione ‘Cristo di
San Felice’ = ‘Cristo della Contessa’.
Il figlio del barone Girolamo fu colui che nel 1873
fece “restaurare, ingrandire ed abbellire” l’allora malridotto “antico sacello familiare” (vd. supra) e fu anche
l’ultimo discendente maschio del casato che aveva
fondato la villa: dopo di lui, l’intero complesso passò
ad altre tre famiglie, sempre in linea femminina.
Il 14 aprile del 1845, nella cappella arcivescovile di
Gorizia, Francesco prese in moglie la neanche ventiduenne baronessa Enrichetta Luigia Maria Teresa
Bourlet de Saint Aubin (Fig. 49), con la quale
visse prima a Camposampiero e poi San Vito al
Tagliamento, utilizzando la villa di Cervignano
per la ‘villeggiatura’ e la gestione della produzione
agricola. La giovane nobildonna francese “non solo
disimpegnava esattamente i suoi obblighi di moglie e
di madre, ma era dessa che dirigeva la famiglia, essa
che villeggiando a Cervignano accudiva agli affari
campestri con una solerzia meravigliosa, rivedendo a
suo tempo l’amministrazione, e ordinando gli opportuni lavori e tutto ciò che è necessario a ben regolare
e dirigere una possessione”; tuttavia era amata dalla
gente soprattutto per la generosità (proprio in “casa”
Bresciani, per esempio, ospitò e curò una “ex monaca” inferma, dopo averla per tre anni fornita “del
necessario sostentamento” quand’era “ridotta a viver
d’accatto”) e la fervorosa ma non ostentata religiosità, per la quale le fu tra l’altro concesso “il privilegio
di tenere la SS. Eucarestia nella Cappella domestica
(…) il quale le rendeva maggiormente gradito quel
soggiorno”, essendole altrimenti impedita - durante le sue ‘ferie’ cervignanesi - la quotidiana visita
meridiana al Santissimo, una delle pratiche di pietà
a cui teneva di più189. Si può ragionevolmente supporre che Enrichetta Luigia abbia trascorso non poco
tempo anche in contemplazione davanti all’antico
‘crocione’ ligneo, a giudicare dai frequenti riferimenti alle tematiche connesse (il crocifisso, la croce, la
Passione, il Calvario ecc.) presenti fra i suoi scritti
di meditazione e preghiera, dai quali talvolta emerge
pure l’ambivalenza ben rappresentata dal Christus
triumphans-patiens cervignanese: “Gesù Cristo povero, ignudo, improperato, schernito, sulla croce deve
essere la nostra gloria, l’oggetto unico del nostro
orgoglio e della nostra santa ambizione”; “Amor
mio Crocifisso, fatemi la grazia quando mi si offre
una mortificazione, un sacrifizio, che mi sovvenga
che soggettandomici alleggerisco i vostri dolori sulla
Croce, verso del balsamo sulle vostre piaghe adorate,
e che all’istante della vostra crocefissione voi vedevate ciò con piacere e m’avete ottenuta la grazia di
fare quest’atto”190.
Dopo dodici anni di vita coniugale, nel 1857 la
giovane mamma si spense prematuramente, poco
più che trentaquattrenne, lasciando soli il consorte Francesco e la piccola Maria Anna Bernardina
Filomena Bianca, che poi per la gente divenne ‘la
baronessa’ per antonomasia e che fu anche l’ultima dei Bresciani: rimasta vedova del barone Carlo
Alessandro d’Elvenich (il 22 maggio 1878 la cerimonia nuziale si era celebrata proprio “nella cappella di
famiglia a Cervignano”), ella sposò in seconde nozze
il cavaliere Enrico Peteani von Steinberg, portando
in dote metà della ‘casa di villeggiatura’ cervignanese (l’altra metà - passata “in possesso di estranei” a
seguito di successive divisioni e alienazioni - fu più
tardi riacquistata), nella quale vissero; dalla loro
unione nacque (1885) quella stessa Maria Conchita
che più tardi sarebbe divenuta la prima moglie del
conte Carlo d’Attems barone von Petzenstein e
l’anno dopo (1910) avrebbe dato alla luce l’erede
Maria Edith, la quale a sua volta avrebbe poi sposato
il conte Herward von Auersperg, dandogli due figlie,
Fig. 49 - Luigia de
Saint-Aubin de
Bresciani, litografia
Kirchmayr - Venezia
(da PENZO 1858).
119
il cristo ritrovato
G. Caiazza
di embrici e coppi. Gli stessi titolari oggi conservano
con la massima cura lo storico complesso (Fig. 51),
dai fabbricati alle aree verdi, dai mobili alle suppellettili e ai ritratti che rendono il nucleo della parte
residenziale un vero e proprio “museo vivo”196.
gabriele caiazza
Fig. 50 - Villa
Bresciani-PeteaniAttems impiegata
come quartier
generale dal
comando della III
Armata, 1917 ca. (da
“Alsa”, 12, 1999).
le contesse Beatrice ed Enrica, attuali comproprietarie ed abitanti della villa insieme ai rispettivi mariti,
generali Tufano e Malorgio191.
Durante la Grande Guerra, Cervignano - che all’inizio delle ostilità rientrava in territorio asburgico e
alla fine si ritrovò sotto il tricolore sabaudo - svolse
un ruolo di primo piano e proprio la villa Bresciani
accolse temporaneamente il quartier generale della
celeberrima Terza Armata dell’esercito italiano (Fig.
50), che si guadagnò il leggendario e retorico titolo di
‘invitta’ durante le operazioni belliche sul Carso: dal
24 ottobre 1915 al maggio del 1917 la cittadina ‘liberata’ divenne un nevralgico centro militare, luogo di
smistamento di uomini e materiali, sede di assistenza
ospedaliera e quartier generale, essendovi alloggiati
il comandante Emanuele Filiberto duca d’Aosta (che
seppe guadagnarsi il favore della popolazione) nella
villa Antonelli ed il comando d’armata appunto nell’allora residenza dei coniugi Maria Conchita Peteani
von Steimberg e Carlo d’Attems von Petzenstein192.
Superati indenne le incursioni aeree e i cannoneggiamenti austriaci del primo biennio del conflitto,
in seguito al pesante bombardamento dell’artiglieria
austroungarica del 16 maggio 1917 - mirante specificamente a colpire l’alto comando italiano e andato
‘a vuoto’ per pochissimo (venne purtroppo colpito in
pieno l’ospedale militare, sito proprio in via Trieste),
nonostante le decine di morti e feriti ed i notevoli
danni al centro urbano - il duca d’Aosta decise di
trasferire il comando nella villa Badino di Privano193.
In seguito, dopo Caporetto e Vittorio Veneto, la villa
120
Bresciani ospitò dal 31 ottobre al 4 novembre 1918 il
comandante asburgico dell’Armata dell’Isonzo, generale Wurm, che poco prima dell’arrivo delle avanguardie nemiche riuscì fortunosamente a fuggire in
automobile insieme al colonnello Körner, ricoverato
in gravi condizioni “nella palazzina prospiciente alla
villa Attems” per quel breve lasso di tempo194.
Nel 1939, in presenza di una prolungata siccità, il
Crocifisso Bresciani “fu rimosso” dalla cappella della
villa “e portato processionalmente attraverso le vie
cittadine, per impetrare la pioggia”, quasi a rievocare
il leggendario primo viaggio dopo il quale la statua
lignea sarebbe ‘rimasta’ a Cervignano: dopo di allora
il colossale simulacro uscì qualche altra volta dalla
sua ormai storica sede, da ultimo nell’anno giubilare
2000, per essere restaurato e successivamente esposto
in una grande mostra a Bassano del Grappa195.
Secondo alcuni testi, nella seconda metà del secolo
scorso l’Ente per le Ville Venete avrebbe concesso
ai proprietari della villa un prezioso contributo,
permettendo loro di restaurare il nucleo dominicale,
nel quale tuttora vivono i discendenti in linea femminile dei fondatori: si potrebbe ipotizzare un coinvolgimento dell’ente all’epoca dei restauri del 1962,
ma a nessuno degli attuali proprietari risulta alcun
intervento esterno al di là di un finanziamento accordato nei primi anni ottanta del secolo scorso dalla
Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici, archeologici, artistici e storici del Friuli - Venezia
Giulia con sede in Trieste, sulla spesa necessaria al
ripasso delle coperture a travatura lignea con manto
Note
1
Vd. MOLARO 1920, pp. 92 e 102; e DEL TORSO Genealogie, c.
361r (Carlo d’Attems spiega ad Enrico del Torso di non poter
verificare molti documenti in quanto depositati a Trento).
2
Cfr. MOLARO 1920, p. 128 (l’autore esagera a p. 130: “l’aristocrazia del blasone estinta, perduti gli stemmi, trasformate
le abitazioni. Cervignano presente è tutta nuova”… almeno
villa Bresciani, tuttavia, lo smentisce).
3
ZOPPÉ 1978, p. 88; id. 2000, p. 108.
4
Testimonianze orali raccolte dallo scrivente confermano
l’assunto. Per il paludo, vd. MOLARO 1920, pp. 70 e 92.
5
Vd. JOPPI Genealogie; DEL TORSO Genealogie, c. 361v; e cfr.
es. FORNASIR 1981a, p. 91.
6
Cfr. MOLARO 1920, pp. 91-92 e 105 (anni 1543, 1551, 1559,
1565). FORNASIR 1981a, p. 69, considera Bresciani e Bressan
famiglie diverse, ma non ne spiega il motivo.
7
La definizione riferita alla baronessa si legge sul suo epitaffio, nella cappella gentilizia; le diverse forme del cognome
nel Libro fondiario di Cervignano 1888. Cfr. pure COSTANTINI
2002, p. 117.
8
Cfr. FRAU 1978, p. 36 (1275); e COSTANTINI 2002, p. 117.
9
Vd. COSTANTINI 2002, pp. 443 (Pizzamiglio) e 503
(Spizzamiglio), e cfr. le liste di ricorrenza dei cognomi italiani
(per es. sul sito web gens.labo.net/en/cognomi), dalle quali si
può anche verificare come, ad un Bresciani massicciamente
diffuso in Lombardia, fanno riscontro la forma Bressan, largamente presente in tutto il Triveneto, e la variante minoritaria
Bressanutti, usata quasi soltanto in Friuli Venezia Giulia.
10
Cfr. PIRONA-CARLETTI-CORGNALI 1972, p. 1466; e
COSTANTINI 2002, p. 117. Inoltre vd. DE FELICE 1978, p. 87
(derivazioni non solo da Brescia), e FRANGIPANE 2005, pp.
348-349 (genericità dell’origine: il celtico briga, “altura”).
11
ZOPPÉ 1978, p. 88.
12
GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 102-103.
13
Cfr. l’ottocentesco albero genealogico di Francesco Luigi
de Bresciani, ultimo discendente maschio del casato, conservato in collezione privata; e DEL TORSO Genealogie.
FORNASIR 1981a, p. 93, riporta da JOPPI Genealogie come data
di ottenimento del cavalierato l’anno 1658, che invece DEL
TORSO Genealogie, c. 359, chiarisce doversi anticipare: “1653
alias 1654 diploma in pergamena dell’Arciduca d’Austria di
Nobiltà del S.R.I. rilasciato a Giuseppe Bresciani…”.
14
La ditta è domiciliata al numero civico 37 di via Trieste,
mentre la villa è accessibile al 41, dal grande cancello della
recinzione esterna.
15
Cfr. GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 98-101. Sugli Attems
Petzentein, cfr. ib. pp. 68-96, e l’albero genealogico sul sito
www.sardimpex.it.
16
Es. GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 98-99, purtuttavia definendole “eccellenti copie degli originali esposti a Roma”.
Cfr. es. DI DOMENICO CORTESE 1967, pp. 197-199 e figg.
21-23; NEGRO 1997, p. 207; LO BIANCO 1997, p. 336.
18
Cfr. BRIGANTI 1982, pp. 74-75 e 185-186, LO BIANCO 1997,
pp. 336-337, e FAGIOLO DELL’ARCO 2001, pp. 27-46 (Pietro
da Cortona “all’epoca Barberini”, cioè sotto Urbano VIII,
al secolo Maffeo Barberini, pontefice dal 1623 al 1644). Sul
rapporto fra Pietro da Cortona e i marchesi Sacchetti, vd.
GUARINO 1997.
19
Le consuales erano feste celebrate a Roma in onore del dio
Conso, il 15 dicembre, dopo la semina, e il 21 agosto, dopo il
raccolto: fatti i sacrifici sull’altare del dio, nel Circo Massimo
si svolgevano corse di carri, cavalli e muli; e mentre gli animali da lavoro, incoronati di fiori, erano lasciati in libertà, il
popolo si dilettava in giochi campestri.
20
NEGRO 1997, pp. 199 e 207. Alcuni datano l’opera al 1653, altri
propendono per il 1649, ma cfr. DI DOMENICO CORTESE 1967, p.
198, e NEGRO 1997, pp. 206-207 e soprattutto 212 nt. 60.
21
Cfr. DI DOMENICO CORTESE 1967, p. 198, RUSSEL 1996, p.
119 nt. 32, FAGIOLO DELL’ARCO 2001, pp. 100-101 (Gimignani
“all’epoca Pamphilj” sotto Innocenzo X, alias Giambattista
Pamphilj, papa dal 1644 al 1655), nonché il sito www.
ambasciatadelbrasile.it/pages/ambasc/pamdescr_f.htm. Cfr. pure
l’affinità fra alcune figure dei disegni di Giacinto Gimignani e
i protagonisti della scena dipinta sulla tela cervignanese, per es.
in FISCHER PACE 1979, pp. 23-35 e 167-179.
22
La felice interpretazione qui riproposta è stata messa a punto da
LO BIANCO 1997, p. 336, proprio in riferimento ai committenti
del Ratto di Pietro da Cortona oggi alla Pinacoteca Capitolina.
23
Secondo leggendario re di Roma (715-673 a.C. - ma su
un fondamento storico) che guarda caso era originario della
Sabina ed al quale si attribuivano la maggior parte delle riforme
e delle istituzioni (dall’organizzazione del culto alla creazione
dei collegi sacerdotali, alla riforma del calendario ecc.) in realtà frutto di una lunga evoluzione sociale, culturale e religiosa.
24
Cfr. RUSSELL 1996, pp. 113-114 e 119, nt. 32.
25
Cfr. es. ULMER 1994, pp. 60-69 (villa come residenza di rap17
Fig. 51 - Suggestivo
scorcio del retro
dell’ala orientale
della villa (G.C.).
121
il cristo ritrovato
G. Caiazza
presentanza) e 107-114 (villa come simbolo del patriziato).
26
Cfr. il già cit. albero genealogico di Francesco Luigi, nonché DEL TORSO Genealogie, c. 359.
27
ZOPPÉ 1978, p. 88; cfr. ID. 2000, p. 109, e GEROMET-ALBERTI
1999, p. 97. Per la datazione delle origini del complesso, vd.
pure Scheda A 656, Villa Bresciani Attems, a cura di O. Pitton,
Centro regionale di Catalogazione, Passariano (Udine) 1990.
28
ZOPPÉ 2000, p. 109: la fotografia non è pertinente, ma pare
raffigurare affreschi della villa Manin Antonini di Moruzzo
(cfr. ib. p. 153).
29
ZOPPÉ 1978, p. 88; ID. 2000, p. 109; GEROMET-ALBERTI
1999, p. 97.
30
Solo a mo’ di confronto, si leggano il camelopardo e altre
consimili bestie fantastiche in BARBER-RICHES 1999, passim.
31
Informazioni gentilmente fornite dagli odierni proprietari
ed abitanti della villa.
32
Cfr. ULMER 1994, pp. 128 e 130-132.
33
Cfr. PETEANI-BRESCIANI 1890; FORNASIR 1981a, p. 92; e la
citata Scheda A 656 del Centro regionale di Catalogazione di
Passariano.
34
MOLARO 1920, pp. 92 e 102.
35
Come si sostiene, per es., in Ville 1991, p. 31, n. 132.
36
Cfr. FORNASIR 1981a, p. 92; GEROMET-ALBERTI 1999, p. 97.
37
Cfr. es. SOMEDA DE MARCO 1952, p. 568, o ZOPPÉ 1978,
p. 88.
38
ZOPPÉ 2000, p. 108.
39
Cfr. ULMER 1994, p. 170, foto in alto: ‘portico’ passante
della villa della Torre a Ziracco.
40
Es. FORNASIR 1981a, p. 92 (“aveva l’ingresso principale da
borgo Salomone”), e ROSSETTI 1979, p. 66.
41
Cfr. Città di Cervignano nel Litorale 1873-1931; Comune di
Cervignano del Friuli 1974; Libro fondiario di Cervignano 1888.
42
Cfr. ULMER 1994, p. 40. In Città di Cervignano nel Litorale
1873-1931, è ben disegnato il muro settentrionale, che proseguiva per diverse centinaia di metri verso oriente a delimitare
l’unica particella 298/1, che oggi è invece frammentata in
una settantina di mappali, talvolta molto piccoli.
43
Pur non essendo ancora citato negli elenchi degli alberi
‘monumentali’ diffusi nel 1991/93 (Grandi alberi nel FriuliVenezia Giulia, Udine 19932, pp. 120-125, riporta il cipresso
calvo - 29 m, 150 anni - e l’acero campestre - 17 m, stessa età di villa Chiozza di Scodovacca, oltre al salice piangente - 21 m,
cent’anni - dell’ex area Sarcinelli) né successivamente (il sito
web del Corpo Forestale dello Stato oggi elenca solo il cipresso
di Lawson - 16 m - di villa Lazzari Moro a Muscoli ed il carpino
bianco - 25 m - di villa von Kunenfeld a Strassoldo).
44
Doveva trattarsi di un’epigrafe simile alla CIL 05, 01038 =
InscrAqu-01, 0728: “PATROCLO SUMMARUM / ULPIUS PRISCUS
/ ANIMAE MERENTI”, ‘Ulpio Prisco a Patroclo, che merita le
vette dello spirito’.
45
Ringrazio sentitamente per l’aiuto nel rilievo, nell’interpretazione e nelle ricerche la dottoressa Barbara Zecca di Udine
e per la consulenza il professor Claudio Zaccaria dell’Università di Trieste.
46
Vd. es. ROSSETTI 1984, pp. 56-62, e da ultimo ID. 2006,
pp. 63-70.
47
Cfr. ROSSETTI 1984, pp. 56-62.
48
Cfr. pure TAGLIAFERRI 1988, pp. 353-354.
49
Vd. PREMOLI 1990, I, pp. 600-601.
50
Di colombi portalettere si servirono particolarmente i ser-
122
vizi postali, mentre gli eserciti ebbero lungamente a disposizione colombaie fisse o mobili, collocate tanto in prima linea
quanto nelle retrovie, per la trasmissione/ricezione di dispacci
(durante il primo conflitto mondiale detti in gergo ‘colombigramma’) mediante piccioni viaggiatori. Cfr. PREMOLI 1990,
I, pp. 600.602, e BUSETTO 2006, I, pp. 164-165.
51
In questo caso il dipinto del 1922 non può aiutare, poiché
‘riprende’ il complesso dall’interno della cancellata.
52
MARCHETTI 1972, p. 224. Cfr. MOLARO 1920, p. 101,
FORNASIR 1981a, pp. 92 e 94, e ROSSETTI 1984, p. 105, nt 9.
53
MARCHETTI 1972, p. 224. Secondo Ville 1991, p. 31, n.
132, nel 1889, anno in cui invece il barone Enrico Peteani de
Steinberg fece ampliare la zona absidale (vd. infra).
54
FORNASIER 1981a, p. 94.
55
Cfr. PENZO 1858, p. 32.
56
MOLARO 1920, pp. 98 e 103.
57
Vd. MOLARO 1920, p. 102; e soprattutto ROSSETTI 1984, p.
105, nt. 9; e inoltre cfr. infra.
58
Cfr. FORNASIR 1981a, p. 94 (da Copia del testamento).
59
MOLARO 1920, p. 102 (“proporzioni colossali”); ROSSETTI
1984, p. 104 ( “imponenza”); SEMFF 1985, p. 110 (“enorme
statura fisica”). Vd. pure Scheda OA 26056 (rif. scheda cartacea 11560), Crocifisso, Centro regionale di Catalogazione,
Passariano (Udine) 1990.
60
RÉAU 1957, pp. 481-482 e 493.
61
ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9.
62
Cfr. es. PLAZAOLA 2001, p. 343.
63
ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9.
64
REYRE 1966, p. 1291.
65
COLLARETA 2005, p. 67.
66
SEMFF 1985, p. 110.
67
RÉAU 1957, pp. 477 (“sta ritto sul legno dell’infamia con la
stessa maestà che su un trono”); JÁSZAI 1994, p. 579. Era già
accaduto fin dall’età paleocristiana, benché allora in maniera
meno esplicita: cfr. es. CERVELLIN 1998, pp. 57, 62 e 87-89.
68
Oltre ai più noti crocifissi della cripta di Epifanio nel
monastero di San Vincenzo al Volturno (affresco, IX sec.),
del ciborio della cripta di San Pietro a Civate (stucco, X sec.)
e della chiesa di San’Angelo in Formis (affresco, XI sec.), cfr.
le formelle bronzee in SALOMI 1990, II, tav. CCCLXXXIV fig.
12 (portale di San Zeno a Verona, prima metà del XII sec.),
e soprattutto tav. CDLV fig. 56 (Janua major del duomo di
Benevento, ultimo quarto del XII - inizi XIII secolo).
69
Vd. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, pp. 23-24 e tavv. 1-3;
BERTOLLA-MENIS 1963, pp. 33-34 n. 4, 38 n. 10 e relative
tavv. 4 e 10 (datazione poi anticipata); WALCHER 1983, p.
335; BERGAMINI 1992, pp. 26 n. 1.2, 44-45 n. 1.17; id. 1994,
pp. 90, 91 fig. 20 e 93 (ms. 78, c. 5r; inaccettabile la datazione
al XV sec. vista l’assenza della “vicinanza iconografica strettissima” con il Missale udinese del 1418); TAVANO-BERGAMINI
2000, pp. 108-110, n. VII.8, 161-162, n. XI.4c, e 280, n.
XX.5; PIUSSI 2005, p. 51 (ms. 76, c. 2v); GOI 2006, pp. 286,
289, 341 e 344, nn. cat. I.38, I.39 e I.42. Per ulteriori e più
numerosi confronti, vd. in questo volume i contributi di L.
Mor, P. Casadio, S. Blason Scarel ed E. Marocco.
70
ROSSETTI 1984, p. 104.
71
Pannello didascalico predisposto dal Laboratorio di Restauro
di Udine della Soprintendenza per i beni A.P.P.S.A.D. del
Friuli Venezia Giulia, esposto nella cappella dopo il restauro
2000-2003 del crocifisso.
72
Si cfr. quanto scrive SEMFF 1985, p. 104, a proposito dell’impiego in sacre rappresentazioni del ‘piatto’ crocifisso duecentesco conservato nel Duomo di Cividale, anch’esso monumentale (altezza 250 cm) ma non quanto quello di Cervignano.
73
Giustamente MOLARO 1920, p. 103, pur partendo da una
diffusa quanto errata prospettiva negativa sull’età di mezzo,
scrive: “è il Cristo del medio evo… sotto il quale si piange, si
trema, si maledice”.
74
SALA 2003, p. 75.
75
Cfr. BACCI 2004, pp. 216-217; ed anche Cristo 1994, pp.
515 e 518.
76
Cfr. RÉAU 1957, pp. 475, MARCHETTI 1958, p. 12, DUPRONT
1993, pp. 160-161; BACCI 2004, pp. 216-217 (qui, p. 245, cfr.
pure il “grande Cristo che era posto in alto, in medio tabulati
coeli” nella chiesa metropolitana di San Pietro ad Antiochia
nel 1098: data che fa riflettere...).
77
Vd. es. il gruppo della crocifissione della Collegiata di San
Candido, riportato tra l’altro in BERTONI-CREN 1998, p. 9, fig. 8.
78
Spesso - per es. in Toscana ed Umbria - lì collocati in sostituzione di precedenti crocifissi dipinti su tavola cruciforme,
come quelli riprodotti da Giotto in due famose scene affrescate nella basilica francescana di Assisi a fine Duecento.
79
FORNASIR 1981a, p. 60; ID. 1981b, p. 84 e tav. fuori testo: “il
‘Crocifixus magnus ligneus’ conservato nella cappella Bresciani
di Cervignano”. Cfr. anche MICEU 2005, p. 160 (“era custodito nella chiesa di San Michele”).
80
Visitatio; cfr. FORNASIR 1981a, p. 78, nt. 35; ID. 1981b, p. 69.
81
STAFFUZZA 1979; FORNASIR 1981b.
82
FORNASIR 1981b, p. 70.
83
Vd. Visitatio, c. 206v, e 1570. Visita, c. 105v. Cfr. la trascrizione (non la traduzione) in FORNASIR 1981b, pp. 71-82, in
particolare pp. 74-75 nn. 20-21 e 80 nn. 11-12.
84
ROSSETTI 1984, pp. 72-73, ntt. 24-25, fa diverse interessanti considerazioni.
85
MOLARO 1920, p. 32. Si noti che l’edificio seicentesco non
sussistette nemmeno due secoli, poiché nell’ultimo quarto del
XVIII secolo fu a sua volta demolito per far posto a quello che
tuttora si può vedere presso la più antica torre campanaria.
Cfr. ROSSETTI 1984, pp. 65-72, con le efficaci ricostruzioni
grafiche di p. 66 e 68.
86
1570. Visita, c. 105v. FORNASIR 1981b, p. 75, riferisce erroneamente medium al crocifisso (“e v’è in mezzo… un crocifisso”). Va detto che gli ‘appunti’ sono molto fitti e di difficile
lettura, come precisò STAFFUZZA 1979, p. 5.
87
Visitatio, c. 206v. FORNASIR 1981b, p. 80 di nuovo riferisce
medium alla posizione del crocifisso (“e v’è nel mezzo… e collocato in alto… un grande crocifisso”). Cfr. per es. ROSSETTI
1984, p. 73, nt. 24.
88
Vd. supra e cfr. BACCI 2004, p. 217.
89
Cfr. STAFFUZZA 1979, p. 21, che però traduce erroneamente
‘di bronzo’. Sull’abate, cfr. PASCHINI 1934, e sulla sua visita
del 1570, ID. 1990, p. 816.
90
FORNASIR 1981a, p. 64; ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9;
MICEU 2005, p. 160.
91
ZOVATTO 1977, p. 148; FORNASIR 1981a, pp. 45-47;
ROSSETTI 1984, p. 39.
92
MOLARO 1920, pp. 98 (“due altri altari; uno dedicato al
S. Crocefisso”) e 108 nt. 1. Cfr. FORNASIR 1981a, pp. 75
(dove l’autore ricorda anche “la soppressione e la confisca
dei miseri” beni avvenute nel 1782 per volontà di Giuseppe
II) e 89 (secondo l’a. la confraternita si occupava proprio del
Crocifisso Bresciani); e CASADIO 2001, p. 65.
93
Sulla parrocchiale sette-ottocentesca, vd. MOLARO 1920,
pp. 122-123, e FORNASIR 1981a, pp. 83-89.
94
SOCOL 1986, p. 116.
95
Così venne chiamata la badia benedettina cervignanese nel
912 in un diploma di Berengario: cfr. ROSSETTI 1984, p. 117.
96
In questa sede, ovviamente, non si prendono in considerazione sculture viste da B. di Porcia in località troppo distanti (in
senso geografico e… storico) da Cervignano: come per es. quell’“enorme crocifisso di legno, sudicio, indecente e con un braccio
solo” che “nella chiesa di Marano novo, inchiodato al muro”
destava “non pietà ma ribrezzo” (BATTISTELLA 1909, p. 32).
97
1570. Visita, c. 108v (cfr. STAFFUZZA 1979, p. 29), e
Visitatio, c. 210r (nella stesura definitiva scompare la forma
volgare tutta della malacopia: “tribuna undique picta”).
98
ROSSETTI 1984, pp. 90 e 91, nt. 22; dalla chiesa di San
Martino dipendevano anche quelle di Terzo e Moruzzis:
cfr. MOLARO 1920, p. 138. Vd. pure BERTOGNA 1948, e
STAFFUZZA 1979, p. 36, nt. 33.
99
MOLARO 1920, p. 138, e cfr. BERTOGNA 1948, cc. 28-29.
100
BERTOGNA 1948, c. 25; Lis stradis 1986, p. 160.
101
Cfr. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, p. 120, nt. 18, e il racconto di Francesco Bresciani riportato in MOLARO 1920, p. 102.
102
Per es. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, p. 25.
103
Le benedettine di Aquileia vantavano le reliquie “più
miracolose” in regione: nella chiesa del monastero “in appositi loculi si conservavano brani de vestibus et de lecto della
Madonna, un pezzo di calcinaccio de foramine per quod transivit Angelus de Beatam Virginem e perfino alcuni chicchi de
mira trium Magorum” (BATTISTELLA 1909, p. 33; e soprattutto
cfr. TASSIN 1992, pp. 358 e 360-361 nt. 19)!
104
Cfr. MOLARO 1920, pp. 40-44; FORNASIR 1981a, p. 46; e
soprattutto ROSSETTI 1984, pp. 23-24 e 117-118, che rimanda
agli studi di R. Härtel.
105
Cfr. es. CASADIO 2001, pp. 65-66.
106
VIGI FIOR 1981, pp. 16 e 80; e cfr. BRUSIN 1951, c. 46;
PASCHINI 1958, p. 83; SCALON 1982, p. 44; e BRATOŽ 1999,
pp. 395, nt. 141, e 396. Sui due titolari della chiesa, vd.
BRATOŽ 1999, pp. 389-400.
107
Cfr. PASCHINI 1958, pp. 81-82, e soprattutto BRATOŽ 1999,
pp. 396-398 e cfr. p. 390 (il martirio avvenne “fuori dalla
città… presso il fiume che scorre vicino alla città”). Sulla trasformazione nel IV-V secolo della primitiva ‘memoria’ martiriale in santuario meta privilegiata di sepolture ad sanctos, cfr.
MIRABELLA ROBERTI 1993, pp. 263-264, 266-269.
108
La pianta più risalente è la tela del 1693 del Museo
Diocesano di Udine, ma non si sa se ancora esista l’originale (forse la pianta fotografata da G. Brusin nel 1939) da
cui paiono essere state tratte la litografia colorata presso la
direzione del Museo Archeologico di Aquileia e il disegno
ottocentesco di A. Joppi, originale che comunque risalirebbe
non oltre la prima metà del Cinquecento. Cfr. MENIS 1968, e
La mostra 1985, pp. 8-14.
109
BATTISTELLA 1932, c. 132 (anche VALE 1931a, c. 24, conferma che nella terra Sancti Felicis “non c’eran case”).
110
Visitatio, c. 41v, rr. 14-16; cfr. VIGI FIOR 1981, p. 83. La
definizione di ‘crocione’ si deve a BATTISTELLA 1909, p. 30.
111
1570. Visita, c. 197r.
112
BATTISTELLA 1909, p. 30, parla di “un rozzo crocione di
123
il cristo ritrovato
G. Caiazza
legno”, ma è un’indimostrabile congettura dovuta alla sua convinzione che le sculture lignee delle chiese friulane fossero “per
lo più rudi e gregge” (ib., p. 45). Cfr. TASSIN 1982, p. 360.
113
Cfr. MENOZZI 1995, pp. 92-96 e 144-148, Dizionario 2003,
pp. 525-527, BASCHET 2005, pp. 492-494 e 519-522, e
FROSINI 2005, pp. 22 e 24.
114
TASSIN 1992, p. 360.
115
1570. Visita, c. 197r.
116
Cfr. in BACCI 2004, pp. 232-233, il concetto trecentesco di
crocifisso “devoto”, cioè capace di “stimolare alla pietà e alla
meditazione sulla salvezza e sul sacrificio supremo che l’aveva
resa possibile”.
117
Così TASSIN 1982, p. 360, e BATTISTELLA 1909, p. 30, il
quale ultimo dice che il crocifisso era “appeso”, dimenticando
che il documento specifica che esso era super trabe, dunque
non ‘pendeva’ affatto, ma ‘si ergeva’.
118
Visitatio, c. 42r-43r; PASCHINI 1958, p. 88; VIGI FIOR 1981,
pp. 83 e 85-86; e cfr. VALE 1931a, c. 24. Agli altari ‘mediani’ si
possono accostare i “cori collocati al centro della chiesa”: cfr.
QUINTAVALLE 2003, pp. 239, 242-243, 245-247, 250 e 263.
119
GUERRAU 2002, pp. 232-233, e COLLARETA 2005, pp. 6264; cfr. PRACHE 2003, pp. 131, 133, 137 e 139; e vd. pure
QUINTAVALLE 2003, pp. 240 e 242.
120
JUSTULIN 1933, p. 3; Lis stradis 1986, p. 30; MARINI 1994, pp.
81-82; cfr. DE PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, pp. 271-273.
121
Secondo una paretimologica tradizione locale (vd. es. DE
PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, p. 271), il crocefisso oggi
venerato nella basilica patriarcale (alto m 2,15) sarebbe stato
ritrovato immerso nell’acqua sotto il ponte sul Natissa, per
questo soprannominato ‘dal Crist’: al di là dell’improbabilità che
un simile recupero sia effettivamente avvenuto (i racconti di
inventio sono comuni ma di solito si tratta di ‘pie’ leggende, per
di più riferite a sculture medio-piccole e non a statue di oltre due
metri), in realtà quel toponimo si riferiva al crocifisso venerato
nella vicina basilica di San Felice, come si vedrà. Si noti che
anche il Crocifisso Bresciani era soprannominato “Crocifisso dei
miracoli” (es. MICEU 2005, p. 160).
122
Lis stradis 1986, pp. 30 (errate le informazioni relative
all’identificazione del crocifisso con quello ora nella basilica
patriarcale), 59, 61-62 e 73-75; VIGI FIOR 1981, pp. 110-111,
doc. VIII, Stima delle Mure e Campanile che si trovano in essere
nella Chiesa detta del Cristo di San Felice (Aquileia, 20 marzo
1775); cfr. BRUSIN 1947. È interessante notare che il vocabolo friulano braida significa ‘podere chiuso’ ma anche ‘tratto
d’alveo abbandonato ridotto a coltura’: PIRONA-CARLETTICORGNALI 1972, p. 71. BATTISTELLA 1932, cc. 129-130,
ricorda una menzione datata 1326 della androna dicta del ponte
ubicata nella contrada Sancti Felicis già citata nel 1279.
123
Cfr. BASCHET 2005, p. 502.
124
Cfr. DELLA PORTA 1991, p. 157, e Biblioteca del Seminario
arcivescovile di Udine, Registro della Confraternita dell’Ospedale,
67/2 (ringrazio il dottor Gabriele Gavin per la segnalazione).
125
Visitatio, c. 41v; cfr. VIGI FIOR 1981, p. 84. La brutta copia
non si discostava granché: “Extra ecclesiam sub portichu est
altare cum titulo Christi Sancti Felicis non sacratum cum
altariolo portatile…” (1570. Visita, c. 197r).
126
VIGI FIOR 1981, pp. 53-54, 89, 91-96, 110 (doc. VIII), 114
(doc. X), 116 (doc. XII) e 119 (doc. XV); e cfr. MARCON 1962,
cc. 124 e 127. Nel 1759 la chiesa dei Santi Felice e Fortunato
fu detta “in Seminario” perché - come si dirà - dal 1603 il
124
beneficio della prepositura era stato unito al nuovo Seminario
patriarcale sorto a Udine: cfr. PASCHINI 1958, p. 91.
127
MOLARO 1920, pp. 102-103; FORNASIR 1981a, p. 94;
ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9. Apparentemente più concreta,
ma certo meno poetica, la ricostruzione proposta da GEROMETALBERTI 1999, p. 102: “il crocifisso partì da Aquileia, ma
giunto a Cervignano fu sorpreso da un terribile acquazzone,
che penetrò nel legno rendendolo ancora più pesante, sicché, vista
la fatica per trasportarlo, si pensò di lasciarlo in loco e da quel
giorno il crocifisso è ancora lì” (gli autori datano l’evento al
1207, ma non citano la fonte). Cfr. pure MICEU 2005, p. 160.
128
BRATOŽ 1999, pp. 394, 400 e cfr. p. 390, nt. 118; vd. pure
VIGI FIOR 1981, p. 10, e SCALON 1982, p. 278. BRATOŽ 1999
chiarisce come la data del 14 maggio risalga al calendario
liturgico milanese (p. 400 e cfr. p. 390), mentre quella dell’11
giugno sia una cattiva interpretazione della traslatio di altre
reliquie (p. 395, nt. 139). Per l’uso attuale, vd. Liturgia 1990,
pp.87-91. A Strassoldo e nel comprensorio cervignanese
è attestata la memoria di san Felice martire il giorno 20
novembre, allorché “alla prima Messa, veniva scoperta l’urna
contenente le reliquie del Santo, che rimaneva illuminata fin
dopo la processione pomeridiana” (DELUISA-DELUISA 1978, p.
33): al santo aquileiese era stato ‘sostituito’ l’omonimo eremita
francese Felice di Valois (1127-1212), cofondatore dei frati ‘trinitari’ per la liberazione dei cristiani schiavi dei Saraceni, il cui
attributo era un cervo (si noti che l’attuale, falsante stemma
‘partito’ di Cervignano reca un cervo ‘saliente’ a destra) con
una croce rosso-blu fra le corna e la cui festa fu trasferita dal 4
- dies natalis - al 20 novembre da Innocenzo XI nel 1679.
129
Vd. Visitatio, c. 42r, e cfr. c. 50r (“feste doppie de santi
martirizzati in Aquilegia … 14 agosto Felicis et Fortunati
martirum”); cfr. VIGI FIOR 1981, p. 84.
130
Vd. Visitatio, cc. 43r, 43v e 44r; inoltre cfr. VALE 1931b,
cc. 117-118.
131
Cfr. MOLARO 1920, p. 49 e 52 (nel 1570 sessantotto processioni).
132
La citazione è tratta da MOLARO 1920, p. 102. Sulla
distanza ‘relativa’ Monastero-Cervignano, cfr. pure ib., p. 49,
l’intera giornata di viaggio necessaria per trasportare un carico di grano “durante la stagione delle pioggie”. Sulle ‘braccia’
necessarie al trasporto del “Cristo della Contessa”, vd. es.
MICEU 2005, p. 163.
133
REYRE 1966, pp. 1290-1292; cfr. MARCHETTI 1958, p. 12
(“crocifissi lignei di grandi dimensioni, destinati originariamente ad alte collocazioni”), DI BERARDO 1994, p. 545, e vd.
pure BASCHET 2005, pp. 503 e 513.
134
Vd. FROSINI 2005, pp. 11-12, e cfr. ROSSETTI 1984, p. 106.
135
Cfr. DI BERARDO 1994, pp. 547-548; e soprattutto
MONTEVECCHI-VASCO ROCCA 1988, pp. 331 e 336. Si ricordi
la particolare crux portabilis costituita dal baculum a terminazione cruciforme (un’alta crocetta aurea) retto dal giovane Cristo
Buon Pastore in un famoso mosaico revennate, nella lunetta
soprastante la porta d’ingresso al mausoleo di Galla Placidia.
136
MONTEVECCHI-VASCO ROCCA 1988, p. 338.
137
CASADIO 2001, p. 65. Cfr. l’analoga lavorazione del
Crocifisso di Portis, in BERTONI-CREN 1998, pp. 24 e 26.
138
FROSINI 2005, p. 28.
139
FORNASIR 1981a, pp. 95-96.
140
ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9.
141
ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9. Cfr. pure MOLARO 1920, pp.
102-103, e FORNASIR 1981a, p. 94.
142
PETEANI-BRESCIANI 1890; FORNASIR 1981a, p. 94.
143
ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9; cfr. MOLARO 1920, pp. 101102.
144
Le informazioni dinastiche qui riportate sono attinte al
migliore ‘studio’ sulla famiglia: DEL TORSO Genealogie, cc.
359-360 e 362 (troppo sintetico JOPPI Genealogie). La proposta di identificare Antonio con Antonello è di FORNASIR
1981a, p. 91, il quale però a p. 93 non indica il ‘nostro’
Giovanni Pietro ma solo l’omonimo nipote (vd. DEL TORSO
Genealogie, c. 359). Inoltre cfr. MOLARO 1920, p. 105.
145
ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9.
146
Visitatio, cc. 41v-42r; cfr. BATTISTELLA 1909, p. 30,
MOLARO 1920, p. 141, VIGI FIOR 1981, pp. 82-84, TASSIN
1992, p. 360, e MIRABELLA ROBERTI 1993, p. 263.
147
BARZON 1953, p. 448; SOCOL 1986, pp. 88 e 114, nt. 71.
148
VIGI FIOR 1981, pp. 88 e 101, doc. II.
149
PASCHINI 1958, p. 91; VIGI FIOR 1981, pp. 88-89 e 102103, doc. III. Si ricordi che nell’agosto 1568 i canonici di
Aquileia avevano invano richiesto che “il seminario che si
doveva istituire, per decreto del Concilio di Trento, fosse
aperto nella loro sede” : cfr. BATTISTELLA 1909, p. 28.
150
VIGI FIOR 1981, pp. 89-90. Intanto a Cervignano, come
si è più volte ricordato, era stata costruita da oltre un secolo
(1614) la nuova chiesa di San Michele, che sarebbe poi stata
rifatta di lì a poco (a partire dal 1780).
151
PASCHINI 1958, p. 91. La ‘rimozione’ dovette avvenire
quasi di nascosto e ad Aquileia lasciò un gran ‘vuoto’ (DE
PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, p. 271: “poi, non si sa
come, scomparve”), che fu riempito con la leggenda del suo
miracoloso ‘riapparire’ sotto le ‘mentite spoglie’ del crocifisso
della basilica patriarcale (ibidem).
152
FORNASIR 1981a, pp. 66 e 259. Sui parroci di Cervignano,
vd. FORNASIR 1981a, p. 259. Su don P. Bressano, cfr. FORNASIR
1981b, p. 85, e COSTANTINI 2002, p. 117. ROSSETTI 1984, p.
43, ricorda che il pievano cervignanese aveva la preminenza
sugli altri preti in tutte le ufficiature del monastero femminile
di Aquileia.
153
La citazione è tratta dal pannello didascalico predisposto
dopo il recente restauro ed esposto nella cappella.
154
Alle opere dell’arte orafa segnalate da Luca Mor, si
aggiunga - per l’impostazione generale della figura e la resa
di alcuni particolari (braccia quasi orizzontali, tunica arrotolata, gambe diritte e parallele, capelli ricadenti sulle spalle,
ecc.) anche il gruppetto di tre piccoli crocifissi bronzei già su
croci astili conservati a Milano, attribuibili a manifattura (o
influenza) tedesca ed ascrivibili ai decenni centrali del XII
secolo, presentati in ZASTROW - DE MEIS 1975, pp. 47-48 e
tavv. LI-LIII.
155
Tutte le citazioni sono tratte da SEMFF 1980, p. 339 (traduzione dal tedesco della dottoressa Elena Viezzi, che ringrazio).
La rigidezza delle pieghe “è tipica dei crocifissi derivati da
modelli metallici” (FROSINI 2005, p. 143 nt. 8) o comunque
di piccole dimensioni, come gli avori (es. Crocifissione 2005,
p. 15, esemplare del X secolo).
156
SEMFF 1980, pp. 339-343.
157
LE GOFF 2003, pp. 97 e 105.
158
BASCHET 2005, pp. 499-502.
159
Per i dati del crocifisso sudtirolese, SEMFF 1980, p. 344 nt.
3; per quelli del crocifisso cervignanese, CASADIO 2001 e ID.
2003. Circa le essenze utilizzate per sculture lignee medievali,
vd. FROSINI 2005, p. 29. Anche per il Crocifisso di Portis di
Venzone fu intagliato legno di pioppo, ma se ne unirono sei
masselli distinti: BERTONI-CREN 1998, p. 25.
160
Cfr. BERTELLI-MERCADELLA 2001, p. 73.
161
CARLI 1960, p. 17, nt. 2; SEMFF 1992, pp. 116-118; FROSINI
2005, pp. 106-111 e 132-133.
162
Cfr. es. FROSINI 2005, pp. 39 e 108-109.
163
SEMFF 1980, p. 339-343. Cfr. la bocca del Cristo di Cervignano
con quella “sigillata dalla morte” del crocifisso affrescato nel XII
secolo sulla parete meridionale del sacello annesso alla basilica
di Summaga (Venezia): CASADIO 2006, p. 70.
164
Cfr. TARALON 1981, pp. 346-347, fig. 370-371, TOMAN
1999, p. 349, e DRIGO 1992, pp. 201-210. Al Crocifisso
sovrastante la pisside di Hildesheim può essere accostato
anche il Deposto che domina il reliquiario di scuola renana
del 1150 ca. del Victoria and Albert Museum (Deposizione
2005, p. 19). PLAZAOLA 2001, p. 349, afferma che “i crocifissi
romanici di ispirazione tedesca sono di grande originalità e
forza emotirva”: gli esemplari di Cervignano e Bressanone
confermano l’assunto. Però alcune caratteristiche erano diffuse anche altrove: cfr. es. il ‘Cristo di Curajod’ del Louvre,
opera di scuola francese del XII secolo (LÀCONI 1984, pp.
1754-1755). Non si dimentichino poi le notevolissime affinità con i ‘Volti Santi’(e le Maestà d’area iberica), particolarmente diffusi in Toscana, a partire da quello conservato
a Sansepolcro (Arezzo) recentemente restaurato e datato
addirittura all’epoca carolingia, “entro la metà del IX secolo”, ben prima dunque dei rimaneggiamenti del XII secolo
(cfr. FROSINI 2005, pp. 131-132, 134, 136 e tavv. 39-41, e la
bibliografia specifica ivi citata)!
165
VALE 1940, pp. 188; PASCHINI 1990, pp. 215, 236 e 261.
166
Cfr. MOR 1979, PASCHINI 1990, pp. 254-262. Su Artegna,
cfr. CAIAZZA 1999, pp. 13-15.
167
VALE 1940, pp. 188-191; SCALON 1982, pp. 99-100.
168
PASCHINI 1958, pp. 82-86; SCALON 1982, p. 44.
169
Cfr. BASCHET 2005, pp. 490, 505, 509-510, 513-515 e 531532 (“l’immagine-oggetto non ha senso, nel Medioevo, che
per il suo carattere localizzato”); FROSINI 2005, pp. 13 e 17;
BACCI 2004, p. 217; e, per la presenza reale di Cristo, Cristo
1994, p. 495.
170
SEMFF 1992, pp. 109-111.
171
SEMFF 1992, pp. 111 e 114-118.
172
Cfr. DRIGO 1992, p. 206 e p. 210, fig. 18.
173
Cfr. CRIVELLO 2004, pp. 568, 572, 575, 577 e 588-592.
Circa gli ‘strumenti’ a disposizione degli artisti medievali e la
circolazione dei ‘modelli’ da ‘ripetere’, cfr. ib., pp. 578-580.
174
Nell’ordine: MOLARO 1920, pp. 102-103; MARCHETTINICOLETTI 1956, p. 26; CARLI 1960, p. 17, nt. 2; FROSINI
2005, p. 133; ROSSETTI 1984, p. 104; SEMFF 1985, p. 110;
GENTILE 2003, p. 637; SFORZA VATTOVANI 1980, p. 1557;
MARCHETTI 1958, p. 13; ID. 1972, p. 224; CASADIO 2003;
GENTILE 2003, p. 637. D’altronde, se è vero che il tempo
ha favorito una sorta di ‘occultamento’ delle statue lignee
sotto “un denso strato significante, fatto di colori sgargianti,
stoppa, stucchi”, è altrettanto certo che questa particolare
tipologia scultorea medievale è stata dagli esperti non di rado
“relegata nell’ambito della produzione artigianale” a causa
“del materiale usato, meno nobile rispetto a marmo e bronzo,
e in particolare per la sua policromia” (FROSINI 2005, p. 7).
125
il cristo ritrovato
G. Caiazza
Cfr. Salmi 99, 5; 110, 1; 132, 7.
Cfr. EVANS - WIXOM 1997, pp. 137-139 nn. 85-86, 142144 nn. 89(A e B)-90, 374-375 n. 246, 499-500 n. 337; ed
anche Crocifissione 2005, p. 23. Sul concetto di ‘ornamentalizzazione’, elaborato da J.C. Bonne, cfr. ora BASCHET 2005,
pp. 522-523.
177
Cfr. il mosaico della lunetta interna sovrastante la porta
d’ingresso al piccolo nartece dell’oratorio di Sant’Andrea,
cappella privata dei vescovi eretta nel palazzo arcivescovile
di Ravenna fra 494 e 519 (es. in Cristo 1994, pp. 495 e 498499). Vd. pure l’assonanza fra il perizoma del Crocifisso e i
gonnellini di tre santi milites nel trittico eburneo del X secolo
ora al British Museum (Crocifissione 2005, pp. 14-15).
178
Cfr. DAVY 1988, pp. 169-177, 191-198 e 255-256 (“poiché
Cristo si fa uomo, sarà… l’uomo quadrato per eccellenza”;
“con l’Incarnazione ‘inscrive il quadrato umano nel cerchio
della divinità’; con la Redenzione spezza quel quadrato, del
quale “non resta che la croce”). Sul tema dell’uomo-microcosmo, cfr. pure LE GOFF 2005, pp. 140-145.
179
Vd. MONTEVECCHI - VASCO ROCCA 1988, pp. 73-77, 173174 e 358; e da ultimo GOI 2006, pp. 289 e 344, n. cat. I.42.
Cfr. pure Croce 1950a, cc. 964 e 972, e Croce 1950b, p. 2, e
Smalto 1999, pp. 746-747, oltre all’elegante crocetta bifaccia
costantinopolitana del 1080-1130 oggi al Metropolitan n.i.
1998.542 (www.metmuseum.org), o la “byzantine bronze and
enamel cross” bizantina in bronzo e smalti dell’XI sec. n. 414
di recente venduta on-line, per la forma quasi sovrapponibile
alla cervignanese (www.ancienttouch.com). Per esemplari
similari, cfr. es. le schede di R. Farioli Campanati nn. 58 e
73 in MORELLO 1990, pp. 156 e 186-187. Tutti si inseriscono
nell’ampio gruppo di gioielli bizantini decorati con smalti
cloisonné che fra gli esemplari più vicini alla crocetta di
Cervignano annovera un pendente piriforme (secondo XI
sec.) oggi a Washington, un ciondolo ‘da tempia’ a forma
di grosso crescente lunare (tardo XI - primo XII) ora al
Metropolitan e una punta di scettro (fine XI-prima metà XII)
in collezione privata svizzera. Su tali esemplari e sui motivi
decorativi, vd. GIAMPAGLIA 2003, pp. 8-9; CALÒ MARIANI
- CASSANO 1995, pp. 487-488, n. 9.2; CUTLER-NESBITT 1986,
I, p. 206; EVANS - WIXOM 1997, pp. 81 n. 40, 56-65, 173-174
n. 124, 249-250 n. 175, 296-297 n. 199, 358-363 nn. 240-241
e 497-499 nn. 334-335. Smalto 1999, pp. 754-755; FARIOLI
CAMPANATI 1986, pp. 418 sch. n. 245, 371 e 377 nn. 328-329
(ma il motivo era già noto: es. CARE EVANS 1986, pp. 87-88
e tav. VI).
180
Alle monache pensa CASADIO 2001, p. 66. Sulle crucicole,
vd. DI BERARDO 1994, pp. 545-546. Prodotti inizialmente
a Costantinopoli e in altre località dell’impero bizantino,
tali oggetti si diffusero poi in tutto il mondo ortodosso e
in Occidente, nelle aree venute in contatto con l’impero
d’Oriente: cfr. esemplari realizzati a Kiev nel XII sec. in
PIROVANO 2000, pp. 197-198, o la coeva valva anteriore conservata a Torcello in Museo 1978, p. 58, n. cat. 46/7.
181
Sulle definizioni regali del Messia nei testi biblici, cfr. es.
Dt 10, 17; 1 Tm 6, 15; Ap 17, 14 e 19, 16. Sul rapporto reCristo, vd. LE GOFF 2006, p. 6.
182
MOLARO 1920, pp. 96-97.
183
Cfr. FORNASIR 1981a, p. 92.
184
MOLARO 1920, p. 101.
185
MOLARO 1920, pp. 114-115; FORNASIR 1981a, p. 101.
175
176
126
MOLARO 1920, p. 123. Su San Girolamo, vd. ib. pp.
100-101. Cfr. pure FORNASIR 1981a, p. 87. ROSSETTI 1984,
p. 73, nt. 25, rileva che la cappella Bresciani già nel secolo
precedente era l’unico edificio cultuale a sé stante, accanto a
San Michele e San Girolamo; e nel 1811/12 la sola struttura
architettonica isolata ad essere segnalata nelle mappe catastali oggi all’Archivio di Stato goriziano.
187
MOLARO 1920, pp. 125-127.
188
MOLARO 1920, p. 103; FORNASIR 1981a, pp. 97 e 144, nt.
37.
189
Cfr. PENZO 1858, pp. 7, 27, 29, 31, 46-47, 49 e 56. Sul
rango elevato del casato transalpino, che vantava tra l’altro
una parentela con la famiglia del pittore Henri de ToulouseLautrec (informazione fornita dagli attuali discendenti), cfr.
MOLARO 1920, p. 103 nt. 3. A ricordo delle “nobili nozze
sponsalizie” fra il barone Francesco e la baronessa Enrichetta,
restano diversi scritti celebrativi e componimenti poetici
redatti o curati dai fratelli dello sposo, Giuseppe e Nicolò
de Bresciani, e da altri nobili ed eruditi locali, a partire da
Francesco di Toppo: pressoché tutti sono consultabili presso
la Biblioteca civica ‘V. Joppi’ di Udine.
190
Cfr. PENZO 1858, pp. 55 e 67.
191
Cfr. DEL TORSO Genealogie; JOPPI Genealogie (comprende
copia della partecipazione del matrimonio d’Elvenich-de
Bresciani), PENZO 1858, pp. 75, 82-83 e 87; FORNASIR 1981a,
pp. 92-93, e GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 99 e 102. Si ricordi
che già nel 1769 il conte Enrico d’Auersperg possedeva ben
245 campi nella palude di Cervignano: MOLARO 1920, p. 71.
Carlo d’Attems fu commissario di Cervignano nel 1935, sindaco dal 1935 al 1941 ed infine podestà nel 1942 e nel 1943:
vd. FORNASIR 1981a, p. 255.
192
Cfr. MOLARO 1920, p. 162, e FORNASIR 1981a, pp. 98,
170-171, 174 e 176.
193
Vd. MOLARO 1920, pp. 164-165 (bombe su via Roma e via
Verdi nel 1916) e 166-167 (bombe in via Trieste nel 1917),
e soprattutto MILOCCO 1999, pp. 12-13 (FORNASIR 1981a,
p. 184, sostiene invece che la nuova sede del comando fu il
castello di Strassoldo di sopra).
194
MOLARO 1920, pp. 168-169 e nt. 1, laddove l’a. risolve
anche l’equivoco Boroevic grazie alla firma lasciata da Wurm
“sull’Album dei forestieri” della villa.
195
FORNASIR 2003, p. 80; vd. pure CASADIO 2001; ID. 2003 e
MICEU 2005, pp. 160 e 162-163 (“processione anni ‘50”).
196
ZOPPÉ 1978, p. 88.
186
Fonti
Albero genealogico del barone de Bresciani, XIX secolo, collezione privata.
Città di Cervignano nel Litorale, f. 18, red. 1873, aggiorn. 1931,
Ufficio delle Imposte, Cervignano.
Comune di Cervignano del Friuli, f. 18, matrice 1974, Ufficio
Tavolare di Udine, Sezione staccata di Cervignano del
Friuli.
Copia del testamento della fondazione della cappella de Bresciani,
in Archivio Arcivescovile di Gorizia, fasc. Cervignano.
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fondo Del Torso, ms. 162, famiglia Bresciani.
A. JOPPI, Genealogie, in Biblioteca Civica di Udine, fondo
Joppi, ms. 716, famiglia Bresciani.
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Udine, Sezione staccata di Cervignano del Friuli.
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Bresciani in Cervignano, Trieste 1890, in Archivio Arcivescovile
di Gorizia, fasc. Cervignano.
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Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Udine, Archivio della
curia Arcivescovile di Udine, fondo Nuovi Manoscritti (già
fondo Vale), ms. 706.
Scheda A 656, Villa Bresciani Attems, a cura di O. Pitton,
Centro regionale di Catalogazione, Passariano 1990.
Scheda OA 26056 (rif. cartacea 11560), Crocifisso, Centro
regionale di Catalogazione, Passariano 1990.
Visitatio apostolica facta per Reverendissimum et Heminentissimum
Dominum Comitem Batholameum Purliliarum et Brugnariae
Abbatem Mosacensem cum potestate et auctoritate Pontifitii
Delegatum visitatorem in civitate et Diocesi Aquileiensi in statu
serenissmi Archiducis Caroli Austriaci, e annessa Esposizione
dell’anno 1570, Biblioteca Civica di Udine, fondo Principale,
ms. 1039.
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