Academia.eduAcademia.edu
il cristo ritrovato G. Caiazza LO ‘SFONDO’ PREZIOSO VILLA BRESCIANI E IL SUO ‘OSPITE’ PIÙ GRANDE COMPLESSO MAESTOSO SEPPUR NASCOSTO Attualmente ubicata nel centro storico della moderna cittadina di Cervignano del Friuli, benché in posizione defilata all’interno della sponda meridionale del fiume Ausa, villa Bresciani - Peteani von Steinberg - d’Attems von Petzenstein - Auersperg (Fig. 1) è sicuramente uno degli edifici di maggior pregio architettonico della località friulana ed uno tra i non numerosissimi ma particolarmente significativi ‘segni della storia’ inseriti in un contesto urbano in continuo ‘aggiornamento’ qual è quello dell’antica Cerveniana. Le sue origini sono sicuramente cinquecentesche, ma - benché testimoniate dall’analisi degli elementi architettonici e decorativi tuttora in situ, come si vedrà - non sono più documentabili in formato cartaceo dopo l’incendio occorso all’archivio dei proprietari nel 1789, le ‘asportazioni’ verificatesi durante il primo conflitto mondiale e le dispersioni legate all’intenso ‘viavai’ di documenti di famiglia in famiglia per motivi di successione1. Il monumentale complesso affacciato lungo l’odierna via Trieste era un tempo circondato da un’ampia area naturalistica privata, a poco a poco ‘erosa’ dalla forte espansione urbanistica della città moderna, avviata nella seconda metà dell’Ottocento2: nel XVI secolo, la villa era sorta infatti in una zona nettamente decentrata rispetto all’abitato più antico, tanto che originariamente, mentre il cortile d’accesso era spontaneamente limitato dalla strada, il vasto parco “si allungava nella campagna”3 retrostante l’edificio padronale. Altri estesi possedimenti terrieri, oltre a quelli ubicati presso la foce dell’Aussa (Baràncole) e nella zona palustre cervignanese (nel 1795 è attestato il Paludo Bresciani), erano destinati all’agricoltura e si allargavano al di là della cancellata posta all’ingresso principale al centro della recinzione, ancora chiaramente individuabili in fotografie di grande formato dei primi anni Cinquanta in possesso degli attuali proprietari4. Circa il casato cui si deve la fondazione del complesso, la famiglia (de) Bresciani che nel 1710 ottenne il titolo baronale (Fig. 2), comunemente si ritiene di doverne cercare le origini in una non meglio precisata famiglia Spizzamiglio proveniente da Brescia. Primo ad asserirlo fu Vincenzo Joppi in una precisazione aggiunta a posteriori al suo incompleto albero genealogico della famiglia cervignanese, ma la man- nel diploma di laurea di Andrea Bressan fu Antonio, del 16935. Benché finora tutt’altro che dimostrabile nonostante le più accurate indagini genealogiche esperite, il presunto trasferimento dalla Lombardia in Friuli potrebbe essere effettivamente avvenuto, ma quantomeno fra Quattrocento e Cinquecento, visto che una famiglia Bressan, Brissano o Brissiano è già attestata a Cervignano intorno alla metà del XVI secolo6. L’alternarsi delle forme è poi riscontrabile fino all’estinzione del casato, con la baronessa Maria Anna “EX CLARO BRIXIANORVM GENERE VLTIMA PROLES”: gli stessi documenti dell’Ufficio tavolare riportano la forma italianizzata Bresciani, che è la più diffusa, accanto alla variante aristocratica de Bresciani, la ‘semplificata’ Bressiani e la genuina Bressani, che è Fig. 2 – Albero genealogico del barone de Bresciani, 1857 ca. (collezione privata). Fig. 1 – Attraverso il cancello affacciato su via Trieste s’intravede il corpo centrale di villa Bresciani (G.C.). cata citazione della fonte lascia supporre che possa trattarsi di una congettura. In una lettera ad Enrico del Torso, nel 1952 Carlo d’Attems dichiarò che “in quanto alla origine dei Bresciani non posso né confermare né negare quello che scrive lo Joppi, perché non ne ho gli elementi”, ma aggiunse che “la mia opinione personale, che però non posso corroborare e che può benissimo essere errata, è che il cognome originario dei Bresciani era Bressan o Brescian, cognome abbastanza diffuso”, attestato per esempio 84 anche la più vicina al cognome tipicamente friulano Bressan7. Non si può tacere che in Friuli esiste una località chiamata Bressa, attualmente frazione del comune di Campoformido, attestata già in documenti duecenteschi, che approfondendo l’indagine potrebbe risultare la vera ‘sorgente’ del nome di famiglia in questione8: quantunque infatti non vi siano dubbi che la massima concentrazione del cognome Pizzamiglio si riscontri nelle province lombarde, va sottolineato che la - forse apparente - variante 85 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 3 - La veduta d’insieme mette in evidenza la caratteristica conformazione ad “U” degli edifici ad uso residenziale (collezione privata). nella pagina a fianco: Fig. 4 - Il pozzo sovrastato dalla bandierina recante la data 1652 (collezione privata). Spizzamiglio, ancorché meno comune, sia oggi attestata quasi soltanto nella nostra regione9. In mancanza di dati certi sulla presunta emigrazione (ai due toponimi citati se ne potrebbero aggiungere numerosi altri: dal milanese Bresso al sudtirolese Brixen…), si profilerebbe la ragionevole ipotesi che un nucleo familiare, denominato Spizzamiglio presumibilmente a motivo di un antico soprannome generico, si sia spostato da Bressa a Cervignano prima del 1559, venendo qui soprannominata in riferimento al luogo d’origine “i Bressàn”, in friulano ‘quelli (originari) di Bressa’ (“chei di Brèsse”), cioè i ‘di Bressa’10. ESTERNO ARTICOLATO ED INTERNI SONTUOSI Al presente, l’insieme da tutti denominato ‘villa Bresciani’ si incentra su un complesso residenziale dalla tipica conformazione ad ‘U’, creata da due ali piuttosto sviluppate inserite perpendicolarmente alle estremità del corpo padronale, a sua volta inconfondibilmente caratterizzato da una parte centrale timpanata aggettante, imperniata su un - a dir poco - appariscente ingresso sopraelevato, incorniciato 86 a mo’ di porta urbica in cima al solenne scalone in pietra bianca che dà direttamente accesso al salone del piano nobile (Fig. 3). La facciata riflette lo schema tripartito della pianta: le aperture si aprono, ordinatamente, simmetriche rispetto all’asse centrale sottolineato dalla scalinata e dall’elegante portale, che presenta un bugnato “assai simile alle porte delle città, frequenti nel Veneto e che si fanno risalire al Sanmicheli, con due grandi guglie, il frontone e lo stemma”11. Al di sopra della trabeazione modanata aggettante, l’attuale ingresso principale è in effetti sormontato dallo stemma nobiliare della famiglia Bresciani privo degli ‘smalti’ (sarebbe: d’azzurro alla torre d’argento merlata alla guelfa, la porta e le finestre chiuse, poggiata su una montagna al naturale, al destrocherio vestito di rosso impugnante una chiave posta in sbarra): fiancheggiato da due pinnacoli sagomati, esso è posizionato al livello del granaio ed è a sua volta sovrastato dall’ampio timpano impostato sulla linea di gronda, estrema propaggine della robusta travatura lignea che sostiene la tradizionale copertura in tegole. Le due ‘barchesse’ laterali, che si dipartono dalle estremità orizzontali del nucleo dominicale, presentano un andamento sobrio e lineare, essendo caratterizzate da ordini di aperture (finestre e porte) regolari e simmetriche. La stessa essenzialità si può riscontrare nella facciata secondaria del nucleo dominicale, sul retro della villa, di fronte al parco, che è mossa soltanto da un poggiolino in pietra bianca di cui si dirà, oltre che dalle inferriate delle finestre e dalla ringhiera in ferro battuto posta a definire il balconcino di quella che fino a non molto tempo fa era la camera della contessa Maria Edith Attems Petzenstein. Esattamente davanti alla scalinata, il cortile d’onore è impreziosito da un’ampia vasca circolare con fontana centrale zampillante circondata da aiuole ed è delimitato dalle due ali, parzialmente nascoste agli sguardi dei passanti dalle fiorenti essenze arboree del breve giardino antistante. Queste stesse alberature coprono quello che dovrebbe essere l’ingresso principale della cappella gentilizia, che si erge a breve distanza dal capo dell’ala ovest, mentre davanti a quello della barchessa orientale, nobilitato dalla presenza di un’austera meridiana rettangolare, s’innalzano le spire in ferro battuto dell’artistica duplice incastellatura di un largo pozzo dal disadorno parapetto anulare in semplici mattoni ma con sponda in pietra, spire occultate da copiosi rampicanti al di sopra dei quali sbuca a fatica una bandierina metallica recante la data 1652 ricavata a traforo (Fig. 4). Secondo qualcuno, quest’ultimo elemento potrebbe indicare l’anno di conclusione dei lavori di costruzione della villa12, ma in realtà potrebbe semplicemente trattarsi di un esplicito riferimento all’epoca di realizzazione del magnifico manufatto fabbrile posto a coronamento del pozzo al tempo di Giovanni Domenico Bresciani: allora sessantaduenne, questi era nato all’indomani dell’ottenimento del riconoscimento della nobiltà (1589), da trentadue anni era sposato con la contessa Gaspara di Strassoldo dalla quale aveva avuto (1636) l’erede Giovanni Giuseppe, che di lì a poco avrebbe ottenuto - anche per i fratelli - l’elevazione al rango del cavalierato del Sacro Romano Impero (1653)13. Addossato al lato ovest, si trova infine l’ampio corpo rustico, originariamente destinato ai locali di servizio - alloggi per i contadini, rimesse per gli animali, ecc. ed oggi adibito a sede di un’azienda florovivaistica14. Alle pertinenze del complesso signorile d’un tempo appartenne altresì il fabbricato posto sul lato est del fronte strada, che doveva essere il classico foledôr (principalmente tinaia, ma non soltanto) della villa signorile friulana, mentre oggi è una casa a sé stante, isolata dal resto del complesso. All’interno della villa si susseguono ambienti carichi di storia, caratterizzati da un arredo di una ricercata ma al contempo controllata eleganza. La chiara ‘impronta’ veneta manifestata dall’impianto planimetrico ad ‘U’ emerge anche dalla distribuzione degli spazi interni, imperniati sulla sala passante terrena a colonnine lignee (se ne riparlerà) e sul soprastante salone d’onore. Tutte le altre stanze della villa si dispongono simmetricamente ai lati dell’asse centrale ed alcune sono caratterizzate da un proprio ‘programma iconografico’: così, se le pareti delle sale ‘delle armi e della musica’ sono contraddistinte dalla presenza di numerosi esemplari di armi bianche, stampe e dipinti di soggetti diversi, che fanno da pendant ai ritratti fotografici che coprono il vecchio pianoforte a coda, i muri della biblioteca sono arricchiti dai ritratti degli antenati delle famiglie Bresciani e Peteani, mentre due salottini presentano raffigurazioni di personaggi dei casati Attems ed Auersperg15. RIFLESSI DELL’ARTE PITTORICA Sulle due pareti longitudinali del salone d’onore, la grande sala posta al centro del piano nobile, spiccano in tutta la loro imponenza due grandi tele riproduenti altrettanti leggendari episodi tratti dalla Storia romana di Tito Livio e dalle Vite parallele di Plutarco: Il ratto delle Sabine e Coriolano fermato da Veturia e Volumnia. Citate solo di rado ed attribuite tout court a Pietro da Cortona16, le due opere meriterebbero senza dubbio un approfondimento critico. Più che di lavori integralmente attribuibili al grande pittore barocco, pare trattarsi di riproduzioni di buona mano delle opere di analogo soggetto più volte eseguite dal maestro stesso e/o dai membri del suo immediato entourage17: benché prive di firma, esse sono dunque 87 il cristo ritrovato Fig. 5 – Anonimo cortonesco, Ratto delle Sabine, seconda metà del XVII secolo, particolare (G.C.). Figg. 6-7 – Anonimo cortonesco, Coriolano fermato da Veturia e Volumnia, seconda metà del XVII secolo, particolari: il protagonista in ascolto e le donne imploranti (G.C.). verosimilmente attribuibili a qualche allievo o a qualche seguace del Berrettini e potrebbero addirittura rivelarsi un patrimonio ancor più rilevante di quanto si possa pensare. La prima (Fig. 5), in particolare, è una reinterpretazione ‘speculare’, di minore altezza ma più allungata orizzontalmente (cm 195 × 450) dell’omonimo olio su tela (cm 280 × 426) dipinto nel 1630 o ’31 per i marchesi Sacchetti dal celebre artista cortonese ed oggi conservato alla Pinacoteca Capitolina di Roma, quel Ratto delle Sabine che è considerato il primo capolavoro della pittura barocca romana per l’asimmetrico ma calcolato disordine di una composizione di esuberante e policroma vitalità, di cui furono eseguite diverse copie nello studio del maestro18. Episodio leggendario, il ‘ratto’ costituisce la prima e principale delle due varianti con cui è stato solitamente rappresentato questo noto ‘momento’ della Roma primitiva: il rapimento delle donne da parte dei Romani (l’altra, meno frequente, è quella che raffigura le Sabine impegnate a porre fine al combattimento tra nuovi e vecchi ‘familiari’: se entrambe compaiono nei cinquecenteschi affreschi dei Carracci a Bologna, della seconda è famosa in particolare la versione ottocentesca di J.L. David, mentre le più celebri redazioni della prima sono il gruppo scultoreo cinquecentesco del Giambologna ed appunto il seicentesco dipinto di Pietro da Cortona). Secondo la leggenda, per dare ai Romani le spose di cui erano privi, Romolo fece loro rapire durante le prime consuali le donne dei Sabini, da lui appositamente invitati alla festa: ne seguì una lunga guerra, cui pose fine l’intervento delle donne stesse e che ebbe come esito l’ammissione dei Sabini alla cittadinanza e l’associazione al potere del loro re Tito Tazio19. La seconda tela - identica alla prima per dimensioni - immortala invece il momento in cui le matrone romane Veturia e Volumnia convincono Coriolano, rispettivo figlio e marito, a non attaccare Roma (Fig. 6). Personaggio leggendario creato verosimilmente per giustificare le alterne vicende belliche tra Romani e Volsci ed al contempo esaltare la grandezza d’animo del patriziato, secondo la tradizione il console romano Cneo Marcio nel 493 a.C. conquistò Corìoli, capitale dei Volsci, ottenendo il soprannome Coriolano che lo rese celebre. Attiratosi, per la sua politica oligarchica, le accuse della plebe di volerla ridurre alla fame, fu esiliato proprio tra i Volsci e qui, per rivalsa contro la madrepatria, convinse i vecchi nemici ad affidargli il comando dell’esercito: dopo i suoi primi successi, il Senato romano lo supplicò invano di desistere, ma solo le preghiere della madre Veturia e della moglie Volumnia riuscirono a frenarne la determinazione inducendolo a ritirarsi, anche se così facendo egli andò incontro alla morte per aver tradito la causa volsca. Per questo soggetto il ‘copista’ potrebbe essersi ispirato all’analogo affresco dipinto dal pistoiese Giacinto Gimignani (abile seguace del Berrettini poi resosi autonomo) verso il 1648 insieme ad un Ratto delle Sabine “versione austera e razionalizzata del prototipo cortonesco”20 nella Sala della storia romana del palazzo Pamphilj affacciato su piazza Navona (attuale sede dell’Ambasciata del Brasile), opera per le cui figure alcuni non escludono l’intervento dello stesso Pietro21. Al di là dell’effettiva paternità delle due opere cervignanesi, altri interrogativi sorgono circa il motivo della loro presenza nel salone d’onore di villa Bresciani, l’epoca in cui furono eseguiti ed il nome del committente… Tutte questioni al momento aperte ma che potrebbero trovare soluzione nel prosieguo delle ricerche. Quanto alla motivazione della scelta dei soggetti, si può avanzare un’ipotesi sufficientemente attendibile. Il Ratto è stato in passato citato come simbolo dell’ideale femminile di virtù (in particolare per la sposa), della fortezza femminile, della fondazione della famiglia, ma ha anche da sempre simboleggiato la protezione divina accordata all’Urbe, risultando utile a vari committenti come mezzo di autocelebrazione: un ‘tramite’ promozionale perfetto per i nobili Bresciani (il sessantaduenne Domenico, il diciassettenne primogenito Giovanni Giuseppe e gli altri figli) dal 1653, anno in cui furono creati cavalieri, a poco più di un ventennio dall’esecuzione del prototipo-Sacchetti da parte di Pietro da Cortona…22. Da meno di un lustro si erano poi conclusi i lavori di decorazione guidati da Olimpia Maidalchini Pamphilj nel palazzo romano, nel cui programma decorativo “l’argomento delle origini” rivestiva un ruolo molto importante: i Pamphilj facevano risalire le proprie origini al re Numa Pompilio23, che secondo il mito era nato lo stesso giorno della fondazione di Roma da parte di Romolo, al quale erano dedicati tre dei quattro episodi affrescati da Gimignani nel fregio della sala dedicata alla storia romana (Ritrovamento di Romolo e Remo, Ratto delle Sabine, Romolo consacra il bottino di guerra o Le spoglie opìme), essendo il quarto come detto incentrato sulle implorazioni accolte da Coriolano24 (Fig. 7). Molto probabilmente, quel che era da poco accaduto a Roma si ripeté a Cervignano, 89 il cristo ritrovato G. Caiazza dove anche i Bresciani vollero eternare le proprie blasonate ascendenze al fine di comprovare la legittimità della nuova dignità raggiunta. D’altronde, il salone d’onore era il più importante ambiente ‘pubblico’ delle ville e dei palazzi dell’aristocrazia - anche friulana - dell’epoca, la stanza di rappresentanza per eccellenza, la grande sala nella quale ricevere le visite degli ospiti di riguardo ma anche le suppliche o le richieste di favori (comunque di persone di un certo livello sociale, non essendovi ammessi i sotàns: fattori, contadini, affittuari, braccianti ecc.)25. A nessuno di essi sicuramente avrebbe potuto sfuggire il messaggio sotteso a determinate raffigurazioni, esplicitamente alludenti alla forza e determinazione (Ratto), alla pìetas e nobiltà d’animo (Coriolano), ma soprattutto al sempre più alto rango della famiglia Bresciani. Queste stesse spiegazioni andrebbero benissimo anche nel caso in cui si potesse dimostrare che le due tele in questione siano entrate a far parte - non tanto su commissione, quanto a seguito di un acquisto ‘mirato’ - delle collezioni e dell’arredo della villa più tardi: in tal caso si potrebbe pensare al 1710, anno in cui i fratelli Giovanni Domenico, Giovanni Battista, Giovanni Pietro e Giovanni Antonio de Bresciani ottennero dall’imperatore asburgico per sé e per i membri del loro casato il titolo di liberi baroni del Sacro Romano Impero26. 90 ORIGINI ACCERTATE Il nucleo originario dell’immobile principale risale al secolo XVI: lo dimostrano tra l’altro i resti dei vivaci affreschi ornamentali riemersi - durante lavori di sistemazione eseguiti nel 1962 - sulla parte alta delle pareti nord e ovest della moderna cucina del piano nobile, la cui originaria destinazione a camera per gli ospiti - attestata dai proprietari attuali - è ribadita dai soggetti delle raffigurazioni pittoriche “che si muovono in alto come fregio” (Fig. 8)27. A quanto si è potuto appurare durante le indagini che hanno portato alla stesura del presente contributo, si tratta di affreschi da tempo noti ma tuttora inediti: l’unica riproduzione fotografica - parziale - fino ad ora pubblicata risulta errata, verosimilmente a causa di un refuso tipografico28. Inoltre, i pochi autori che finora se ne sono occupati descrivendoli sono stati piuttosto imprecisi, riferendo queste opere pittoriche alla “facciata posteriore” della villa, che invece è del tutto priva di decorazioni pittoriche: in realtà si tratta sì della parete posteriore del corpo centrale, ma dal lato interno! Del tutto arbitraria è oltretutto l’identificazione dei soggetti dipinti con delfini, divinità marine, sirene e generiche figure mitologiche, così come il riferimento ad una presunta vivacità dei colori impiegati dall’ignoto frescante29. Servendosi manife- Figg. 8-11 – Affreschi ornamentali nell’ex camera per gli ospiti, XVI secolo (G.C.). 91 il cristo ritrovato G. Caiazza stamente di una gamma cromatica piuttosto limitata, quest’ultimo eseguì nelle tinte rosso-marrone-blu una serie di accattivanti scene raffiguranti giochi di putti e fantastiche creature zoomorfe (Fig. 9), veri e propri monstra degni di un bestiario medievale ma al tempo stesso in qualche modo ‘familiari’ (si riconoscono volatili e teste canine, ovine e bovine, oltre a corpi da quadrupedi e code composite da creature marine, reali e mitologiche) (Fig. 10): scene animate a metà fra ingenuità e ‘maniera’, accompagnate ed al contempo separate da più o meno lunghe file di grosse perle nelle tonalità del blu ed incorniciate da schematici festoni resi nelle stesse gradazioni delle immaginifiche figure (Fig. 11)30. Pure l’analisi delle murature conferma la datazione cinquecentesca del nucleo edilizio primitivo: la particolare ‘consistenza’ di alcune pareti rispetto ad altre - appurata dal vivo nel corso dei restauri del ’62 - dimostra inoltre che tale nucleo si limitava ad uno sviluppo minore dell’attuale, compreso com’era fra quelli che oggi sono il solido muro occidentale del salone e la spessa parete orientale della prima sala ad est del salone stesso, che da ultimo funse da sala da pranzo della contessa Maria (e difatti sulle Fig. 12 - Pianta del complesso ex Bresciani: rielaborazione della mappa del 1974 conservata all’Ufficio tavolare di Cervignano. Fig. 13 - Villa Bresciani-Peteani, acquerello, 1891 (collezione privata). 92 pareti spiccano ritratti della stirpe d’Attems) ma in precedenza era stata utilizzata come salottino con caminetto31. Sulle origini ancor più remote di quell’unico e compatto fabbricato nulla è possibile dire al momento, ma certo esso è genericamente assimilabile alle “case padronali” dal “corpo centrale di forma quasi cubica” che nel XVI secolo costituivano uno dei principali tipi di villa in Friuli32. Con il passar del tempo, quell’edificio divenne l’attuale ‘elemento’ mediano: in data imprecisata fu infatti ‘allungato’, in particolare verso ovest, in modo tale da raggiungere una nuova simmetria rispetto all’ingresso principale posto al centro del pianterreno. Fra il 1760 ed il 1770 il fulcro dominicale fu infine “quasi per intero” riattato e “di molto” ampliato, a partire dall’aggiunta dei corpi di fabbrica laterali - le due ‘ali’ di cui si è già parlato - che conferirono alla pianta il caratteristico andamento ad ‘U’ (Fig. 12)33. Nella seconda metà del Settecento è attestato un rimaneggiamento pressoché totale del complesso, verosimilmente in seguito all’incendio del 1789, che oltre a devastare l’archivio di famiglia dovette al contempo danneggiare le strutture architettoniche34. Se l’ipotesi fosse corretta, i lavori di riatto andrebbero ascritti al barone Giuseppe de Bresciani, sposo della contessa Bianca di Toppo oltreché figlio di Giovanni Antonio de Bresciani, che nel 1710 aveva ottenuto il titolo baronale. Una cosa è sicura: l’entrata principale non fu ‘spostata’ al primo piano in tale occasione35, bensì oltre cent’anni più tardi! Come infatti testimonia il disegno acquerellato non firmato ma datato 1891 conservato nella collezione privata degli attuali proprietari (Fig. 13), la sopraelevazione fu voluta e commissionata soltanto alla fine del XIX secolo: per risolvere la malsana situazione legata alla forte umidità causata dal frequente risalire dell’acqua dal sottosuolo, il cavaliere Enrico fu Antonio Peteani von Steinberg, nonno della contessa Maria fece aggiungere (oltre ad “un rialzo adatto nella parte di mezzo”) l’ampia e maestosa scalinata esterna in pietra bianca ad unica rampa36, che tuttora giunge al piano nobile aprendosi sull’ampia balconata provvista di elegante balaustra in pietra, inserimento di cui s’avvantaggiò il portale incorniciato in bianca pietra bugnata precedentemente affacciato sul cortile d’onore dall’alto del poggiolino aggettante dal salone, elegante elemento litico che proprio allora fu rimosso e reimpiegato davanti alla porta-finestra rivolta sul parco retrostante (Fig. 14), dall’altra parte dello stessa grande sala del primo piano. In tal modo si conferì all’insieme quel caratteristico aspetto che oggi dà all’osservatore l’impressione di trovarsi di fronte ad un fabbricato ad un solo piano e notevolmente rialzato rispetto al suolo37, mentre si tratta di una tipica villa elevantesi fuori terra di due piani più il sottotetto38: il pianterreno è semplicemente e suggestivamente celato dalla scenografica gradinata, ma è tuttora ben visibile e normalmente accessibile (dietro e sotto la scala) dall’originario portale inserito fra quattro lesene, al di là del quale ci si ritrova nell’antica sala passante con soffitto a travatura lignea sorretta da eleganti - e solo apparentemente esili - colonnine in legno su basi in pietra39 (Fig. 15). Attraverso questo interessantissimo ambiente, momentaneamente deputato a mere funzioni di deposito, si giunge al tuttora rigoglioso parco retrostante, attraversando il portale a sesto ribassato sottostante il poggiolino di reimpiego succitato, insieme talora indicato come “facciata originale” della villa40, ma molto probabilmente a torto, come dimostrano la sua esposizione a tramontana (è tipico delle pareti posteriori trovarsi in ombra) nonché la maggiore articolazione degli spazi e degli elementi architettonici (si notino, per esempio, gli stipiti del portale ora nascosto dallo scalone) su quello che è ed era il prospetto principale, correttamente esposto a solatio. ANTICHITÀ PERTINENZE E MODIFICHE Il ‘giardino’ di villa Bresciani copre soltanto una parte dell’originaria più ampia estensione, ma mantiene quasi intatte le sue dimensioni da quando, oltre centotrent’anni fa (1873), risultava accatastato come ‘orto’ circondato da ‘pascoli’, ‘arativi’ e ‘vigne’ a nord, mentre verso est un’enorme distesa di terreni coltivabili in precedenza appartenuti ad altri cinque proprietari (quattro privati e la “chiesa di Cervignano”) furono poco alla volta acquisiti dai Bresciani, che già possedevano ampie superfici ‘arative’ verso sud, di fronte alla villa41. Il parco è ancora delimitato da un’alta cinta muraria che circoscrive l’intera proprietà e segna “nettamente il confine con l’esterno”, creando quello che è stato definito “un microcosmo”, trattandosi di una ‘natura’ contraddistinta da una totale “indipendenza dall’ambiente circostante”, nota tipica dei parchi delle ville friulane42. Esso è inoltre tuttora attraversato da vialetti che si insinuano in mezzo alle ampie fronde dei numerosi palmizi (Fig. 16), degli alti ippocastàni e degli altri alberi secolari, fra i quali si distingue un tiglio pluricentenario, la cui presenza ha anche richiamato le attenzioni del Corpo Forestale dello Stato43. Al di là del parco, oltre una bassa muraglia divisoria in cui si apre pure il passaggio diretto ricavato accanto alla casetta del contadino (i cui ruderi lasciano ancora intravedere una caratteristica struttura muraria ‘a traliccio’ di chiare ascendenze tardomedievali), si estende il vasto spazio in origine destinato ad orto e frutteto, al di là del quale si allungavano a perdita 93 il cristo ritrovato d’occhio i campi coltivabili poc’anzi menzionati. Qua e là, in mezzo al verde del parco, si possono ammirare alcuni reperti romani, talvolta riuniti in piccole ‘composizioni’ che rievocano i celeberrimi ‘capricci’ in cui il gusto per il rovinismo rendeva evidente l’influsso romantico: diverse urne cinerarie, anfore di varie tipologie (Fig. 17), resti sparsi e due grossi frammenti dell’operculum displuviato di un sepolcro. Questi ultimi appartenevano ad un sarcofago a cassa liscia in pietra scolpita a imitazione di un sopra a sinistra: Fig. 14 - Poggiolino reimpiegato sul retro del salone d’onore, sovrastato dallo stemma della famiglia Peteani (G.C.). a destra: Fig. 15 - L’ingresso originario alla villa (oggi ‘coperto’ dallo scalone) e la sala terrena passante con colonnine lignee (G.C.). in alto a destra: Fig. 16 - Palmizi su montagnola artificiale all’interno del parco (G.C.). sopra a destra: Fig. 17 - Anfore di diverse tipologie ed urna cineraria di età romana nel parco della villa (G.C.). 94 tetto coperto con embrici e coppi (lunghezza totale m 2,13; larghezza cm 72; spessore cm 8; altezza cm 25) dell’inizio del II secolo d.C., come pare dimostrare l’accurata e regolare esecuzione (modulo 5 x 5) dei caratteri capitali presenti sugli ‘specchi’ costituiti dalle finte tegole (della riga superiore si vede solo la parte bassa di qualche lettera, mentre nella riga inferiore si leggono le due parti della formula ANIMAE MERENTI formata da due gruppi di sei caratteri separati da un ‘coppo’, con il nesso NT in penultima posizione)44 (Figg. 18-20). Il coperchio risulta privo del colmo del finto tetto, ma presenta sulla superficie sbozzata due fori non passanti: forse fu ricavato dalla giunzione di due pezzi litici, o più verosimilmente fu tagliato in epoca recente per essere reimpiegato rovesciato, non tanto come vasca di fontana quanto come seglâr, il caratteristico acquaio friulano45. Allo stesso sarcofago potrebbe appartenere il malridotto cassone rettangolare impiegato come vasca per l’acqua nella vicina floricoltura, il quale presenta misure compatibili con quelle dell’opercolo giacente nel parco della villa (m 2,12 di lunghezza, cm 66 di larghezza, cm 8 di spessore e cm 57 di altezza). A queste già notevoli testimonianze vanno aggiunte alcune anfore intere (vinarie e olearie) conservate all’interno della villa (Fig. 21) e due frammenti di decorazione scultorea murati in un corridoio al pianterreno, un pezzo di elegante trabeazione con ornato a piccoli ovuli ed una porzione di cornice angolare di Fig. 18 - Sarcofago romano, II secolo d.C., frammento anepigrafo (G.C.). Fig. 19 - Sarcofago romano, II secolo d.C., frammento con iscrizione “animae“ (G.C.). Fig. 20 - Sarcofago romano, II secolo d.C., frammento con iscrizione “merenti” e foro (G.C.). In alto: Fig. 21 Anfore romane di diverse tipologie suggestivamente disposte all’interno della villa (G.C.). 95 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 22 - Il parco della villa Bresciani “attraversato” dal tracciato della strada romana per il nord (da ROSSETTI 1984). Fig. 23 - La colombaia di villa Bresciani (G.C.). 96 ara funeraria con motivo a foglie di vite e grappoli. È verosimile che la maggior parte di questi reperti provenga dall’immediato circondario, giacché in età romana il territorio dell’attuale Cervignano era attraversato in direzione nord-sud da un lungo tratto di una fra le principali arterie dell’area altoadriatica, che da Aquileia puntava verso nord: è ininfluente che si trattasse della via che viene tradizionalmente ma impropriamente denominata Iulia Augusta o della porzione conclusiva della via Annia proveniente da nord-est attraverso il ‘ponte Orlando’ sull’Aussa, oppure del tratto finale della Postumia, che all’altezza dell’attuale Sevegliano si innestava sulla già ricordata direttrice per il Noricum46… Questo importante asse della comunicazione terrestre, che si intrecciava a non meno importanti vie d’acqua fra cui il fiume Aussa, provenendo da Terzo saliva diritto verso nord tagliando longitudinalmente una buona parte di quelli che sarebbero diventati i principali possedimenti cervignanesi dei Bresciani, incluso l’angolo nordorientale del parco della villa47 (Fig. 22). D’altro canto, a distanza di poche centinaia di metri dal sito più tardi sfruttato dai facoltosi baroni si trovarono alcuni insediamenti e necropoli sufficientemente estesi, dai quali proverranno gran parte i reperti testé ricordati48. All’altro angolo del parco, davanti alla facciata posteriore dell’ala ovest, si conserva una interessantissima colombaia, perfettamente conservata in tutte le sue parti e presumibilmente risalente al XVII-XVIII secolo, che ha già suscitato l’interesse di studenti universitari e studiosi accreditati. Benché per la colombicoltura si impiegassero anche terrazze chiuse sovrastanti il tetto o stanze ubicate nel sottotetto (tanto che il vocabolo piccionaia è divenuto pressoché sinonimo di ‘ultimo piano’), nella fattispecie si tratta di un’alta torretta quadrilatera in muratura (Fig. 23) destinata all’allevamento ed all’ammaestramento - detto trenaggio - dei colombi, volatili dei quali fin dall’antichità l’uomo sfruttò, al fine di inviare e ricevere messaggi, la capacità di orientarsi ovunque e ritornare al proprio nido, oltre a ricavarne come apprezzato alimento la carne degli esemplari giovani (piccioni) e come ottimo fertilizzante le abbondanti deiezioni (colombina): la nobiltà godeva addirittura di uno specifico ‘diritto del colombaio’, speciale privilegio di allevare “colombi di alto volo” al preciso scopo di spedire e farsi recapitare corrispondenza49. Accessibile agli allevatori, la torricella ubicata sul retro di villa Bresciani presenta al piano più alto una duplice serie di entrate/uscite equidistanti, le cosiddette buche, inferiormente fornite di piatto bordo sporgente orizzontale sorretto da mensole (in sostituzione del non comune asserello ligneo), atto non soltanto a favorire il tipico, prolungato ‘appollaiarsi’ dei colombi e le partenze e gli arrivi di questi un tempo insostituibili ‘messaggeri alati’, ma eventualmente anche ad impedire l’accesso ai malintenzionati (gatti, topi, ladri…)50. Tornando al citato acquerello del 1891, si possono fare ulteriori considerazioni, confrontando l’immagine ‘a volo d’uccello’ tardottocentesca con la facies odierna della villa e con un’altra ed ancor più elegan- te raffigurazione acquerellata conservata nella stessa collezione privata ma eseguita nel 1922, in occasione dell’emanazione del decreto legislativo che dichiarò la villa Bresciani “monumento nazionale” (Fig. 24). In quest’ultima immagine, l’elegante fabbricato principale è rappresentato in realistica prospettiva e completo delle due ali, circondato da una cornice dipinta sovrastata dallo stemma Bresciani fra l’arme d’Attems e lo scudo Peteani, riuniti sotto la corona ‘tollerata’ (un cerchio d’oro rabescato, ornato di smalti policromi, brunito ai margini e cimato da sedici grosse perle - nove visibili - su altrettante punte) sorretta da due angeli; alla base della finta incorniciatura un lungo cartiglio orizzontale contiene il motto “Tempora mutantur sed non nos in illis”, ‘i tempi mutano, ma non noi in essi’ (divisa in lingua latina che è un chiaro rimando al succedersi dei titolari nella continuità di un’ininterrotta ‘linea’ ereditaria), mentre al di sotto un’altra, ben più elaborata lista bifida nastriforme riporta il soggetto raffigurato e l’occasione celebrata. Dal doppio raffronto, risulta evidente che nell’ultima decade del XIX secolo (dopo il 1891) si provvide a modificare l’aspetto della villa senza snaturarlo: oltre all’introduzione della scalinata con le conseguenze già ricordate, l’unico intervento sostanziale consistette nell’inserimento di una grande vasca circolare con fontana zampillante coronata di aiuole verdi al centro della corte, al posto delle preesistenti più estese aiuole di fiori policromi, con conseguente ampliamento della zona alberata all’ingresso (Fig. 25). Prima del 1922 furono anche messi a dimora i rampicanti che tuttora coprono interamente il pianterreno del fabbricato principale e in seguito fu modificato l’edificio orientale prospiciente la strada pubblica, che oggidì appare come edificio autonomo, mentre non è dato sapere quando i due pilastri sui quali tuttora è incardinato il cancello affacciato su via Trieste furono arricchiti mediante l’aggiunta delle lesene e delle cuspidi vascolari tuttora in situ51. Evidente risulta invece dal raffronto delle immagini il cambio della bandiera che garrisce al vento al di sopra del timpano del nucleo dominicale: in un trentennio, al vessillo rosso-blu dei Bresciani si sostituì lo stendardo bianco-rosso degli Attems, il cui stemma troncato cuneato di rosso su tre punte d’argento è ben noto. pella gentilizia della villa Bresciani: oggi come allora, sul fronte principale lungo la strada comunale corre la parete laterale sud dell’oratorio nobiliare annesso al complesso, ufficialmente posto sotto il titolus della Santa Croce ma più familiarmente e semplicemente nota - in particolare ai devoti cervignanesi - come Fig. 24 - Villa Bresciani-PeteaniAttems, acquerello, 1922 (collezione privata). Fig. 25 - L’intricata base del tronco del grande glicine che si affaccia sul giardino d’onore (G.C.). LA CAPPELLA DI SANTA CROCE Nell’angolo inferiore sinistro del disegno acquerellato del 1891 è inoltre chiaramente raffigurata la cap- 97 il cristo ritrovato G. Caiazza ‘cappella Bresciani’ (Fig. 26). Protetto da intonaco chiaro recente, il fabbricato in muratura oggi visibile e liberamente visitabile fu eretto nel 1692, “in ossequio a precise disposizioni testamentarie del nobile Giuseppe de Bresciani”, in sostituzione o come ampliamento, rimaneggiamento o “radicale rifacimento” di un edificio cultuale preesistente tuttora “indatabile” a causa della totale mancanza di dati di scavo o d’archivio52. L’anno seguente il fabbricato venne arricchito con l’aggiunta della sagrestia sul fianco nord e nel 1873 fu rinnovato quasi completamente53; non prima di una ventina d’anni più tardi (nel disegno del 1922, sfortunatamente, la chiesetta non rientra nella ‘inquadratura’, ma in quello del 1891 questo particolare ancora non esiste) una monofora campanaria con apertura ad arco a tutto sesto, inquadrata da lesene angolari e timpanata secondo l’inconfondibile modello del ‘campaniletto a vela’ - fu innalzata al colmo della facciata rivolta verso la corte interna, sopra il piccolo frontone triangolare con oculo centrale. Nonostante le ridotte dimensioni, il piccolo edificio di culto ha ben quattro distinte entrate: quella principale (di per sé, ma non certo quanto all’effettivo Fig. 26 - La cappella “di Santa Croce” vista dall’odierna via Trieste (G.C.). 98 utilizzo e nemmeno storicamente, visto che fu aperta solo nel 1770 da Giuseppe di Giovanni Antonio de Bresciani)54 è di forma rettangolare, con architrave sovrastato da cornice aggettante e soprastante lunetta, e si apre al centro della facciata, fiancheggiata dalle stèle funerarie di una ragazzina (Alix, sorellina della baronessa Enrichetta Luigia e come lei figlia del barone Charles Bourlet de Saint Aubin, morta nel 1839 quattordicenne)55 e di un bimbo (Paul de Sainte-Preuve, morto nel 1843 a soli 5 anni) qui trasportate da Gorizia nel 1889; quella destinata al popolo (la chiesetta è sempre stata aperta ai credenti di passaggio e tuttora è liberamente accessibile ai viandanti) si affaccia con un triplo scalino sulla strada comunale, al centro della parete meridionale, ed è anch’essa rettangolare, con architrave protetto da ampia cornice sagomata sporgente sorretta da mensole e sovrastata da lunetta semicircolare definita da cornice modanata con chiave d’arco aggettante; quelle accessibili dalla corte interna ai celebranti ed agli abitanti della residenza patrizia (un tempo ‘giurisdicenti’) si aprono nel basso fabbricato, addossato alla parete nord, che collega la sagrestia con la piccola navata, e la più importante delle due è a sua volta sovrastata da una cimasa poggiante su mensole. L’aula ha pianta rettangolare con soffitto a botte e cosippure il piccolo presbiterio, che è illuminato da una coppia asimmetrica di strette finestrelle sul lato sud e da un alto lunettone nella parete di fondo. La pavimentazione è costituita da un sobrio disegno marmoreo a scacchiera bianco-rosso (probabile riferimento alla livrea degli Attems), interrotto al centro dalla lastra tombale che dal 1892 chiude l’“unico sepolcro” dei liberi baroni Bresciani e dei cavalieri Peteani (Fig. 27), su cui compare lo stemma gentilizio femminile della contessa Maria Anna Bresciani, formato dai due scudi ovali accollati (ma sarebbe meglio dire ‘attestati’) privi di elementi decorativi (in forma ridotta, dunque fatto eseguire dalla ‘dama maritata’ e non durante la vedovanza) e corona, correttamente a sinistra l’arme della moglie (appunto la baronessa Maria, già maritata in prime nozze con il barone Carlo Alessandro d’Elvenich) e a destra quella del marito, il cavaliere Enrico Peteani von Steinberg, preceduti da una lunga epigrafe celebrativa: A XP Ω / + / AD IMAGINEM VITAE / CONSANGVINITATIS ANTIQVO AFFINITATIS / NOVO VINCVLO CONIVNCTAE / VNVM SEPVLCRVM / BRIXIANORVM S R I LIB BAR / ET / PETEANORVM A STEINBERC S R I EQ / MDCCCXCII. In effetti, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, la cappella è stata il tempietto sepolcrale delle famiglie nobili succedutesi in linea femminile nella proprietà della villa: alle pareti, lo attestato lapidi con iscrizioni commemorative ed epitaffi monumentali di diverse epoche, forme e dimensioni. Tuttavia tale funzione non fu svolta solo a partire dal 1883 per volontà della baronessa Maria “ultima dei Bresciani”, ma era sicuramente precedente: infatti, tra “i nobili e le famiglie più doviziose del paese” delle cui “pietre funerarie” era “quasi per intero lastricato” il pavimento della parrocchiale di San Michele ampliata nel 1614, mancavano proprio i de Bresciani56. Va segnalata inoltre la grande lastra marmorea, posta dirimpetto all’ingresso, che ricorda il riatto effettuato da Francesco Luigi de Bresciani nel 1873 (Fig. 28): ANTIQUUM FAMILIARE SACELLUM / VETUSTATE FOEDATUM / REFICERE AMPLIARE EXORNARE / CURAVIT / FRANCISCUS S.R.I. LIBER BARO A BRIXIANIS / S. HIEROSOL. O. FRATER MILES DE IUSTITIA / SANCTISS. DMNI PII PAPAE IX / CUBICULARIUS SECRETUS / S. M. IMP. AC R. APOSTOLICAE / FRANCISCI IOSEPHI I / CAMERARIUS ET CONSILIARIUS ETC. / A.D. MDCCCLXXIII”. Dal testo risulta chiaramente che l’uso della chiesetta per le sepolture risale molto più indietro della data riportata, giacché in quella data il barone Francesco “procurò di restaurare, ingrandire ed abbellire l’antico sacello familiare, andato in rovina a causa della vecchiaia”. Ancor più degna di nota è infine la lapide posta esattamente di fronte all’ingresso dalla strada: “AD MEMORIAM PIETATIS QVA / IOSEPHVS A BRIXIANIS ATAVVS / A·D·III CAL·APR·MDCXCII SACELLVM SACRIS Fig. 27 - Sepolcro Bresciani-Peteani, 1892 (G.C.). Fig. 28 - Lapide apposta nel 1873 per ricordare il riatto voluto da Francesco de Bresciani (G.C.). Fig. 29 - Epigrafe del 1892, duecentesimo anniversario dei ‘lavori’ del 1692 (G.C.). 99 il cristo ritrovato G. Caiazza OPIBVSQ·AVXIT / HENRICVS PETEANORVM S·R·I·EQ· / MARIA PETEANORVM LIB BAR·E GENTE BRIXIANIA / D·D·III·CAL·APR·MDCCCXCII” (Fig. 29). Se ne ricava chiaramente che il “sacello” era stato ‘innalzato’ per volontà dell’“avo del bisavolo” Giuseppe de Bresciani nel 1692: considerando che il verbo latino augeo (auxi, auctum, augere) significa primariamente ‘far crescere’ e quindi ‘ingrandire, allargare, rinforzare, accrescere, aumentare’, se ne può dedurre che all’epoca non vi fu la fondazione del luogo di culto bensì la sua ri-fondazione. In effetti, il cavaliere Giovanni Pietro de Bresciani nel suo testamento del 1680 ca. cita esplicitamente “la nostra cappella di casa”, nella quale “da tempo si venera” “quel benedetto crocifisso”57. In cosa poi sia effettivamente consistito l’intervento voluto da Giuseppe, è possibile ipotizzarlo: visto che nel suo testamento egli “lascia e comanda sia eretta una capella”58, piuttosto che ad un semplice ripristino o ad una radicale ristrutturazione, potrebbe parer più logico pensare ad una ricostruzione (l’attuale chiesetta) in luogo diverso dall’originario (che per il momento non sarebbe dato conoscere). Al di sotto della semplice copertura in coppi del tetto a spioventi, aula e coretto sono - come detto - voltati a botte, che però termina a vela sulla parete absidale di fondo retrostante l’altare, nella quale fino a qualche tempo fa si apriva una grande nicchia a forma di croce latina (oggi non più esistente) contenente un crocifisso ligneo policromo di dimensioni gigantesche59, poggiante su una croce charpentée latina immissa, a formare una “crocifissione ad un solo personaggio”60 di incerta provenienza ma sicuramente databile al periodo romanico (Figg. 30, 31, 40 e 41). Come notò Antonio Rossetti, “a giudicare dalla perfetta, calcolata collocazione del crocifisso all’interno dell’abside” si potrebbe supporre “che la cappella del 1692 sia stata costruita o adattata ex novo proprio per il crocifisso stesso”61: in realtà il monumento policromo in legno di pioppo fissato ad una croce in tavole di abete fu inserito nella nicchia cruciforme protetta da vetro solo nel 1889, allorché il barone Enrico Peteani de Steinberg volle che fosse ricavata nel muro di fondo della zona absidale, che fece ampliare alle dimensioni attuali. IL GRANDE ‘OSPITE’ Rappresentante in loco una delle due più comuni immagini di culto della scultura romanica62, il crocifisso conservato nella cappella Bresciani è stato 100 giustamente descritto come “colossale” da tutti i suoi recensori per evidenti motivi. Ma ancora è difficile capire come, perché e quando “un tale colosso sia finito nella minuscola Cappella Bresciani”63. Innanzitutto va ricordato che in età romanica, di norma, una statua veniva realizzata “in vista del luogo cui” era “destinata e ciò” induceva “lo scultore a modificare certe proporzioni, a diminuire lo spessore di certe parti allo scopo di ottenere un buon effetto”, dal momento che “una statua che deve essere guardata dal basso in alto non può avere le proporzioni normali, appunto per poter apparire normale ed equilibrata”64 dal punto di osservazione. Se dunque “la tensione drammatica si misura anche in termini di distanza e di vuoto”65, quella che è stata definita “la rozza massività” del Cristo di Cervignano66 è piuttosto l’esito del tentativo di rifarsi a quei modelli aulici di grandi dimensioni e da porre in posizione elevata, nei quali la struttura anatomica del Rex Iudaeorum poteva risultare piuttosto ‘allargata’ su una croce non rappresentante l’originario strumento di tortura romano ma il simbolo dell’apoteosi del Messia67 (Fig. 30). Modelli non rari - sulla scia dello schema colto diffuso da tempo in tutta Italia68 - anche in loco: dai piccoli crocifissi raffigurati ‘ad occhi aperti’ nell’VIII-IX secolo su oggetti devozionali di produzione cividalese rinvenuti a Gonars, Lestans e Cividale, al crocifisso ‘vivo’ inciso al centro della grande croce processionale del IX secolo già a Santa Maria in Valle (che presenta lo stesso nodo frontale visibile a Cervignano), a quello ligneo del tardo XI secolo in collezione privata; da quello fissato alla croce astile cividalese in rame dorato della metà del XII secolo a quello grossomodo coevo miniato sul Messale aquileiese dell’abbazia di Moggio ora alla Biblioteca arcivescovile di Udine; da quello delineato a penna sul Graduale di Weingarten conservato nella medesima biblioteca, a quello raffigurato - alla fine dello stesso secolo - sul recto dell’encolpio cruciforme rinvenuto nella chiesa di Sant’Agnese a Rorai Piccolo di Porcia; da quello affrescato al piano superiore dell’aquileiese ‘chiesa dei pagani’ a quello grossolanamente effigiato su un fianco dell’urna argentea delle reliquie di san Giusto rinvenuta nella cattedrale di Trieste, fino a giungere a quelli più tardi che ornano gli evangeliari dell’Epifania e di S. Marco (secondo XIII - primo XIV secolo) o la lunetta del portale principale del duomo di Venzone, ove a metà Trecento si ripropose il piuttosto ‘eccedente’ bacino del Cristo già visto - con rese diverse - a Cividale, Moggio, Rorai, Aquileia e Trieste oltre che a Cervignano69. Fig. 30 - Il crocifisso ripreso lateralmente e dal basso verso l’alto: visto correttamente, pare ancor più imponente e perde completamente ogni presunta ‘disarmonia’ (G.C.). Fig. 31 - Il Cristo “della Contessa” dopo il recente restauro: particolare del busto (G.C.). Probabilmente nessuno scoprirà mai l’identità dell’autore, ma è indubbio che dovette trattarsi di persona “sensibile”, capace di produrre un Crocifisso ligneo che “colpisce vivamente, sia per l’imponenza sia per la ‘forza magnetica’ che gli è propria; difficile da dimenticare e facile da amare”, tanto che “non a caso i Cervignanesi lo considerano da sempre un proprio simbolo, unitamente alla torre di San Michele”70. E non a caso, dopo i recenti restauri, si è parlato pure di “alta qualità” del manufatto, in netto contrasto con quanto si era detto finora71. Oltre a criticare la bontà della resa scultorea, si è spesso parlato di questo manufatto come di un ‘crocifisso processionale’, ma si tratta di una definizione tanto generica quanto impropria. Considerandone le forme a dir poco imponenti, il fatto che esso sia stato realmente utilizzato nel corso di antiche cerimonie religiose itineranti si configura come un fatto puramente episodico (siccità del 1932), mentre pare ben più verosimile ritenere che esso sia ‘nato’ per essere ‘innalzato’ all’interno di una chiesa, ovviamente molto più grande della cappellina in cui da circa quattro secoli si trova72: non sul nudo intonaco, né all’interno di una capiente nicchia o al di sopra di un altare secondario, e neppure lungo una parete laterale, pur adatta a favorirne le visite impetratorie da parte di popolani in devoto pellegrinaggio (ciò può essere accaduto in un secondo momento); ma sicura- mente in posizione elevata, visto che tanto le dimensioni quanto lo sguardo consentono di comprendere che sia stato pensato per essere guardato di sott’in su, dal basso verso l’alto73 (Fig. 31). D’altronde, dopo che il Concilio Trullano (602) autorizzò la rappresentazione del Messia in forma umana, “il Crocifisso andò a collocarsi sull’altare” e a partire dal XII secolo “la croce venne ad abitare la chiesa in una posizione che sembrò abbracciarla tutta”74. Si deve perciò pensare ad uno di quegli imponenti crocifissi scolpiti che erano comunemente definiti ‘maggiori’ e almeno dall’XI secolo nelle chiese romaniche - molto meno spoglie, cupe e severe di quanto oggi si continui a credere - venivano posizionati nel posto d’onore, cioè centrale, in modo tale da attirare immediatamente l’attenzione del fedele fin dal momento del suo ingresso nella chiesa e da coinvolgerlo nella liturgia soprattutto durante i momenti rituali ‘riservati’ ai celebranti75: di norma sopra l’entrata del ‘santuario’ presbiteriale, quindi sovrastanti l’iconostàsi (magari pendenti dall’arco trionfale); oppure ritti su quel particolare architrave detto ‘asse del coro’ o ‘trave di gloria’; o anche al di sopra di una trave appositamente sospesa all’incirca al centro della chiesa76. Non di rado, il Servo sofferente era fiancheggiato da altri protagonisti della Passio, perlomeno i ‘dolenti’ per antonomasia, cioè la madre Maria di Nazareth e l’evangelista Giovanni77. Ma se già nel XII secolo o perlomeno all’inizio del Duecento altrove furono effettivamente innalzati simulacri lignei di dimensioni paragonabili a quelle del pezzo in questione78, finora poco si sa circa la presenza in età romanica di crocifissi ritti su pergole o travi oppure pendenti dai soffitti in qualcuna delle chiese di Aquileia e dintorni, o nelle non lontane chiese di rito e arredo liturgico bizantino dell’area 101 il cristo ritrovato G. Caiazza altoadriatica. In mancanza di informazioni documentarie dirette, riguardo l’effettiva provenienza del ‘gigante’ ligneo è dunque giocoforza muoversi per via indiziaria: tuttavia, benché il buono stato di conservazione del manufatto (il ricovero ininterrotto in una chiesetta secondaria ma costantemente ‘curata’ lo ha posto al riparo dai più gravi danni provocati da intemperie, incendi, tarli e quant’altro) abbia fortunatamente consentito di lavorare per confronti e deduzioni, non c’è accordo tra gli studiosi. LEGGERE E RILEGGERE LE FONTI Fig. 32 - La chiesa di San Michele Arcangelo a Cervignano oggi (G.C.). 102 La tesi oggi maggiormente accreditata è quella sostenuta da G. Fornasir, il quale è fermamente convinto che esso sia il “gran crocifisso di legno” descritto da mons. Bartolomeo di Porcia e Brugnera, abate commendatario di Moggio, durante la sua visita apostolica del 1570 alla chiesa cervignanese di San Michele, nella quale il manufatto era posizionato (e venerato) “nella parete” fra l’altar maggiore dedicato all’arcangelo titolare e l’altare laterale di sant’Antonio abate79. Il documento citato si trova a tutt’oggi presso la Biblioteca Civica di Udine ed è la trascrizione ufficiale redatta a mente fredda dal notaio e cancelliere Agostino Varisco80, ma nell’Archivio della Curia udinese è tuttora conservata la minuta scritta dallo stesso Varisco a mo’ di block-notes durante le ‘visite’ nei vari luoghi, studiata singolarmente da B. Staffuzza e comparata alla prima dallo stesso Fornasir81. Quest’ultimo sottolinea che la redazione definitiva presenta una “forma più ordinata, precisa e dettagliata” nella “sostanziale identità di contenuto” rispetto alla malacopia82, però quelle che egli definisce “sfumature” talvolta sono sostanziali. In particolare, nel passaggio dagli appunti alla ‘bella copia’, il materiale viene riordinato e rimpolpato (o talora decurtato) attingendo ai ricordi, mentre l’aggettivazione assegnata ai singoli oggetti in situ subisce un quasi sistematico rifacimento, che spesso si traduce in un vero e proprio ‘ingigantimento’. Come il reverendus dominus visitatore della minuta diventa illustris et reverendus nel testo finale, così taluni oggetti di ottone (ex aurichalco) divengono bronzei (aenei), altri di color celeste si fanno cerulei, il ‘nostro’ crocifixus ligneus diventa magnus e la magna statua di sant’Antonio addirittura maxima83. Secondo la ricostruzione proposta da Fornasir a proposito del crocifisso di San Michele, nella ‘brutta’ Varisco commise diverse inesattezze che poi corresse trascrivendo in ‘bella’: in realtà, il notaio di mons. di Porcia scrisse esattamente la stessa cosa e d’altronde nessuno potrà mai giudicare l’esattezza o inesattezza di quanto riferì il pubblico ufficiale scribente rispetto alla reale consistenza degli altari e degli arredi liturgici, essendo scomparsa da tempo la chiesa dell’epoca ed essendo quella tardosettecentesca non solo diversa ma anche edificata in posizione differente e con orientamento opposto (Fig. 32). Lo studioso non considera che all’epoca della visitatio la chiesa doveva presentarsi nel suo aspetto medievale, giacché solo nel 1614 sarebbe stata consacrata la nuova parrocchiale “aggrandita et in forma moderna ridotta”84 sullo stesso luogo in cui “in un tempo non precisabile, ma molto lontano, vi era un grande monastero le cui mura di cinta verso oriente toccavano la villa Bresciani” a detta di quella stessa “antica tradizione” secondo la quale “le antiche casupole vicino a detta villa servivano di cantina al monastero”85. Nella minuta leggiamo: “altare sacratum sanctissime Virginis cum / statua illius lignea sculpta / scabella bona et est medium inter / altare maius et altaris sancti Antonii / et desuper in pariete crucifixus ligneus” (l’ultima riga risulta inserita in un secondo tempo), ‘altare consacrato della santissima Vergine, con sua statua lignea scolpita, buoni scanni, e sta nel mezzo fra l’altar maggiore e l’altare di sant’Antonio e al di sopra, sul muro, un crocifisso ligneo’86. Dalla bella copia si rileva esattamente la stessa situazione, tranne la ‘maggiorazione’ del crocifisso: “aliud altare sacrum titulo sanctissime Virginis cum statua eius ligno sculpta pictaque et medium est inter praedicta duo altaria desuperque in pariete crucifixus magnus ligneus positus est”, ‘un altro altare consacrato sotto il titolo della santissima Vergine con statua di lei scolpita in legno e dipinta, e sta nel mezzo tra i predetti due altari, e al di sopra, sul muro, è posto un grande crocifisso ligneo’87. Varisco si lasciò forse prendere un po’ la mano dal ricordo della ‘enorme’ statua di sant’Antonio vista prima del Cristo, negli appunti definita semplicemente ‘grande’. D’altro canto, lo si è già ricordato, in età romanica le croci di dimensioni più ampie di altre eventualmente compresenti erano spesso definite ‘grandi’ o ‘maggiori’88. Ad ogni modo, quando il visitatore raggiunse Cervignano nel capitanato gradiscano, giovedì 9 marzo 1570, fra l’altar maggiore e quello antoniano della chiesa tardomedievale dedicata all’arcangelo guerriero vide l’altare mariano consacrato (ve n’era un altro, più antico, dedicato pure alla Madonna ma non consacrato) e “al di sopra” di esso, sulla parete laterale, un crocifisso di legno di una certa imponenza89. Quindi una grande statua lignea del Cristo in croce c’era sì nella vecchia chiesa di San Michele dell’insula asburgica in territorio veneziano, ma non si segnalava per alcuna caratteristica particolare e non è affatto detto che si trattasse di quella oggi conservata nella cappella Bresciani: la possibilità che “lo stesso enorme crocifisso che oggi si venera nella cappella Bresciani” possa provenire dall’antica chiesa di San Michele90 appare obiettivamente niente più che una congettura tra le tante e sostenibile solo in via del tutto ipotetica, senza prove documentarie assolute. Per di più, fin dall’XI secolo il monasterium cervignanese era stato soppresso ed il suo patrimonio accorpato ai beni delle benedettine di Aquileia91: se nella chiesa vi fosse stato un crocifisso di tal fatta, molto probabilmente avrebbe preso la strada di questo secondo cenobio molto prima della visita dell’abate moggese. È forse più realistico pensare che quello descritto ‘al di sopra’ dell’altare mariano durante la visitatio fosse un altro crocifisso ligneo, magari lo stesso venerato poi nel nuovo edificio cultuale sorto nel 1614, al cui interno ebbe un proprio altare laterale che dal 1659 divenne sede della neonata confraternita “del Santo Crocifisso”, cui spettava tra l’altro “l’obbligo del mantenimento del predicatore quaresimale” e che contrariamente a quanto sostenuto dai più - pare non aver avuto alcun legame con il Crocifisso Bresciani92. Questo secondo e più ‘moderno’ manufatto scultoreo trovò posto anche nella successiva chiesa parrocchiale, eretta a partire dal 1780, ove tuttora si trova sull’architrave dell’arco trionfale93: ovviamente, un crocifisso coevo o al massimo del secolo precedente non provocò alcun particolare interesse nel notaio di Bartolomeo di Porcia, giacché non era altro che quella “croce, almeno di legno, con l’immagine di Cristo” perlomeno “dipinta” che durante la successiva visita del 1584/85 - sotto Paolo Bisanti, vicario generale del patriarca Giovanni Grimani - sarebbe stata indicata come il principale elemento di ‘arredo’ fra quelli considerati indispensabili per “tutti” gli altari, “anche i più poveri”94. Eppure, se non era nella chiesa del “monasterium Sancti Michaelis Archangeli de Cerveniana”95, ritenuta una delle più antiche abbazie benedettine del Friuli e che tanta importanza ebbe per Cervignano nel Medioevo, dove si trovava la monumentale immagine tridimensionale del Salvatore prima di arrivare nel sacellum dei Bresciani? A questo proposito l’ipotesi avanzata da Fornasir che la più antica menzione dell’opera vada attribuita al presule moggese, e quindi la sua datazione al 1570, non è affatto da scartare, visto che egli vide altri crocifissi magni durante la sua peregrinatio96. In primis, egli poté ammirare “un grande crocifisso” già il giorno seguente, venerdì 10 marzo 1570, “nel mezzo della tribuna, che è tutta dipinta” dell’altar maggiore dedicato a san Martino nell’omonima chiesa plebanale del vicino villaggio di San Martino di Terzo (Fig. 33): “crucifixus magnus in medio tribune que tutta picta est” recita la minuta, trasformata in bella copia nella frase “in archu tribune crucufixus magnus positus est”, ‘nell’arco trionfale è collocato un grande crocifisso’97. Si nota subito che stavolta l’aggettivo magnus è già presente nella prima stesura, ma nel passaggio in bella non viene accresciuto: è molto probabile che Varisco abbia ritenuto più che sufficiente definire in quei termini una scultura la cui ‘grandezza’ era forse legata più all’effetto creato dalla posizione (appeso al soffitto o fissato alla trave dell’arco trionfale) che alle dimensioni effettive. In questo caso, poi, si può solo presumere che si trattasse di un simulacro ligneo: è pressoché certo, ma il redattore non specificò nemmeno nel brogliaccio la materia utilizzata dall’ignoto artigiano. Al momento non esiste dunque alcun indizio a Fig. 33 - San Martino di Terzo e Cervignano nella mappa seicentesca dei possessi del Monastero femminile di Aquileia, conservata nell’Archivio Frangipane di Joannis, studiata da R. Härtel nel 1984. 103 il cristo ritrovato G. Caiazza favore della pur molto antica pieve sorta lungo la via Annia98 sulla base del quale si possa ritenere plausibile l’identificazione del ‘grande crocifisso’ ivi presente nel Cinquecento con quello ora nella cappella Bresciani: la cui imponenza, a tutta prima, sembrerebbe piuttosto smentire simile abbinamento. Per di più, proprio nel 1570 “il beneficio parrocchiale di San Martino era tanto misero” che di lì a breve il pievano “dovette abbandonare la cura per non morire di fame, e la casa presbiterale era talmente diroccata, ut vix sustineri possit”99. Infine la pieve tuttora celebre per i suoi affreschi fu sotto la giurisdizione del monastero cervignanese di San Michele fino all’XI secolo, dopodiché passò con esso sotto le benedettine di Aquileia100. Anche in questo caso, insomma, bisogna ammettere che, se nella chiesa vi fosse stato un crocifisso di eccezionale pregio, sarebbe stato trasferito altrove ben prima della ‘fatidica’ visita apostolica. Il colosso Bresciani potrebbe allora provenire dall’antica capitale del Patriarcato. In effetti, secondo certuni studiosi l’opera arriverebbe dalla chiesa conventuale del cenobio femminile aquileiese (all’epoca in piena attività nella località oggi denominata appunto Monastero), come afferma “la tradizione locale” ed in particolare una leggenda che “ritiene che questo Crocifisso si trovasse sulle prime esposto alla venerazione dei credenti” proprio “nell’antichissimo Monastero Abbaziale delle Reverendissime Madri di Monastero presso Aquileia”101 (Fig. 34). Secondo altri, invece, esso arriverebbe addirittura dalla Basilica patriarcale102. Ma se nel caso della località di provenienza una devota leggenda popolare può effettivamente fungere da appiglio per questa Fig. 34 - Il “Monasterio” benedettino femminile, indicato con il n. 21, circondato dalla “villa” oggi omonima, nella Civitatis Aquilieie quemadmodum nunc iacet fedelissima topographia, Trieste 1865. 104 ipotesi (peraltro del tutto plausibile), per quanto riguarda il sacro edificio per cui il Cristo fu originariamente scolpito essa, come si vedrà, non è di alcun aiuto: si tratta di mere supposizioni, per quanto non del tutto inverosimili. E se di primo acchito chiunque sarebbe naturalmente portato a privilegiare l’antica sede metropolitana, a favore della pur potente abbazia di Sancta Maria extra muros, ricca di diritti, possedimenti e reliquie103, gioca il fatto che fin dal 1036, con apposita donazione del patriarca Poppone, il castrum Cirviganum - poi villam de Serviana - fu infeudato proprio alle monache aquileiesi104, appartenenti per lo più a famiglie friulane e germaniche fra le più influenti, e forse per questo ritenute spesso le dirette committenti dell’opera, pur in assenza di prove persuasive105. In realtà, ci sarebbe un’altra possibilità, anch’essa legata alla visita apostolica del 1570. fra IV e V secolo ad corpora, cioè sulla tomba dei due martiri, nell’immediata periferia sudorientale della città, in quell’area cimiteriale sub divo che nel tempo ha restituito molte sepolture paleocristiane ad sanctos107, essa era ancora ben distinguibile in tutta la sua ragguardevole mole (Fig. 35) nelle più antiche piante ‘topografiche’ note della Civitatis Aquileie, databili al XVII-XVIII secolo108, ma data la posizione “troppo appartata e discosta da case” già nel 1356 il patriarca Nicolò di Lussemburgo ordinò di “levare i Corpi santi e le reliquie” ivi conservati e li fece “deporre nella metropolitana” asserendo “che vi potevan succedere ruberie”109. Ciononostante, nel XVI secolo questo martyrium si segnalava per tutt’altro: un vero e proprio unicum. All’interno, da una trave posta al centro della nave incombeva sui fedeli un “antichissimo” crocifisso LA PREPOSITURA COLLEGIATA DEI SANTI FELICE E FORTUNATO A sud-est della basilica patriarcale aquileiese, in un’antica area cimiteriale periferica al di là del fiume Natissa, sorgeva fino alla seconda metà del Settecento la grande basilica martiriale extramuraria dedicata ai santi Felice e Fortunato, fatta rientrare nel perimetro urbano medievale con l’ampliamento delle mura meridionali e tanto importante nel XII e XIII secolo da essere sede di una delle due scuole capitolari attestate in Aquileia e da passare sotto la protezione diretta della Sede Apostolica, con apposita bolla di papa Alessandro III, nel 1174106. Sorta ligneo, un “crocione” tanto grande da incutere timore, ma così arcaico nelle fattezze che il 20 febbraio 1570 - quando fu visto da mons. Bartolomeo da Porcia - pareva che i fedeli non lo ‘comprendessero’ più e, invece di essere da esso spinti alla devozione, al vederlo fossero indotti al riso: “in medio ecclesiae super trabe est crucifixus ligneus magnus antiquissimus cuius visione populus potius ad risum quam ad devotionem excitatur”110. Confrontando il testo riportato, tratto dalla bella copia della relazione, con la minuta della stessa, si nota che anche in questo caso il notaio ha reso più ridondante la sua prosa: “in medio ecclesie super trabe est crucifixus ligneus antiquus” recita la prima stesura, sicché Varisco nel trascrivere ha reso superlativo l’aggettivo indicante approssimativamente l’età del manufatto e ha aggiunto un magnus non espresso negli appunti111: rispetto al Cristo della chiesa cervignanese di San Michele c’è sì l’identica aggiunta dell’aggettivo magnus (che a questo punto si può considerare un quasi generico riferimento a simulacri di proporzioni superiori alla media), ma c’è anche e soprattutto un ulteriore, notevolissimo elemento supplementare, un commento del tutto singolare. Circa le manifestazioni popolari descritte, non sappiamo se si intendesse fare riferimento a sorrisi di sufficienza o a risa di scherno, ma le une o le altre più che essere attribuite alla (presunta) rozzezza del lavoro scultoreo, avrebbero dovuto essere imputate alla sua incapacità di ‘comunicare’ correttamente con gente ormai abituata a ben altri simulacri112: il ‘segno’ doveva aver perso la sua veridicità giacché per la sua obsolescenza non solo pareva contraddire l’assunto che l’imago Christi meriti l’onore di latria come Cristo stesso (Bonaventura e Tommaso d’Aquino), ma addirittura deludere la tradizionale formulazione per cui l’onore reso all’immagine transita al suo prototipo (Giovanni Damasceno), vanificando così la funzione tipicamente medievale di suscitare e sollecitare il fervore del credente (che attraverso la somiglianza dell’imago visibile adora l’Invisibile), nonché quasi annullando le altre due ‘giustificazioni’ dell’immagine sacra, di contribuire al mantenimento della ‘memoria delle cose sante’ e di consentire ai ‘semplici’ di ‘intendere’ i fondamenti della fede e la storia sacra (funzione ben nota grazie al famoso motto Biblia pauperum, ma più correttamente esprimibile nella sintesi littera laicorum)113. Questo, però, agli occhi della gerarchia, poiché confrontando di nuovo le due versioni disponibili del resoconto, si ha la netta impressione che nel commento inserito nel testo dal notaio giochi un ruolo predominante “la sensibilità, il gusto di chi ha steso la relazione, che ormai aveva altri modelli e altri canoni estetici”114: la minuta stesa durante la visitatio riporta infatti l’esplicito consiglio di sostituzione del crocifisso con le parole “extolatur et alius apponatur cum ridiculosus sit”, ‘essendo ridicolo, sia portato fuori e un altro sia collocato’, e la descrizione si conclude con le frasi “cohoperiatur Christus cum tela infixa” e “cohoperiatur altare portatile cum tela infixa”, doppio invito senza mezzi termini a ricoprire Fig. 35 - “S. Felice Prepositura”, con il n. 1, e “S. Felicita”, con il n. 6, nella Civitatis Aquilieie quemadmodum nunc iacet fedelissima topographia, Trieste 1865. Tra le due chiese si nota il “Punt dal Crist”. 105 il cristo ritrovato G. Caiazza completamente con della tela ben fissata sia il crocifisso sia l’altarolo esterno a lui dedicato115. Il fatto che la descrizione sia stata riformulata ‘mitigata’ al momento della ricopiatura, fa supporre che l’opinione del visitatore e del suo entourage non coincidesse affatto con quella del popolo, al contrario di quel che invece si voleva far credere… Dall’annotazione circa i presunti atteggiamenti dei fedeli alla vista del Cristo di San Felice, alcuni hanno poi frettolosamente dedotto che dovesse trattarsi di un oggetto “di fattura altomedievale”, ma a parte il fatto che ad Aquileia e dintorni non sono noti crocifissi ‘pendenti’ così antichi non è necessario risalire tanto indietro nei secoli: a suscitare i ‘sorrisi’ del visitatore e del suo seguito più che dei devoti (i quali, per quanto in numero ridotto rispetto al passato, nella seconda metà del XVI secolo continuavano a frequentare la chiesa) sarebbero state più che sufficienti le apparentemente disarmoniche fattezze di un neanche troppo vecchio - per l’epoca - crocifisso romanico come quello attualmente ospitato a Cervignano, lontanissimo dalla sempre più perfetta verosimiglianza delle sculture realizzate dal Tre-Quattrocento in poi, cui ormai si era almeno in parte abituati116. Da entrambe le versioni del testo della visita apostolica, risulta comunque chiaramente che la trabs sormontata dal crocifisso non era quella dell’arco trionfale detta magna, né tanto meno “una cèntina del soffitto” e neppure quella “della iconostasi”117, bensì una trave ubicata appositamente in medio ecclesiae e dunque posizionata grossomodo al di sopra dell’altare marmoreo non consacrato posto “fuori del coro, nel mezzo della chiesa (…) privo di pala” e “attorniato da colonnine marmoree” secondo il modello già noto degli altari ‘mediani’ (si possono ricordare almeno quello esistito nell’aula sud della cattedrale aquileiese e i due attestati nelle altrettante aule antiche di Parenzo), altare che lo stesso Bartolomeo di Porcia volle fosse reintitolato a San Giovanni Battista, trasferendo ad esso “tutti i titoli, gli emolumenti e gli oneri pertinenti alla chiesetta” giovannea ubicata a sud della chiesa patriarcale presso il Natissa (poco prima del ponte diretto alla ‘terra di San Felice’), incorporata alla prepositura dal 1363 e più nota come Santa Felicita (forse il titolus originario di questa cappella, in precedenza officiata dai prebendari della metropolitana), che egli trovò “ormai quasi distrutta” e dalla quale ordinò di “togliere le travi e le tegole ancor buone dal tetto per provvedere alle accomodature necessarie nella 106 prepositura di San Felice”118. Risulta evidente che nel XVI secolo la Ecclesia Colegiata Sancti Felicis et Fortunati, chiesa a tre navate divise da otto coppie di colonne dedicata ai due fratelli martiri, era ancora quella “struttura a sovrapposizioni” d’epoca romanica formata da “un insieme di sotto-parti ciascuna delle quali conserva un’autonomia più o meno pronunciata” pur “all’interno di un unico edificio”: era ancora lo “spazio ‘reale’” nel quale si erano visti “proiettati” i sacri simulacri quando la tendenza alla raffigurazione tridimensionale era divenuta “generale”, quando il linguaggio visivo (i verba visibilia di sant’Agostino) si era decisamente indirizzato verso la rappresentazione plastica (che Dante avrebbe poi definito “visibile parlare”), in quello stesso secolo XII che aveva visto la “rifondazione” del dogma eucaristico, il corpus Christi sacramentale, il Verbo incarnato119. Alcuni studiosi - forse persuasi dal ‘credo’ popolare - avevano ipotizzato che il crocifisso venerato a San Felice fosse quello “miracoloso, bene conosciuto e molto venerato in Friuli” oggigiorno esposto sull’altare eretto nell’apposita nicchia della navata nord della basilica patriarcale aquileiese e che “da data immemorabile viene portato in processione per implorare, in tempo di pubbliche calamità, qualche grazia particolare e specie contro la siccità”120: ma ciò non è possibile, in quanto se è ben vero che l’origine di quel gran crocifisso ligneo soprannominato ‘Cristo dei miracoli’ è piuttosto oscura, è impensabile che nel 1570 si definisse ‘antichissimo’ un simulacro del XV secolo se non addirittura quasi coevo, per il quale già il concetto di antichità sarebbe stato meno appropriato di quello di semplice vecchiaia121. Scartata questa proposta infondata, è invece doveroso ricordare che quello che i documenti chiamano “il Cristo di San Felice” era oggetto di venerazione da tempi ben più lunghi, tanto che tutta la toponomastica del borgo sudorientale di Aquileia era chiaramente ‘segnata’ dalla sua presenza (constatazione che ribadisce quanto detto a proposito del ridiculosus affibbiato nella minuta della visitatio al crocifisso…): il terreno circostante la basilica martiriale, porzione principale dell’antica terra Sancti Felicis, ‘terra di San Felice’, (Fig. 36) divenne in linguaggio locale la braida dal Crist, ‘braida del Cristo’; la roja dal mulin di Munistìr, ‘roggia del mulino di Monastero’, dopo la grande ansa meridionale prese il nome popolare di roja dal Crist; il ponte ad una campata che permetteva di superarla, in origine pons Sancti Felicis, ‘ponte di San Felice’ (poco a ovest dell’arc di San Filìs, ‘arco di San Felice’, tratto delle mura medievali che sca- valcava il fiume racchiudendo nella civitas questa basilica con il suo territorio), fu poi chiamato punt dal Crist, ‘ponte del Cristo’; infine lo stesso edificio sacro di origini martiriali finì per essere significativamente ribattezzato “la chiesa detta del Cristo di San Felice”122. Isolati toponimi di questo tipo sono alle volte giustificati dalla semplice vicinanza di uno dei tanti crocifissi votivi che un tempo punteggiavano le strade del Friuli insieme alle numerosissime ancònis dedicate alla Vergine e ai Santi, ma - per quanto venerato - uno di tali simulacri non sarebbe stato in grado di ‘improntare di sé’ l’intera toponomastica della zona, come invece è capace di fare un’imago sacra venerata in un santuario e magari ritenuta miracolosa123. Si confronti il caso della ‘Madonna delle Grazie’ di Udine: l’icona posta nella basilicasantuario nel 1479 ha ‘segnato’ poco a poco l’intero circondario, dal titolus dell’edificio sacro (già chiesa dei Santi Gervasio e Protasio) al nome dello spiazzo antistante (largo ‘delle Grazie’), della stradina laterale (vicolo ‘delle Grazie’), del passaggio sulla roggia (ponte ‘di Santa Maria delle Grazie’), del mulino che un tempo vi sorgeva accanto (mulino ‘delle Grazie’), dell’intero quartiere (da via Liruti a borgo Pracchiuso, in friulano contrade ‘des Gràziis’), ecc.124 (Fig. 37). Nel 1570, inoltre, “sotto il portico fuori di detta chiesa” dei Santi Felice e Fortunato si trovava “un altare non consacrato dedicato al Cristo di San Felice”, dotato tra l’altro del già citato “altarolo portatile” e circondato da una recinzione lignea “così che vi si possa guardare dentro da ogni lato”: “sub portichu extra dictam ecclesiam est altare non sacratum dicatum Christo Sancti Felicis ornatum (…) altariolo portatili (…) circumseptum est assibus ita ut intus undique videri possit”125. Il basso atrio addossato ad una parte della facciata dell’edificio basilicale era la porzione superstite dell’antico nartece ed al suo interno custodiva la vuota statio devozionale dedicata all’imago Christi venerata al centro della basilica: data la descrizione fornita dal notaio al seguito del visitatore apostolico, possiamo scartare l’ipotesi che sopra l’altarolo trovasse spazio un affresco, ma in ogni caso quell’umile signum devotionis doveva essere sentito molto ‘vicino’ dalla gente aquileiese se nel 1769 l’arcivescovo di Gorizia Carlo Michele d’Attems (dieci anni dopo la sua visita pastorale nei cui atti è ricordata anche la chiesa “dei Santi Felice e Fortunato in Seminario” con i circostanti “desolati casali di San Felice”) acconsentirà all’abbattimento della basilica “con condizione che la Capella Fig. 36 - La ‘terra di San Felice’ con i toponimi ‘influenzati’ dal Cristo in essa venerato (elaborazione condotta sulla Civitatis Aquilieie quemadmodum nunc iacet fedelissima topographia, Trieste 1865). del Crocefisso resti, e venghi meliorata”, sicché si effettuò la stima del valore dei muri “avendo però lasciato di misurare” nell’atrio “li muri che serviva per formare una Capella”, quella stessa “cappella del Cristo con due colonnine di calcare alte m 1,35” che alla fine di maggio del 1775 è ancora in piedi insieme all’intera facciata mentre procedono la demolizione dell’edificio e la vendita dei materiali così ricavati dalla chiesa “diroccata”, di cui due anni dopo resterà il solo campanile e nel 1813 non rimarrà quasi più traccia (molto tempo dopo, gli archeologi recupereranno varie testimonianze, fra cui il bassorilievo non finito in pietra calcarea del IV-V secolo recante i busti affrontati dei ‘principi degli apostoli’ Pietro e Paolo, ora esposto al Museo Paleocristiano di Monastero), ultimata la demolizione del “campestre terrazzo” posto a dividere il terreno circostante dal “girone” della chiesa126. Riprendendo il confronto proposto poc’anzi con il santuario mariano di Udine, chiunque oggi varchi l’ingresso di quest’ultimo può Fig. 37 - L’area circostante la basilica delle Grazie a Udine con i toponimi da essa ‘influenzati’ (elaborazione condotta sulla Pianta della regia città di Udine di Antonio Lavagnolo, 1842/50 ca.) 107 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 38 - Attuale “ufficio delle letture” dei santi martiri Felice e Fortunato (da Liturgia 1990). immediatamente ammirare sulla parete destra dell’atrio una riproduzione della Madonna delle Grazie, ‘copia’ che è oggetto della venerazione dei fedeli esattamente come l’icona ‘originale’ custodita nel santuario: proprio quel che doveva accadere ad Aquileia, laddove i fedeli avevano il primo contatto con una ‘emanazione’ del Cristo ‘di San Felice’ fin dal momento in cui entravano nell’atrio dell’antica ed imponente basilica. UN ‘TRASLOCO’ PROBLEMATICO Secondo la “pia credenza” che lo riguarda, il Crocifisso sarebbe arrivato da Aquileia durante una processione tenutasi in epoca imprecisata ma “remotissima” per impetrare il dono della pioggia: messo al riparo nella cappella a causa dell’improvviso scatenarsi di un temporale, esso non avrebbe più ‘voluto saperne’ di essere spostato altrove127. Benché la leggenda citata venga solitamente riferita all’antico monastero delle ‘reverendissime madri’ di Aquileia, è evidente come il racconto si attagli in particolare all’ultima delle ipotesi presentate: la memoria liturgica annuale dei martiri Felice e Fortunato, che oggi si festeggia il 13 agosto (Fig. 38), in passato si celebrava in universa Aquileiense diocesi il giorno seguente 14 agosto, corrispondente al dies natalis dei due santi tramandato dalla tradizione aquileiese e ribadito dal Martirologio Geronimiano128. Da sempre in Friuli l’ottavo mese è il più siccitoso dell’anno civile, sicché è verosimile che - se davvero ebbe luogo… - la processione abbia lasciato Aquileia proprio verso la metà di agosto, periodo caratterizzato peraltro da improvvisi acquazzoni, violenti scrosci di pioggia di breve durata che iniziano e terminano bruscamente, fatto che rende un po’ meno inverosimile che la ‘mitica’ processione possa essere partita proprio dal santuario meridionale. Resta però il fatto che, come nessuna delle numerose processioni che si svolgevano nell’ambito del convento benedettino femminile di Aquileia è documentata diretta a Cervignano, così fra le solenni celebrazioni attestate nella prepositura intitolata ai santi Felice e Fortunato (feste dei titolari e dei santi Michele, Caterina e Nicola, ai quali erano dedicati gli altari secondari posti nelle cappelle interne) non si ricorda alcuna processione che prevedesse il trasporto del Cristo129. Né esso era ‘interessato’ (la cronaca del 1570 fornisce chiare indicazioni) dalle processioni metropolitane che coinvolgevano l’edificio in cui si trovava: nella solennità della Purificazione 108 popolarmente nota come ‘Candelora’, dalla cattedrale si andava fino alla collegiata, ove si benedicevano le candele che poi si distribuivano ai partecipanti; il “primo giorno di Quadragesima”, dopo l’imposizione delle ceneri nella chiesa madre, si raggiungeva la prepositura cantando e lì si leggevano “i sette psalmi penitenziali”, per poi tornare in cattedrale a celebrare la messa e concludere l’ufficio liturgico; la domenica delle Palme dalla basilica metropolitana (Fig. 39) in processione ci si portava a San Felice per la benedizione degli ulivi, dopodiché si rientrava cantando al punto di partenza per concludervi la messa comprendente “il passio”; il giorno di san Marco evangelista la basilica a sud del Natissa doveva essere una delle tappe intermedie della “processione de letania maiori” che pregava peregrinando “per sette chiese” (ultima quella d’Ognissanti), così come essa doveva essere ‘toccata’ dalla processione solenne che andava “attorno la città” in occasione del “dì del corpo de nostro Signore” (il Corpus Domini)130. Oltretutto, se la cittadina era raggiungibile dall’at- tuale località di Monastero in circa due ore di cammino131, essa distava un’ulteriore mezz’oretta dalla terra Sancti Felicis e pensare ad un corteo orante della durata di cinque o più ore (il rientro risulta sempre inevitabilmente più lento rispetto all’andata…) pare francamente esagerato, tanto più considerando le obiettive difficoltà che si sarebbero incontrate nel portare “a braccia di uomini” una statua tanto grande e, per quanto cava, comunque di un “venerabile peso”132. Al di là dell’effettiva provenienza dell’oggetto, va in effetti sottolineato un elemento che di solito viene ignorato o ingiustamente dato per scontato. Un crocifisso di proporzioni così ‘esagerate’ fu senz’altro commissionato e realizzato per un edificio di culto di grandi dimensioni, sia in senso puramente architettonico sia in senso specificatamente ecclesiastico: ma non allo scopo di portarlo in processione, bensì come parte integrante della suppellettile sacra, cioè come ornamentum (nel senso letterale di ‘elemento indispensabile’) ecclesie per antonomasia, pezzo scultoreo policromo di prim’ordine dell’arredo liturgico da esporre (permanentemente dal XII secolo) alla venerazione dei fedeli in posizione eminente133. Spesso ci si dimentica che esso nacque e fu ‘vissuto’ innanzitutto come uno degli “strumenti sussidiari della preghiera e delle pratiche di devozione” che si svolgevano all’interno della basilica, strumenti le cui funzioni erano ovviamente legate alla sfera religiosa ma precisamente ai riti liturgici comunitari o alla venerazione individuale che la Chiesa (comunità) svolgeva nello spazio pubblico costituito dalla chiesa (edificio)134. La semplice descrizione già ricordata del Crocifisso della basilica dei Santi Felice e Fortunato “in medio ecclesiae super trabe” è sufficientemente esplicita al riguardo: anche da questo punto di vista, dunque, giunge una conferma all’ipotesi avanzata. D’altronde, come si è su accennato, è del tutto improbabile che si tratti di un crocifisso ‘da processione’: mentre infatti la crux processionalis o portabilis fu impiegata in apertura di cortei liturgici fin dai tempi più antichi, dapprima impugnata direttamente (come le più piccole croci ‘da benedizione’, fornite di corta ‘manopola’ sottostante) e in un secondo tempo mediante un’asta appositamente innestata in corrispondenza della terminazione inferiore del braccio verticale (croce astìle) o afferrando il prolungamento verso il basso del cosiddetto ‘montante’135, l’uso di portare in processione grandi sculture raffiguranti il Cristo sulla croce è molto più recente, tanto che le pur diffusissime “grandi croci decorate” recanti la tri- dimensionale imago crucifixi sono databili “non prima del XVII secolo”136. È chiaro, quindi, che la notizia della processione al termine della quale l’opera in questione sarebbe rimasta nella cappella Bresciani va considerata con la massima cautela: se durante il basso medioevo fosse esistito davvero un ‘cammino di preghiera’ seguendo il quale i fedeli dell’epoca usavano spostarsi da Aquileia a Cervignano, il relativo corteo non avrebbe potuto che essere preceduto da una croce astile, o al massimo da un diverso modello di croce portatile (magari appartenente a qualche confraternita), ma assolutamente non da un crocifisso processionale, troppo in anticipo sui tempi e, nel caso in questione, dimensionalmente davvero fuori misura. Il fatto poi che il busto e il bacino del colosso all’interno risultino “accuratamente svuotati in fase di lavorazione”137, non indica affatto la volontà di alleggerirlo per Fig. 39 – Basilica cattedrale metropolitana di Aquileia (G.C.). 109 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 40 - Il crocifisso mezzo secolo fa, nella nicchia cruciforme fatta realizzare da Enrico Peteani von Steinberg nel 1889 (da MARCHETTINICOLETTI 1956). renderlo atto al trasporto: il tronco scelto per essere lavorato veniva sempre preventivamente ‘scavato’ ma al fine di evitare spaccature durante la stagionatura e l’incavo poteva rimanere aperto qualora la statua fosse destinata ad una fruizione tale da non permettere la visione di tale ‘vuoto’138, esattamente come nel nostro caso, ove il ‘retro’ del crocifisso era fissato ad una croce lignea (che quindi ne impediva la percezione) e lo statuario insieme era rizzato su una robusta trave posta ad una certa altezza da terra. Fino al XVII secolo, dunque, quel crocifisso non avrebbe potuto essere portato in corteo ed anche in seguito ciò sarebbe potuto accadere solo in rare occasioni, come i particolari ‘cammini’ organizzati per impetrare il dono dell’acqua piovana in anni di grande siccità (è rimasto memorabile quello del 1939, vd. infra): se circostanze simili si fossero verificate effettivamente, la prima volta avrebbe potuto coincidere proprio con il ‘cambiamento di sede’ della statua, ma oltreal fatto che tale evento avrebbe comunque potuto verificarsi solo a partire dal Seicento e che la ricostruzione cronologica fin qui proposta già induce a ritenere che non sia mai avvenuto, tra breve si avrà un’ulteriore conferma: all’alba di quel secolo (e forse non da poco) il colosso era già nella cappella Bresciani! Riassumendo: è più che verosimile che il Crocifisso Bresciani non si sia affatto ‘mosso’ all’interno di Cervignano ma vi sia giunto da Aquileia; non però dal monastero femminile o dalla basilica patriarcale, bensì dal santuario dei Santi Felice e Fortunato; pertanto è altamente probabile che il ‘Cristo della Contessa’ non sia altri che il ‘Cristo di San Felice’, da qualcuno definito “ridicolo” ma da molti veneratissimo (Fig. 40). CRONOLOGIA DI UN ARRIVO Analizzata la questione della provenienza dell’opera, resterebbe da capire quando e perché avvenne il trasferimento dalla sede originaria alla cappella della villa Bresciani. In base agli elementi finora raccolti e qui presentati, l’inizio del XVII secolo potrebbe essere la data dell’arrivo del crocifisso ligneo nella chiesetta: eppure finora si è ipotizzato tutt’altro. Secondo Fornasir il ‘trasloco’ sarebbe avvenuto dopo il 1780, in occasione dei lavori di ricostruzione della chiesa matrice cervignanese dedicata all’arcangelo Michele, che fu consacrata nel 1833139. Che il ‘trasloco’ sia stato effettuato all’inizio provvisoriamente ed abbia solo in un secondo tempo assunto carattere definitivo, cosicché l’oratorio gentilizio affacciato 110 sull’odierna via Trieste sia passato da sede temporanea a ‘dimora’ permanente, può essere un’ipotesi condivisibile, ma già vent’anni fa Rossetti dimostrò che Fornasir “erra il periodo in cui sarebbe avvenuto il trasferimento”, non accorgendosi “di una singolare contraddizione”140. La leggenda di cui si è detto fu infatti tramandata dal barone Francesco Bresciani (1814/78), che affermò di averla intesa “costantemente ripetere dai vecchi della sua famiglia e dai più anziani del paese” e di essere consapevole di come essa faccia riferimento ad una processione svoltasi in epoca “remotissima”: ora - nota giustamente Rossetti - se il trasloco “fosse effettivamente avvenuto alla fine del Settecento, il padre di Francesco (Girolamo Maria, 1773-1850) o lo zio (Antonio Francesco, nato nel 1768) o ancor meglio il nonno (Giuseppe, 1731-1807) non avrebbero certo dato credito alla leggenda, dal momento che almeno l’avo avrebbe potuto assistere di persona - viste le date - all’ipotetico spostamento”; ed in tal caso, annota ancora lo studioso, “non avrebbe quindi senso l’affermazione del barone Francesco”141. D’altronde, i coniugi Enrico e Maria Peteani von Steinberg nella loro Memoria del 1890 confermarono la cronologia relativa attribuita al barone Francesco allorché affermarono chiaramente che il “venerabile colossale crocifisso di legno” si trovava “esposto alla devozione della famiglia e dei fedeli” nella cappella Bresciani “da tempo immemorabile” e non da poco più di un secolo142. Ma Rossetti aggiunge qualcosa ancor più importante: “una notazione” riportata da Molaro nel suo libro del 1920 ma sfuggita a Fornasir, nella quale “il primo storico di Cervignano riprende una frase del testamento del cav. Gio. Pietro de Bresciani (anno 1680 circa)” in cui il testatore menziona “quel benedetto crocifisso che da tempo si venera nella nostra cappella di casa”143. Si è già accennato a questa importante testimonianza a proposito delle origini dell’oratorio gentilizio, ma bisogna sottolineare che essa risulta ancor più rilevante per ricostruire la cronologia dell’arrivo del grande Cristo ligneo in loco: infatti non soltanto attesta che esso si trovava già all’interno del complesso dominicale intorno al 1680, dunque almeno cent’anni prima del periodo 1780-1883 al quale si continua a fare riferimento, ma soprattutto che era stato ‘portato’ nella chiesetta (quella menzionata dal cavaliere Giovanni Pietro era la versione precedente - e forse primitiva - di quella attualmente visibile e visitabile, che come detto fu aucta da Giuseppe de Bresciani nel 1692, ovvero dodici anni dopo) quanto meno da alcuni decenni, considerando che altrimenti nel 1680 ca. nessun uomo adulto avrebbe adoperato l’espressione “da tempo”. Nel momento in cui dettò le sue volontà, ancorché presumibilmente corpore sano, il testatore doveva infatti avere circa trentott’anni (era nato nel 1642, era stato nominato cavaliere del Sacro Romano Impero insieme ai fratelli e al padre nel 1653 ed aveva sposato la contessa Maria Novelli nel 1669): il fatto che egli non si ricordi dell’arrivo del crocifisso nella cappella di famiglia (Fig. 41), significa che esso doveva essere avvenuto prima della sua nascita, grossomodo entro il quarto decennio del Seicento; ma il fatto che le sue parole siano così vaghe, fa ipotizzare che l’evento risalga ad un momento nettamente anteriore, sicché è plausibile che il ‘viaggio’ sia avvenuto al massimo nei primi decenni del XVII secolo, dunque durante la giovinezza del padre, ser Giovanni Domenico, nato nel 1590. O più probabilmente ancor prima di tale data, nel corso dell’ottavo-nono decennio del Cinquecento, giacché parrebbe quanto meno strano che il genitore in caso contrario (cioè avendo coscientemente assistito all’evento) non ne avesse tramandato al figlio la data, perlomeno in maniera approssimativa. Purtroppo di Antonio de Bresciani, padre di Giovanni Domenico e nonno di Giovanni Pietro, non si hanno notizie, all’infuori di una possibile identificazione con quell’Antonello Brexano che è il primo cervignanese con quel cognome ad essere menzionato nell’urbario parrocchiale del 1559, “camerario uscente” della chiesa madre di San Michele144. Se la sede originaria fosse stata la badia cervignanese intitolata all’arcangelo, il trasferimento avrebbe davvero potuto aver luogo “in occasione del rifacimento della chiesa nel 1613-14 o non molti anni più tardi” come qualcuno ha ipotizzato145: ma, come si è visto, l’ipotesi che il crocifisso abbia seguito un semplice percorso interno alla città non regge. Se invece si trattò della basilica dei Santi Felice e Fortunato come si propone - l’occasione ideale avrebbe potuto essere proprio tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, considerando che già nel 1570 si constatò una situazione piuttosto precaria dell’edificio, al cui interno non si conservavano più, ormai né il Santissimo né alcuna reliquia, e per di più si registravano arredi mancanti, infiltrazioni d’acqua, muffe sulle colonne, ambienti inutilizzabili (es. la sagrestia) e guasti alle mura, al tetto ed ai mosaici pavimentali146. Oltre a ciò, come si è già visto, il visitatore Bartolomeo di Fig. 41 - L’interno della cappella in una fotografia di quasi trent’anni or sono (da ROSSETTI-D’ANTONIO 1979). 111 il cristo ritrovato G. Caiazza Porcia chiese l’immediata copertura del “ridicolo” crocifisso e ne ‘suggerì’ vivamente la sostituzione: fatto che potrebbe essersi effettivamente verificato entro un brevissimo lasso di tempo… Dopo quasi quindici anni, infatti, il 4 febbraio 1585 il vescovo Cesare de Nores - visitatore per conto di Paolo Bisanti, vicario del patriarca commendatario Giovanni Grimani - osservò che, a parte “l’arca con le reliquie dei santi martiri titolari” retrostante l’altar maggiore (arca che noi in realtà sappiamo vuota dal 1356 per volontà del patriarca Nicolò di Lussemburgo), la chiesa era pressoché priva di tutto (“indiget multis sed nihil habet”), i canonici ab immemorabili tempore non vi risiedevano più e “da tempo non (vi) si esercitava la cura” a parte le messe festive, sicché dispose l’immediato sequestro delle rendite di decano, preposito e canonici (all’epoca nove) affinché si provvedesse all’acquisto delle suppellettili necessarie e alla riparazione dell’edificio cultuale dell’insigne prepositura ormai decaduta147. A neanche dieci anni di distanza, il 2 aprile 1594 il reverendo Giovanni Battista Scarsabon - per conto del patriarca commendatario Francesco Barbaro visitò nuovamente la “chiesa collegiata dei Santi Felice e Fortunato”, lasciando precise disposizioni riguardo al decoro di quella che pare una chiesa semi-abbandonata, ordinando tra l’altro di “togliere i calcinacci” e “imbiancare le pareti del vestibolo” (quello che un quarto di secolo prima era stato definito porticus)148. Infine, il 3 marzo 1603 il beneficio della prepositura di San Felice - rimasto vacante - fu unito alle rendite del nuovo Seminario patriarcale fondato a Udine (Fig. 42), segnando la conclusione dall’esistenza giuridica della plurisecolare istituzione ecclesiastica, la cui basilica l’11 dicembre 1624 fu visitata da un rappresentante del patriarca Antonio Grimani, che sullo stato materiale dell’edificio lasciò ben poche annotazioni, tra cui la conferma dell’esistenza di un altare di San Giovanni (presumibilmente quello reintitolato da mons. di Porcia) oltre ad un solo altare secondario (mezzo secolo prima erano almeno tre…), dedicato a San Carlo (titolus nuovo) e pure molto malridotto, ed all’altar maggiore con l’arca priva delle reliquie dei martiri149. È del tutto evidente che in un luogo di culto sempre più ‘vuoto’ nonostante le piccole riparazioni di volta in volta effettuate al complesso in degrado, non si fa più alcun cenno al gigantesco ‘Cristo di San Felice’ dopo il 1570. È dunque più che verosimile ipotizzare che il crocifisso sia stato spostato altrove molto tempo prima che Giandomenico Bertoli constatasse 112 la scoperchiatura del tetto della basilica martiriale (1730) e l’arcivescovo goriziano Carlo Michele d’Attems acconsentisse alla sua demolizione (1769), essendo parocho di Aquileia, cioè “pievano per parte della Parochiale di San Giovanni”, il sacerdote Antonio de Bresciani150. L’analisi dei dati documentari non solo conferma, ma addirittura precisa la ricostruzione proposta a partire dallo studio del crocifisso come elemento dell’arredo liturgico. Dunque, in base alle informazioni desumibili dalle visite pastorali, supportate dalle deduzioni suesposte di ordine genealogico, si potrebbe datare la ‘partenza’ della scultura da San Felice al quindicennio compreso fra il 1570 ed il 1585, quand’era preposito di San Felice il sandanielese Volconio de’ Volconii: incaricato dal patriarca Giovanni Grimani il 29 settembre del ’70, questi mantenne la prepositura fino al 1591 e forse fu l’ultimo della lunga serie151. In quel torno di tempo, molto probabilmente già fra il terzultimo ed il penultimo decennio del XVI secolo (si ricordi che Giovanni Domenico de Bresciani, nato nel 1590, non raccontò al figlio di aver vissuto l’episodio, e questi, testando nel 1680, ricordò senza precisione il crocifisso “che da tempo si venera…”), il ‘Cristo di San Felice’ lasciò - per così dire - il posto al ‘Cristo della Contessa’ o ‘crocifisso Bresciani’. Cioè, lungi dallo scomparire, il ridiculosus simulacro sacro continuò ad assolvere al meglio le funzioni fin dal VII secolo riconosciute alle immagini religiose, tanto più evidenti nel caso di una figura tridimensionale perennemente esposta alla venerazione dei fedeli. Restano da chiarire nel dettaglio le vicende che lo portarono dalla basilica dei santi martiri Felice e Fortunato fino a Cervignano, ma successivi studi permetteranno senz’altro di approfondire ulteriormente i vari passaggi e gli eventuali intermediari, uno dei quali potrebbe essere stato il nobiluomo tarcentino Giuseppe de Frangipane, che fu parroco di San Michele - sotto la giurisdizione delle benedettine aquileiesi - dal 1567 al 1597, dunque ben prima di quel Paulo Bressano che ne fu il quarto successore, dal 1617 al 1650, ed il cui cognome potrebbe facilmente… sviare l’indagine152. Dopo essere ‘giunto’ nella cappella gentilizia della villa Bresciani, il gran Re (si noti la riseca intorno alla testa: probabilmente non è originaria e potrebbe essere stata prodotta per incoronare il Cristo non con una calotta di spine ma con una vera e propria ‘insegna di sovranità’) “restò nella piccola costruzione, gelosamente protetto dall’affettuosa cura della nobile famiglia proprietaria e dall’assidua devozione popola- Fig. 42 - In questa piccola veduta prospettica, nel 1752 F. Leonarduzzi assegnò il n. 1 al palazzo del Seminario costruito a Udine nel primo Seicento (collezione coppola). re”, testimoniata anche dagli ex-voto tuttora affissi alle pareti della piccola sacrestia adiacente153. Certo, rimane anche da capire perché sia stata decisa la ‘partenza’ del grande manufatto: considerando che “l’orientamento della spiritualità collettiva” era ancora favorevole alla ‘fortuna dell’immagine’ (come confermano, per es., la sopravvivenza dell’edicola devozionale ‘del Cristo’ nell’atrio basilicale quanto meno fino al 1775 e la sovrabbondanza di toponimi ‘cristologici’ in un’ampia area circostante), l’ipotesi più logica pare quella della ‘volontà’ di ottemperare al decreto del primo visitatore apostolico tridentino e al contempo tutelare la venerata statua. Su di essa infatti non solo pendeva più che metaforicamente il biasimo di Bartolomeo di Porcia, ma letteralmente gravava anche la pessima situazione del santuario: la permanenza del Cristo nella periclitante chiesa di San Felice avrebbe comunque potuto metterne a repentaglio la sopravvivenza! Nulla è per il momento possibile precisare circa i dettagli del trasferimento, per il quale si potrebbe perfino ipotizzare un percorso ‘a tappe’: il Cristo di San Felice potrebbe essere stato ‘ricoverato’ temporaneamente in qualche altro sacro edificio di Aquileia (nella cattedrale patriarcale, nella chiesa delle benedettine o nella parrocchiale), dal quale sarebbe poi stato ‘prelevato’ in un secondo tempo per interessamento di un intermediario al momento non identificato (forse lo stesso de Frangipane) e che comunque è plausibile abbia vissuto qualche decennio prima di pre Paolo Bressano e molto prima di don Antonio de Bresciani. TRA FRIULI E SÜDTIROL Quanto alla genesi materiale del sacro simulacro, in questo stesso volume si evidenzia giustamente una ‘pista’ pusterese d’epoca romanica ed il ‘debito’ della scultura lignea monumentale nei confronti dell’oreficeria154. Rimandando al valido contributo di Luca Mor, in questa sede si ritiene opportuno presentare quello che pare un tassello importante nella ricostruzione storica della genesi del ‘Crocifisso della Contessa’/’Cristo di San Felice’. Il Museo Diocesano di Brixen-Bressanone, infatti, custodisce da oltre quarant’anni il crocifisso mutilo proveniente dalla cappella di Lamprechtsburg-Castel Lamberto presso Bruneck-Brunico, datato al decennio 1140-1150, epoca dell’eminente episcopus brissinensis Hartmann: benché privo degli arti e dal busto pesantemente rimodellato in epoca moderna, esso conserva impressionanti affinità con il Cristo di Cervignano. Il perizoma (Fig. 43) rientra a pieno titolo nel gruppo dei ‘gonnellini’ ottenibili per ripiegamento di una tunica di cui Mor offre un’ampia panoramica: la piegatura triangolare anteriore, ovvero quella 113 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 43 - Perizoma del crocifisso della cappella di Castel Lamberto, 1140/50 (da SEMFF 1980). 114 evidente “pezza di stoffa” che “scende fra le cosce” quasi “asse di simmetria”, e le due pieghe verticali “del tessuto sui fianchi” rimandano direttamente al piatto ‘triangolo multiplo’ anteriore, al riporto pendente dal nodo frontale e alle tre pieghe laterali del crocifisso Bresciani, nonostante la “sciancatura” sette-ottocentesca abbia eliminato su entrambi i fianchi del manufatto sudtirolese i due ‘avvolgimenti’ a livello della ‘cintola’, che peraltro “si trova di poco sotto l’ombelico” come a Cervignano155. L’unica differenza evidente risiede nella resa del nodo, che non è strettamente legato, triangolare e tondeggiante come nel caso friulano: Mor identifica tutta una serie di ‘parentele’ proprio in riferimento al perizoma e al sistema di annodatura, ma nulla vieta di considerare il torso di Castel Lamberto fra i ‘capostipiti’ del gruppo, che secondo M. Semff “sembra fosse diffuso dal XII secolo fino alla metà del XIII” e manifesta “singolari e specifiche tendenze” sudtirolesi rilevabili anche in area sveva nel XII secolo per via di una “naturale interdipendenza” e di influssi comuni provenienti dall’Italia per il “rigore astratto della modellatura”, assunti che dimostra portando diversi esempi, primi fra tutti il crocifisso di Nonnberg a Salisburgo e quello di Sigmaringen, nei quali “il grande e rotondo nodo centrale è legato stretto” come a Cervignano156. D’altronde, il XII secolo - che Jacques Le Goff ha giustamente definito l’“epoca del grande fermento occidentale” e della “rinascita europea”157 - è il culmine di quello straordinario periodo “di libertà per le immagini e di eccezionale creatività iconografica” che caratterizza l’arte romanica occidentale, in cui la ‘manovra’ è a tal punto lasciata alla discrezione dell’artifex che neppure l’usuale riferimento ad un’opera ritenuta degna di venerazione e d’incontestabile prestigio gli impedisce di trasformare il modello “sotto la copertura dell’omaggio che gli rende”, sicché “i temi iconografici si moltiplicano, senza mai lasciarsi racchiudere in tipi figurativi immutabili e strettamente codificati”158. L’attuale frammento conservato a Bressanone è alto 73,5 cm, ovvero meno della metà dell’identica porzione della monumentale scultura conservata nella cappella Bresciani (altezza 239,5 cm: solo il ‘torso’ 163,3 ca.), ed è realizzato in legno di tiglio, mentre il crocifisso ‘della Contessa’ è ricavato da un unico tronco di pioppo (suppedaneo compreso): questi due elementi, insieme alla resa semplificata dei panneggi e del nodo, depongono a favore di una realizzazione del Cristo ‘di Bressanone’ avvenuta qualche tempo prima, nella medesima ‘temperie’ artistica benché ad un diverso livello progettuale159. Allo stesso ambito potrebbe appartenere pure il ‘Palmesel’ della chiesa veronese di Santa Maria in Organo160, che però è chiaramente successivo ai due simulacri in questione, nonché a quello che dovette essere il prototipo della serie di crocifissi ‘aretini’ (e di altre località della Toscana) ai quali già E. Carli aveva accennato e che in anni recenti sono stati restaurati ed almeno in un caso riferiti a “un artista non italiano” all’opera nell’ultimo decennio del XII secolo161. A proposito di questo gruppo di sculture centroitaliane, è del tutto verosimile che il ‘pezzo’ più vicino al mondo germanico sia appunto il Cristo ritoccato da Margarito d’Arezzo nel 1264 ma originario della seconda metà del XII secolo: nonostante alcune evidenti differenze, esso presenta infatti i maggiori punti di contatto con la scultura oggetto di questo contributo ed il suo possibile ‘ascendente’ brissense nell’inclinazione del capo, nella resa di barba e capelli, nella linearità delle braccia e nella resa del perizoma, relativamente all’annodatura (sebbene snellita), al ‘triangolo’ inguinale ed alle ripiegature laterali162. Al di là delle manipolazioni che anch’esso subì, il crocifisso ligneo oggi a Cervignano corrisponde tuttora alle caratteristiche evidenziate per quello conservato a Bressanone: struttura ‘geometrica’, statica e “allineata” del torace e del ventre; testa “spinta in avanti” e “leggermente inclinata sull’asse verticale verso la spalla destra”; capigliatura con scriminatura centrale, “ciocche lunghe” parallele e aggettante attaccatura che “delimita le tempie e la fronte orizzontalmente”; “orecchie strette e a forma di ovale allungato”, identicamente inclinate rispetto alla ‘linea’ dei capelli; chioma che da dietro le orecchie scende lungo il collo per poi ‘risalire’ sulle spalle; “barba realizzata grazie a sei singoli coni scolpiti con le estremità ingrossate e che curvano leggermente verso l’alto”; “marcata incisione” delle sopracciglia grazie al netto taglio dell’arcata, delle palpebre (a Cervignano socchiuse, a Bressanone chiuse), del lungo naso “finemente realizzato” e soprattutto delle labbra “fortemente serrate”, prominenti e inarcate all’ingiù163 (Fig. 44). Evidentemente gli autori (o l’unico…) dei due simulacri lignei condividevano l’impostazione di chiare origini germaniche (non il Gero Christ del 980 ca., ma il crocifisso bronzeo già nella sacrestia di San Lucio ad Essen-Werden del 1060 ca. o quello in noce della chiesa di San Giorgio a Colonia del 1070 ca., o ancor meglio quello sovrastante la pisside del tesoro di Hildesheim, pure dell’XI sec. ma ancor più risalente e del quale si riparlerà)164, manifestavano le stesse ‘tendenze’ scultoree sudtirolesi evidenziate da Semff ed erano legati alla medesima ‘corrente’ romanica pusterese studiata da Mor: e se il kruzifixus di Lamprechtsburg fu realizzato verso la metà del XII secolo, al colossale cricifixus di San Felice si diede verosimilmente ‘vita’ nella seconda metà di quello stesso secolo o al massimo, ma è ipotesi sempre meno attendibile, entro gli inizi del XIII. Questa proposta anticipa le più recenti congetture riferite alla metà del Duecento riprendendo in parte la datazione al primo Duecento avanzata da alcuni studiosi del secolo scorso (dei quali però non si condivide la riduttiva interpretazione critica del manufatto) ed anzi anticipandola ulteriormente sia per via del confronto con il crocifisso di Castel Lamberto, sia in riferimento allo studio dei contatti storicamente dimostrabili fra Aquileia e Bressanone. Dopo che il vescovo Vodalrico di Bressanone presenziò alla consacrazione della basilica popponiana nel 1031 e il patriarca aquileiese Enrico prese parte al concilio di Bressanone del 1080, date troppo alte allo stato attuale delle ricerche, i contatti fra le due chiese locali sono sufficientemente documentati fino al quinto decennio del XIII secolo: per il periodo che qui più interessa, dobbiamo considerare innanzitutto la presenza del patriarca aquileiese Pellegrino I nel 1154 a Brixen, dove, al seguito di Federico detto ‘Barbarossa’, dovette incontrare Hartmann, che resse la locale diocesi dal 1140 al 1164165. Pellegrino apparteneva al nobile casato trentino dei signori de Povo, che poco più tardi sarebbe entrato in possesso anche del castello di Beseno acquisendone il nome e dal quale sarebbero presto ‘derivati’ i de Manzano, a loro volta partecipi della ‘trasformazione’ dei de Lavariano in di Strassoldo: ma al di là di tutto, egli resse lo Stato aquileiese dal 1131/32 al 1161, conferendogli saldezza e stabilità anche mediante l’acquisizione di terre e castelli da feudatari d’alto rango (si pensi al castrum di Artegna, comprato dagli Spanheim nel 1146) e mantenendosi sempre fedele all’imperatore, dapprima Lotario II, quindi Corrado III, infine il citato Federico I166. Sulla base dei dati al momento disponibili, bisogna poi spostarsi al 1224, anno in cui Enrico de Strashou fu eletto vescovo di Bressanone: già arcidiacono di Aquileia almeno dal 1208, egli rimase canonico della locale cattedrale ma operò in Sudtirolo e vi morì nel 1240, lasciando ai confratelli del Capitolo aquileiese, oltre a quattro bona mantilia e un cingulum irlandese, la “sua domum de Aquilegia cum duabus turribus” (Fig. 45), un terreno “ultra flumen” ed un altro “ex ista parte fluminis” di cui in quel momento fruiva Otto Ruffus, canonico e maestro delle scuole di San Felice167. I mandati di Pellegrino ad Aquileia e di Enrico a Bressanone coincisero con la prima e la terza fase del periodo di massimo fulgore della prepositura dei Santi Felice e Fortunato: questa, che da prima del 1172 ospitava la seconda scuola capitolare di Aquileia e dal 1174 era direttamente sottoposta alla Fig. 44 - Volto del crocifisso della cappella di Castel Lamberto, 1140/50 (da SEMFF 1980). 115 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 45 - La “domum de Aquilegia cum duabus turribus” lasciata nel 1240 ai confratelli del Capitolo aquileiese da Enrico de Strashou vescovo di Bressanone, doveva essere lo stesso complesso poi denominato “Torri Savorgnane” (da G.D. Bertoli, Tomo III delle Antichità di Aquileia). Sede Apostolica (in virtù della già ricordata bolla di Alessandro III che ne aveva confermato i consistenti possessi e diritti, imitato nel 1197 da Celestino III), dal 1161 al 1246 vide susseguirsi alla sua guida numerosi prepositi fra cui alcuni particolarmente influenti come Gionata, Giovanni, Duringo e Poppo che, oltre a rappresentarla nelle adunanze parlamentari, presenziarono costantemente ad atti ufficiali, presiedettero arbitrati, rappresentarono i patriarchi, ricevettero da essi nuove concessioni ed ottennero ulteriori riconoscimenti dai pontefici168. XII SECOLO... È innegabile che per l’arrivo a San Felice del crocifisso - con ogni verosimiglianza lo stesso oggi detto ‘della Contessa’ - difficilmente si potrebbero trovare momenti più adatti dei due periodi indicati, compresi fra la metà del XII secolo ed il 1240. Propendere per l’uno o per l’altro significherebbe ‘datare’ l’imago Christi tridimensionale, verosimilmente pensata proprio per essere issata sulla ‘trave’ mediana della basilica dei due martiri aquileiesi: le immagini sacre medievali ed in primis i crocifissi, soprattutto dopo aver definitivamente superato dall’XI secolo ogni diffidenza (timori di idolatria) ed acquisito al contempo una propria autonomia (non più meri ‘contenitori’ di reliquie), nascevano di norma in funzione di un preciso ‘luogo’ e difficilmente erano ipotizzabili fuori da quel contesto, sicché è verosimile che la monumentale scultura lignea sia nata ad hoc per San Felice, 116 al cui interno mostrava (presumibilmente non da sola, ma certamente come elemento esteticamente e liturgicamente insostituibile) la presenza visibile ed impressionante di Cristo in stretta connessione con la presenza reale e trasformante dell’Eucaristia (dottrina che fu riaffermata e sviscerata soprattutto nel XII secolo…)169. Senza poter approfondire ulteriormente l’indagine, risulta difficile scegliere tra i due estremi identificati: restringere il campo all’episcopato di Enrico a Bressanone non sembra corrispondere all’evidente (dopo i recenti restauri) arcaicità della scultura cervignanese; d’altra parte, una datazione legata a Pellegrino I - entro il 1161 - potrebbe forse parere un po’ troppo risalente, eppure è la più convincente. Tornando al ‘debito’ della scultura lignea di grande formato nei confronti dell’oreficeria, non si può non sottolineare che esso non è altro che un aspetto del complesso rapporto di interdipendenza tra i due ‘mondi’ artistico-artigianali, che è stato da tempo evidenziato soprattutto per il periodo che va dalla fine del XII al primo terzo del XIII secolo, allorché il fenomeno della “trasposizione” di modi, materiali e stilemi originariamente specifici di arti del tutto diverse ‘pesò’ molto più che in altre epoche storiche, poiché nell’arte medievale “il problema della causalità, o meglio del primato artistico, è più difficile da penetrare”170. Quel lasso di tempo fu caratterizzato dalla “enorme spinta iniziale e innovativa che le artes minores e soprattutto l’arte orafa” (argenterie lavorate a sbalzo, dorature, intagli eburnei…) “esercitarono sulla scultura monumentale” nell’Italia nord-orientale e nelle aree limitrofe, al punto che spesso soltanto la visione ‘dal vivo’ permette di distinguere senza errori i veri rapporti di grandezza e di materiale tra oggetti resi fotograficamente consimili dal grande sforzo di imitazione della produzione degli orafi operato dagli scultori: ciò che avvenne anche nell’Italia centrale, proprio per quanto riguarda i crocifissi cosiddetti ‘aretini’ già ricordati, che condividono con crocifissi bronzei coevi “caratteri individuali quasi identici”, tanto da stupire per “la somiglianza dell’Imago”171. Proprio al periodo citato, ma sempre più propendendo verso la metà del XII secolo, risalirebbe il grande Cristo in croce conservato nella cappella Bresciani, sulla base dei confronti artistici (dal Kruzifixus-Torso di Castel Lamberto al crocifisso aretino ritoccato da Margarito) e dei riscontri storiografici (da Pellegrino I di Povo patriarca di Aquileia ad Enrico de Strashou vescovo di Bressanone): circa le ‘ascen- denze’, vale sicuramente la pena di rimarcare il prospettato accostamento al piccolo crocifisso sovrapposto alla pisside d’argento del tesoro della cattedrale di Hildesheim, prodotto dalla locale scuola orafa dopo il 1022, che presenta notevoli ‘convergenze’ con il più tardo oggetto di questo studio, dalla postura eretta del corpo alla testa non completamente reclinata, dall’angolo di ‘apertura’ delle braccia al pollice ‘poggiato’ sulla mano (dicesi ‘in adduzione’), dal parallelismo degli arti inferiori al saldo posizionamento dei piedi sul suppedaneo172. D’altronde, anche l’ignoto autore del Crocifisso cervignanese ebbe i suoi ‘modelli remoti’ in quanto, pur non negando la creatività dell’artefice, la realizzazione di un nuovo manufatto artistico per buona parte del medioevo ebbe come inscindibile presupposto la conoscenza, ricezione e ‘ripetizione’ di un’imago preesistente quanto meno nei suoi “elementi essenziali”, fatto che nel caso in questione dovette avvenire nei termini della ‘derivazione’, cioè della ripetizione di un’altra immagine rinnovandone contenuti e funzioni al punto da ‘crearne’ una del tutto ‘nuova’173. Concordemente definito colossale, il ‘Cristo della Contessa’ è stato assegnato a scuole diverse dagli studiosi, che l’hanno giudicato “lavoro assai imperfetto”, attribuibile alla “mano d’un imitatore popolaresco” o comunque “non opera d’artista” perché “troppo pesante, troppo sproporzionato e troppo rigido”; cosicché, in passato genericamente riferito ad un periodo “anteriore al rinascimento delle arti belle” compreso entro l’inizio del Trecento, nella seconda metà del secolo scorso era stato attribuito ai primi anni o decenni del secolo XIII (magari ventilando l’ipotesi cautelativa che il succitato “imitatore popolaresco” potesse anche essere “notevolmente posteriore”) ed in anni recenti è stato ‘riportato’ alla metà del Duecento174. Ora invece pare nuovamente ammissibile una datazione alta dell’opera, addirittura verso la metà del XII secolo, sulla base di importanti ‘indizi’ favorevoli: l’evidente resa complessiva ‘intermedia’ tra il Christus triumphans e il Christus patiens, tra il momento della vittoria sulla morte e il momento che portò a quella vittoria; il suppedaneum foggiato ad elegante poggiapiedi polilobato, esplicito riferimento allo “sgabello” descritto dai salmisti ai piedi di Dio175 e ‘citazione’ delle pedane su basse terne di archetti frontali e laterali che nel XII secolo comparivano negli avori bizantini sotto i piedi dei santi176; il tipo di copertura pelvica (Fig. 46) (dall’inconfondibile nodo frontale raramente riscontrabile dopo il XII sec.) ben lontana dal colobium, ma non mero subligar di decenza né campestre da portare sotto la toga, bensì perizonium così curato ed eccedente i fianchi del Giusto ingiustamente giustiziato da sembrare un gonnellino, tipologia verosimilmente connessa all’antica raffigurazione del Christus victor177; la quasi coincidenza fra altezza e apertura delle braccia - 239,5 contro 249,5 cm - chiara trasposizione cristologica del mistico homo quadratus ildegardiano, ‘figura’ del rapporto macrocosmo-microcosmo in linea con le concezioni ascetiche diffuse prima del Duecento178; ed infine la pregiata crucicola in smalti cloisonné rinvenuta nella testa del crocifisso, minuta croce ‘pomata’ dotata di appendici rotonde nei punti di contatto fra i bracci e i clipei, erede degli encolpi cruciformi devozionali ma lontana dalle croci pettorali a terminazioni trilobate duecentesche e pienamente assimilabile alle crocette “pendenti” doubleface bizantine realizzate in metalli preziosi con smalti ‘tramezzati’ multicolori (Fig. 47), non solo amuleto (phylacterion) ma memoria Christi in sé quand’anche prive di reliquie, databili al medio XII secolo anche dall’analisi dei motivi esornativi179. Che insieme al suo cordoncino de serico quest’ultima sia stata ‘donata’ al venerato simulacro da persona d’alto rango è Fig. 46 - Il perizoma del crocifisso dopo il restauro, vista laterale (da CASADIO 2003). Fig. 47 - La crucicola rinvenuta nella cavità occipitale del crocifisso Bresciani (da CASADIO 2003). 117 il cristo ritrovato G. Caiazza Fig. 48 - Il campaniletto a vela sovrapposto alla facciata ‘principale’ della cappella (G.C.). innegabile (i fili giallo e rosso intrecciati richiamano le autorità ecclesiastiche, che portavano al collo crucicole pectorales similari già secoli prima che fossero annoverate fra le insegne di dignità), ma più che ad “una delle nobili badesse o monache del monastero di Santa Maria extra muros di Aquileia” si dovrebbe pensare ad uno dei tanti alti prelati frequentanti San Felice nel suo periodo di maggior splendore180. Alla fin fine, la presunta sproporzione e l’apparente disarmonia del crocifisso Bresciani non sono affatto dovute alla scarsa abilità dell’ignoto ma per nulla incapace artifex, bensì alla sua volontà di adeguare le fattezze di quel corpo ligneo non solo al luogo in cui sarebbe divenuto oggetto di venerazione ed alla posizione dalla quale avrebbe dovuto essere guadato, ma anche e soprattutto alle tendenze figurative dell’epoca (XII secolo) ed alle proporzioni allora considerate dal simbolismo cristiano perfette, appropriate per il “Re dei re”, il “Signore dei signori”, quel Christus rex nel quale ogni sovrano medievale intendeva rispecchiarsi181. FRA XVII E XX SECOLO A seguito delle lotte tra la Serenissima e l’Austria, Cervignano entrò a far parte dell’Impero Asburgico: il fiume Aussa segnò i confini tra i domini arciducali e quelli veneziani. Durante la cosiddetta ‘guerra di Gradisca’ (1615-1618), la città fu gravemente danneggiata: il 9 ottobre 1617, in esecuzione della delibera del Senato lagunare su proposta del provveditore generale di Palma (l’odierna Palmanova) Antonio Grimani, se ne avviò la distruzione poiché “serviva d’impaccio alla libera navigazione sull’Aussa”; sicché, quando veneziani ed arciducali deposero le armi, restavano in alzato solamente la chiesa con la canonica, “una abitazione per i ministri pubblici” e “dieci case delle migliori” sull’ottantina di abitazioni preesistenti182. Evidentemente, villa Bresciani dovette essere una delle ‘case’ sopravvissute, dal momento che non patì danno alcuno183: e ciò non accadde neppure al primitivo oratorio gentilizio, quel piccolo edificio cultuale privato che “al principio del 1600 vi era già; ma sembra che vi esistesse ancora molto prima”184 e che nel 1692 fu in qualche modo ‘rimpiazzato’ dall’attuale cappella, giunta fino a noi con i successivi interventi di cui s’è detto (Fig. 48). Passato il ciclone napoleonico, durante il quale Antonio Bresciani era stato eletto primo sindaco del neonato comune di Cervignano, elevato a capoluogo del quarto cantone del terzo distretto (“dell’Isonzo” 118 o “di Gradisca”) rientrante nel dipartimento di Passariano del Regno d’Italia185, nel periodo 18201828, all’epoca dei lavori di ristrutturazione resisi improrogabili nella nuova chiesa di San Michele, la cappella Bresciani rimase l’unico luogo di culto efficiente nelle vicinanze del centro urbano e come tale ospitò le celebrazioni parrocchiali insieme all’altra chiesetta cervignanese officiata, la più decentrata San Girolamo, ubicata nell’omonimo borgo186. Quattordici anni più tardi, “il sacerdote che gode pro tempore il benefizio della Cappella Bresciani” - all’epoca don Antonio Trevisani - fu nominato primo maestro della scuola “triviale” comunale che dal primo gennaio 1842 aprì i battenti in un locale sito nei pressi della parrocchiale cervignanese, in ottemperanza al decreto sull’istituzione di scuole popolari in tutto il Litorale asburgico (1841)187. Non era trascorso neanche un lustro dacché l’incolumità del crocifisso romanico era stata messa molto seriamente a repentaglio: il 3 giugno 1837, l’arcivescovo di Gorizia Francesco Saverio Luschin, nel corso di una delle periodiche visite pastorali, aveva ingiunto ai proprietari della cappella la rimozione (“allontanamento”) del Crocifisso in quanto “di proporzioni troppo grandi” rispetto alle ridotte dimensioni dell’edificio e perché “pietatis sensus potius retundens quam excitans”, ‘reprime la devozione più che incoraggiarla’, quasi parafrasando l’ironico commento messo per iscritto da Agostino Varisco per Bartolomeo di Porcia due secoli e mezzo prima. Fortunatamente, né il barone Girolamo Maria de Bresciani, né la consorte contessa Doralice Matilde Beretta, né il figlio Francesco Luigi Maria avevano ubbidito, sicché l’opera era rimasta tranquillamente al proprio posto188. E’ presumibile che monsignor Luschin conoscesse la ‘sentenza avversa’ del suo lontano predecessore, ma di certo questo suo pronunciamento costituisce oggi un ulteriore indizio favorevole - quantunque indiretto - all’identificazione ‘Cristo di San Felice’ = ‘Cristo della Contessa’. Il figlio del barone Girolamo fu colui che nel 1873 fece “restaurare, ingrandire ed abbellire” l’allora malridotto “antico sacello familiare” (vd. supra) e fu anche l’ultimo discendente maschio del casato che aveva fondato la villa: dopo di lui, l’intero complesso passò ad altre tre famiglie, sempre in linea femminina. Il 14 aprile del 1845, nella cappella arcivescovile di Gorizia, Francesco prese in moglie la neanche ventiduenne baronessa Enrichetta Luigia Maria Teresa Bourlet de Saint Aubin (Fig. 49), con la quale visse prima a Camposampiero e poi San Vito al Tagliamento, utilizzando la villa di Cervignano per la ‘villeggiatura’ e la gestione della produzione agricola. La giovane nobildonna francese “non solo disimpegnava esattamente i suoi obblighi di moglie e di madre, ma era dessa che dirigeva la famiglia, essa che villeggiando a Cervignano accudiva agli affari campestri con una solerzia meravigliosa, rivedendo a suo tempo l’amministrazione, e ordinando gli opportuni lavori e tutto ciò che è necessario a ben regolare e dirigere una possessione”; tuttavia era amata dalla gente soprattutto per la generosità (proprio in “casa” Bresciani, per esempio, ospitò e curò una “ex monaca” inferma, dopo averla per tre anni fornita “del necessario sostentamento” quand’era “ridotta a viver d’accatto”) e la fervorosa ma non ostentata religiosità, per la quale le fu tra l’altro concesso “il privilegio di tenere la SS. Eucarestia nella Cappella domestica (…) il quale le rendeva maggiormente gradito quel soggiorno”, essendole altrimenti impedita - durante le sue ‘ferie’ cervignanesi - la quotidiana visita meridiana al Santissimo, una delle pratiche di pietà a cui teneva di più189. Si può ragionevolmente supporre che Enrichetta Luigia abbia trascorso non poco tempo anche in contemplazione davanti all’antico ‘crocione’ ligneo, a giudicare dai frequenti riferimenti alle tematiche connesse (il crocifisso, la croce, la Passione, il Calvario ecc.) presenti fra i suoi scritti di meditazione e preghiera, dai quali talvolta emerge pure l’ambivalenza ben rappresentata dal Christus triumphans-patiens cervignanese: “Gesù Cristo povero, ignudo, improperato, schernito, sulla croce deve essere la nostra gloria, l’oggetto unico del nostro orgoglio e della nostra santa ambizione”; “Amor mio Crocifisso, fatemi la grazia quando mi si offre una mortificazione, un sacrifizio, che mi sovvenga che soggettandomici alleggerisco i vostri dolori sulla Croce, verso del balsamo sulle vostre piaghe adorate, e che all’istante della vostra crocefissione voi vedevate ciò con piacere e m’avete ottenuta la grazia di fare quest’atto”190. Dopo dodici anni di vita coniugale, nel 1857 la giovane mamma si spense prematuramente, poco più che trentaquattrenne, lasciando soli il consorte Francesco e la piccola Maria Anna Bernardina Filomena Bianca, che poi per la gente divenne ‘la baronessa’ per antonomasia e che fu anche l’ultima dei Bresciani: rimasta vedova del barone Carlo Alessandro d’Elvenich (il 22 maggio 1878 la cerimonia nuziale si era celebrata proprio “nella cappella di famiglia a Cervignano”), ella sposò in seconde nozze il cavaliere Enrico Peteani von Steinberg, portando in dote metà della ‘casa di villeggiatura’ cervignanese (l’altra metà - passata “in possesso di estranei” a seguito di successive divisioni e alienazioni - fu più tardi riacquistata), nella quale vissero; dalla loro unione nacque (1885) quella stessa Maria Conchita che più tardi sarebbe divenuta la prima moglie del conte Carlo d’Attems barone von Petzenstein e l’anno dopo (1910) avrebbe dato alla luce l’erede Maria Edith, la quale a sua volta avrebbe poi sposato il conte Herward von Auersperg, dandogli due figlie, Fig. 49 - Luigia de Saint-Aubin de Bresciani, litografia Kirchmayr - Venezia (da PENZO 1858). 119 il cristo ritrovato G. Caiazza di embrici e coppi. Gli stessi titolari oggi conservano con la massima cura lo storico complesso (Fig. 51), dai fabbricati alle aree verdi, dai mobili alle suppellettili e ai ritratti che rendono il nucleo della parte residenziale un vero e proprio “museo vivo”196. gabriele caiazza Fig. 50 - Villa Bresciani-PeteaniAttems impiegata come quartier generale dal comando della III Armata, 1917 ca. (da “Alsa”, 12, 1999). le contesse Beatrice ed Enrica, attuali comproprietarie ed abitanti della villa insieme ai rispettivi mariti, generali Tufano e Malorgio191. Durante la Grande Guerra, Cervignano - che all’inizio delle ostilità rientrava in territorio asburgico e alla fine si ritrovò sotto il tricolore sabaudo - svolse un ruolo di primo piano e proprio la villa Bresciani accolse temporaneamente il quartier generale della celeberrima Terza Armata dell’esercito italiano (Fig. 50), che si guadagnò il leggendario e retorico titolo di ‘invitta’ durante le operazioni belliche sul Carso: dal 24 ottobre 1915 al maggio del 1917 la cittadina ‘liberata’ divenne un nevralgico centro militare, luogo di smistamento di uomini e materiali, sede di assistenza ospedaliera e quartier generale, essendovi alloggiati il comandante Emanuele Filiberto duca d’Aosta (che seppe guadagnarsi il favore della popolazione) nella villa Antonelli ed il comando d’armata appunto nell’allora residenza dei coniugi Maria Conchita Peteani von Steimberg e Carlo d’Attems von Petzenstein192. Superati indenne le incursioni aeree e i cannoneggiamenti austriaci del primo biennio del conflitto, in seguito al pesante bombardamento dell’artiglieria austroungarica del 16 maggio 1917 - mirante specificamente a colpire l’alto comando italiano e andato ‘a vuoto’ per pochissimo (venne purtroppo colpito in pieno l’ospedale militare, sito proprio in via Trieste), nonostante le decine di morti e feriti ed i notevoli danni al centro urbano - il duca d’Aosta decise di trasferire il comando nella villa Badino di Privano193. In seguito, dopo Caporetto e Vittorio Veneto, la villa 120 Bresciani ospitò dal 31 ottobre al 4 novembre 1918 il comandante asburgico dell’Armata dell’Isonzo, generale Wurm, che poco prima dell’arrivo delle avanguardie nemiche riuscì fortunosamente a fuggire in automobile insieme al colonnello Körner, ricoverato in gravi condizioni “nella palazzina prospiciente alla villa Attems” per quel breve lasso di tempo194. Nel 1939, in presenza di una prolungata siccità, il Crocifisso Bresciani “fu rimosso” dalla cappella della villa “e portato processionalmente attraverso le vie cittadine, per impetrare la pioggia”, quasi a rievocare il leggendario primo viaggio dopo il quale la statua lignea sarebbe ‘rimasta’ a Cervignano: dopo di allora il colossale simulacro uscì qualche altra volta dalla sua ormai storica sede, da ultimo nell’anno giubilare 2000, per essere restaurato e successivamente esposto in una grande mostra a Bassano del Grappa195. Secondo alcuni testi, nella seconda metà del secolo scorso l’Ente per le Ville Venete avrebbe concesso ai proprietari della villa un prezioso contributo, permettendo loro di restaurare il nucleo dominicale, nel quale tuttora vivono i discendenti in linea femminile dei fondatori: si potrebbe ipotizzare un coinvolgimento dell’ente all’epoca dei restauri del 1962, ma a nessuno degli attuali proprietari risulta alcun intervento esterno al di là di un finanziamento accordato nei primi anni ottanta del secolo scorso dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici, archeologici, artistici e storici del Friuli - Venezia Giulia con sede in Trieste, sulla spesa necessaria al ripasso delle coperture a travatura lignea con manto Note 1 Vd. MOLARO 1920, pp. 92 e 102; e DEL TORSO Genealogie, c. 361r (Carlo d’Attems spiega ad Enrico del Torso di non poter verificare molti documenti in quanto depositati a Trento). 2 Cfr. MOLARO 1920, p. 128 (l’autore esagera a p. 130: “l’aristocrazia del blasone estinta, perduti gli stemmi, trasformate le abitazioni. Cervignano presente è tutta nuova”… almeno villa Bresciani, tuttavia, lo smentisce). 3 ZOPPÉ 1978, p. 88; id. 2000, p. 108. 4 Testimonianze orali raccolte dallo scrivente confermano l’assunto. Per il paludo, vd. MOLARO 1920, pp. 70 e 92. 5 Vd. JOPPI Genealogie; DEL TORSO Genealogie, c. 361v; e cfr. es. FORNASIR 1981a, p. 91. 6 Cfr. MOLARO 1920, pp. 91-92 e 105 (anni 1543, 1551, 1559, 1565). FORNASIR 1981a, p. 69, considera Bresciani e Bressan famiglie diverse, ma non ne spiega il motivo. 7 La definizione riferita alla baronessa si legge sul suo epitaffio, nella cappella gentilizia; le diverse forme del cognome nel Libro fondiario di Cervignano 1888. Cfr. pure COSTANTINI 2002, p. 117. 8 Cfr. FRAU 1978, p. 36 (1275); e COSTANTINI 2002, p. 117. 9 Vd. COSTANTINI 2002, pp. 443 (Pizzamiglio) e 503 (Spizzamiglio), e cfr. le liste di ricorrenza dei cognomi italiani (per es. sul sito web gens.labo.net/en/cognomi), dalle quali si può anche verificare come, ad un Bresciani massicciamente diffuso in Lombardia, fanno riscontro la forma Bressan, largamente presente in tutto il Triveneto, e la variante minoritaria Bressanutti, usata quasi soltanto in Friuli Venezia Giulia. 10 Cfr. PIRONA-CARLETTI-CORGNALI 1972, p. 1466; e COSTANTINI 2002, p. 117. Inoltre vd. DE FELICE 1978, p. 87 (derivazioni non solo da Brescia), e FRANGIPANE 2005, pp. 348-349 (genericità dell’origine: il celtico briga, “altura”). 11 ZOPPÉ 1978, p. 88. 12 GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 102-103. 13 Cfr. l’ottocentesco albero genealogico di Francesco Luigi de Bresciani, ultimo discendente maschio del casato, conservato in collezione privata; e DEL TORSO Genealogie. FORNASIR 1981a, p. 93, riporta da JOPPI Genealogie come data di ottenimento del cavalierato l’anno 1658, che invece DEL TORSO Genealogie, c. 359, chiarisce doversi anticipare: “1653 alias 1654 diploma in pergamena dell’Arciduca d’Austria di Nobiltà del S.R.I. rilasciato a Giuseppe Bresciani…”. 14 La ditta è domiciliata al numero civico 37 di via Trieste, mentre la villa è accessibile al 41, dal grande cancello della recinzione esterna. 15 Cfr. GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 98-101. Sugli Attems Petzentein, cfr. ib. pp. 68-96, e l’albero genealogico sul sito www.sardimpex.it. 16 Es. GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 98-99, purtuttavia definendole “eccellenti copie degli originali esposti a Roma”. Cfr. es. DI DOMENICO CORTESE 1967, pp. 197-199 e figg. 21-23; NEGRO 1997, p. 207; LO BIANCO 1997, p. 336. 18 Cfr. BRIGANTI 1982, pp. 74-75 e 185-186, LO BIANCO 1997, pp. 336-337, e FAGIOLO DELL’ARCO 2001, pp. 27-46 (Pietro da Cortona “all’epoca Barberini”, cioè sotto Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, pontefice dal 1623 al 1644). Sul rapporto fra Pietro da Cortona e i marchesi Sacchetti, vd. GUARINO 1997. 19 Le consuales erano feste celebrate a Roma in onore del dio Conso, il 15 dicembre, dopo la semina, e il 21 agosto, dopo il raccolto: fatti i sacrifici sull’altare del dio, nel Circo Massimo si svolgevano corse di carri, cavalli e muli; e mentre gli animali da lavoro, incoronati di fiori, erano lasciati in libertà, il popolo si dilettava in giochi campestri. 20 NEGRO 1997, pp. 199 e 207. Alcuni datano l’opera al 1653, altri propendono per il 1649, ma cfr. DI DOMENICO CORTESE 1967, p. 198, e NEGRO 1997, pp. 206-207 e soprattutto 212 nt. 60. 21 Cfr. DI DOMENICO CORTESE 1967, p. 198, RUSSEL 1996, p. 119 nt. 32, FAGIOLO DELL’ARCO 2001, pp. 100-101 (Gimignani “all’epoca Pamphilj” sotto Innocenzo X, alias Giambattista Pamphilj, papa dal 1644 al 1655), nonché il sito www. ambasciatadelbrasile.it/pages/ambasc/pamdescr_f.htm. Cfr. pure l’affinità fra alcune figure dei disegni di Giacinto Gimignani e i protagonisti della scena dipinta sulla tela cervignanese, per es. in FISCHER PACE 1979, pp. 23-35 e 167-179. 22 La felice interpretazione qui riproposta è stata messa a punto da LO BIANCO 1997, p. 336, proprio in riferimento ai committenti del Ratto di Pietro da Cortona oggi alla Pinacoteca Capitolina. 23 Secondo leggendario re di Roma (715-673 a.C. - ma su un fondamento storico) che guarda caso era originario della Sabina ed al quale si attribuivano la maggior parte delle riforme e delle istituzioni (dall’organizzazione del culto alla creazione dei collegi sacerdotali, alla riforma del calendario ecc.) in realtà frutto di una lunga evoluzione sociale, culturale e religiosa. 24 Cfr. RUSSELL 1996, pp. 113-114 e 119, nt. 32. 25 Cfr. es. ULMER 1994, pp. 60-69 (villa come residenza di rap17 Fig. 51 - Suggestivo scorcio del retro dell’ala orientale della villa (G.C.). 121 il cristo ritrovato G. Caiazza presentanza) e 107-114 (villa come simbolo del patriziato). 26 Cfr. il già cit. albero genealogico di Francesco Luigi, nonché DEL TORSO Genealogie, c. 359. 27 ZOPPÉ 1978, p. 88; cfr. ID. 2000, p. 109, e GEROMET-ALBERTI 1999, p. 97. Per la datazione delle origini del complesso, vd. pure Scheda A 656, Villa Bresciani Attems, a cura di O. Pitton, Centro regionale di Catalogazione, Passariano (Udine) 1990. 28 ZOPPÉ 2000, p. 109: la fotografia non è pertinente, ma pare raffigurare affreschi della villa Manin Antonini di Moruzzo (cfr. ib. p. 153). 29 ZOPPÉ 1978, p. 88; ID. 2000, p. 109; GEROMET-ALBERTI 1999, p. 97. 30 Solo a mo’ di confronto, si leggano il camelopardo e altre consimili bestie fantastiche in BARBER-RICHES 1999, passim. 31 Informazioni gentilmente fornite dagli odierni proprietari ed abitanti della villa. 32 Cfr. ULMER 1994, pp. 128 e 130-132. 33 Cfr. PETEANI-BRESCIANI 1890; FORNASIR 1981a, p. 92; e la citata Scheda A 656 del Centro regionale di Catalogazione di Passariano. 34 MOLARO 1920, pp. 92 e 102. 35 Come si sostiene, per es., in Ville 1991, p. 31, n. 132. 36 Cfr. FORNASIR 1981a, p. 92; GEROMET-ALBERTI 1999, p. 97. 37 Cfr. es. SOMEDA DE MARCO 1952, p. 568, o ZOPPÉ 1978, p. 88. 38 ZOPPÉ 2000, p. 108. 39 Cfr. ULMER 1994, p. 170, foto in alto: ‘portico’ passante della villa della Torre a Ziracco. 40 Es. FORNASIR 1981a, p. 92 (“aveva l’ingresso principale da borgo Salomone”), e ROSSETTI 1979, p. 66. 41 Cfr. Città di Cervignano nel Litorale 1873-1931; Comune di Cervignano del Friuli 1974; Libro fondiario di Cervignano 1888. 42 Cfr. ULMER 1994, p. 40. In Città di Cervignano nel Litorale 1873-1931, è ben disegnato il muro settentrionale, che proseguiva per diverse centinaia di metri verso oriente a delimitare l’unica particella 298/1, che oggi è invece frammentata in una settantina di mappali, talvolta molto piccoli. 43 Pur non essendo ancora citato negli elenchi degli alberi ‘monumentali’ diffusi nel 1991/93 (Grandi alberi nel FriuliVenezia Giulia, Udine 19932, pp. 120-125, riporta il cipresso calvo - 29 m, 150 anni - e l’acero campestre - 17 m, stessa età di villa Chiozza di Scodovacca, oltre al salice piangente - 21 m, cent’anni - dell’ex area Sarcinelli) né successivamente (il sito web del Corpo Forestale dello Stato oggi elenca solo il cipresso di Lawson - 16 m - di villa Lazzari Moro a Muscoli ed il carpino bianco - 25 m - di villa von Kunenfeld a Strassoldo). 44 Doveva trattarsi di un’epigrafe simile alla CIL 05, 01038 = InscrAqu-01, 0728: “PATROCLO SUMMARUM / ULPIUS PRISCUS / ANIMAE MERENTI”, ‘Ulpio Prisco a Patroclo, che merita le vette dello spirito’. 45 Ringrazio sentitamente per l’aiuto nel rilievo, nell’interpretazione e nelle ricerche la dottoressa Barbara Zecca di Udine e per la consulenza il professor Claudio Zaccaria dell’Università di Trieste. 46 Vd. es. ROSSETTI 1984, pp. 56-62, e da ultimo ID. 2006, pp. 63-70. 47 Cfr. ROSSETTI 1984, pp. 56-62. 48 Cfr. pure TAGLIAFERRI 1988, pp. 353-354. 49 Vd. PREMOLI 1990, I, pp. 600-601. 50 Di colombi portalettere si servirono particolarmente i ser- 122 vizi postali, mentre gli eserciti ebbero lungamente a disposizione colombaie fisse o mobili, collocate tanto in prima linea quanto nelle retrovie, per la trasmissione/ricezione di dispacci (durante il primo conflitto mondiale detti in gergo ‘colombigramma’) mediante piccioni viaggiatori. Cfr. PREMOLI 1990, I, pp. 600.602, e BUSETTO 2006, I, pp. 164-165. 51 In questo caso il dipinto del 1922 non può aiutare, poiché ‘riprende’ il complesso dall’interno della cancellata. 52 MARCHETTI 1972, p. 224. Cfr. MOLARO 1920, p. 101, FORNASIR 1981a, pp. 92 e 94, e ROSSETTI 1984, p. 105, nt 9. 53 MARCHETTI 1972, p. 224. Secondo Ville 1991, p. 31, n. 132, nel 1889, anno in cui invece il barone Enrico Peteani de Steinberg fece ampliare la zona absidale (vd. infra). 54 FORNASIER 1981a, p. 94. 55 Cfr. PENZO 1858, p. 32. 56 MOLARO 1920, pp. 98 e 103. 57 Vd. MOLARO 1920, p. 102; e soprattutto ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9; e inoltre cfr. infra. 58 Cfr. FORNASIR 1981a, p. 94 (da Copia del testamento). 59 MOLARO 1920, p. 102 (“proporzioni colossali”); ROSSETTI 1984, p. 104 ( “imponenza”); SEMFF 1985, p. 110 (“enorme statura fisica”). Vd. pure Scheda OA 26056 (rif. scheda cartacea 11560), Crocifisso, Centro regionale di Catalogazione, Passariano (Udine) 1990. 60 RÉAU 1957, pp. 481-482 e 493. 61 ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9. 62 Cfr. es. PLAZAOLA 2001, p. 343. 63 ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9. 64 REYRE 1966, p. 1291. 65 COLLARETA 2005, p. 67. 66 SEMFF 1985, p. 110. 67 RÉAU 1957, pp. 477 (“sta ritto sul legno dell’infamia con la stessa maestà che su un trono”); JÁSZAI 1994, p. 579. Era già accaduto fin dall’età paleocristiana, benché allora in maniera meno esplicita: cfr. es. CERVELLIN 1998, pp. 57, 62 e 87-89. 68 Oltre ai più noti crocifissi della cripta di Epifanio nel monastero di San Vincenzo al Volturno (affresco, IX sec.), del ciborio della cripta di San Pietro a Civate (stucco, X sec.) e della chiesa di San’Angelo in Formis (affresco, XI sec.), cfr. le formelle bronzee in SALOMI 1990, II, tav. CCCLXXXIV fig. 12 (portale di San Zeno a Verona, prima metà del XII sec.), e soprattutto tav. CDLV fig. 56 (Janua major del duomo di Benevento, ultimo quarto del XII - inizi XIII secolo). 69 Vd. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, pp. 23-24 e tavv. 1-3; BERTOLLA-MENIS 1963, pp. 33-34 n. 4, 38 n. 10 e relative tavv. 4 e 10 (datazione poi anticipata); WALCHER 1983, p. 335; BERGAMINI 1992, pp. 26 n. 1.2, 44-45 n. 1.17; id. 1994, pp. 90, 91 fig. 20 e 93 (ms. 78, c. 5r; inaccettabile la datazione al XV sec. vista l’assenza della “vicinanza iconografica strettissima” con il Missale udinese del 1418); TAVANO-BERGAMINI 2000, pp. 108-110, n. VII.8, 161-162, n. XI.4c, e 280, n. XX.5; PIUSSI 2005, p. 51 (ms. 76, c. 2v); GOI 2006, pp. 286, 289, 341 e 344, nn. cat. I.38, I.39 e I.42. Per ulteriori e più numerosi confronti, vd. in questo volume i contributi di L. Mor, P. Casadio, S. Blason Scarel ed E. Marocco. 70 ROSSETTI 1984, p. 104. 71 Pannello didascalico predisposto dal Laboratorio di Restauro di Udine della Soprintendenza per i beni A.P.P.S.A.D. del Friuli Venezia Giulia, esposto nella cappella dopo il restauro 2000-2003 del crocifisso. 72 Si cfr. quanto scrive SEMFF 1985, p. 104, a proposito dell’impiego in sacre rappresentazioni del ‘piatto’ crocifisso duecentesco conservato nel Duomo di Cividale, anch’esso monumentale (altezza 250 cm) ma non quanto quello di Cervignano. 73 Giustamente MOLARO 1920, p. 103, pur partendo da una diffusa quanto errata prospettiva negativa sull’età di mezzo, scrive: “è il Cristo del medio evo… sotto il quale si piange, si trema, si maledice”. 74 SALA 2003, p. 75. 75 Cfr. BACCI 2004, pp. 216-217; ed anche Cristo 1994, pp. 515 e 518. 76 Cfr. RÉAU 1957, pp. 475, MARCHETTI 1958, p. 12, DUPRONT 1993, pp. 160-161; BACCI 2004, pp. 216-217 (qui, p. 245, cfr. pure il “grande Cristo che era posto in alto, in medio tabulati coeli” nella chiesa metropolitana di San Pietro ad Antiochia nel 1098: data che fa riflettere...). 77 Vd. es. il gruppo della crocifissione della Collegiata di San Candido, riportato tra l’altro in BERTONI-CREN 1998, p. 9, fig. 8. 78 Spesso - per es. in Toscana ed Umbria - lì collocati in sostituzione di precedenti crocifissi dipinti su tavola cruciforme, come quelli riprodotti da Giotto in due famose scene affrescate nella basilica francescana di Assisi a fine Duecento. 79 FORNASIR 1981a, p. 60; ID. 1981b, p. 84 e tav. fuori testo: “il ‘Crocifixus magnus ligneus’ conservato nella cappella Bresciani di Cervignano”. Cfr. anche MICEU 2005, p. 160 (“era custodito nella chiesa di San Michele”). 80 Visitatio; cfr. FORNASIR 1981a, p. 78, nt. 35; ID. 1981b, p. 69. 81 STAFFUZZA 1979; FORNASIR 1981b. 82 FORNASIR 1981b, p. 70. 83 Vd. Visitatio, c. 206v, e 1570. Visita, c. 105v. Cfr. la trascrizione (non la traduzione) in FORNASIR 1981b, pp. 71-82, in particolare pp. 74-75 nn. 20-21 e 80 nn. 11-12. 84 ROSSETTI 1984, pp. 72-73, ntt. 24-25, fa diverse interessanti considerazioni. 85 MOLARO 1920, p. 32. Si noti che l’edificio seicentesco non sussistette nemmeno due secoli, poiché nell’ultimo quarto del XVIII secolo fu a sua volta demolito per far posto a quello che tuttora si può vedere presso la più antica torre campanaria. Cfr. ROSSETTI 1984, pp. 65-72, con le efficaci ricostruzioni grafiche di p. 66 e 68. 86 1570. Visita, c. 105v. FORNASIR 1981b, p. 75, riferisce erroneamente medium al crocifisso (“e v’è in mezzo… un crocifisso”). Va detto che gli ‘appunti’ sono molto fitti e di difficile lettura, come precisò STAFFUZZA 1979, p. 5. 87 Visitatio, c. 206v. FORNASIR 1981b, p. 80 di nuovo riferisce medium alla posizione del crocifisso (“e v’è nel mezzo… e collocato in alto… un grande crocifisso”). Cfr. per es. ROSSETTI 1984, p. 73, nt. 24. 88 Vd. supra e cfr. BACCI 2004, p. 217. 89 Cfr. STAFFUZZA 1979, p. 21, che però traduce erroneamente ‘di bronzo’. Sull’abate, cfr. PASCHINI 1934, e sulla sua visita del 1570, ID. 1990, p. 816. 90 FORNASIR 1981a, p. 64; ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9; MICEU 2005, p. 160. 91 ZOVATTO 1977, p. 148; FORNASIR 1981a, pp. 45-47; ROSSETTI 1984, p. 39. 92 MOLARO 1920, pp. 98 (“due altri altari; uno dedicato al S. Crocefisso”) e 108 nt. 1. Cfr. FORNASIR 1981a, pp. 75 (dove l’autore ricorda anche “la soppressione e la confisca dei miseri” beni avvenute nel 1782 per volontà di Giuseppe II) e 89 (secondo l’a. la confraternita si occupava proprio del Crocifisso Bresciani); e CASADIO 2001, p. 65. 93 Sulla parrocchiale sette-ottocentesca, vd. MOLARO 1920, pp. 122-123, e FORNASIR 1981a, pp. 83-89. 94 SOCOL 1986, p. 116. 95 Così venne chiamata la badia benedettina cervignanese nel 912 in un diploma di Berengario: cfr. ROSSETTI 1984, p. 117. 96 In questa sede, ovviamente, non si prendono in considerazione sculture viste da B. di Porcia in località troppo distanti (in senso geografico e… storico) da Cervignano: come per es. quell’“enorme crocifisso di legno, sudicio, indecente e con un braccio solo” che “nella chiesa di Marano novo, inchiodato al muro” destava “non pietà ma ribrezzo” (BATTISTELLA 1909, p. 32). 97 1570. Visita, c. 108v (cfr. STAFFUZZA 1979, p. 29), e Visitatio, c. 210r (nella stesura definitiva scompare la forma volgare tutta della malacopia: “tribuna undique picta”). 98 ROSSETTI 1984, pp. 90 e 91, nt. 22; dalla chiesa di San Martino dipendevano anche quelle di Terzo e Moruzzis: cfr. MOLARO 1920, p. 138. Vd. pure BERTOGNA 1948, e STAFFUZZA 1979, p. 36, nt. 33. 99 MOLARO 1920, p. 138, e cfr. BERTOGNA 1948, cc. 28-29. 100 BERTOGNA 1948, c. 25; Lis stradis 1986, p. 160. 101 Cfr. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, p. 120, nt. 18, e il racconto di Francesco Bresciani riportato in MOLARO 1920, p. 102. 102 Per es. MARCHETTI-NICOLETTI 1956, p. 25. 103 Le benedettine di Aquileia vantavano le reliquie “più miracolose” in regione: nella chiesa del monastero “in appositi loculi si conservavano brani de vestibus et de lecto della Madonna, un pezzo di calcinaccio de foramine per quod transivit Angelus de Beatam Virginem e perfino alcuni chicchi de mira trium Magorum” (BATTISTELLA 1909, p. 33; e soprattutto cfr. TASSIN 1992, pp. 358 e 360-361 nt. 19)! 104 Cfr. MOLARO 1920, pp. 40-44; FORNASIR 1981a, p. 46; e soprattutto ROSSETTI 1984, pp. 23-24 e 117-118, che rimanda agli studi di R. Härtel. 105 Cfr. es. CASADIO 2001, pp. 65-66. 106 VIGI FIOR 1981, pp. 16 e 80; e cfr. BRUSIN 1951, c. 46; PASCHINI 1958, p. 83; SCALON 1982, p. 44; e BRATOŽ 1999, pp. 395, nt. 141, e 396. Sui due titolari della chiesa, vd. BRATOŽ 1999, pp. 389-400. 107 Cfr. PASCHINI 1958, pp. 81-82, e soprattutto BRATOŽ 1999, pp. 396-398 e cfr. p. 390 (il martirio avvenne “fuori dalla città… presso il fiume che scorre vicino alla città”). Sulla trasformazione nel IV-V secolo della primitiva ‘memoria’ martiriale in santuario meta privilegiata di sepolture ad sanctos, cfr. MIRABELLA ROBERTI 1993, pp. 263-264, 266-269. 108 La pianta più risalente è la tela del 1693 del Museo Diocesano di Udine, ma non si sa se ancora esista l’originale (forse la pianta fotografata da G. Brusin nel 1939) da cui paiono essere state tratte la litografia colorata presso la direzione del Museo Archeologico di Aquileia e il disegno ottocentesco di A. Joppi, originale che comunque risalirebbe non oltre la prima metà del Cinquecento. Cfr. MENIS 1968, e La mostra 1985, pp. 8-14. 109 BATTISTELLA 1932, c. 132 (anche VALE 1931a, c. 24, conferma che nella terra Sancti Felicis “non c’eran case”). 110 Visitatio, c. 41v, rr. 14-16; cfr. VIGI FIOR 1981, p. 83. La definizione di ‘crocione’ si deve a BATTISTELLA 1909, p. 30. 111 1570. Visita, c. 197r. 112 BATTISTELLA 1909, p. 30, parla di “un rozzo crocione di 123 il cristo ritrovato G. Caiazza legno”, ma è un’indimostrabile congettura dovuta alla sua convinzione che le sculture lignee delle chiese friulane fossero “per lo più rudi e gregge” (ib., p. 45). Cfr. TASSIN 1982, p. 360. 113 Cfr. MENOZZI 1995, pp. 92-96 e 144-148, Dizionario 2003, pp. 525-527, BASCHET 2005, pp. 492-494 e 519-522, e FROSINI 2005, pp. 22 e 24. 114 TASSIN 1992, p. 360. 115 1570. Visita, c. 197r. 116 Cfr. in BACCI 2004, pp. 232-233, il concetto trecentesco di crocifisso “devoto”, cioè capace di “stimolare alla pietà e alla meditazione sulla salvezza e sul sacrificio supremo che l’aveva resa possibile”. 117 Così TASSIN 1982, p. 360, e BATTISTELLA 1909, p. 30, il quale ultimo dice che il crocifisso era “appeso”, dimenticando che il documento specifica che esso era super trabe, dunque non ‘pendeva’ affatto, ma ‘si ergeva’. 118 Visitatio, c. 42r-43r; PASCHINI 1958, p. 88; VIGI FIOR 1981, pp. 83 e 85-86; e cfr. VALE 1931a, c. 24. Agli altari ‘mediani’ si possono accostare i “cori collocati al centro della chiesa”: cfr. QUINTAVALLE 2003, pp. 239, 242-243, 245-247, 250 e 263. 119 GUERRAU 2002, pp. 232-233, e COLLARETA 2005, pp. 6264; cfr. PRACHE 2003, pp. 131, 133, 137 e 139; e vd. pure QUINTAVALLE 2003, pp. 240 e 242. 120 JUSTULIN 1933, p. 3; Lis stradis 1986, p. 30; MARINI 1994, pp. 81-82; cfr. DE PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, pp. 271-273. 121 Secondo una paretimologica tradizione locale (vd. es. DE PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, p. 271), il crocefisso oggi venerato nella basilica patriarcale (alto m 2,15) sarebbe stato ritrovato immerso nell’acqua sotto il ponte sul Natissa, per questo soprannominato ‘dal Crist’: al di là dell’improbabilità che un simile recupero sia effettivamente avvenuto (i racconti di inventio sono comuni ma di solito si tratta di ‘pie’ leggende, per di più riferite a sculture medio-piccole e non a statue di oltre due metri), in realtà quel toponimo si riferiva al crocifisso venerato nella vicina basilica di San Felice, come si vedrà. Si noti che anche il Crocifisso Bresciani era soprannominato “Crocifisso dei miracoli” (es. MICEU 2005, p. 160). 122 Lis stradis 1986, pp. 30 (errate le informazioni relative all’identificazione del crocifisso con quello ora nella basilica patriarcale), 59, 61-62 e 73-75; VIGI FIOR 1981, pp. 110-111, doc. VIII, Stima delle Mure e Campanile che si trovano in essere nella Chiesa detta del Cristo di San Felice (Aquileia, 20 marzo 1775); cfr. BRUSIN 1947. È interessante notare che il vocabolo friulano braida significa ‘podere chiuso’ ma anche ‘tratto d’alveo abbandonato ridotto a coltura’: PIRONA-CARLETTICORGNALI 1972, p. 71. BATTISTELLA 1932, cc. 129-130, ricorda una menzione datata 1326 della androna dicta del ponte ubicata nella contrada Sancti Felicis già citata nel 1279. 123 Cfr. BASCHET 2005, p. 502. 124 Cfr. DELLA PORTA 1991, p. 157, e Biblioteca del Seminario arcivescovile di Udine, Registro della Confraternita dell’Ospedale, 67/2 (ringrazio il dottor Gabriele Gavin per la segnalazione). 125 Visitatio, c. 41v; cfr. VIGI FIOR 1981, p. 84. La brutta copia non si discostava granché: “Extra ecclesiam sub portichu est altare cum titulo Christi Sancti Felicis non sacratum cum altariolo portatile…” (1570. Visita, c. 197r). 126 VIGI FIOR 1981, pp. 53-54, 89, 91-96, 110 (doc. VIII), 114 (doc. X), 116 (doc. XII) e 119 (doc. XV); e cfr. MARCON 1962, cc. 124 e 127. Nel 1759 la chiesa dei Santi Felice e Fortunato fu detta “in Seminario” perché - come si dirà - dal 1603 il 124 beneficio della prepositura era stato unito al nuovo Seminario patriarcale sorto a Udine: cfr. PASCHINI 1958, p. 91. 127 MOLARO 1920, pp. 102-103; FORNASIR 1981a, p. 94; ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9. Apparentemente più concreta, ma certo meno poetica, la ricostruzione proposta da GEROMETALBERTI 1999, p. 102: “il crocifisso partì da Aquileia, ma giunto a Cervignano fu sorpreso da un terribile acquazzone, che penetrò nel legno rendendolo ancora più pesante, sicché, vista la fatica per trasportarlo, si pensò di lasciarlo in loco e da quel giorno il crocifisso è ancora lì” (gli autori datano l’evento al 1207, ma non citano la fonte). Cfr. pure MICEU 2005, p. 160. 128 BRATOŽ 1999, pp. 394, 400 e cfr. p. 390, nt. 118; vd. pure VIGI FIOR 1981, p. 10, e SCALON 1982, p. 278. BRATOŽ 1999 chiarisce come la data del 14 maggio risalga al calendario liturgico milanese (p. 400 e cfr. p. 390), mentre quella dell’11 giugno sia una cattiva interpretazione della traslatio di altre reliquie (p. 395, nt. 139). Per l’uso attuale, vd. Liturgia 1990, pp.87-91. A Strassoldo e nel comprensorio cervignanese è attestata la memoria di san Felice martire il giorno 20 novembre, allorché “alla prima Messa, veniva scoperta l’urna contenente le reliquie del Santo, che rimaneva illuminata fin dopo la processione pomeridiana” (DELUISA-DELUISA 1978, p. 33): al santo aquileiese era stato ‘sostituito’ l’omonimo eremita francese Felice di Valois (1127-1212), cofondatore dei frati ‘trinitari’ per la liberazione dei cristiani schiavi dei Saraceni, il cui attributo era un cervo (si noti che l’attuale, falsante stemma ‘partito’ di Cervignano reca un cervo ‘saliente’ a destra) con una croce rosso-blu fra le corna e la cui festa fu trasferita dal 4 - dies natalis - al 20 novembre da Innocenzo XI nel 1679. 129 Vd. Visitatio, c. 42r, e cfr. c. 50r (“feste doppie de santi martirizzati in Aquilegia … 14 agosto Felicis et Fortunati martirum”); cfr. VIGI FIOR 1981, p. 84. 130 Vd. Visitatio, cc. 43r, 43v e 44r; inoltre cfr. VALE 1931b, cc. 117-118. 131 Cfr. MOLARO 1920, p. 49 e 52 (nel 1570 sessantotto processioni). 132 La citazione è tratta da MOLARO 1920, p. 102. Sulla distanza ‘relativa’ Monastero-Cervignano, cfr. pure ib., p. 49, l’intera giornata di viaggio necessaria per trasportare un carico di grano “durante la stagione delle pioggie”. Sulle ‘braccia’ necessarie al trasporto del “Cristo della Contessa”, vd. es. MICEU 2005, p. 163. 133 REYRE 1966, pp. 1290-1292; cfr. MARCHETTI 1958, p. 12 (“crocifissi lignei di grandi dimensioni, destinati originariamente ad alte collocazioni”), DI BERARDO 1994, p. 545, e vd. pure BASCHET 2005, pp. 503 e 513. 134 Vd. FROSINI 2005, pp. 11-12, e cfr. ROSSETTI 1984, p. 106. 135 Cfr. DI BERARDO 1994, pp. 547-548; e soprattutto MONTEVECCHI-VASCO ROCCA 1988, pp. 331 e 336. Si ricordi la particolare crux portabilis costituita dal baculum a terminazione cruciforme (un’alta crocetta aurea) retto dal giovane Cristo Buon Pastore in un famoso mosaico revennate, nella lunetta soprastante la porta d’ingresso al mausoleo di Galla Placidia. 136 MONTEVECCHI-VASCO ROCCA 1988, p. 338. 137 CASADIO 2001, p. 65. Cfr. l’analoga lavorazione del Crocifisso di Portis, in BERTONI-CREN 1998, pp. 24 e 26. 138 FROSINI 2005, p. 28. 139 FORNASIR 1981a, pp. 95-96. 140 ROSSETTI 1984, p. 104, nt. 9. 141 ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9. Cfr. pure MOLARO 1920, pp. 102-103, e FORNASIR 1981a, p. 94. 142 PETEANI-BRESCIANI 1890; FORNASIR 1981a, p. 94. 143 ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9; cfr. MOLARO 1920, pp. 101102. 144 Le informazioni dinastiche qui riportate sono attinte al migliore ‘studio’ sulla famiglia: DEL TORSO Genealogie, cc. 359-360 e 362 (troppo sintetico JOPPI Genealogie). La proposta di identificare Antonio con Antonello è di FORNASIR 1981a, p. 91, il quale però a p. 93 non indica il ‘nostro’ Giovanni Pietro ma solo l’omonimo nipote (vd. DEL TORSO Genealogie, c. 359). Inoltre cfr. MOLARO 1920, p. 105. 145 ROSSETTI 1984, p. 105, nt. 9. 146 Visitatio, cc. 41v-42r; cfr. BATTISTELLA 1909, p. 30, MOLARO 1920, p. 141, VIGI FIOR 1981, pp. 82-84, TASSIN 1992, p. 360, e MIRABELLA ROBERTI 1993, p. 263. 147 BARZON 1953, p. 448; SOCOL 1986, pp. 88 e 114, nt. 71. 148 VIGI FIOR 1981, pp. 88 e 101, doc. II. 149 PASCHINI 1958, p. 91; VIGI FIOR 1981, pp. 88-89 e 102103, doc. III. Si ricordi che nell’agosto 1568 i canonici di Aquileia avevano invano richiesto che “il seminario che si doveva istituire, per decreto del Concilio di Trento, fosse aperto nella loro sede” : cfr. BATTISTELLA 1909, p. 28. 150 VIGI FIOR 1981, pp. 89-90. Intanto a Cervignano, come si è più volte ricordato, era stata costruita da oltre un secolo (1614) la nuova chiesa di San Michele, che sarebbe poi stata rifatta di lì a poco (a partire dal 1780). 151 PASCHINI 1958, p. 91. La ‘rimozione’ dovette avvenire quasi di nascosto e ad Aquileia lasciò un gran ‘vuoto’ (DE PELCA-PUNTIN-DEL PICCOLO 1997, p. 271: “poi, non si sa come, scomparve”), che fu riempito con la leggenda del suo miracoloso ‘riapparire’ sotto le ‘mentite spoglie’ del crocifisso della basilica patriarcale (ibidem). 152 FORNASIR 1981a, pp. 66 e 259. Sui parroci di Cervignano, vd. FORNASIR 1981a, p. 259. Su don P. Bressano, cfr. FORNASIR 1981b, p. 85, e COSTANTINI 2002, p. 117. ROSSETTI 1984, p. 43, ricorda che il pievano cervignanese aveva la preminenza sugli altri preti in tutte le ufficiature del monastero femminile di Aquileia. 153 La citazione è tratta dal pannello didascalico predisposto dopo il recente restauro ed esposto nella cappella. 154 Alle opere dell’arte orafa segnalate da Luca Mor, si aggiunga - per l’impostazione generale della figura e la resa di alcuni particolari (braccia quasi orizzontali, tunica arrotolata, gambe diritte e parallele, capelli ricadenti sulle spalle, ecc.) anche il gruppetto di tre piccoli crocifissi bronzei già su croci astili conservati a Milano, attribuibili a manifattura (o influenza) tedesca ed ascrivibili ai decenni centrali del XII secolo, presentati in ZASTROW - DE MEIS 1975, pp. 47-48 e tavv. LI-LIII. 155 Tutte le citazioni sono tratte da SEMFF 1980, p. 339 (traduzione dal tedesco della dottoressa Elena Viezzi, che ringrazio). La rigidezza delle pieghe “è tipica dei crocifissi derivati da modelli metallici” (FROSINI 2005, p. 143 nt. 8) o comunque di piccole dimensioni, come gli avori (es. Crocifissione 2005, p. 15, esemplare del X secolo). 156 SEMFF 1980, pp. 339-343. 157 LE GOFF 2003, pp. 97 e 105. 158 BASCHET 2005, pp. 499-502. 159 Per i dati del crocifisso sudtirolese, SEMFF 1980, p. 344 nt. 3; per quelli del crocifisso cervignanese, CASADIO 2001 e ID. 2003. Circa le essenze utilizzate per sculture lignee medievali, vd. FROSINI 2005, p. 29. Anche per il Crocifisso di Portis di Venzone fu intagliato legno di pioppo, ma se ne unirono sei masselli distinti: BERTONI-CREN 1998, p. 25. 160 Cfr. BERTELLI-MERCADELLA 2001, p. 73. 161 CARLI 1960, p. 17, nt. 2; SEMFF 1992, pp. 116-118; FROSINI 2005, pp. 106-111 e 132-133. 162 Cfr. es. FROSINI 2005, pp. 39 e 108-109. 163 SEMFF 1980, p. 339-343. Cfr. la bocca del Cristo di Cervignano con quella “sigillata dalla morte” del crocifisso affrescato nel XII secolo sulla parete meridionale del sacello annesso alla basilica di Summaga (Venezia): CASADIO 2006, p. 70. 164 Cfr. TARALON 1981, pp. 346-347, fig. 370-371, TOMAN 1999, p. 349, e DRIGO 1992, pp. 201-210. Al Crocifisso sovrastante la pisside di Hildesheim può essere accostato anche il Deposto che domina il reliquiario di scuola renana del 1150 ca. del Victoria and Albert Museum (Deposizione 2005, p. 19). PLAZAOLA 2001, p. 349, afferma che “i crocifissi romanici di ispirazione tedesca sono di grande originalità e forza emotirva”: gli esemplari di Cervignano e Bressanone confermano l’assunto. Però alcune caratteristiche erano diffuse anche altrove: cfr. es. il ‘Cristo di Curajod’ del Louvre, opera di scuola francese del XII secolo (LÀCONI 1984, pp. 1754-1755). Non si dimentichino poi le notevolissime affinità con i ‘Volti Santi’(e le Maestà d’area iberica), particolarmente diffusi in Toscana, a partire da quello conservato a Sansepolcro (Arezzo) recentemente restaurato e datato addirittura all’epoca carolingia, “entro la metà del IX secolo”, ben prima dunque dei rimaneggiamenti del XII secolo (cfr. FROSINI 2005, pp. 131-132, 134, 136 e tavv. 39-41, e la bibliografia specifica ivi citata)! 165 VALE 1940, pp. 188; PASCHINI 1990, pp. 215, 236 e 261. 166 Cfr. MOR 1979, PASCHINI 1990, pp. 254-262. Su Artegna, cfr. CAIAZZA 1999, pp. 13-15. 167 VALE 1940, pp. 188-191; SCALON 1982, pp. 99-100. 168 PASCHINI 1958, pp. 82-86; SCALON 1982, p. 44. 169 Cfr. BASCHET 2005, pp. 490, 505, 509-510, 513-515 e 531532 (“l’immagine-oggetto non ha senso, nel Medioevo, che per il suo carattere localizzato”); FROSINI 2005, pp. 13 e 17; BACCI 2004, p. 217; e, per la presenza reale di Cristo, Cristo 1994, p. 495. 170 SEMFF 1992, pp. 109-111. 171 SEMFF 1992, pp. 111 e 114-118. 172 Cfr. DRIGO 1992, p. 206 e p. 210, fig. 18. 173 Cfr. CRIVELLO 2004, pp. 568, 572, 575, 577 e 588-592. Circa gli ‘strumenti’ a disposizione degli artisti medievali e la circolazione dei ‘modelli’ da ‘ripetere’, cfr. ib., pp. 578-580. 174 Nell’ordine: MOLARO 1920, pp. 102-103; MARCHETTINICOLETTI 1956, p. 26; CARLI 1960, p. 17, nt. 2; FROSINI 2005, p. 133; ROSSETTI 1984, p. 104; SEMFF 1985, p. 110; GENTILE 2003, p. 637; SFORZA VATTOVANI 1980, p. 1557; MARCHETTI 1958, p. 13; ID. 1972, p. 224; CASADIO 2003; GENTILE 2003, p. 637. D’altronde, se è vero che il tempo ha favorito una sorta di ‘occultamento’ delle statue lignee sotto “un denso strato significante, fatto di colori sgargianti, stoppa, stucchi”, è altrettanto certo che questa particolare tipologia scultorea medievale è stata dagli esperti non di rado “relegata nell’ambito della produzione artigianale” a causa “del materiale usato, meno nobile rispetto a marmo e bronzo, e in particolare per la sua policromia” (FROSINI 2005, p. 7). 125 il cristo ritrovato G. Caiazza Cfr. Salmi 99, 5; 110, 1; 132, 7. Cfr. EVANS - WIXOM 1997, pp. 137-139 nn. 85-86, 142144 nn. 89(A e B)-90, 374-375 n. 246, 499-500 n. 337; ed anche Crocifissione 2005, p. 23. Sul concetto di ‘ornamentalizzazione’, elaborato da J.C. Bonne, cfr. ora BASCHET 2005, pp. 522-523. 177 Cfr. il mosaico della lunetta interna sovrastante la porta d’ingresso al piccolo nartece dell’oratorio di Sant’Andrea, cappella privata dei vescovi eretta nel palazzo arcivescovile di Ravenna fra 494 e 519 (es. in Cristo 1994, pp. 495 e 498499). Vd. pure l’assonanza fra il perizoma del Crocifisso e i gonnellini di tre santi milites nel trittico eburneo del X secolo ora al British Museum (Crocifissione 2005, pp. 14-15). 178 Cfr. DAVY 1988, pp. 169-177, 191-198 e 255-256 (“poiché Cristo si fa uomo, sarà… l’uomo quadrato per eccellenza”; “con l’Incarnazione ‘inscrive il quadrato umano nel cerchio della divinità’; con la Redenzione spezza quel quadrato, del quale “non resta che la croce”). Sul tema dell’uomo-microcosmo, cfr. pure LE GOFF 2005, pp. 140-145. 179 Vd. MONTEVECCHI - VASCO ROCCA 1988, pp. 73-77, 173174 e 358; e da ultimo GOI 2006, pp. 289 e 344, n. cat. I.42. Cfr. pure Croce 1950a, cc. 964 e 972, e Croce 1950b, p. 2, e Smalto 1999, pp. 746-747, oltre all’elegante crocetta bifaccia costantinopolitana del 1080-1130 oggi al Metropolitan n.i. 1998.542 (www.metmuseum.org), o la “byzantine bronze and enamel cross” bizantina in bronzo e smalti dell’XI sec. n. 414 di recente venduta on-line, per la forma quasi sovrapponibile alla cervignanese (www.ancienttouch.com). Per esemplari similari, cfr. es. le schede di R. Farioli Campanati nn. 58 e 73 in MORELLO 1990, pp. 156 e 186-187. Tutti si inseriscono nell’ampio gruppo di gioielli bizantini decorati con smalti cloisonné che fra gli esemplari più vicini alla crocetta di Cervignano annovera un pendente piriforme (secondo XI sec.) oggi a Washington, un ciondolo ‘da tempia’ a forma di grosso crescente lunare (tardo XI - primo XII) ora al Metropolitan e una punta di scettro (fine XI-prima metà XII) in collezione privata svizzera. Su tali esemplari e sui motivi decorativi, vd. GIAMPAGLIA 2003, pp. 8-9; CALÒ MARIANI - CASSANO 1995, pp. 487-488, n. 9.2; CUTLER-NESBITT 1986, I, p. 206; EVANS - WIXOM 1997, pp. 81 n. 40, 56-65, 173-174 n. 124, 249-250 n. 175, 296-297 n. 199, 358-363 nn. 240-241 e 497-499 nn. 334-335. Smalto 1999, pp. 754-755; FARIOLI CAMPANATI 1986, pp. 418 sch. n. 245, 371 e 377 nn. 328-329 (ma il motivo era già noto: es. CARE EVANS 1986, pp. 87-88 e tav. VI). 180 Alle monache pensa CASADIO 2001, p. 66. Sulle crucicole, vd. DI BERARDO 1994, pp. 545-546. Prodotti inizialmente a Costantinopoli e in altre località dell’impero bizantino, tali oggetti si diffusero poi in tutto il mondo ortodosso e in Occidente, nelle aree venute in contatto con l’impero d’Oriente: cfr. esemplari realizzati a Kiev nel XII sec. in PIROVANO 2000, pp. 197-198, o la coeva valva anteriore conservata a Torcello in Museo 1978, p. 58, n. cat. 46/7. 181 Sulle definizioni regali del Messia nei testi biblici, cfr. es. Dt 10, 17; 1 Tm 6, 15; Ap 17, 14 e 19, 16. Sul rapporto reCristo, vd. LE GOFF 2006, p. 6. 182 MOLARO 1920, pp. 96-97. 183 Cfr. FORNASIR 1981a, p. 92. 184 MOLARO 1920, p. 101. 185 MOLARO 1920, pp. 114-115; FORNASIR 1981a, p. 101. 175 176 126 MOLARO 1920, p. 123. Su San Girolamo, vd. ib. pp. 100-101. Cfr. pure FORNASIR 1981a, p. 87. ROSSETTI 1984, p. 73, nt. 25, rileva che la cappella Bresciani già nel secolo precedente era l’unico edificio cultuale a sé stante, accanto a San Michele e San Girolamo; e nel 1811/12 la sola struttura architettonica isolata ad essere segnalata nelle mappe catastali oggi all’Archivio di Stato goriziano. 187 MOLARO 1920, pp. 125-127. 188 MOLARO 1920, p. 103; FORNASIR 1981a, pp. 97 e 144, nt. 37. 189 Cfr. PENZO 1858, pp. 7, 27, 29, 31, 46-47, 49 e 56. Sul rango elevato del casato transalpino, che vantava tra l’altro una parentela con la famiglia del pittore Henri de ToulouseLautrec (informazione fornita dagli attuali discendenti), cfr. MOLARO 1920, p. 103 nt. 3. A ricordo delle “nobili nozze sponsalizie” fra il barone Francesco e la baronessa Enrichetta, restano diversi scritti celebrativi e componimenti poetici redatti o curati dai fratelli dello sposo, Giuseppe e Nicolò de Bresciani, e da altri nobili ed eruditi locali, a partire da Francesco di Toppo: pressoché tutti sono consultabili presso la Biblioteca civica ‘V. Joppi’ di Udine. 190 Cfr. PENZO 1858, pp. 55 e 67. 191 Cfr. DEL TORSO Genealogie; JOPPI Genealogie (comprende copia della partecipazione del matrimonio d’Elvenich-de Bresciani), PENZO 1858, pp. 75, 82-83 e 87; FORNASIR 1981a, pp. 92-93, e GEROMET-ALBERTI 1999, pp. 99 e 102. Si ricordi che già nel 1769 il conte Enrico d’Auersperg possedeva ben 245 campi nella palude di Cervignano: MOLARO 1920, p. 71. Carlo d’Attems fu commissario di Cervignano nel 1935, sindaco dal 1935 al 1941 ed infine podestà nel 1942 e nel 1943: vd. FORNASIR 1981a, p. 255. 192 Cfr. MOLARO 1920, p. 162, e FORNASIR 1981a, pp. 98, 170-171, 174 e 176. 193 Vd. MOLARO 1920, pp. 164-165 (bombe su via Roma e via Verdi nel 1916) e 166-167 (bombe in via Trieste nel 1917), e soprattutto MILOCCO 1999, pp. 12-13 (FORNASIR 1981a, p. 184, sostiene invece che la nuova sede del comando fu il castello di Strassoldo di sopra). 194 MOLARO 1920, pp. 168-169 e nt. 1, laddove l’a. risolve anche l’equivoco Boroevic grazie alla firma lasciata da Wurm “sull’Album dei forestieri” della villa. 195 FORNASIR 2003, p. 80; vd. pure CASADIO 2001; ID. 2003 e MICEU 2005, pp. 160 e 162-163 (“processione anni ‘50”). 196 ZOPPÉ 1978, p. 88. 186 Fonti Albero genealogico del barone de Bresciani, XIX secolo, collezione privata. Città di Cervignano nel Litorale, f. 18, red. 1873, aggiorn. 1931, Ufficio delle Imposte, Cervignano. Comune di Cervignano del Friuli, f. 18, matrice 1974, Ufficio Tavolare di Udine, Sezione staccata di Cervignano del Friuli. Copia del testamento della fondazione della cappella de Bresciani, in Archivio Arcivescovile di Gorizia, fasc. Cervignano. E. DEL TORSO, Genealogie, in Biblioteca Civica di Udine, fondo Del Torso, ms. 162, famiglia Bresciani. A. JOPPI, Genealogie, in Biblioteca Civica di Udine, fondo Joppi, ms. 716, famiglia Bresciani. Libro fondiario di Cervignano, V, dal 1888, Ufficio Tavolare di Udine, Sezione staccata di Cervignano del Friuli. E. PETEANI, M. BRESCIANI, Memoria concernente la Cappella Bresciani in Cervignano, Trieste 1890, in Archivio Arcivescovile di Gorizia, fasc. Cervignano. 1570. Visita di Bartolomeo di Porcia al Monastero di Aquileia, Capitolo di Aquileia, alle chiede del Capitaneato di Gradisca, Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Udine, Archivio della curia Arcivescovile di Udine, fondo Nuovi Manoscritti (già fondo Vale), ms. 706. Scheda A 656, Villa Bresciani Attems, a cura di O. Pitton, Centro regionale di Catalogazione, Passariano 1990. Scheda OA 26056 (rif. cartacea 11560), Crocifisso, Centro regionale di Catalogazione, Passariano 1990. Visitatio apostolica facta per Reverendissimum et Heminentissimum Dominum Comitem Batholameum Purliliarum et Brugnariae Abbatem Mosacensem cum potestate et auctoritate Pontifitii Delegatum visitatorem in civitate et Diocesi Aquileiensi in statu serenissmi Archiducis Caroli Austriaci, e annessa Esposizione dell’anno 1570, Biblioteca Civica di Udine, fondo Principale, ms. 1039. Bibliografia M. BACCI, L’effige sacra e il suo spettatore, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, III, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino 2004, pp. 199-252. R. BARBER, A. RICHES, Animali mai esistiti. Piccolo dizionario di bestie fantastiche, Casale Monferrato 1999. A. BARZON, La diocesi di Aquileia seguendo la visita apostolica dell’anno 1584, in Studi aquileiesi offerti il 7 ottobre 1953 a Giovanni Brusin nel suo settantesimo compleanno, Aquileia 1953, pp. 433-451. J. BASCHET, La civiltà feudale, Roma 2005. A. BATTISTELLA, La prima visita apostolica nel Patriarcato Aquileiese dopo il Concilio di Trento, Cividale 1909. A. BATTISTELLA, Spigolature aquileiesi, in ‘Aquileia Nostra’, III, 2, 1932, cc. 129-134. G. BERGAMINI (a cura di), Ori e tesori d’Europa. Mille anni di oreficeria nel Friuli-Venezia Giulia, catalogo della mostra (Passariano, 20 giugno -15 novembre 1992), Milano 1992. G. BERGAMINI, Codici miniati dell’Abbazia di Moggio, in Le origini dell’Abbazia di Moggio e i suoi rapporti con l’Abbazia svizzera di San Gallo, atti del convegno internazionale (Moggio, 5 dicembre 1992), Udine 1994, pp. 85-100. G. BERGAMINI, P. GOI (a cura di), Ori e tesori d’Europa, atti del convegno (Udine, 3-5 dicembre 1991), Udine 1992. C. BERTELLI, G. MARCADELLA (a cura di), Ezzelini. Signori della Marca nel cuore dell’Impero di Federico II, catalogo della mostra, Bassano del Grappa 2001. L. BERTOGNA, La chiesa di San Martino di Terzo, in ‘Aquileia Nostra’, XIX, 1948, cc. 23-32. P. BERTOLLA, G.C. MENIS (a cura di), Oreficeria sacra in Friuli, catalogo della mostra (Udine, 9 novembre - 1 dicembre 1963), Udine 1963. N. BERTONI, S. CREN, Il Crocefisso di Portis. Storia e restauri di una scultura lignea medievale, Mariano del Friuli 1998. R. BRATOŽ, Il Cristianesimo aquileiese prima di Costantino fra Aquileia e Poetovio, Udine-Gorizia 1999. G. BRIGANTI, Pietro da Cortona o della pittura barocca, Firenze 19822. G. BRUSIN, Scavo al ponte del Cristo, in ‘Aquileia Nostra’, XVIII, 1947, cc. 49-52. G. BRUSIN, Chiese paleocristiane di Aquileia, in ‘Aquileia Nostra’, XXII, 1951, cc. 45-60. R. BUSETTO, Il dizionario militare. Dizionario enciclopedico del lessico militare, I-III, Milano 20062. G. CAIAZZA, La storia, in G. CAIAZZA, C. MARZOCCO MARINIG, Castello di Artegna, Monfalcone-Cassacco 1999, pp. 5-47. M.S. CALÒ MARIANI, R. CASSANO (a cura di), Federico II immagine e potere, catalogo della mostra (Bari, 4 febbraio - 17 aprile 1995), Venezia 1995. A. CARE EVANS, The Sutton Hoo Ship Burial, London 1986. E. CARLI, La scultura lignea italiana, Milano 1960. P. CASADIO, Crocifisso ligneo e Croce pettorale, in BERTELLI - MARCADELLA 2001, pp. 63-66. P. CASADIO, Il restauro del Crocifisso ligneo della Cappella Bresciani a Cervignano del Friuli, Cervignano 2003. P. CASADIO, Il Crocifisso e la crocifissione nella pittura murale di età romanica e gotica del territorio della diocesi di Concordia, in GOI 2006, pp. 69-83. L. CERVELLIN, L’arte cristiana delle origini. Introduzione all’archeologia cristiana, Leumann 1998. M. COLLARETA, ‘Visibile parlare’: l’arte medievale come linguaggio, in F. FLORES D’ARCAIS (a cura di), Il teatro delle statue. Gruppi lignei di Deposizione e Annunciazione tra XII e XIII secolo, Milano 2005, pp. 61-68. E. COSTANTINI, Dizionario dei cognomi del Friuli, Udine 2002. F. CRIVELLO, L’immagine ripetuta: filiazione e creazione nell’arte del Medioevo, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, III, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino 2004, pp. 567-592. Cristo, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, Roma 1994, pp. 493-521. Croce, in Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano 1950, cc. 951-981. Croce, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, XII, Roma 1950, pp. 1-4. Crocifissione, London (Phaidon) 2005. A. CUTLER, J.W. NESBITT (a cura di), L’arte bizantina e il suo pubblico, 1-2, Torino 1986. M. M. DAVY, Il simbolismo medievale, Roma 1988. E. DE FELICE, Dizionario dei cognomi italiani, Milano 1978. G.B. DELLA PORTA, Toponomastica storica della Città e del Comune di Udine, Udine 19912 (1928). A. DELUISA, L. DELUISA, Tradizioni e costumi a Strassoldo e nel Cervignanese, Strassoldo 1978. M. DE PELCA, M. PUNTIN, L. DEL PICCOLO (a cura di), Tiaris di Acuilee, Reana del Roiale 1997. Deposizione, London (Phaidon) 2005. M. DI BERARDO, Uso sacramentale e liturgico della croce, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, Roma 1994, pp. 545-550. G. DI DOMENICO CORTESE, Percorso di Giacinto Gimignani, in ‘Commentari. Rivista di critica e storia dell’arte’, XVIII, 1967, 2-3, pp. 186-206. Dizionario dell’Occidente medievale, a cura di J. LE GOFF e J.C. SCHMITT, I, Torino 2003. A. DRIGO, Oreficeria ottoniana in Friuli: un calice con patena dell’XI secolo nella chiesa collegiata dell’Assunta in Cividale, in BERGAMINI - GOI 1992, pp. 201-210. A. DUPRONT, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e 127 il cristo ritrovato G. Caiazza immagini, Torino 1993. H.C. EVANS, W.D. WIXOM (a cura di), The glory of Byzantium. Arte and Culture of the Middle Byzantine Era A.D. 843-1261, New York 1997. M. FAGIOLO DELL’ARCO, Pietro da Cortona e i ‘cortoneschi’. Gimignani, Romanelli, Baldi, il Borgognone, Ferri, Milano 2001. R. FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal VI all’XI secolo, in I Bizantini in Italia, Milano 19862, pp. 137-426. U.V. FISCHER PACE, Disegni di Giacinto e Ludovico Gimignani nelle collezioni del Gabinetto Nazionale delle Stampe, catalogo della mostra (Roma, 23 novembre 1979 - 28 febbraio 1980), Roma 1979. G. FORNASIR, Storia di Cervignano, Udine 19812. G. FORNASIR, Alcune illazioni sulla visita pastorale effettuata dal Porcia nel 1570 alla pieve di S. Michele Arc. di Cervignano, in ‘Memorie storiche forogiuliesi’, LXI, 1981, pp. 69-86. G. FORNASIR, Storia di Cervignano, Udine 20033. M. FRANGIPANE, Dizionario ragionato dei cognomi italiani, Milano 2005. G. FRAU, Dizionario toponomastico del Friuli Venezia Giulia, Udine 1978. A. FROSINI, Scultura lignea dipinta nella Toscana medievale. Problemi e metodi di restauro, San Casciano in Val di Pesa 2005. G. GENTILE, Scultura, II, In legno, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 632646. G. GEROMET, R. ALBERTI, Nobiltà della Contea. Palazzi, castelli e ville a Gorizia, in Friuli e in Slovenia, I (A-De), Monfalcone 1999. A. GIAMPAGLIA, L’Arte bizantina. Ravenna, Venezia, Monreale: il profumo dell’Oriente, Alba 2003. P. GOI (a cura di), In hoc signo. Il tesoro delle croci, catalogo delle mostre (Pordenone e Portogruaro, 4 aprile - 31 agosto 2006), Milano 2006. S. GUARINO, Pietro da Cortona per i Sacchetti, in Pietro da Cortona, il meccanismo della forma. ricerche sulla tecnica pittorica, catalogo della mostra (Roma, 14 novembre 1997 - 8 febbraio 1998), Milano 1997, pp. 30-33. A. GUERRAU, Il significato dei luoghi nell’Occidente medievale: struttura e dinamica di uno ‘spazio’ specifico, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, I, Tempi Spazi Istituzioni, Torino 2002, pp. 201-239. G. JÁSZAI, Crocifisso, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, Roma 1994, pp. 577-586. M. JUSTULIN, Il crocifisso nella Basilica di Aquileia, Milano 1933. M. LÀCONI, La crocifissione, in La storia di Gesù, Milano 1984, 5, pp. 1753-1776. La mostra sulle piante antiche, in Gruppo Archeologico Aquileiese, Aquileia 1985, pp. 5-14. J. LE GOFF, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Roma-Bari 2003. J. LE GOFF, Il corpo nel Medioevo, Roma-Bari 2005. J. LE GOFF, Il re nell’Occidente medievale, Roma-Bari 2006. Lis stradis maludidis dal palût. Toponomastica di Aquileia, Fiumicello, Isola Morosini, Terzo, (Udine) 1986. 128 Liturgia delle ore. Proprio della Chiesa Udinese, Udine 1990. A. LO BIANCO (a cura di), Pietro da Cortona 1597-1669, catalogo della mostra (Roma, 31 ottobre 1997 - 10 febbraio 1998), Milano 1997. G. MARCHETTI, La scultura medievale in Friuli, in Mostra di crocifissi e pietà medioevali del Friuli, Udine 1958, pp. 3-62. G. MARCHETTI, Le chiesette votive del Friuli, Udine 1972. G. MARCHETTI, G. NICOLETTI, La scultura lignea nel Friuli, Milano 1956. E. MARCON, La prima visita pastorale in Aquileia dopo la soppressione del Patriarcato, in ‘Aquileia Nostra’, XXXII-XXXIII, 1961-1962, cc. 123-132. G. MARINI (a cura di), La basilica patriarcale di Aquileia, Aquileia 1994. A. MARTINI (a cura di), Capolavori nei secoli, IV, Dall’arte carolingia al gotico (VIII secolo - metà del XIV), Milano 1961. G.C. MENIS, La più antica pianta di Aquileia, in Aquileia, Udine 1968, pp. 209-214. D. MENOZZI, La Chiesa e le immagini, Cinisello Balsamo 1995. A. MICEU (a cura di), Tiaris di Acuilee gnove racolte, Reana del Roiale 2005. G. MILOCCO, Il bombardamento di Cervignano del 16 maggio 1917, in ‘Alsa. Rivista storica della Bassa friulana orientale’, 12, 1999, pp. 10-15. M. MIRABELLA ROBERTI, Lo scavo della basilica dei santiFelice e Fortunato in Aquileia, in Gli scavi di Aquileia: uomini e opere, ‘Antichità Altoadriatiche’, XL, 1993, pp. 261-269. A. MOLARO, Cervignano e dintorni. Cenni storici, Udine 1920. B. MONTEVECCHI, S. VASCO ROCCA, Suppellettile ecclesiastica (Dizionari terminologici ICCD, 4), Firenze 1988. C.G. MOR, La famiglia del patriarca Pellegrino I e sue diramazioni in Friuli, in ‘Memorie Storiche Forogiuliesi’, LIX, 1979, pp. 150-152. L. MORALDI, Vangeli apocrifi, Casale Monferrato 1996. G. MORELLO (a cura di), Splendori di Bisanzio. Testimonianze e riflessi d’arte e cultura bizantine nelle chiese d’Italia, catalogo della mostra (Ravenna, 1990), Milano 1990. Museo di Torcello. Sezione medioevale e moderna, Venezia 1978. A. NEGRO, Giacinto Gimignani, in LO BIANCO 1997, pp. 199212. P. PASCHINI, Un diplomatico friulano della controriforma: Bartolomeo di Porcia, in ‘Memorie storiche forogiuliesi’, XXX, 1934, pp. 17-51. P. PASCHINI, La prepositura aquileiese dei Santi Felice e Fortunato, in ‘Studi goriziani’, XXIII, gennaio-luglio 1958, pp. 81-91. P. PASCHINI, Storia del Friuli, Udine 19904. L. PENZO, Sulla vita della piissima baronessaLuigia Bourlet de Saint-Aubin de Bresciani memorie storiche, Venezia 1858. G.A. PIRONA, E. CARLETTI, G.B. CORGNALI, Il nuovo Pirona vocabolario friulano, Udine 19723. C. PIROVANO, (a cura di), Arte e Sacro Mistero. Tesori dal Museo Russo di San Pietroburgo, catalogo della mostra (Vicenza, 9 aprile - 25 giugno 2000), Milano 2000. S. PIUSSI (a cura di), La Biblioteca Patriarcale-Arcivescovile. Codici e manoscritti, Udine 2005. J. PLAZAOLA, Arte cristiana nel tempo. Storia e significato, I, Dall’antichità al medioevo¸ Cinisello Balsamo 2001. A. PRACHE, Caratteri edilizi di chiese e monasteri, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 125-153. P. PREMOLI, Vocabolario nomenclatore. Il tesoro della lingua italiana, I-II, La Spezia 19905. A.C. QUINTAVALLE, Riforma gregoriana, scultura e arredi liturgici fra XI e XII secolo, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 235-266. A.C. QUINTAVALLE, Il viaggio, l’immagine, l’eresia: la trasformazione del sistema simbolico della Chiesa fra Riforma gregoriana ed eresia catara, in E. CASTELNUOVO, G. SERGI (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, III, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino 2004, pp. 593-669. A.C. QUINTAVALLE, Il medioevo delle cattedrali. Chiesa e Impero: la lotta delle immagini (secoli XI e XII), catalogo della mostra (Parma, 9 aprile - 16 luglio 2006), Ginevra-Milano 2006. L. RÉAU, Iconographie de l’art chrétien, II, Iconographie de la Bible, 2, Nouveau Testament, Paris, Presses Universitaires de France, 1957. V. REYRE, L’arte e la liturgia, in Enciclopedia della Chiesa, II, Catania 1966, pp. 1281-1296. D.T. RICE, L’arte bizantina, Firenze 1966. A. RIZZI, Mostra della scultura lignea in Friuli, catalogo della mostra, Udine 1983. A. ROSSETTI, Cervignano del Friuli, Reana del Roiale 1979. A. ROSSETTI, Cervignano ed il suo antico territorio nel Medioevo, Udine 1984. A. ROSSETTI, Julia Augusta. Da Aquileia a Virunum lungo la ritrovata via romana per il Noricum, Mariano del Friuli 2006. S. RUSSEL, L’intervento di donna Olimpia Pamphilj nella Sala grande di Palazzo Pamphilj a Piazza Navona, in ‘Bollettino d’Arte’, serie VI, LXXXI, 95, gennaio-marzo 1996, pp. 111120. D. RUSSO, Croce, crocifisso, crocifissione, in Dizionario enciclopedico del Medioevo, Parigi-Roma-Cambridge 1998, I, pp. 512-514. G. SALA, La bellezza del servo sofferente, in Arte e fede, supplemento a ‘Evangelizzare’, XXXII, 7, marzo 2003, pp. 74-78. S. SALOMI (a cura di), Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII, I-II, Roma 1990. E. SANDBERG-VAVALÀ, La Croce dipinta italiana e l’iconografia della Passione, Roma 1985. C. SCALON (a cura di), Necrologium Aquileiense, Udine 1982. M. SEMFF, Ein Kruzifixus-Torso des 12. Jahrhunderts aus Südtirol, in ‘Pantheon. Internationale Jahreszeitschrift für Kunst’, XXXVIII, 1980, IV, pp. 339-346. M. SEMFF, Appunti sulla scultura lignea romanica del Friuli, in La scultura lignea in Friuli (atti del simposio internazionale di studi, Udine 20-21 ottobre 1983), Udine 1985, pp. 102-115. M. SEMFF, Arti minori romaniche e scultura monumentale. Consonanze nel Veneto, in BERGAMINI - GOI 1992, pp. 109118. F. SFORZA VATTOVANI, Il Romanico, in Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, 3, La storia e la cultura, III, Udine 1980, pp. 1153-1566. Smalto, in Enciclopedia dell’arte medievale, X, Roma 1999, pp. 732-763. C. SOCOL, La visita apostolica del 1584/85 alla diocesi di Aquileia e la riforma dei Regolari, Udine 1986. C. SOMEDA DE MARCO, Ville della provincia di Udine, in G. MAZZOTTI (a cura di), Le ville venete, catalogo della mostra, Treviso 1952, pp. 557-597. B. STAFFUZZA, Visita pastorale di mons. Bartolomeo di Porcia a Cervignano, Terzo e S. Martino nel 1570, Gorizia 1979. A. TAGLIAFERRI, Coloni e legionari romani nel Friuli celtico. Una ricerca archeologica per la storia, 2, Documenti, Pordenone 1988. J. TARALON, Le arti suntuarie, in L. GRODECKI, F. MÜTERICH, J. TARALON, F. WORMALD, Il secolo dell’anno Mille, Milano 19812, pp. 259-358. F. TASSIN, Suppellettili ecclesiastiche nel Friuli austriaco (visita apostolica di Bartolomeo di Porcia, 1570), in BERGAMINI - GOI 1992, pp. 355-368. S. TAVANO, G. BERGAMINI (a cura di), Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico e l’Europa Centrale (catalogo della mostra, Aquileia - Cividale del Friuli 3 luglio - 10 dicembre 2000), Ginevra - Milano 2000. R. TOMAN, L’arte del Romanico. Architettura - Scultura Pittura, Köln 1999. L. TREO, Sacra monumenta provinciae Fori-Julii ex antiquis ecclesiasticis traditionibus, historiis et inscriptionibus excerpta, Udine 1724. C. ULMER, Ville friulane storia e civiltà, Udine 19942. G. VALE, Contributo per la topografia d’Aquileia, in ‘Aquileia Nostra’, II, 1, 1931, cc. 1-34. G. VALE, Costumanze aquileiesi, in ‘Aquileia Nostra’, II, 2, 1931, cc. 118-122. G. VALE, Aquileia e Bressanone, in ‘Archivio Veneto’, XXVI, 1940, pp. 186-192. A. VIGI FIOR, La basilica dei santi Felice e Fortunato in Aquileia, tesi di laurea, rel. S. Tavano, facoltà di Lettere e filosofia, Università degli studi di Trieste, a.a. 1980-1981. Ville del Friuli (Quaderni del Centro di catalogazione dei beni culturali, 22), Udine 1991. M. WALCHER, Il Gotico, in M. BUORA (a cura di), La scultura nel Friuli - Venezia Giulia, I, Dall’epoca romana al gotico, Pordenone 1983, pp. 311-375. O. ZASTROW, S. DE MEIS, Oreficeria in Lombardia dal VI al XIII secolo. Croci e crocifissi, Como 1975. L. ZOPPÉ, Ville del Friuli, Milano 1978. L. ZOPPÉ, Ville del Friuli e della Venezia Giulia, Milano 20002. P. ZOVATTO, Il monachesimo benedettino del Friuli, Quarto d’Altino 1977. 129